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L'ultima illusione

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di Davide Donato Londra, fine ottocento. Un illusionista sopravvive a stento aggrappato alla sua arte, che gli riempie il cuore ma non lo stomaco. Ha ancora una speranza, una grande idea in mente, un incredibile numero di magia che lo può portare a calcare i più importanti teatri della città. Gli serve solo una cosa per cambiare la sua vita, per diventare "David il Magnifico", ed è disposto a tutto pur di ottenere quel successo che vuole e sente di meritare, incurante di quale sarà il prezzo che il destino gli presenterà da pagare.

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DAVIDE DONATO

L’ULTIMA ILLUSIONE

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L’ULTIMA ILLUSIONE Copyright © 2014 Zerounoundici Edizioni

ISBN: 978-88-6307-723-0 Copertina: Immagine fornita dall’Autore

Prima edizione Maggio 2014 Stampato da

Logo srl Borgoricco – Padova

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Capitolo 1 Quanto sangue! Cola dalle lame erette allargandosi a terra tra le venature del legno. Gary getta acqua, cerca di cancellare le tracce di quello che è successo, in realtà sta solo diluendo quel liquido scuro su una superficie molto più e-stesa. Sono rimasto io solo in platea, seduto in prima fila, al centro. La sala è buia dietro di me. Chiudo gli occhi. Non riesco a non ripensare a lui mentre sono qui seduto in attesa di poter salire di nuovo, un’ultima volta, sul mio palcoscenico. Era il 1897 ed ero felice allora, assieme ad Alisha, nella mia casa di quattro stanze in riva al Tamigi. I pochi soldi che riuscivo a raggranellare, esibendomi come prestigiatore in piccoli teatri di periferia, ci permettevano di vivere una vita dignitosa, no-nostante le toppe alle ginocchia e le nostre cene a base di pane duro e pata-te lesse. Ma io volevo di più: volevo ricchezza, fama e palcoscenici presti-giosi, perché sapevo di avere le qualità per diventare un grande illusionista. Era quella mia ambizione che mi aveva condotto, quella sera fredda e neb-biosa di novembre, dalle parti di Regent’s Park. Cercavo in quel posto mal-famato di Londra ciò che mi avrebbe permesso di realizzare il gioco più bello che io fossi mai riuscito a immaginare. Ero arrivato al calar del sole e avevo già percorso molte volte, senza fortu-na, la larga Park Road macchiata dai giallastri aloni dei lampioni a petrolio, quando un campanile sparse nell’aria venti rintocchi. Mi fermai per capire da dove provenisse quel suono, ma nella nebbia non riuscivo a vedere che a qualche metro da me e quando i rintocchi si sciolsero e ritornò il silenzio mi resi conto di essere rimasto solo io per strada. Mi accostai a un lampione, indeciso se tornare a casa o continuare la mia ricerca, quando sentii provenire da un vicolo dei deboli rumori, come di cose rovesciate. Feci alcuni passi e raggiunsi l’imbocco della caliginosa stradina, il rumore era più vivo, così mi strinsi nel cappotto ed entrai. A tentoni raggiunsi un piccolo cortile chiuso tra i muri dove un barbone fru-gava nella spazzatura.

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L’uomo, irsuto e sporco, si girò verso di me digrignando come una bestia affamata che difende la sua preda. Alzai la punta dell’ombrello, branden-dolo come un’arma, e indietreggiai ritornando sui miei passi. Appena usci-to dal cortile mi appoggiai spalle al muro, respiravo a bocca aperta, attesi di risentire i rumori che mi avevano guidato lì e poi, deglutendo la paura, decisi di proseguire la mia ricerca lungo quel tetro budello. Avanzavo piano, rasente i muri, tra ammassi di rifiuti popolati di topi e un odore di urina che sembrava scavarmi nelle narici. Dal sempre più vicino parco pubblico provenivano guaiti, ringhi e latrati degni del Cerbero dantesco. Fui tentato di ritornare indietro, ma poi l’incoscienza dei miei vent’anni e la mia infinita sete di gloria mi spinsero a cercare proprio lì quello che mi serviva, convinto com’ero che tutta la mia carriera dipendesse dall’esito di quella caccia all’uomo. Un solo numero, ma spettacolare, può fare la fortuna di un’artista e se hai provato la sensazione di onnipotenza che dà l’applauso scrosciante di un’intera platea che si alza in piedi per te, gridando il tuo nome, allora sei disposto a qualsiasi sacrificio pur di ripetere il prodigio. E io ce l’avevo un numero spettacolare, ma per poterlo realizzare mi man-cava ancora una cosa: un ragazzino, scaltro e intelligente. L’ideale sarebbe stato un piccolo ladruncolo o, meglio ancora, un borseggiatore svelto di mano e di cervello, uno di quelli che la strada ha forgiato acuendone tutti i sensi per permettergli di vivere un’esistenza in bilico. Per questo lo cerca-vo in quella zona malfamata della città, da solo, nella nebbia; tendevo la mia trappola. Mi ero trasformato in una preda facile da ghermire nell’attesa che il predatore si palesasse. Nel mio incerto incedere mi fermai sotto una finestra da cui arrivava una debole luce e mi girai indietro; Park Road non si intravedeva più. Mi ac-corsi di avere freddo. Mi strinsi nel cappotto e misi le mani nude sotto le ascelle per provare a scaldarle e a bloccare l’involontario tremolio che le scuoteva. Mi imposi di continuare a camminare ma poi, all’improvviso, un rumore di passi pesanti alle mie spalle mi bloccò il respiro. Mi appiattii al muro, l’ombrello ben stretto nella mano destra. Dai suoni che riuscivo a percepire contai almeno tre persone. Avanzavano verso di me con una lan-terna in mano e tra la nebbia riuscii a scorgere, debole ma chiarissimo, il riflesso di qualcosa di metallico. Maledii la sorte per il mio metro e sessan-tacinque scarso e il mio fisico esile. Cercai con lo sguardo la finestra illuminata, era a qualche decina di metri solamente, ma nella direzione dei miei inseguitori. Urlare e chiedere aiuto sarebbe stato inutile, così presi con la mano destra il coltello che tenevo nella cinta dei pantaloni e con la sinistra brandii l’ombrello, deciso a com-battere.

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Ansavo, il fiato corto, i muscoli delle gambe tesi al punto da dolermi e, come una goccia d’olio che si fa strada nell’acqua per raggiungerne la su-perficie, così tutte le paure che avevo cercato di reprimere in nome della mia arte ricominciarono ad affiorare: cosa ci facevo lì? Valeva davvero la pena rischiare la vita per un numero di magia? E poi come potevo pensare di difendermi, con solo un coltello e un ombrello, contro tre malviventi abituati a uccidere, proprio io che al massimo riuscivo a maneggiare carte da gioco e bacchette magiche? Lasciai cadere a terra il coltello e l’ombrello e con le mani protese in avan-ti, come cieco, scappai sperando di non incontrare ostacoli sulla mia strada. I miei inseguitori, aiutati dalla luce della lanterna, guadagnavano terreno. Questione di secondi e mi avrebbero raggiunto e per me sarebbe stata la fine e fu allora, quando i loro passi veloci erano talmente vicini da far vi-brare il terreno sotto i miei piedi, che qualcuno si affiancò a me, mi afferrò per il cappotto e mi trascinò sulla sinistra fino a farmi incespicare e cadere. Sentii una mano sulla bocca che mi stringeva forte e vidi i miei inseguitori passare a pochi metri da me; c’era anche il barbone irsuto tra di loro. Rimanemmo lì a terra fino a quando il rumore dei passi non si confuse con i latrati dei cani, poi tolsi la mano che mi chiudeva la bocca e mi girai ver-so il mio salvatore. Era un ragazzetto, magro e malvestito, con dei capelli neri che sembravano incollati sulla fronte. Emanava un cattivo odore, come di urina di gatto. Mi sorrise, mi aiutò ad alzarmi e mi batté le mani sul cap-potto, come volesse pulirmi dalla polvere. Con la destrezza di un ladro consumato mi sfilò il portafoglio dalla tasca interna. Me ne accorsi solo perché mi aspettavo di essere rapinato. Capii subito, dando un’occhiata a quel viso che non aveva tradito alcuna emozione, che avevo trovato quello che stavo cercando. Il ragazzino occultò in una frazione di secondo il portafoglio dentro le ta-sche lacere della sua giacca e fece per andarsene, ma io riuscii a bloccarlo trattenendolo per un braccio. «Non vorrai lasciarmi così? Ti devo la vita.» «Non importa, signore. Devo ritornare a casa» rispose cercando di divinco-larsi dalla mia stretta. Lo presi anche per l’altro braccio e lo bloccai. Nonostante fosse poco più di un bambino e sentissi sotto il tessuto sporco quanto esili fossero le sue braccia, faticavo a tenerlo. Si contorceva, guizzante come un’anguilla. Non trovai di meglio, per impedirgli di fuggire, che cingerlo alla vita e alzarlo da terra. Lui cominciò a urlare, chiedendo aiuto, e io pregai che i miei assalitori fos-sero ormai troppo distanti per sentire le sue grida. Nessuna finestra si illu-minò e nessuno uscì di casa per soccorrerlo.

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«Basta, smettila di urlare. Non voglio farti del male» dissi poi cercando di sembrare calmo e deciso. «Ti devo la vita, concedimi almeno di offrirti la cena.» Il ragazzino si calmò, si girò verso di me e mi guardò in viso. Smise di ur-lare e di scalciare. «Va bene» disse immobilizzandosi. «Verrò con lei a cena. Adesso, però, mi lasci.» «Non scapperai?» «No! Glielo prometto.» Allentai un po’ la stretta e lo lasciai scivolare a terra. Non appena i suoi piedi sentirono il suolo cercò di scappare. Fui lesto a sgambettarlo aggan-ciando il suo piede destro con il mio. Cadde a terra, battendo la faccia con violenza sul selciato lurido. Si portò le mani al viso. Sanguinava dal naso e dal labbro inferiore. Mi avvicinai a lui, lo girai a pancia in su e gli assestai un pestone allo stomaco e un calcio al costato. Il ragazzo cominciò a con-torcersi e a urlare, io mi abbassai e, prendendo il mio portafoglio dalla ta-sca della sua giacca, gli sibilai: «Non provare mai più a rubarmi qualcosa.» Lo raccolsi da terra, prendendolo per la collottola come si fa per alzare un gattino, e lo costrinsi a camminare al mio fianco. Lo trascinai quasi correndo, lui piegato, tenendosi lo stomaco, fino a Park Road e poi da lì in Baker Street. Quando sentii un calpestio di zoccoli sul selciato e a poco a poco vidi una fiammella avvicinarsi lungo la strada, sentii il cuore più leggero sobbalzarmi nel petto. Cominciai a sbracciarmi e a urlare per attirare l’attenzione del cocchiere che fermò la carrozza a una decina di metri da noi. «Cosa volete?» mi chiese. «Il ragazzo sta male, lo devo riaccompagnare a casa. E’ libera la carroz-za?» «Sì» rispose il cocchiere. Mi avvicinai, tirandomi appresso il ragazzo, ma il cocchiere fece indietreg-giare il cavallo. «Prima i soldi» disse bloccandomi. «Non voglio problemi e vi avverto che ho il mio angelo custode con me» e mi mostrò un bastone che teneva a por-tata di mano. «Posso pagare» risposi. «Devo andare nel distretto di Chelsea, Laurence Street, 12.» «Tre penny.» Gli appoggiai le monete sul palmo teso e salii in carrozza assieme al mio bagaglio umano. Il cocchiere diede una veloce occhiata al ragazzo ancora sanguinate, fece uno schiocco con la lingua e il cavallo si mosse.

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Capitolo 2 «Ohhh! Fermati, Daisy» disse il cocchiere tirando le redini. Presi per un braccio il ragazzo, che non aveva detto una sola parola durante tutto il viaggio, e scesi dalla carrozza. Non era una casa grande la mia: una cucina, una camera da letto e un ba-gno interno pavimentato che scaricava direttamente nel fiume. C’era anche uno stanzino di pochi metri, che tenevo chiuso a doppia mandata, dove te-nevo le cose del mio lavoro e dove passavo ore ad allenarmi. Nemmeno Alisha poteva entrarci; con la sua mania per l’ordine e la pulizia aveva su quel mio piccolo mondo la stessa potenza distruttiva del Vesuvio su Pom-pei. Aveva tentato già più volte a convincermi a trasformarlo in uno sgabuzzino e prima o poi sarei stato costretto a costruirmi una camera nel retro della casa dove si apriva un grande giardino incolto, con un bel pozzo in mezzo. Entrai trascinandomi appresso il mio fardello umano. C’era un piacevole tepore, così mi tolsi cappotto e cappello e prima di entrare in cucina passai le mani sui capelli sporchi del ragazzo cercando di sistemarglieli. «Stai dritto e asciugati quel sangue che ti cola dal naso!» gli dissi passan-dogli un fazzoletto. «Devi fare bella figura con mia moglie.» Il ragazzo si rimise dritto con una smorfia che gli colorò il viso. Lo presi per le spalle e gli sistemai un po’ la giacca lurida. «E sorridi, per Dio, si va in scena.» Aprii la porta della cucina e lo spinsi dentro, il profumo del minestrone con le patate che bolliva mi bagnò la bocca di saliva. Alisha era seduta davanti alla stufa e rammendava delle calze con l’uovo di legno alla luce di una asfittica candela. «Dove sei stato tutto questo tempo?» mi chiese senza alzare lo sguardo. «L’ho trovato!» risposi trionfante. Mi guardò di sbieco, arricciando il naso, poi squadrò il nuovo arrivato. Si alzò e ci venne incontro, spostò una ciocca dei suoi lunghi capelli biondi che le era scesa sulla fronte mostrando i suoi grandi occhi azzurri e si pose davanti al ragazzo. «Lui è… a proposito, come ti chiami?» gli chiesi. «Matthew Locksmith» rispose con una voce roca, più matura della sua età. «E quanti anni hai?» «Quasi dodici.»

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Alisha gli girò attorno, come stesse valutando un cavallo da comprare, poi disse: «E’ sporco! E puzza anche. Tu e le tue idee, come non ne avessi già abba-stanza da fare.» «Ma mi serviva un ragazzino per il nuovo numero.» «Sì, come la volta scorsa con il trucco della donna tagliata a metà! Com’è che dicevi? Ah sì: “Se c’è riuscito un italiano cent’anni fa a tagliare in due una donna, vuoi che non ci riesca io?”» «Stavolta è diverso. Vedrai dove arriverò con questo trucco, mi esibirò da-vanti ai reali.» «Bisogna fargli un bagno» disse Alisha allontanandosi. «Tu intanto portalo di là e comincia a spogliarlo.» «Come?! Perché devo farlo io?» «Guarda che a dodici anni i bambini sono quasi uomini. Non vorrai far per-dere l’onore alla tua bella e giovane moglie?» Mi girai e guardai Matthew, lui guardò Alisha e lei tese le labbra sottili in un sorriso forzato. «Ho capito. Vieni con me!» Il bagno era adiacente alla cucina. Era una stanza ampia e scura, con al centro una grande tinozza in metallo. Accesi due candele per fare un po’ di luce. Alisha aveva disteso dei panni ad asciugare su un filo tirato a metà della stanza, li tastai, erano irrigiditi dal freddo. «Spogliati!» gli intimai. Matthew obbedì. Si tolse da prima la giacca, poi un maglione e tre camicie che portava una sopra l’altra. Rimase nudo, sul costato un livido bluastro. Saltellava e batteva i denti. Lo guardai, aveva un fisico snello ma ben svi-luppato e sembrava forte e sano. Raccolsi gli indumenti e li portai in cucina, presi il pentolone dalla stufa e ritornai in bagno. L’acqua calda alzò una nuvola di vapore. «Serve altra acqua calda!» urlai ad Alisha quando mi accorsi che quella in cui si era immerso Matthew stava assumendo un bel colore giallino. «Ma da quant’è che non ti fai un bagno?» «Molto tempo, signore.» «Basta chiamarmi signore. Mi chiamo David, David Given.» Il ragazzo annuì. «Tieni, sfregati con questo» e gli passai un pezzo di sapone. Dal modo in cui lo guardò ebbi la netta sensazione che non ne avesse mai visto uno prima. Mi avvicinai a lui e gli toccai i capelli; erano lunghi e tal-mente sudici da formare un corpo unico. Decisi che era inutile tentare di lavarli e così presi delle forbici e cominciai a tagliarli, cercando di arrivare il più vicino possibile alla cute. Matthew non si oppose. Accettava tutto quello che gli facevo senza reagire, senza chiedere una spiegazione, come se non potesse fare niente per evitarlo.

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Raccolsi i capelli con cura per non incorrere nelle ire di Alisha e ritornai in cucina. Notai che vicino alla pentola dove stava cocendo il minestrone di patate bolliva un altro pentolone. Sul pelo dell’acqua galleggiavano decine di pulci morte e altri piccoli insetti che non sapevo identificare. «Sono i vestiti del ragazzo» mi informò Alisha giungendomi alle spalle. «Erano talmente sporchi che sono stata costretta a bollirli con la cenere. A proposito, dov’è l’ombrello? E il coltello grande che era nel cassetto?» «Sono stati sacrificati, cara. In nome della mia arte.» «Come sacrificati? Avevamo solo quell’ombrello!» «Adesso non ho tempo di spiegarti, il ragazzo si raffredda» presi il pento-lone con l’acqua calda e me ne scappai in bagno. Cambiata l’acqua, mi misi alle spalle di Matthew e cominciai a sfregargli con il sapone i corti capelli. «Tu sei un ragazzo fortunato, lo sai?» Nessuna risposta. «Questa sera, incontrando me, è cambiata la tua vita.» Nessun commento. «Tu sai chi sono io?» Attesi invano un “no”. «Guardami! Io sono David, il mago» dissi mettendomi davanti a lui a brac-cia aperte. Mi guardò, chiuse gli occhi, si lasciò sparire sotto il pelo dell’acqua e ne riemerse pochi secondi dopo. «Guarda!» gli dissi avvicinandomi con la mano tesa. «Lo sai che cos’è questa?» Matthew si alzò appena facendo forza con gli avambracci sul bordo della tinozza, guardò il palmo della mia mano e rispose: «Una moneta da un penny, signore.» «Bravo! Stai bene attento adesso.» Presi la moneta con la mano destra, finsi di porla nella sinistra e gli chiesi: «In che mano è? Se indovini te la regalo.» Il ragazzo colpì sicuro la sinistra. «E’ qui!» «E invece ti sbagli» risposi aprendo piano la destra. Matthew si alzò in piedi di colpo, mostrando le sue nudità, e mi guardò. «Come hai fatto?!» «Sono un mago. Guarda!» Mi esibii in altri trucchi semplicissimi: feci sparire una moneta, gli mostrai dei giochi con le carte e infine feci apparire dal nulla la mia bacchetta ma-gica. Matthew era ancora in piedi, con i peli ritti dal freddo.

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«Stasera io non ero a Regents Park per caso. Ho un nuovo trucco, bellissi-mo, ma per farlo ho bisogno dell’aiuto di uno come te. Ti piacerebbe aiu-tarmi?» «Fare il mago, intendi?» «Sì!» «Certo che mi piacerebbe!» «Allora sarai il mio nuovo assistente, d’accordo?» dissi porgendogli la ma-no. «D’accordo» rispose lui stringendomela. «Allora per te è arrivato il momento di imparare le due regole fondamentali del nostro lavoro» dissi prendendo un asciugamano e lanciandoglielo. «La magia è sempre al primo posto e qualsiasi sacrificio purché il numero rie-sca. Hai capito bene?» «Sì, signore.» In cucina i suoi vestiti erano appesi a un filo che attraversava la stanza per quasi tutta la sua lunghezza. Erano più chiari di come li ricordavo. «Alisha, dacci da mangiare. Abbiamo fame.» Ci servì un piatto abbondante di ottimo minestrone di patate, poi mi colpì leggera con il mestolo sulla testa. «Ahi!» protestai. «Cosa ti è preso?» «Questo è per il coltello e per l’ombrello. Mi farai impazzire prima o poi con queste tue idee stupide» e mi appoggiò un bacio leggero sulla guancia. Matthew ci guardò con una strana espressione sul viso, mista di malinconia e tristezza. Poi si girò verso la finestra e perse il suo sguardo nel buio della notte londinese.

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Capitolo 3 «David, svegliati, presto!» Un grido che sembrava provenire dagli inferi, tanto mi parve cupo e distan-te, mi svegliò di soprassalto. «Vieni a vedere cos’ha combinato il tuo trovatello!» Dall’ira che percepivo nel tono della sua voce pensai che doveva essere successo qualcosa di serio. Mi stropicciai gli occhi e mi misi a sedere sul mio comodo materasso di grena. La casa era ancora in piedi e annusando l’aria non sentivo odore di bruciato; mi tranquillizzai. «David, vieni qui. Subito!» All’improvviso mi resi conto di una cosa: sentivo una sola voce provenire dalla cucina. Infilai i pantaloni sopra la camicia da notte e la raggiunsi. Davanti alla stu-fa, distesa a terra, giaceva la coperta su cui si era adagiato Matthew la sera prima. «Lui dov’è?» «Dimmelo tu, intelligentone! Ti sei voluto portare a casa un ladro? Beh, ha fatto il suo lavoro. Guarda!» e mi mostrò una pentola vuota. «Si è rivestito, si è fregato il pentolino con tutto il minestrone che doveva servire per il pranzo e se n’è andato.» Sbirciai dalla finestra nella speranza di vederlo. «Tu e le tue idee» continuava a brontolare Alisha. «Come non ne avessimo già abbastanza di problemi. Riusciamo a malapena a campare e tu mi porti in casa un ladro. Questa storia ci è già costata un coltello, l’ombrello e una pentola.» Poi si interruppe, si avvicinò a me e strattonandomi mi chiese sottovoce: «Hai guardato se ci ha rubato anche i soldi?» «No!» «Vai a vedere allora, cosa aspetti!» Corsi in camera. Tenevo il poco denaro che avevamo in un portafoglio na-scosto dentro la fodera del cuscino. Cercai con la paura di aver davvero sbagliato tutto, di non essere riuscito a leggere nell’animo di quel ragazzo. Trovai il portafoglio, Alisha era lì vicino a me, ne rovesciai il contenuto sul letto e contai le monete «Non manca niente.» «Meno male! Ha preso quello che ha trovato e se n’è andato. Meglio così.»

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Proprio in quel momento sentimmo bussare alla porta. Restammo come impietriti, ci guardammo. «Se è lui lo devi cacciare, hai capito?» mi disse puntandomi minacciosa l’indice al viso. Neanche le risposi, la lasciai lì sul letto a raccogliere le monete e andai di corsa alla porta. Quando lo vidi, infreddolito, con il pentolino in mano, mi girai verso Ali-sha e la guardai negli occhi. Lei scosse la testa. «Ti prego» le sussurrai «sentiamo almeno cos’ha da dire.» Sospirò. Poi si sedette sulla sedia più vicina, braccia incrociate sul petto. «Vieni dentro.» Matthew entrò, camminando rasente al muro, tenendo teso verso di me il braccio che reggeva il pentolino. «Perché hai preso il minestrone?» gli chiesi subito, cercando di apparire serio e severo. «Avevo fame.» «Aveva fame!» ripetei rivolgendomi ad Alisha. «Se hai fame devi chiedere a me, hai capito?» rispose lei dura. «Qui non navighiamo nell’oro e non vogliamo ladri in famiglia.» «Le chiedo scusa.» Alisha si alzò dalla sedia, gli si avvicinò e con un movimento brusco gli strappò via il pentolino che lui le porgeva. «Non succederà mai più, glielo giuro» le disse cercando con lo sguardo gli occhi di lei. Si fissarono per alcuni secondi, poi Alisha depose il pentolino sul tavolo e uscì in giardino. «E’ meglio se andiamo» dissi a Matthew e senza attendere risposta lo presi per mano e lo trascinai nello stanzino che usavo come studio. «Non lo devi più fare, hai capito? Non vorrai perdere l’occasione di migliorare la tua vi-ta?» «Non la voglio perdere, signore.» «Allora certe cose non devono succedere mai più, chiaro?» Annuì. «Bene! E adesso mettiamo da parte questa brutta storia. Guarda» dissi mostrando-gli il mio studio, «qui sei nel mio regno, è qui dove nascono tutte le mie magie, ed è qui che io e te ci alleneremo.» Matthew si guardò attorno. Nello stanzino c’era di tutto: scatole magiche, carte da gioco, bacchette truccate, una gabbia con delle colombe ormai vecchie e magre e i miei abiti da scena. Il ragazzo non si curò di tutti que-gli oggetti strani e come prima cosa si avvicinò al mio frac e ne tastò la stoffa, poi lo accarezzò e strofinò la guancia sul tessuto per sentirne la morbidezza. «Anch’io mi vestirò così?» mi chiese girandosi verso di me.

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«Per ora no» risposi, ma vedendo la delusione sul suo viso, aggiunsi: «Ma quando sarai grande e pronto per il palcoscenico allora avrai anche tu il tuo frac e la tua camicia con il papillon.» Mi sorrise. «Vieni, ti spiego il numero per il quale mi serve il tuo aiuto» dissi avvici-nandomi alla pedana truccata che avevo preparato. Annuì. «Immagina un teatro colmo di persone, io sono sul palcoscenico e la mia aiutante, che poi è Alisha, porta una pedana con una sedia sopra. Io mi siedo e invito uno spettatore a salire sul palco e ad ammanettarmi le mani dietro la schiena. Ti è chiaro? Riesci a vedere la scena davanti a te?» «Sì!» rispose. «Bene. Viene tirata una tenda che mi nasconde alla vista degli spettatori e un minuto dopo io ne esco, libero, con le manette in mano. Non sarebbe magnifico, stupefacente?» «Sì, sarebbe bellissimo.» «Lo credo anch’io, la gente ama questo tipo di esibizioni. Sai, durante il mio spettacolo faccio sempre il numero della camicia di forza, è quello che il pubblico preferisce, quello che mi fa prendere i maggiori applausi e... » «Il numero della camicia di forza?» mi chiese curioso. «Cos’è?» «L’hai mai visto? Ne hai mai sentito parlare?» «No!» «Allora fermo lì, te lo faccio vedere.» Andai a prendere la camicia di forza che usavo per gli spettacoli e mi feci legare da Matthew. Nonostante la giovane età riuscì a stringere forte le cin-ghie. Faticai un po’, ma mi liberai. L’effetto riuscì a meraviglia. Matthew si alzò in piedi per applaudirmi. Fui costretto a fermarlo altrimenti avrebbe continuato a battere le mani fino a spellarsele. «Ma come hai fatto?» mi chiese subito. «Me lo spieghi?» «Beh, visto che ormai sei il mio assistente, te lo posso anche insegnare. Guardala bene, noti niente di strano?» dissi passandogli la camicia di forza truccata. Matthew osservò con attenzione e meraviglia quell’oggetto. «Vedi, una delle due cinghie con cui mi faccio legare le braccia non è fis-sata alla manica della camicia di forza, ma entra dentro. Quando mi legano non faccio altro che tirarla dall’interno in maniera da garantirmi quel mi-nimo di movimento che mi permette di sciogliermi.» «Posso provare?» «Certo!» risposi, e lo legai. La camicia di forza gli era così grande che sarebbe comunque riuscito a liberarsi, anche senza usare quel trucco, ma la gioia che lo riempì nel mo-mento in cui riuscì a sfilarsi di dosso quello strumento di costrizione fu tale che cominciò a saltare urlando per la stanza.

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«Pensa» aggiunsi bloccandolo «che c’è un prestigiatore di origini unghere-si, che si fa chiamare Harry Houdini, che riesce a liberarsi davvero dalla camicia di forza, senza usare nessun trucco. Si dice riesca a disarticolare entrambe le spalle.» «Un giorno uscirò anch’io dalla camicia di forza, quella vera intendo.» «Te lo auguro» dissi ridacchiando. «Avresti di sicuro spalancate le porte di molti teatri. Adesso però è meglio se ci concentriamo di nuovo sul numero per il quale mi serve il tuo aiuto.» Presi la pedana, un parallelepipedo di un metro per lato con un’altezza di soli trenta centimetri, e gliela misi davanti. Sopra vi posizionai una sedia e mi sedetti. «Noti niente di strano?» Matthew la guardò con attenzione, poi scosse la testa. «Guarda!» gli dissi, e infilando un dito in un’impercettibile fessura nel le-gno aprii uno sportellino. Matthew mi guardò meravigliato. «Vedi? La pe-dana dentro è vuota e accessibile attraverso questa porticina. Se qualcuno si nascondesse al suo interno potrebbe uscire e liberarmi dalle manette nel momento in cui le tende mi nascondono alla vista del pubblico.» «E quel qualcuno dovrei essere io, vero?» «Esatto!» Matthew si avvicinò alla pedana, aprì la porticina e vi infilò dentro la testa. «Allora?» «Credo che ce la potrei fare.» «Bravo il mio ragazzo. Ti va di provare?» Matthew si abbassò sulla pedana e infilò le gambe all’interno della piccola apertura. Riuscì a far entrare anche il sedere ma giunto all’altezza delle spalle rimase bloccato, impedito nei movimenti anche da tutti gli indumen-ti che indossava. Non riusciva più né a entrare, né a uscire. Provai ad aiu-tarlo, tirandolo per le braccia, ma quando facevo forza alzavo assieme al ragazzo anche la pedana. Fui costretto, a malincuore, a ricorrere all’aiuto di mia moglie. «Alisha, ti prego, vieni a darmi una mano. Matthew è rimasto bloccato» urlai. «Bloccato dove?» chiese dalla cucina mentre continuava a rigirare le rape dentro il pentolone. «Vieni e vedrai.» Alisha, quando vide dov’era intrappolato il ragazzo, si rivolse a me. «Sei il solito! Come hai fatto a incastrarlo lì?» «Stava cercando di entrare nella pedana.» «Nella pedana? Ma cosa ti sei messo in testa stavolta?» «E’ per il gioco nuovo; insomma mi vuoi dare una mano a tiralo fuori o restiamo qui a litigare?»

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«Meriteresti che ti lasciassi qui da solo. Lo faccio solo per il ragazzo.» E assieme, un millimetro alla volta, continuando a tirarlo per le braccia, riuscimmo a farlo uscire. Matthew non fece un lamento. Quando fu libero si tolse i vestiti e si guardò lo scarno torace, aveva delle escoriazioni, alcune sanguinavano. Alisha mi guardò severa. «Perché non mandi a casa questo ragazzo e non ti trovi un lavoro normale, come tutti gli altri, invece di continuare a trascinarti per pochi penny in quei buchi che ti ostini a chiamare teatri?» «Signora, è stata colpa mia se non sono riuscito a entrare nella pedana, ma se volete sono pronto a ritentare anche subito» intervenne Matthew. Alisha lo guardò con una dolcezza che non le conoscevo. Gli fece una ca-rezza e gli sorrise: «Sei anche tu come lui, vero? Vi siete proprio trovati per bene voi due. Dai rivestiti, artista, che è pronto da mangiare.» Ci sedemmo tutti e tre a tavola. Matthew aveva fame, ma attese che Alisha deponesse il pane in tavola e si sedesse assieme a noi. Ingurgitò il suo bro-do e la sua rapa bollita con la voracità di un animale. Rimasi incantato a guardare la fame vera fino a quando Alisha non gli chiese: «Matthew, ma tu dove vivi?» «Dalle parti di Regents Park» rispose con la bocca piena di pane secco. «I tuoi genitori?» «Sono morti.» «Me ne dispiace» disse Alisha, poi si alzò e presi i piatti vuoti li andò a de-porre nel lavatoio. Fu in quel momento che vidi il ragazzo prendere un pezzo di pane e, fin-gendo di portarlo alla bocca, nasconderlo lesto in tasca. Tecnicamente non stava rubando, era parte della sua razione e poteva farne ciò che voleva, ma non capivo perché continuasse a nascondere del cibo. Pensai in quel mo-mento che fosse stata l’estrema povertà in cui era vissuto a dettargli quel comportamento e così, anche per evitare ulteriori problemi, non dissi nien-te, sperando che spontaneamente mi avrebbe confidato il motivo del suo agire. «Come fai a tirare avanti?» gli chiese Alisha ritornando a sedere a tavola. «Se capita faccio qualche lavoretto. Di solito, però, vado a cercarmi qual-cosa nella spazzatura e se non trovo niente sono costretto a rubare.» «Non avrai più bisogno di rubare se resti con noi» dissi. «Fai bene quello che ti viene chiesto e vedrai che non ti mancherà mai un piatto caldo a pranzo e a cena.» Mi sorrise e quando mi alzai da tavola mi seguì nello studio. Matthew si tolse tutto, restando solo con i mutandoni addosso. Così alleg-gerito riprovò a entrare nella pedana dalla piccola porticina. Le gambe e il

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bacino entrarono facilmente. Il problema si ripresentò quando, con le brac-cia ancora all’esterno, si trattò di fare entrare le spalle. Rimasi a guardarlo per un po’ mentre si contorceva, poi mi venne un’idea: «Matthew, prova a entrare con la testa, tenendo le braccia lungo il corpo. Prima una spalla e poi l’altra.» Il ragazzo obbedì. Le spalle passarono, prima la destra e poi la sinistra, poi muovendosi come un serpente riuscì a entrare con tutta la parte superiore del corpo. Si fermò. Lo sentivo ansimare dentro a quello spazio angusto e quando vidi il suo corpo ricoprirsi di minuscole goccioline di sudore mi preoccupai. «Matthew, stai bene?» «Sì» rispose con voce flebile. «Ma non riesco a respirare.» Il suo corpo occupava quasi tutta l’entrata impedendo all’aria di passare e mi resi conto che sarebbe resistito ancora per poco. «Matthew, devi uscire!» Cominciò a muoversi all’indietro, ma non riusciva a guadagnare nemmeno un centimetro e i suoi movimenti diventavano sempre più lenti e difficolto-si. Corsi in cucina per chiedere aiuto ad Alisha, ma lei non c’era. La chiamai, ma non ottenni risposta. Dovevo fare da solo e subito. Rientrai nello stanzino. Matthew era ormai immobile. Mi avvicinai alla pe-dana e appoggiai l’orecchio, il suo respiro era sempre più debole e faticoso. Provai a chiamarlo, ma non rispose. Lo presi allora per le gambe e comin-ciai a tirare, per farlo uscire, ma quel corpo sembrava ancorato dentro a quella pedana e le sue membra erano sempre più fredde tra le mie mani. Desistetti dal tentativo di estrarlo dalla pedana con la sola forza delle brac-cia e corsi in giardino a prendere la scure che usavo per tagliare la legna. Rientrai e alzai la lama pronto a colpire, ma poi la paura di fargli del male fermò la mia mano, non sapevo esattamente come fosse messo il suo corpo all’interno della pedana. Dovevo trovare un’altra soluzione. Era evidente che non sarei mai riuscito a estrarlo da solo da quella trappola, così presi un vecchio trapano e co-minciai a praticare dei buchi sulle pareti laterali della pedana. Funzionò. A poco a poco il suo respiro ridiventò normale e dopo alcuni lunghissimi mi-nuti risentii la sua voce. «David, sto bene.» «Riesci a respirare?» «Sì, adesso sì.» Mi sedetti sulla pedana, improvvisamente esausto, poi però mi feci forza e, prendendolo per i piedi, ricominciai a tirare. «No! David, no! Non tirare!» mi disse. «Mi fai male. Ti prego, lascia fare a me.»

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Abbandonai la presa e rimasi, spettatore inerme, a guardarlo mentre ri-prendeva a muoversi come un serpente e piano piano spariva dentro la pe-dana. In meno di dieci minuti non restava niente di lui all’esterno. Dovetti attendere oltre mezz’ora prima di veder spuntare la sua testa dalla portici-na. Aveva compiuto un’intera rotazione all’interno della pedana e adesso era pronto a uscire. Prima la testa, poi le spalle, una alla volta, poi il bacino e infine le gambe. Era fuori. Lo aiutai cercando di metterlo in piedi, ma proprio non riusciva a reggersi. Lo adagiai a terra, boccheggiava come un pesciolino fuor d’acqua, e anch’io mi distesi sul pavimento freddo assieme a lui. «Non ho mai avuto tanta paura in vita mia» gli dissi. «E’ orribile vedere qualcuno in difficoltà e non poterlo aiutare.» «Sono ancora vivo» sussurrò, «e pronto a riprovare.» Mi misi seduto e lo guardai, poi mi lasciai di nuovo cadere disteso accanto a lui. «Io e te faremo tanta strada assieme, me lo sento» dissi. «Verrà un giorno in cui vedremo i nostri nomi su tutti i muri di Londra. “Stasera alla Royal Opera House, di fronte ai reali d’Inghilterra, David Given si esibirà nel suo nuovo incredibile numero…”.» «… assieme a Matthew Locksmith» completò il ragazzo. Alisha ci trovò distesi a terra che ridevamo e vedendo in che condizioni ci eravamo ridotti non trovò di meglio che assestarmi un calcetto. «Alzati, poltrone» mi disse. «Almeno abbi rispetto per la gente che lavora davvero. C’è l’acqua da andare a prendere al pozzo e devi andare dalla si-gnora Curtis a prendere del latte. E tu, rivestiti!» disse rivolgendosi al ra-gazzo. «Fuori c’è la legna da spaccare.» Alisha se ne andò. «Allargherò la pedana e, se necessario, la alzerò anche di una decina di centimetri.» «Ma la gente potrebbe capire il trucco!» protestò. «La pedana la lasciamo così com’è. Qualsiasi sacrificio purché il numero riesca, giusto?» «Giusto!» risposi.

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Capitolo 4 Ritornai dalla mia visita alla signora Curtis con un pentolino colmo di latte appena munto. Per cena latte caldo e uova; mezzo per Alisha e Matthew e uno intero per me. Io il mio non lo mangiai, lo misi in tasca senza farmi vedere e mi ac-contentai di pane nero e latte. Dopo cena rimanemmo a parlare, seduti a tavola, fino a quando non si spense il fuoco, poi io e Alisha andammo a let-to e Matthew si distese sulla coperta davanti alla stufa. Mi coricai e rimasi a guardare la debole luce che filtrava dalla finestra fino a quando Alisha non si addormentò, poi, in camicia da notte, ritornai in cu-cina. Lo trovai in piedi, si era già infilato scarpe e pantaloni e si stava mettendo la giacca. «Perché ti sei rivestito?» gli chiesi giungendogli alle spalle. «E perché a pranzo hai nascosto la tua razione di pane?» Abbassò gli occhi, fissandosi le mani occupate con occhielli e bottoni. «Onestà! E’ l’unica cosa che pretendo se vuoi restare a casa mia.» «Io voglio restare, signore» disse girandosi e guardandomi negli occhi, «ma la sera no, la sera non posso.» «Sei libero di andartene se vuoi, non ti chiedo neppure dove o da chi, ma devo sapere se hai intenzione di continuare a lavorare con me oppure no.» Annuì. «Va bene. Tieni!» gli dissi porgendogli il mio uovo sodo. Lo prese, lo mise in tasca e sorridendomi aprì la porta e se ne andò. Rimasi a guardarlo, infreddolito sull’uscio di casa, fino a quando non lo vidi spari-re nel buio di una notte stranamente limpida. Tornai in camera cercando di non fare rumore per non svegliare Alisha, ma la trovai seduta sul letto che mi aspettava. «Non serve che fai finta di mangiare quello che ti metto nel piatto. Prepare-rò qualcosa in più per lui se per te ne vale la pena.» «Ne vale la pena» le dissi coricandomi accanto a lei. «Ne sono certo.» Quando mi svegliai le stelle erano ancora vivide in cielo e Matthew era già là, raggomitolato sulla porta di casa, che aspettava che gli fosse aperto. Lo feci entrare e, presi due pezzi di pane nero, ci chiudemmo nel mio piccolo studio.

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Non mi lasciò il tempo di dire niente, si tolse quello che aveva addosso e, rimasto con le sole mutande, si infilò con la testa nella piccola apertura del-la pedana sparendo in breve alla mia vista. Neanche un quarto d’ora dopo ricomparì. «Allora?» mi chiese affannato. «Come sono andato?» «Meglio, molto meglio» risposi mentre lo aiutavo a uscire. Si sedette a terra, ansava e tremava, madido di sudore. «Ci metto troppo tempo» disse. «Una volta dentro devo fare tutto il giro per uscire con la testa. Vorrei provare di nuovo a entrare prima con i piedi. Adesso ho capito come devo muovermi.» «Recupera le forze prima, non abbiamo fretta.» «No! E’ meglio farlo subito.» Pochi secondi dopo le gambe erano già sparite all’interno della pedana e anche il bacino passò con facilità. Il problema si ripresentò quando, con le braccia all’esterno, provò a entrare con le spalle. Dopo innumerevoli inutili tentativi desistette e si rimise seduto a terra. «Non ci riesco!» disse scorato. «L’entrata è troppo stretta, la allarghiamo» risposi, come a consolarlo. «Prima voglio fare un altro tentativo» propose rialzandosi. «Provo a entra-re muovendomi come un serpente, tenendo le braccia lungo il corpo.» E così dicendo rientrò nella pedana, fece passare il bacino, infilò le mani nel buco e tenendo le braccia aderenti al corpo cominciò a muoversi in ma-niera ondulatoria, strisciando dentro la stretta apertura. Impiegò parecchi minuti, ma alla fine ci riuscì. Appena la testa entrò Matthew emise un urlo e poi cominciò a ridere mentre, con molta meno difficoltà, usciva di nuovo all’esterno. Era quella la soluzione e lo sapevamo entrambi. Ci abbrac-ciammo, felici come due scalatori che dopo stenti e fatiche inenarrabili raggiungono assieme una vetta mai violata prima. Matthew continuò a entrare e a uscire dalla pedana per tutta la mattina, senza sosta. Il pane nero rimase sulla mensola, distante dai suoi e dai miei pensieri I suoi movimenti divenivano a poco a poco sempre più sicuri e precisi e il suo corpo sembrava più elastico e flessibile a ogni nuovo tentativo. Sulle braccia, sul costato e sulle gambe si moltiplicavano i segni causati dallo sforzo che stava compiendo. Quando Alisha ci chiamò, poco prima di mez-zogiorno, riusciva già a entrare e uscire dalla pedana in meno di tre minuti. «Ragazzi, venite. E’ pronto da mangiare» ci gridò dalla cucina. «Vieni, Alisha! Vieni a vedere» le urlai. «Dov’è rimasto bloccato stavolta?» chiese entrando nello studio asciugan-dosi le mani sul grembiule. «Da nessuna parte. Fai bene attenzione! Sei pronto Matthew?» Lui annuì, presi l’orologio e gli diedi il via.

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Il ragazzo fece del suo meglio per impressionare Alisha e procurandosi delle nuove escoriazioni su braccia e gambe, riuscì a entrare e uscire dalla pedana in meno di due minuti e mezzo. «E’ incredibile!» disse Alisha abbracciandomi. «Ce l’hai fatta davvero.» «E’ tutto merito del ragazzo» dissi tirandolo vicino a noi. «Allora non pensi che si sia meritato un premio per il suo impegno?» disse appoggiandogli una carezza sulla testa. «Direi di sì!» risposi. «Un premio?» chiese Matthew. «Stasera David e io» disse Alisha facendo un inchino, «ci esibiamo in tea-tro e tu sei invitato ad assistere. Sei contento?» «Io… posso venire con voi?» mi chiese. «Certo! Ormai sei il mio assistente» risposi. Il ragazzo cominciò a correre urlando per la stanza, non sentiva più né il freddo né la fame tale era l’eccitazione che lo scuoteva tutto. Si sedette a tavola e ingurgitò quello che aveva davanti senza mai staccare gli occhi da me, tempestandomi di domande sullo spettacolo a cui avrebbe assistito. Avremmo potuto servigli vermi e locuste e lui non si sarebbe nemmeno reso conto di quello che stava portando alla bocca. Dovetti descrivergli tutto, nei minimi particolari, e non appena ebbi finito di pranzare, per mettere a freno la sua inesauribile curiosità, gli dissi che quel pomeriggio non avremmo lavorato alla pedana, ma che avrebbe potu-to guardarci mentre ci preparavamo per lo spettacolo della sera. Così spostammo tavolo e sedie e provammo in cucina, dove le finestre a-perte garantivano molta più luce. Matthew, seduto davanti a noi, ci osservava a bocca aperta e per le oltre tre ore che passammo a ripetere gli stessi numeri non si mosse mai dalla sedia. Immobile, gli occhi spalancati che fissavano ogni nostro movimento e le mani pronte a sottolineare con un applauso ogni nuovo prodigio. Sembrava quasi respirare sottovoce per non perdersi neanche un attimo di quella no-stra esibizione. Quando alla fine riponemmo i nostri attrezzi da lavoro mi chiese: «Ma tu sei un mago vero?» «Cosa intendi per “mago vero”?» gli chiesi. «Cioè, hai dei poteri speciali?» «No, Matthew, sono un uomo normale, proprio come te.» «Quindi potrei riuscire anch’io a farli quei trucchi?» «Certo, se ti allenerai con costanza e impegno. Per diventare un grande il-lusionista bisogna essere pronti a dedicare tutta la vita alla magia.» «Io gliela dedicherò» disse serio, e quella era la parola di un uomo, non il vezzo di un ragazzino.

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Quella sera ci esibivamo in un piccolo teatro di periferia senza nome. Uno di quei posti dove per entrare a vedere lo spettacolo bastava portare qual-che uovo al padrone e dove non era insolito avere tra gli spettatori qualche cane sonnacchioso, ma in quel momento era il massimo a cui potevo ambi-re. Raggiungemmo il nostro camerino, una stanzetta che durante la settimana veniva usata come ricovero per attrezzi, e cominciammo a prepararci. Mat-thew rimase con noi solo pochi minuti, poi scappò fuori e cominciò a fare la spola tra il camerino e il palcoscenico, curioso di veder arrivare i primi spettatori. Quando finalmente giunse l’ora e la gente cominciò ad arrivare, lui si appoggiò allo stipite della porta del teatro e a ogni persona che entra-va dispensava un sorriso e la promessa che avrebbe assistito a qualcosa di eccezionale. Rientrò in camerino, di corsa, solo pochi minuti prima della nostra entrata in scena. «Ci sono ventisette persone!» ci disse ansante appena entrato. «Sono già tutte sedute e vi aspettano. Fate presto!» Non me la sentii di dirgli che ventisette persone erano una vera miseria e che con il guadagno di quella serata avremmo a malapena comprato il pane per la settimana, così gli appoggiai una carezza sulla testa e lo ringraziai per esserci venuto ad avvisare. «Tu puoi vedere lo spettacolo da dietro le quinte, se vuoi» gli disse Alisha. «Preferisco rimanere seduto tra il pubblico. Voglio sentire quello che dice la gente. Vado a prendermi un posto in prima fila. Fate presto!» e uscì di corsa. Io e Alisha prima di salire sul palcoscenico ci guardammo. Sapevamo che potevano presentarsi serate come quella, perciò avevamo progettato due diversi spettacoli, uno più semplice e breve e uno più elaborato con tutti i numeri migliori, da proporre in base al numero delle persone presenti in sala. Non furono necessarie parole tra noi per decidere che avremmo fatto lo spettacolo migliore, dando il meglio di noi stessi, e lo avremmo fatto so-lo per Matthew che ci guardava dalla prima fila applaudendoci con tutta la forza che aveva in corpo. Fu una serata fantastica. Avevo il pubblico in pugno e riuscii, con l’aiuto di Alisha, a trasportare gli spettatori in un mondo magico, dove tutto appariva possibile. Ottenni la prima, scarna, “standing ovation” della mia vita. Appena finito lo spettacolo Matthew ci raggiunse in camerino, era talmente eccitato che non riusciva quasi ad articolare le parole mentre, gesticolando, ci raccontava quello che aveva visto, come non fossimo stati noi gli artefici di quello spettacolo. Solo un insistente bussare alla porta riuscì a interrom-pere il suo narrare.

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Andai ad aprire e mi si presentò davanti un signore stempiato, con un pan-cione enorme e un sorriso che rischiava di debordare dal quel viso rotondo e sudato. «E’ uno degli spettatori che erano in sala» disse subito Matthew. «E’ vero!» confermò l’uomo accarezzandogli i capelli. «Ma da come lo di-ci sembra quasi una colpa.» «Non lo badi» risposi tendendogli la mano. «Entri pure.» L’uomo entrò. Notai subito, nei pochi passi che fece per venire verso di me, il suo strano modo di camminare: teneva le punte dei piedi divaricate e il peso del corpo spostato verso l’indietro, come se camminasse in discesa. Sembrava faticare a ogni movimento. «Posso sedermi?» mi chiese. «Certo» risposi porgendogli una sedia. L’uomo si accomodò, tenendo le gambe aperte per far spazio al ventre pro-minente. «Mi chiamo Jeremy Collins» disse asciugandosi la fronte imperlata di su-dore con un fazzolettino ricamato. «E stasera, come già sapete, ero in sa-la.» «Spero le sia piaciuto lo spettacolo.» «Sì! Devo proprio dire di sì» rispose, poi continuò: «Io sono il proprietario di un teatro in centro, il Vaudeville, non so se lo conoscete… » «Certo che lo conosco!» risposi subito. «Bene, allora vengo al motivo della mia visita: ho ancora una data libera in cartellone, quella del ventuno dicembre, e mi stavo chiedendo se poteste essere voi gli artisti giusti a cui affidare il palcoscenico del mio teatro.» «Signor Collins, siamo sicuramente gli artisti giusti» intervenni. «Ci dia questa opportunità, vedrà che non se ne pentirà, noi siamo… » Il signor Collins alzò una mano, impedendomi di proseguire nel tessere le nostre lodi. «Sì, ho visto che siete bravi. Avete tanta passione e riuscite a trascinare il pubblico, ma non sono sicuro che possiate affrontare un teatro grande co-me il mio. Il vostro spettacolo è… come dire… vecchio. Avete eseguito bene molti numeri, ma sono cose già viste, soprattutto su grandi palcosce-nici. Io sono venuto qui per sapere se quello che avete proposto stasera è tutto il vostro repertorio o se avete qualche altro asso nella manica che po-trebbe convincermi a scommettere su di voi.» «Beh… veramente… » dissi grattandomi la nuca nella speranza che la giu-sta risposta si facesse viva nel mio cervello. Ci furono pochi secondi di silenzio imbarazzato. Avevo davanti a me la più grande occasione che mi fosse mai capitata e me la sarei fatta sfuggire se non fosse stato per Matthew.

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«Ce l’hanno un trucco nuovo!» disse ad alta voce alle mie spalle. «Io lo so, io l’ho visto.» «Ah sì?» disse il signor Collins battendosi con la mano sulla coscia. «Vieni qui, ragazzo, dimmi di cosa si tratta.» Matthew si avvicinò, ma non si sedette sulle sue gambe, si pose in piedi davanti a lui e aprì platealmente le braccia dicendo: «Immagini, signore, un teatro pieno di persone. David sale sul palcosceni-co e la sua aiutante porta una pedana con sopra una sedia. Lui si siede, si fa bendare, e invita uno spettatore a salire sul palco e ad ammanettargli le mani dietro la schiena. Gli viene tirata davanti una tenda e in pochi secondi David esce, libero, con le manette in mano.» «E’ vero?» mi chiese il signor Collins. «Avete anche questo numero?» «Beh… sì, abbiamo questo numero» risposi. «E’ bello come dici?» chiese di nuovo a Matthew. «E’ fantastico» rispose. «La più bella magia che io abbia mai visto, e io me ne intendo.» «Ah, davvero? Sei un esperto allora!» Matthew annuì serio aggrottando le ciglia. Il signor Collins mi guardò dritto negli occhi. «Sareste disposto ad aggiungere anche questo numero al vostro spettaco-lo?» «Sì!» risposi quasi sottovoce. «Va bene il settanta per cento dell’incasso a me e il trenta a voi?» «Sì, va bene» risposi senza pensarci un secondo. «Allora, affare fatto?» disse porgendomi la mano. Il signor Collins approfittò della stretta per far forza su di me e alzarsi dalla sedia, poi si avvicinò a Matthew. «Bravo, ragazzo» gli disse. «Matthew, signore, mi chiamo Matthew Locksmith.» «Ho come il presentimento che sentirò ancora parlare di te, Matthew Lo-cksmith.» «Lo spero, signore.» «Signor Collins» lo fermai mentre si avviava verso la porta, «una cosa: quanti spettatori può contenere il suo teatro?» «Circa quattrocento e di solito facciamo il tutto esaurito.» Rimasi basito. «Un’ultima cosa, signor Collins: quanto sarà il prezzo del biglietto?» «Dieci penny. Ha altro da chiedermi?» «No, grazie» risposi come instupidito. Il signor Collins uscì dal camerino e io mi rivolsi a Matthew: «Come ti è venuta l’idea di dire che mi sarei anche fatto bendare?» «Così!» rispose alzando le spalle e allargando le braccia. «Ho sbagliato?»

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«No! Per me è lo stesso fare il numero bendato. Anzi, direi che hai avuto proprio un’ottima idea, bravo!» Cercai una sedia e mi sedetti. Alisha mi guardava e rideva, io non sapevo come reagire, frastornato da quello che era successo. Poi però all’improvviso, come se di colpo mi risvegliassi da un lungo sonno tormen-tato, scattai in piedi e cominciai a valutare in termini numerici l’occasione che avevamo a portata di mano. «A noi danno il trenta per cento, quindi tre penny a persona» dissi. «Se fac-ciamo il tutto esaurito, quindi quattrocento persone per tre penny… a noi vengono… dodici sterline.» Mi fermai come imbalsamato, lo sguardo fisso su una zappa attaccata al muro con un chiodo. Era una cifra enorme per noi. Alisha, seduta, rideva, quasi isterica. Io ero combattuto tra la voglia di mettermi a urlare per la gioia e la preoccupazione per il nuovo numero da preparare in così poco tempo. E se non ce l’avessi fatta? Se Matthew non fosse riuscito a entrare e uscire da quella pedana in un tempo ragionevole? Se il ragazzo una mattina non fosse più tornato da me? Ritornammo a casa a notte fonda quella sera. Appena arrivati Matthew si avvicinò a me. «Io devo andare» disse. «E’ molto tardi. Perché non resti qui con noi stasera?» propose Alisha. «E’ molto pericolosa la città di notte.» «Non per me» rispose, «la strada è la mia casa. Io devo andare.» «Tieni questo, allora» disse mia moglie prendendo un sacchetto di stoffa dalla credenza. «Sono tre mele.» «Grazie» rispose Matthew e, preso il sacchetto, ci sorrise e se ne andò. Lo seguii fino all’uscio, lo vidi allontanarsi e non potei trattenere una muta domanda che mi fece scorrere un brivido lungo la schiena: e se l’indomani non fosse tornato? Tutta la mia vita, almeno quella professionale, era nella mani di un ladrun-colo di strada.

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Capitolo 5 La mattina successiva alle sei ero già in piedi. Avevo passato la notte a ri-girarmi nel letto, tormentato da mille dubbi e paure, e alzarmi, nonostante l’oscurità e il freddo strangolassero ancora la città, fu quasi un sollievo. Aprii la finestra che dava sulla strada e mi appoggiai con i gomiti sul da-vanzale, cercando di spingere la mia vista il più lontano possibile nella spe-ranza di vederlo comparire, e ogni minuto che passava aumentava il timore che Matthew non arrivasse e che la mia grande occasione svanisse nell’aria come un filo di fumo. Quando il sole rischiarò appena la linea dell’orizzonte, accendendo mille cristalli di brina, decisi che non potevo più attendere passivamente che si compisse il mio destino e infilato cappello e cappotto uscii di casa per an-dare incontro al ragazzo. Percorsi tutta Lawrence Street poi, davanti al primo bivio, mi fermai; non avevo idea da che parte sarebbe arrivato Mat-thew. Là fuori mi sembrava meno pesante l’attesa e così rimasi lì, frugando con lo sguardo in fondo a quelle vie. I piedi mi si intirizzirono dentro le scarpe dure, nonostante continuassi a muovermi, e sapevo che stare fuori al freddo non avrebbe né mitigato la mia ansia né accelerato il ritorno del ragazzo, ma non potevo farne a meno. Guardai sul mio orologio passare i minuti uno a uno e quando vidi la sua sagoma scura avvicinarsi gli andai incontro felice, nonostante mi fossi praticamente congelato nell’attesa. Matthew iniziò subito ad allenarsi e io, per impegnare il tempo in qualcosa di costruttivo, tirai fuori le manette che avrei usato per lo spettacolo e le oliai, poi le appoggiai su un tavolino e, senza nient’altro da fare, stetti in silenzio a guardare il ragazzo entrare e uscire dalla pedana. Dopo un po’ Matthew decise di fare una pausa, si sedette vicino a me e mi chiese: «Sono le manette che useremo per lo spettacolo?» Annuii. «Sai che io sarei capace di aprirle anche senza chiave!» «E come?» Si alzò, prese in mano la sua scarpa destra, vi frugò dentro e ne estrasse due pezzettini di ferro, all’apparenza insignificanti. «Usando questi» concluse. Feci scattare le manette e gliele porsi.

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Matthew le prese, infilò un piccolo ferro a elle all’interno della serratura e la mise in tensione, poi inserì un altro ferro ricurvo e cominciò a muoverlo velocemente, come se cercasse qualcosa dentro a quella piccola fessura. Dopo pochi minuti, con uno schiocco secco, le manette si aprirono. «Chi ti ha insegnato?» gli chiesi. «Un vecchio ladro che abita dalle mie parti. Non è difficile, sai; serve solo molta pratica. Vedi? E’ semplice! Con questo pezzo di ferro tengo in ten-sione il meccanismo di chiusura e con l’altro cerco di trovare la giusta po-sizione dei cilindretti.» «Cosa sono?» chiesi. «Dentro la serratura ci sono dei piccoli cilindri che possono muoversi in su e in giù. Devi trovare la giusta combinazione. Con il secondo ferretto non faccio altro che alzarli o abbassarli.» «Ho capito. Fammi provare.» Matthew mi consegnò le manette e le due levette di metallo e ricominciò ad allenarsi. Sferragliai senza successo dentro quelle serrature fino a quando Alisha non ci venne a chiamare per il pranzo. Andai in cucina portando con me le ma-nette e i grimaldelli. «Alisha, stai a vedere cosa riesce a fare» le dissi. Mi infilai le manette e le chiusi, poi porsi i polsi a Matthew. «Liberami!» gli dissi. Matthew prese i grimaldelli e aprì le serrature in pochi istanti. Alisha si girò verso di me con gli occhi sgranati, senza riuscire a trattenere un’esclamazione di sorpresa. «E’ un ladro» risposi. «Anche questa è un arte.» «Ma non so fare solo questo» disse Matthew. «Guardate!» Prese da un sacco che stava a terra tre patate e si mise a fare il giocoliere. Io e Alisha lo guardavamo divertiti mentre si esibiva per la prima volta da-vanti a un pubblico. «Lo so fare anche con quattro» disse poi prendendo un’altra patata. Riuscì a tenerle in aria solo per pochi secondi, ma gli riservammo comun-que il nostro miglior applauso. «Sai fare dell’altro?» gli chiese allora Alisha. «Sì» rispose, entusiasta di poter dimostrare le sue abilità. Prese una scopa e si portò al centro della stanza, la mise in equilibrio sul mento e la tenne in quella posizione fino a quando non smettemmo di ap-plaudirlo. Furono i suoi primi applausi. «Pensate che potrei esibirmi anch’io?» ci chiese appena finito il suo nume-ro. Io e Alisha ci guardammo.

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«Sì!» risposi con un filo di voce. «Perché no! Se riuscirai a fare il giocolie-re con cinque patate e a tenere in equilibrio sul mento qualcosa di più pe-sante… beh allora…» «E potrò avere anch’io un vestito come il tuo?» «Certo!» risposi. Matthew mi saltò al collo e fu un’impresa convincerlo a sedersi a tavola. Ingurgitò quel po’ di riso che aveva nel piatto e ritornò subito nello stanzi-no ad allenarsi. Lo raggiunsi con l’ultimo boccone in bocca, era già dentro la pedana. Ne uscì in pochi secondi. «Voglio che controlli quanto tempo ci metto» mi disse. Presi l’orologio e gli diedi il via. Matthew entrò, muovendosi come un ser-pente, all’interno della pedana per uscirne in un tempo fino al giorno prima inimmaginabile. «Solo due minuti» dissi entusiasta. «Posso fare anche meglio, ne sono sicuro.» Mi sedetti e lo guardai allenarsi ancora e ancora. Non avevo più dubbi: il ventuno dicembre il numero sarebbe stato pronto e questo solo grazie all’impegno di Matthew. Per cena patate lesse e fagioli. Matthew mangiò solo metà della sua razio-ne, poi chiese di poter portare via la parte che aveva avanzato e Alisha glie-la versò in un pentolino. Si vestì, pronto a sparire di nuovo nella notte lon-dinese. Mi giocavo troppo del mio futuro con quel ragazzo per potermi permettere di perderlo, così quella sera mi misi davanti alla porta impedendogli di u-scire. «Non ti lascio andare via da solo» gli dissi. «Stasera vengo con te.» «Preferirei di no» rispose. «Io mi sto giocando tutto con te» gli dissi. «Ti ho tolto dalla strada, ti ho dato un tetto e da mangiare, non ti basta per fidarti di me?» «Mi hai preso dalla strada perché ti servivo» mi rispose. «E’ vero» replicai. «Ma non ti ho forse accolto nella mia casa come un fi-glio? Non ho condiviso con te la mia vita e il mio lavoro?» «Sì, e te ne sono grato» rispose. «Ti rendi conto che se tu domani non tornassi per me sarebbe la fine? Sen-za di te non lo posso fare quel numero che tu hai tanto decantato al padrone del teatro.» Abbassò lo sguardo. «Allora, dimmi: come faccio io a mettere in gioco tutta la mia vita assieme a te, Matthew Locksmith, se tu continui a non fidarti di me?» «Io mi fido di te» rispose guardandomi negli occhi. «Allora dimostramelo.» Matthew ci pensò alcuni istanti, poi acconsentì. «Va bene» mi disse. «Ti porto con me.»

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Mi vestii in fretta, misi il cappotto pesante e il cappello di feltro. «Stai attento» si raccomandò Alisha. «Non preoccuparti» rispose Matthew. «Bado io a tuo marito.»

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Capitolo 6 Matthew uscì e si allontanò nel buio delle strade male illuminate. Io lo rag-giunsi, gli tesi la mano e lui la prese. Procedeva sicuro, marciapiede dopo marciapiede, come avesse acquisito i sensi di un gatto e vedesse anche al buio. Camminammo a lungo, lui avanti e io dietro, su strade animate da ombre e rumori che mi facevano affrettare il passo e inciampare il fiato in gola, finché non giungemmo sui larghi e puliti marciapiedi di Sloane Street, con i suoi alti palazzi addossati e le sue tante finestre illuminate, gi-rammo poi verso Piccadilly e da lì in Regents Street. Non la percorremmo tutta, giunti circa a metà della strada Matthew fece una deviazione e co-minciò a infilarsi in viuzze secondarie sempre più strette, che sembravano aprirsi tra le case come crepe tra i muri. In breve, nel buio più completo, seguendo Matthew che si muoveva sicuro tra i marciapiedi luridi e scon-nessi, persi l’orientamento e, per paura di perdermi, mi feci come ombra dietro a lui. A un certo punto, mentre percorrevamo un vicolo così stretto da non per-mettere il passaggio di una carrozza, Matthew si fermò, si guardò attorno, ed entrò in un portone aperto. Costeggiammo un’alta casa fino ad arrivare a una siepe di bosso incolta, il ragazzo si piegò sulle ginocchia e sgattaiolò attraverso un buco invisibile per chiunque altro in quell’oscurità. Mi misi anch’io carponi e, senza perdere di vista i suoi piedi, lo seguii e mi ritrovai in uno slargo dove confluivano a raggiera alcune strette vie. Mi rialzai, c’erano rifiuti accatastati un po’ ovunque e un miasma nauseabondo aleg-giava nell’aria come il respiro fetido di una bestia infernale. Al centro della piazza alcuni riscaldavano le mani tese al calore di un pic-colo fuoco, in un silenzio rotto solo dal crepitio della legna umida. Pas-sammo tra quella gente diafana come fantasmi tra i fantasmi. Nessuno si preoccupò di noi, come se il semplice fatto di essere lì ci catalogasse già come relitti della società indegni di qualsiasi attenzione. Matthew, con mio grande disagio, proseguì ancora e continuò ad adden-trarsi tra vie se possibile ancora più strette, buie e maleodoranti. Pensavo ormai ci saremmo fermati solo davanti alla porta dell’inferno, quello che vedevo attorno a me, dopotutto, poteva esserne tranquillamente l’anticamera, invece a un certo punto rallentò il passo e, dopo aver dato un’occhiata furtiva intorno, portò l’indice teso alla bocca facendomi segno di non fiatare.

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Rabbrividii e mi girai temendo che avesse sentito qualcuno giungerci alle spalle. «Seguimi!» sussurrò strattonandomi per la manica della giacca e, agile, sal-tò uno steccato. Lo seguii. Rasentammo una bassa costruzione senza vetri alle finestre, con squarci nell’intonaco che, come ferite profonde, ne mettevano a nudo il vecchio scheletro di pietra. Senza fermarsi si girò verso di me e mi disse sottovoce: «Era la casa dei miei genitori e in questo giardino ci giocavo.» Continuò ad avanzare, fino a raggiungere un angolo dell’ampio spazio re-cintato all’apparenza deserto. C’erano in quel punto delle assi ammassate, il ragazzo cominciò a toglierle e ad appoggiarle a terra. Non capivo il motivo di quel suo strano compor-tamento, ma lo aiutai. Così, poco alla volta, vidi apparire davanti a me una rozza costruzione, fatta con delle tavole inchiodate tenute insieme per vole-re di Dio, che delimitava un piccolo spazio coperto. «Vivo qui adesso» mi disse Matthew sorridente. Poi prese una lampada a olio che era appoggiata a terra e la accese, illumi-nando quell’ammasso di rottami. Scostò una specie di porta ed entrò nella baracca sparendo alla mia vista. Mi abbassai per seguirlo. All’interno la nuda terra era coperta da della paglia, di un colore tendente al marrone, che emanava un fetore terribile. Dei topi squittendo uscirono passandomi tra i piedi; mi ritrassi d’istinto. «Non preoccuparti» mi disse Matthew. «Non ti fanno niente se li lasci sta-re.» Avanzai curvo verso di lui per non toccare con la testa quel tetto basso e notai, nella penombra della flebile luce della lampada, che in un angolo, rattrappito in uno spazio minuscolo, c’era qualcosa che si muoveva. In un primo momento pensai a un gatto o a un altro animale, ma quando Mat-thew si avvicinò illuminandolo capii che si trattava di un piccolo essere umano. Mi avvicinai per vedere meglio, nella speranza di riuscire a distin-guerne i tratti somatici, ma subito quell’essere, emettendo un grugnito, scappò veloce, muovendosi a quattro zampe, fino a nascondersi in un altro angolo buio. «E’ meglio se mi aspetti fuori» mi disse Matthew. «E’ molto impaurita da-gli estranei.» Obbedii e uscii dalla baracca. Mi appoggiai a quello che doveva servire da stipite per la porta e attesi. La curiosità di vedere da vicino quella creatura, che si muoveva e grugniva come un animale, cresceva dentro di me. Cre-devo che mi sarei trovato d’innanzi una specie di mostro, uno scherzo della natura, invece, quando Matthew uscì tenendo in braccio quel piccolo cor-

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picino, capii che non vi era niente di anormale in lei. Era la sua condizione che l’aveva trasformata in un piccolo animale spaventato. «Lei è Milly» disse Matthew scostandole i capelli dal viso sporco, «la mia sorellina.» Poi si sputò sul palmo della mano e cercò di pulirle le guance, come a ren-derla più presentabile. Presi la lampada e la alzai per illuminarle il viso; aveva dei begli occhi, di un colore misto tra il grigio e l’azzurro, e due lab-bra di un rosa scolorito appena visibili su quel magro incarnato grigio per la sporcizia. Allungai una mano per sfiorarla ma lei si ritrasse, avvinghiandosi al collo del fratello, emettendo un suono gutturale simile a un ringhio. Guardai Matthew e lui rispose a quella mia muta domanda: «Non parla più da quando la mamma è morta, fa solo questi strani versi. Il mio nome però lo dice molto bene, vero Milly? Chi sono io?» «Matt» rispose la bambina in maniera quasi incomprensibile. Matthew appoggiò la bambina a terra, poi prese il pentolino con il cibo che aveva avanzato dalla cena e le porse una patata. La bambina la prese con entrambe le mani e la addentò, mangiandola in pochi secondi. Fu una scena orribile. Vederla leccare da quelle mani sudice i rimasugli del cibo mi pro-vocò un profondo senso di schifo e nausea. Quando ebbe finito, Matthew la prese in braccio e spostando l’asse che ser-viva da porta fece per entrare nella baracca. Poi si girò verso di me. «Perché non te ne vai?» mi chiese. «Non ho più niente da mostrarti, mi è rimasta solo lei.» «Non senza di te!» risposi. «Non la posso lasciare, è mia sorella.» «Non ti ho detto di lasciarla. La mia casa è piccola, ma almeno è pulita e calda. E’ inverno ormai e tenerla qui, in queste condizioni, sarebbe come condannarla a morte.» Il ragazzo mi fissò alcuni istanti, la bimba piangeva appoggiata alla sua spalla, poi mi sorrise e passandomi davanti fece strada e io gli tenni dietro. Ripercorremmo all’opposto lo stesso percorso di prima e quando giun-gemmo in Regents Street fummo fortunati a trovare una carrozza libera. Durante il breve viaggio la piccola rimase tra le braccia di Matthew, stretta al suo collo. Ogni tanto si girava verso di me e mi sbirciava, incrociando il mio sorriso, ma subito ritornava a nascondersi stringendosi ancora di più al fratello. Al nostro arrivo trovammo Alisha in ciabatte e paltò che ci aspettava sull’uscio di casa. Mi venne incontro e mi abbracciò, come non mi vedesse da tanto tanto tempo. Quando però notò dietro di me Matthew con quel fa-gotto avvinghiato al collo, mi scostò e tese le braccia per prenderglielo. La bambina dapprima oppose resistenza, poi quando il suo sguardo incontrò

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quello sorridente di mia moglie, come se un’ancestrale istinto la guidasse, si abbandonò mollemente tra le sue braccia. «E’ ghiacciata!» protestò subito Alisha. «Dovevate coprirla meglio prima di portarla via.» «Non avevamo altro» rispose Matthew. «Tutto quello che possediamo lo portiamo addosso.» Alisha rientrò in casa di corsa con Milly in braccio, andò in camera e prese i cuscini dal nostro letto, li adagiò davanti alla stufa dove ardeva un bel fuoco, e vi distese sopra la bambina. Cominciò a ispezionarla con attenzio-ne, le controllò il viso e le orecchie, poi le tolse i calzini e le prese i piedi tra le mani come a riscaldarli. Notò delle piccole cicatrici e subito verificò anche le mani. Si girò verso Matthew e gli mostrò quelle ferite sulla pelle rosea. «Sono dei morsi» disse il ragazzo. «Di che cosa?» «Topi. Ce ne sono tanti nella nostra capanna.» Alisha abbassò lo sguardo, continuando ad accarezzare la bambina. Dopo alcuni minuti si voltò verso di me, si asciugò il viso con la manica della ve-ste e, presa una pentola, mi ordinò: «Va’ a riempirla d’acqua!» Poi si rivolse a Matthew. «Ha mangiato?» «Sì, una delle mie patate.» «Patate! A una bambina così piccola!» bofonchiò. «Vai a prendere la ti-nozza in bagno. La dobbiamo lavare qui in cucina, al caldo.» Matthew obbedì. Alisha mise a scaldare in un pentolino del latte, prese la pentola grande ri-colma d’acqua che le porgevo e la depose sul piano della stufa, poi si avvi-cinò alla piccola. Le scostò i capelli. «Come si chiama?» «Camilla, ma l’abbiamo sempre chiamata Milly» rispose Matthew. «Milly, è un bel nome.» «Era il nome di una dea guerriera» aggiunse il ragazzo. «E tu sei una combattente, vero piccola? Altrimenti non saresti ancora vi-va. E’ stato un angelo a portarti da me.» La bambina sembrava ipnotizzata dal viso di mia moglie. Abbandonata sui cuscini, con le braccia immobili distese lungo il corpo, come fosse un bam-bola di pezza, continuava a seguirla in ogni suo gesto con il solo movimen-to degli occhi, come se un filo invisibile le unisse. Alisha si alzò, controllò con il gomito la temperatura dell’acqua e poi ri-tornò da lei, cominciando a toglierle gli indumenti. Quel corpo, all’apparenza paffuto e rotondo, si assottigliava mano a mano che le veni-

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vano tolti i vestiti. Come a una cipolla a cui vengono scorticati tutti gli strati, così della bambina non restò che un corpicino scarno dove si pote-vano contare le ossa nascoste dalla morbida pelle rosea. «Versa l’acqua!» mi ordinò. Poi adagiò quel piccolo essere tremante nel tiepido liquido e con un pezzo di sapone cominciò a strofinarle leggera la pelle. Mentre la lavava conti-nuava a parlarle sottovoce, rassicurandola e promettendole che mai più sa-rebbe stata sola. Le sciacquò i capelli, li bagnò d’olio, e con un pettine a denti radi cominciò a districarli. Quella massa grigiastra e informe che sembrava incollata alla testa della bambina, a fatica si dipanò in lunghi e setosi ciuffi biondi. Milly allungò una manina e le toccò le labbra e poi gli zigomi, come se stesse cercando con la memoria tattile di riconoscere quel volto. Finito il bagno Alisha la avvolse in un telo e si sedette a tavola dove con un cucchiaino cominciò a centellinarle del latte caldo in quella bocca avida di cibo. Milly, con gli occhi fissi nei suoi, si rilassò completamente lasciando morire penduli gli arti lungo il corpo, come fosse tornata neonata tra le braccia della mamma, e si addormentò. Alisha la portò in camera, nel nostro letto morbido, la adagiò sotto le co-perte e poi rimase lì a guardarla alla luce di una corta candela. Ritornò in cucina quasi un’ora dopo. Aveva un sorriso grande e gli occhi ancora umidi le brillavano. «Dorme» disse sedendosi assieme a noi. «Quanti anni ha?» chiese a Mat-thew. «Tre e mezzo.» «Gli hai fatto tu da mamma, vero?» «Sì! Mamma è morta il dieci ottobre dell’anno scorso, aveva una malattia ai polmoni. Milly era con lei quando è successo. E’ da quel giorno che ha smesso di parlare.» «E come avete fatto a sopravvivere lì fuori, al freddo, per tutto l’inverno?» chiese subito Alisha. «L’inverno scorso avevamo ancora una casa» rispose Matthew. «La mam-ma aveva dei risparmi che era riuscita a mettere da parte facendo la serva alla signora Collins che abita dalla parte opposta della strada. Anche il pa-pà, fino a quando non morì in miniera, mandava sempre dei soldi a casa e mamma non li spendeva mai, diceva che li teneva per tempi peggiori. Do-po che si è ammalata non è più riuscita a lavorare, tossiva di continuo, così aveva chiesto alla signora Collins di badare a noi nel caso fosse morta. Le aveva dato anche tutti i suoi risparmi chiedendo di essere seppellita in una tomba vicina a quella di papà. Quando mamma è morta la signora l’ha fatta buttare in una fossa comune, come quelle che si usano per i barboni e gli assassini, e ci ha lasciato da soli nella nostra casa, senza darci niente da

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mangiare. Siamo rimasti là per tutto l’inverno, ma poi, a primavera, la si-gnora ci ha cacciato dicendo che aveva venduto la casa e così siamo stati costretti ad andarcene.» Si sentì un pianto sommesso provenire dalla camera da letto. Alisha corse da Milly e non ritornò più. Io e Matthew rimanemmo seduti a tavola. «Io non mi sono mai sentito come quei ragazzi che rubano per strada» mi disse. «Io ce li avevo un papà e una mamma e se sono stato costretto a vi-vere come un barbone la colpa è di una sola persona, e quella persona la pagherà, e cara, perché io non dimentico.» Lo disse con una luce gelida negli occhi che quasi mi spaventò. «Adesso non avete più niente da temere» gli dissi. «E’ inutile continuare a pensare a quello che è stato. Devi cercare di dimenticare... » «Tu non lo sai» mi rispose interrompendomi, «ma dormire tra i topi e man-giare i resti della spazzatura ti sviluppa molto la memoria» e così dicendo si alzò dalla sedia e, sistemata la sua coperta davanti alla stufa, si distese a occhi aperti.

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Capitolo 7 La mattina dopo Alisha venne svegliata da una strana sensazione: qualcuno le tirava i capelli. Cominciò a sbraitare, pensando che fossi io a infastidirla, e mi assestò un calcetto alle caviglie svegliandomi. Poi si accorse di Milly, seduta sul letto, che con una mano si teneva il basso ventre. «Oh, eri tu!» disse Alisha appoggiandole un bacio sulla guancia. «Che c’è, ti scappa la pipì?» Milly annuì cercando di spiegarsi nella sua strana lingua fatta di mugolii incomprensibili. «“Sì!” Devi rispondere» disse Alisha. «“Sì!” Prova, dai non è difficile.» La bambina protestò con un una specie di grugnito. «Non ti porto in bagno finché non dici “sì”» replicò Alisha e Milly si mise a piagnucolare. L’idea di vedere il mio letto inondato di urina non mi aggradava proprio, così parlai: «Alisha, proprio adesso devi insegnarle a parlare? Appena sveglia e con la vescica traboccante?» «Ma dovrà pure imparare!» protestò. La guardai torvo, mettendomi seduto. Alisha prese la bambina in braccio e scappò verso il bagno. Guardai l’orologio, non erano ancora le sei, ma ormai ero sveglio così mi alzai. Andai in cucina e trovai Matthew che si allenava con una scopa, te-nendola in equilibrio sul mento. Anche Alisha arrivò con Milly che subito si divincolò dalle braccia di mia moglie per rifugiarsi tra quelle del fratello. Cominciò a parlargli nella sua strana lingua fatta di gesti e suoni incom-prensibili. «Ha fame» disse Matthew. «Te l’ha detto lei?» chiese Alisha. «Sì! Ormai ho imparato a conoscere il suo modo di esprimersi.» «Ma noi no!» disse Alisha. Poi si avvicinò alla bambina, le ravvivò i biondi capelli boccoluti e le dis-se: «Se hai fame devi dirlo. “Ho fame”. Ripeti con me: “Ho fame”» Milly fissò il fratello, come per cercare aiuto. «Guarda me!» le disse Alisha. «“Ho fa-me”» sillabò. La bambina si avvinghiò piagnucolando alle gambe di Matthew.

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«Ma ne sono sicuro, Alisha» intervenne lui. «Quando fa così ha fame!» «Ne sono sicura anch’io, ma non dobbiamo essere noi a imparare la sua lingua, deve essere lei a sforzarsi di parlare come un essere umano.» Matthew si abbassò e guardò la sorellina nei grandi occhi chiari. «Non posso aiutarti, Milly. Devi provare a parlare.» La bambina si lasciò cadere a terra e muovendosi a quattro zampe raggiun-se piangendo l’angolo più distante della stanza e si raggomitolò addosso al muro. Alisha, senza curarsi di lei, mise a scaldare del latte in un pentolino e ci disse di sederci a tavola. La bambina, girata con la faccia verso il muro, continuava a sbirciare verso di noi dal suo angolo. Era una tortura vederla là a terra, implorante cibo. Feci per alzarmi, ma Alisha mi bloccò, facendomi di no con la testa, e io mi risedetti. Non so come facesse mia moglie a resistere, fosse stato per me le avrei da-to da mangiare al suo primo mugolio, però la sua durezza ottenne il risulta-to sperato. La bambina dopo un po’, trascinandosi sulle ginocchia, si avvi-cinò a lei e la tirò per la gonna. Alisha si abbassò. «Dimmi, cosa vuoi?» La bambina fece un segno eloquente portando la mano alla bocca aperta. «“Ho fa-me”» sillabò ancora Alisha. Milly si aggrappò alla sedia e si sforzò di ripetere quel suono. Muoveva le labbra e la lingua in maniera esagerata e disarticolata, come se non avesse mai usato prima quei muscoli, ma alla fine dalla sua bocca uscì qualcosa che assomigliava alla parola magica che le avrebbe procurato il cibo. Ali-sha la prese in braccio, le diede un bacio sulla guancia e la aiutò a bere il latte, imboccandola con un cucchiaio. Io e Matthew rimanemmo lì a guar-darle per un po’, poi le lasciammo sole e ricominciammo l’allenamento. Io osservavo Matthew entrare e uscire dalla pedana, ma ascoltavo qualsiasi suono venisse dalla cucina dove Alisha continuava a parlare a Milly, ripe-tendole all’infinito le parole più semplici che trovava: sì, no, fame, sete, acqua, pane, e mamma, soprattutto mamma. Verso mezzogiorno Matthew interruppe l’allenamento e volle provare a cronometrarsi. Al mio via si contorse attraverso la stretta porticina e sparì dentro la peda-na in un minuto esatto. Gli diedi il segnale per uscire e lui sgattaiolò fuori in meno di quaranta secondi. «Ce l’hai fatta! Un minuto e quaranta, capisci? Solo un minuto e quaran-ta.» Andammo in cucina di corsa per urlare tutta la nostra felicità, ma bastò un “Shhhhh” arrabbiato che smorzò la nostra euforia. Alisha era seduta su una sedia e teneva la bambina in braccio.

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«Sta dormendo» disse sottovoce. «Era molto stanca. Il vostro pranzo è in tavola.» «Matthew ce l’ha fatta!» dissi anch’io sottovoce. «Davvero?! Bravissimo! Ne parliamo dopo, d’accordo? Non voglio sve-gliare la bambina.» «Adesso non ci resta che completare la scenografia» dissi «e avrò bisogno anche del tuo aiuto. Dobbiamo ancora preparare la tenda e tutta la struttura per sostenerla.» «Ok, ma non in questi giorni.» «E quando?» chiesi ancora sottovoce. «Quando Milly starà bene!» disse alzandosi e avviandosi verso la camera da letto. Nei giorni successivi cercai ancora di convincerla ad aiutarmi, ma non ci fu modo di distrarla da Milly, così cominciai a lavorare senza di lei, con il so-lo aiuto di Matthew. Alisha nemmeno veniva a vedere come procedevano i lavori, come non capisse che tutto il nostro futuro dipendeva da quello spettacolo. Si occu-pava tutto il giorno della bambina, la teneva con sé, la coccolava e le par-lava di continuo. La piccola sembrava recepire gli insegnamenti e aggiun-geva giorno dopo giorno qualche nuova parola al suo scarno vocabolario. Mi adattai a cucirmi io stesso la tenda in velluto rosso che avrebbe nasco-sto il nostro segreto. Lavorai anche di notte, ma a due giorni dallo spettaco-lo tutto era pronto. Io e Matthew continuavamo ad allenarci con zelo, almeno cinque ore al giorno, Alisha, con Milly sulle gambe, lavorava sui pezzi di stoffa avanzati e sembrava serena, come non lo era mai stata prima di uno spettacolo, co-me se non le interessasse più niente del nostro lavoro, della nostra arte. La sera prima del grande giorno Alisha ci riunì in cucina e disse radiosa: «Io ho un regalo per voi due. Questo è per te» disse porgendo un fagotto a Matthew, «e questo è per la mia bimba.» Con il velluto rosso avanzato dalla tenda che avevo confezionato, mia mo-glie aveva fatto un vestitino per Milly e un paio di pantaloni e una giacca per Matthew. Alisha vestì la bambina; era bellissima con il suo bell’abitino nuovo. An-che Matthew si mise giacca e pantaloni. Continuava a guardarsi e ad acca-rezzare il morbido tessuto lisciandolo in un senso e nell’altro per vederlo mutare di colore, poi si avvicinò alla finestra e si vide riflesso nel vetro e rimase immobile. Dopo qualche secondo chinò la testa e scappò in bagno, perché lui era un uomo e nessuno doveva vederlo piangere. A letto quella sera, con Milly addormentata tra di noi, Alisha si alzò sui gomiti e mi disse nella penombra di un mozzicone di candela «Vorrei un bambino tutto mio. Mio e tuo, capisci?»

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«Anch’io lo vorrei, ma fino a che non siamo sicuri di poterci esibire con regolarità... e poi lo spettacolo non è ancora perfetto; se vieni a mancare tu… » «Lo spettacolo, sempre lo spettacolo! Possibile che per te sia più importan-te di un figlio?» «Ti sembra così strano che io voglia prima essere sicuro di potergli garanti-re una vita dignitosa?» «La nostra è una vita dignitosa. Se possiamo tenere con noi Matthew e Milly allora possiamo avere anche un figlio tutto nostro.» «Se lo spettacolo andrà bene ne riparleremo, d’accordo?» dissi cercando di troncare il discorso. «Se lo spettacolo andrà bene faremo un figlio tutto nostro» concluse Ali-sha, ponendo fine con un soffio alle sofferenze della candela. Fine anteprima.Continua...