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ArchigraficA 2008 Trasparenza e Illusione Lineamenti dell’architettura moderna delle origini: il contributo dell’espressionismo giacomo ricci

Trasparenza e Illusione

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Archigrafi cA 2008

Trasparenza e IllusioneLineamenti dell’architettura moderna delle origini: il contributo dell’espressionismo

giacomo ricci

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Archigrafi cA paperback

giacomo ricciTrasparenza e Illusionelineamenti dell’architettura moderna delle origini: il contributo dell’espressionismo

Stampato in Italia(c) Copyright 2008 giacomo ricci per Archigrafi cAagosto 2008

edizione in formato ebook for educational purposeCreative Commons licence - con restrizioni

Archigrafi cA, live architecture om the webwww.archigrafi ca.orginfo: [email protected]

edizione per il corso di Progettazione di Sistemi CostruttiviFacoltà di Architettura Università degli Studi “G. D’Annunzio” Chieti-Pescara

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1lineamenti dell’architettura moderna delle origini: il contributo dell’espressionismo

“Il passato reca con sé un indice temporale che lo rimanda alla redenzione. C’è un’intesa segreta fra le generazioni passate e la nostra. Noi siamo stati attesi sulla terra. A noi come ad ogni generazione che ci ha preceduto è stata data in dote una debole forza messianica, su cui il passato ha un diritto”

Walter Benjamin

Tra i tanti svantaggi, uno dei sicuri punti positivi dei periodi di “crisi” è quello della caduta delle ideologie o, perlomeno, di un allentamento della stretta che esse impongono alla coscienza critica. Per quanto riguarda il campo della teoria architettonica, la crisi del “moderno” ha signifi cato, tra l’altro, la messa in discussione di quello schema progressivo-lineare d’interpretazione dei fenomeni architettonici - inaugurato da Nikolaus Pevsner1 - secondo il quale il “movimento moderno”2 era il risultato di un procedimento di accumulazione di conoscenze, teorie, metodi e modelli che, a mano a mano, si sarebbe avvicinato alla meta fi nale, rappresentata dalla perfezione stilistico-compositiva dei “Maestri”. Non che non esistano transiti progressivi all’interno del campo dell’architettura

1 Cfr. Nikolaus PEVSNER, Pioneers of the Modern Mouvement from William Morris to Walter Gro-pius, London, 1936; t.i. di E. Labò, Bologna, s.d. Indicativi, oltre alle argomentazioni specifi che del testo, anche il titolo del libro e quelli dei vari capitoli, tesi proprio a sottolineare l’idea di continuità ed accumulazione (di esperienze, di signifi cato, di capacità progettuale) in vista della meta ultima che è, appunto, il “linguaggio moderno” dell’architettura.

2 Come è stato sottolineato in svariate occasioni e da più autori, il termine “moderno” in generale, e in particolare, la locuzione “movimento moderno” non possono non essere anch’esse considerate formule, etichette linguistiche da manipolare con cautela per le stesse ragioni di cui sopra. In altre parole, come ebbe a suo tempo modo di ricordare Benedetto GRAVAGNUOLO in un suo scritto sull’architettura italiana degli anni settanta (Dal declino degli anni settanta, “Aura”, n.1, 1983, p.9 e ss.) “per ciò che attiene più specifi camente all’attuale dibattito sull’architettura, il termine “mo-derno” va inteso come sinonimo o derivato della teoria del ‘movimento moderno’” e questa teoria non è univocamente determinata. Scorrere i testi più conosciuti ed i manuali più diffusi chiarirà l’esistenza di questo pluralismo di defi nizioni, di questo proliferare di “moderni”, dal citato lavoro di Pevsner alla Storia di Bruno Zevi del ‘50, ai manuali di Benevolo, Ragon, De Fusco, Frampton e Tafuri e Dal Co.

Attualità e continuità della lezione di Bruno Taut e dell’espressionismo tedesco

crisi, ideologie e interpretazioni lineari della storia

Schmidt, Manifesto per l’esposizione del Bauhaus, 1923

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moderna o procedimenti di perfezionamento di schemi, tipologie edilizie e ambiti teorici. Ma - come dire? - l’assieme dei fenomeni è certamente più complicato, articolato e contraddittorio di quanto facciano trasparire interpretazioni come quelle ora ricordate.

Osservata da questo punto di vista la crisi del “moderno” diventa, nel campo della ricostruzione interpretativa dell’architettura, crisi dei modelli dettati dalle varie costruzioni teoriche sul “moderno”. Il risultato più apprezzabile di questa situazione è che, una volta che si abbandoni l’idea di voler per forza incasellare gli avvenimenti nelle maglie obbligate d’uno schema, quelle che sembravano inspiegabili contraddizioni cessano di esistere ed al loro posto emergono risvolti estremamente interessanti che permettono di dare risposta ad interrogativi che erano rimasti sospesi.

Nel vasto assieme di cose non spiegate dalla storia dell’architettura moderna c’era fi no a qualche anno fa3, tra l’altro, quella curiosa vicenda della cosiddetta “architettura dell’espressionismo”, svoltasi in Germania dal 1914 (Congresso del Werkbund di Colonia)4 al 1921 circa, che aveva avuto tra i suoi interpreti principali architetti come Bruno e Max Taut, Walter Gropius, Hans Poelzig, i fratelli Luckhardt, Hermann Finsterlin, Häring, Goesch, Krayl, Bartning, Hablik e tanti altri. Vicenda destinata immancabilmente a passare in secondo piano anche per l’atteggiamento dei suoi stessi promotori, nient’affatto propensi a ricordare un periodo che, alla luce dei principi del successivo “razionalismo”, sembrava dissonante e troppo avvelenato dai fumi “rivoluzionari” che s’alzavano dalle ceneri dell’impero guglielmino del 1918. Valga, per tutti, l’esempio di Gropius che, in occasione dell’esposizione del 1938, tenutasi al Museum of Modern Art di New York - che rappresentava la prima occasione pubblica di bilancio dell’attività svolta dal Bauhaus - il quale, per il tono e i contenuti, tradiva più di un legame con i proclami e gli appelli ai proletari berlinesi, di appena un anno prima, lanciati dall’Arbeitsrat für Kunst (Consiglio del lavoro per l’arte), la principale organizzazione politico-culturale degli espressionisti, della quale lo stesso Gropius, per un breve periodo, fu presidente5.

3 Con l’eccezione di Vittorio GREGOTTI che, nel 1961, scrisse il bel saggio L’architettura dell’ espressionismo, “Casabella”, n. 254.

4 Su questo argomento cfr. Lucius BURCKHARDT, Werkbund - Germania, Austria, Svizzera, Venezia 1977, p.105 e ss. e, inoltre, Il Deutscher Werkbund 1914: cultura, design e società, Firenze 1977, catalogo della mostra a Palazzo Vecchio, Firenze giugno-luglio 1977, con saggi di BORSI e KOENIG. Mi permetto di rimandare anche al mio La cattedrale del futuro. Bruno Taut 1914-1921, Roma 1982, cap.1, Tecnica e signifi cato artistico nel dibattito del 1914, p.55 e ss.; cfr. anche Hermann MUTHESIUS, Die Bedetung des Kunstwerbes, in “Dekorative Kunst”, 1907, X e ancora Marcel FRAN-CISCONO, Walter Gropius and the Creation of Bauhaus in Weimar, University of Illinois, 1971 (t.i. Walter Gropius e la creazione del Bauhaus, Roma, 1975, cap.2); Barba MILLER-LANE, Architecture and Politics in Germany, 1918-1945, Cambridge (t.i. di Teresa Fiori, Roma, 1973).

5 Per il programma del Bauhaus del 1919 cfr. Hans Maria WINGLER, Das Bauhaus, Bramsche, 1962

modelli teorici

espressionismo e architettura

Bayer, Copertina della rivista “Bauhaus”, 1928

Bruno Taut. Tavola dell’ Alpine Architektur, 1916

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Uno straordinario disegno di progetto di Hanz Poelzig per La Sala da concerti di Berlino, dove il protagonista è la luce che inventa lo spazio

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Disegno di Poelzig per lo stesso progetto dove, ora, il protagonista è il suono che inventa lo spazio

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Nonostante l’autocensura, l’architettura espressionista rimane una fondamentale area di sperimentazione di teorie, principi e tecnologie che saranno poi messi a fuoco compiutamente dal “razionalismo”.

Ma, come dicevo, ciò che qui interessa sottolineare è che non tutto quello che era, per così dire, in nuce nelle ricerche condotte dal 1918 al 1921 venne, poi, sviluppato, portato verso un’articolazione esplicita. Molte delle intuizioni presenti in quel lavoro furono accantonate e sottovalutate perché, come appare ormai chiaro, non rientravano in quel complesso gioco di equilibri e compromessi che costituirono il “razionalismo”; lo avrebbero messo in crisi, per così dire, prim’ancora che l’assieme di teorie che lo compongono fosse stato messo a fuoco.

Una lettura attenta e non pregiudiziale di quell’esperienza promette, così, di essere oltremodo interessante. In particolare è proprio l’opera grafi co-letteraria di Bruno Taut a mostrare aspetti di sorprendente attualità.

Lo scopo che qui mi propongo è di ricordare alcuni di questi aspetti, di ripercorrerne il cammino di formazione, di richiamare - qualora esistano - i legami tra questi e il successivo “razionalismo” e di sottolineare, invece, quegli spunti teorici, quelle intuizioni che furono abbandonate e che soltanto oggi, a circa ottant’anni di distanza, acquistano particolare rilievo, in quest’epoca autodefi nitasi “postindustriale” che non sembra più così tanto affascinata dalle conquiste e dal “progresso” della tecnologia e delle macchine.

Perché il discorso risulti chiaro, procederò secondo uno schema interpretativo che utilizza tre concetti-chiave che sembrano essere alla base di quel complesso e turbinoso aggrovigliarsi di proclami “rivoluzionari” e di illusioni che costituiscono il nocciolo centrale dell’ideologia architettonica espressionista. Essi sono l’utopia, la memoria e la tecnologia. Intorno a questi tre termini, credo, ruota sostanzialmente il pensiero “pre-razionalista” di Taut, così com’è possibile coglierlo nei suoi scritti che vanno dal 1916 al 1922 circa. Innanzitutto di quali scritti si tratta? I più importanti, in ordine cronologico, sono: Die Stadtkrone, 1916 (La corona della città); Alpine Architektur, 1916 (Architettura alpina), Die Aufl ösung der Städte, 1919 (La dissoluzione della città); Der Weltbaumeister, 1920 (Il costruttore del mondo); Eine Architekturprogramm, 1919 (Un programma di architettura); gli scritti della Gläserne Kette (La collana di vetro) durante tutto il 1920 e, infi ne, gli articoli e i saggi apparsi sulla rivista “Frühlicht” (luce del mattino). Escludo, naturalmente, gli altri testi che Taut pubblicò dopo il ‘22 perché, com’è facile rendersi conto, già pienamente segnati dall’ideologia

(t.i. di L.Sosio, Milano, 1976, pp. 35-36); per i programmi dell’ Arbeitsrat für Kunst cfr. Ulrich CON-RADS, Programme uns Manifeste zur Architektur des 20 Jahr, Berlin, 1964 (t.i. di L.Berti, Firenze, 1970, pp. 38-39).

limiti del razionalismo

scritti di Bruno Taut

Bruno Taut, Die Stadtkrone, assonometria

Bruno Taut. Die Stadtkrone, planimetria generale

Bruno Taut, Die Stadtkrone, Veduta prospettica

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razionalista e, dunque, con una forte componente di autocensura e di rigetto per tutte quelle caratteristiche proprie di quegli anni “rivoluzionari”6.

L’utopia, dicevo. Molto si è scritto sull’utopia che a volerne soltanto qui rendere conto brevemente signifi cherebbe aprire un capitolo sconfi nato; basterà, allora, ricordare che, per la storiografi a uffi ciale del Movimento Moderno, il termine “utopia”, parlando di Taut e dei suoi compagni, è stato sinonimo di fantasticheria o, comunque, una via di sfogo, per così dire, per l’immaginario frustrato negli anni della Grande Guerra a causa dell’inattività progettuale concreta e dello sconvolgimento della sensibilità travolta dall’enorme massacro collegato al confl itto.

Tutti caratteri, questi, effettivamente presenti in quella storia e nell’uomo Taut che, isolato dal mondo, immaginò, o, meglio, fi nse di por fi ne a quel colossale bagno di sangue con l’intelligenza e la poesia. I disegni dell’ Alpine Architektur7 e, in particolare, L’appello ai popoli d’Europa che in quelle pagine comparve, nel quale si evoca l’ideale di un “socialismo cosmico”, certamente sono costituiti da questi elementi8.

Quando, però, la storiografi a dell’architettura moderna ha utilizzato il termine “utopia” parlando del lavoro di Taut in questo periodo, ha ricalcato, quasi sempre, lo stesso schema teorico che Marx ed Engels applicarono a Charles Fourier: pur ammirandone lo spirito critico e la capacità di pensare in termini alternativi all’esistente, i due fi losofi , però, sono decisamente convinti che ciò che qualifi chi la parola “utopia” sia il fatto che, poi, da questa si passi alla “scienza”: come dire? - dal desiderio alla concretezza, dalla fantasia al reale, dalla poesia all’elaborazione fattiva, dall’arte alla politica. Per Taut si tratterebbe, dunque, di un’utopia che doveva convertirsi alla scienza del “razionalismo”, ai principi di razionalizzazione della Neue Sachlichkeit insomma9.

6 Il Weltbaumeister è in parte tradotto e illustrato in BORSI, KOENIG, op.cit., pp. 246-255. Uno degli scritti della Gläserne Kette più interessanti - progetto di fi lm tratto da Hans Christian AN-DERSEN, Le sovrascarpe della felicità - è tradotto in Manfredo TAFURI, La sfera e il labirinto, Torino, 1980, pp.137-140. Su questo lavoro, in particolare, mi permetto di rimandare al mio Le sovrascar-pe della felicità. Bruno Taut e la città dell’utopia concreta, in Gian Domenico SALOTTI (a cura di), Bruno Taut la fi gura e l’opera, Angeli 1990.

7 Alpine Architektur è tradotto in BORSI, KOENIG, op.cit., pp. 256-272.

8 Cfr. il mio La cattedrale...., cit., p. 105 e ss.

9 Una bibliografi a sul concetto di “utopia” sarebbe, come si può facilmente intuire, sterminata. Mi limiterò, pertanto, qui a suggerire alcune letture in grado di chiarire quello che qui si sostiene. Oltre l’ormai classico studio di Karl MANNHEIM, Ideology and Utopia, New York 1952, cfr., proprio per l’espressionismo e per gli anni di cui sto parlando, il testo fondamentale di Ernst BLOCH, Geist der Utopie, F.a.M. 1919 (t.i. di V.Bertolino e F.Coppellotti, Firenze, 1980). Per un’analisi complessiva del pensiero utopistico blochiano vedi, ancora, “Aut-Aut”, n.173-74, settembre-dicembre 1979 e, in particolare, l’intelligente lavoro di Stefano ZECCHI, Utopia e speranza nel comunismo, Milano,

l’utopia

Bruno Taut, Die Stadtkrone, Vista prospettica da est

Bruno Taut, Alpine Architektur

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Al contrario, ritengo che il termine “utopia” contenga, almeno nel caso che ci riguarda, molto di più che non la sua successiva riduzione a razionalismo. Certo, si tratta, in massima parte, di un miscuglio di fantasticherie, di sogni mescolati ad intuizioni folgoranti, ma abbiamo imparato, con l’aiuto della rifl essione teorica di molti studiosi, che l’ “utopia” è una categoria complessa e che, comunque, con l’immaginario è conveniente, se non, il più delle volte, necessario fare i conti10.

Nel caso dell’ “architettura dell’espressionismo” è ormai chiaro che quell’utopia, più correttamente, deve intendersi come “utopia concreta”, concetto, questo, messo a fuoco da Ernst Bloch nel suo Geist der Utopie del 1919, testo coevo, dunque, proprio alle opere grafi co-visionarie più importanti di Taut. Non starò qui a riprendere una discussione già ampiamente affrontata in altre occasioni; ne ricordo le conclusioni più importanti e che, cioè, non è buona norma raccogliere tutti i prodotti dell’immaginazione sotto l’etichetta di “fantasticherie” o “sogni ad occhi aperti”; va operata, in questa materia, una grossa - anche

1974; cfr., inoltre, G.PIROLA, Religione e utopia concreta, Bari, 1977. Per il concetto di utopia come “immaginario sociale” interessante è il lavoro di B.BACZKO, Lumières de l’utopie, (t.i. di M.Botto e D.Gibelli, Torino, 1974), in part. il cap.1, Immaginazione sociale e rappresentazioni utopiche dell’il-luminismo, p.3 e ss. Un’accorta analisi del signifi cato del lavoro di Baczko è nel bel saggio di Ales-sandro DAL LAGO, Fortezze e labirinti, in “Aut-Aut”, n.186, novembre-dicembre 1981, p.19 e ss.

10 Interessante, a questo proposito, per l’assieme dei metodi esposti e per le angolazioni diverse, il testo curato da Donatella MAZZOLENI, La città e l’immaginario, Roma, 1985, nel quale differenti strategie di analisi partenti da aree disciplinari diverse tentano di misurarsi con il problema dell’im-maginario urbano.

la teoria di Ernst Bloch

Bruno Taut, Alpine Architektur

Bruno Taut Ernst Ludwig Kirchnerautoritratto

Adolph Loos Hermann Muthesius

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Hermann Finsterlin, Casa del futuro Hermann Finsterlin, “giochi di stile”

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se necessariamente schematica - suddivisione in almeno due categorie: da un lato le fantasie irrealizzabili, le chimere costruite a dispetto del mondo concreto e della sua fi sicità, le quali, comunque, come Bachelard - tanto per ricordare uno studioso che si è occupato di queste cose tra i più noti - ha ampiamente posto in evidenza con la sua fenomenologia della rêverie11, vanno lette come “sogni” ed ogni sogno va interpretato come sintomo, come percorso esteriore che riconduce al profondo e, di conseguenza, agli orizzonti di senso, alle richieste, alle paure ed alle attese di un’epoca storica così come essa le lascia trasparire nella fabulazione poetico-narrativa12; dall’altro, le “utopie” concrete, cioè realizzabili; in altri termini i reperti, per così dire, della ragione progettante che, a dispetto di tutti i vincoli - politici, economici, sociali - imposti dalla storia, riesce ad “immaginare”, a prefi gurare conformazioni diverse per l’esistente.

Il lavoro di Taut e dei suoi compagni rientrerebbe in questa seconda categoria del “fantastico”. Se proviamo a rileggere alcuni studi di Taut alla luce di quest’ipotesi raggiungiamo, infatti, dei risultati sorprendenti. Scorriamo di nuovo, per esempio, Die Stadtkrone pubblicato a Jena nel 1916. Come certamente si ricorderà, in questo lavoro, adoperando una felicissima formula che utilizza un testo di lettura molto agevole illustrato da grafi ci estremamente effi caci (astuzia editoriale, questa, che impronterà tutti i suoi lavori successivi) Taut affronta uno dei problemi fondamentali del “moderno”. Analizzando, infatti, i principi fondamentali della composizione urbana che si sono venuti consolidando dai primi modelli di città-giardino costruiti sulla fi ne dell’80013, Taut osserva che le regole seguite nella costruzione di nuovi insediamenti sono, essenzialmente, le seguenti:

• Il tentativo di conciliare la contraddizione città-campagna• Il tentativo di risanare le case di abitazione, di renderle accoglienti,

igienicamente effi cienti e di costi contenuti.• L’integrazione del tessuto residenziale mediante attrezzature per la vita

sociale e collettiva atte a rispondere alle esigenze poste dalla popolazione: scuole, ospedali, ecc.

In una parola, i principi fondativi della città “moderna”, così come s’è venuta confi gurando nelle teorizzazioni degli architetti e realizzando negli esempi realmente costruiti sono tutti di natura funzionale. Scrive Taut:

11 Cfr., in particolare, Gaston BACHELARD, La poétique de la rêverie, Paris 1960 (t.i. di G. Silvestri Stevan, Bari, 1972).

12 Mi permetto di rimandare al mio L’altra parte: un romanzo fantastico di Alfred Kubin, in La città e l’immaginario, cit., p. 49 e ss.

13 Fondamentale per una lettura positiva dell’idea di città-girdino e per una critica radicale dell’uso fattone da Howard è il libro di Carlo DOGLIO, La città giardino, Roma, 1985.

La corona della città

Bruno Taut, padiglione dell’acciaio

Bruno Taut, padiglione del vetro

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“Che immagine ci facciamo dunque della nuova città? Abitazioni salubri, giardini, parchi, belle vie, industrie, negozi, tutto in bell’ordine e con ogni comodità. Poi qua e là una scuola, un edifi cio amministrativo, in stile romantico o classico. Sempre che la comodità, gli agi, la grazia non siano tutto. La visione complessiva si scioglie come neve al sole. Non c’è una testa, questo busto non ha una testa? E’ questa la nostra immagine, questa la nostra creazione spirituale? Osserviamo le città antiche e dobbiamo rassegnarci: noi non abbiamo nessuna base”14.

Di queste parole colpisce, in particolare, quell’affermazione: “la visione complessiva si scioglie come neve al sole”. Dunque Taut mostra di aver compreso - nel 1916, val la pena ripeterlo - che la città “moderna così come emerge dalle ricerche condotte fi no a quel momento, è una città priva di coesione formale, è un tessuto “disordinato” di residenze, attrezzature, strade e verde che non ha disegno leggibile, non presenta una forma risultante da un lavoro architettonico strutturale; “non ha una testa”, non ha cioè uno o più punti gerarchici, dei nodi ordinatori, per così dire, intorno ai quali possa organizzarsi.

Ma come pronunciarsi sull’ordine strutturale della città? Taut non fa fatica a rispondere a queste domande. Si tratta, innanzitutto, di imparare a leggere la struttura urbana come rispecchiamento formale di ordini più ampi e complessivi, dell’ordine sociale, per esempio, e da questi risalire alla visione del mondo, alla “spiritualità” di un’epoca storica.

“La struttura della città antica - prosegue Taut - è la chiara riproduzione della struttura interiore e del pensiero degli uomini. E’ così evidente che attraverso essa noi possiamo capire chiaramente che cosa sentivano gli uomini di allora, a che cosa si sentivano legati spiritualmente esattamente come se avessimo davanti a noi un’architettura dello spirito. Le capanne, le case, i municipi formano insieme, culminando con il duomo o con il tempio, un tutt’uno che si potrebbe defi nire una grande architettura, un’unica costruzione. La coesione è tale da far cogliere, al di là di ogni singola costruzione, tutto ciò che accomuna gli uomini, le abitudini, le gioie, la concezione della vita e insieme tutte le altre arti”15.

Dunque la città antica - anche se Taut fa riferimento in particolare a quella gotica del centro Europa - si percepisce come un’unica costruzione, un manufatto complessivo unitario, equilibrato, “composto” in base a precise relazioni d’ordine tra centro e bordi perimetrali (le mura), tra parte e parte, tra edifi cio e edifi cio. La città antica è, cioè, una struttura, proprio nell’accezione più moderna del termine, dove ogni elemento è relazionato agli altri da leggi interne d’equilibrio e dove ogni spostamento , ogni trasformazione comporta un adeguamento di tutto l’insieme per raggiungere una nuova condizione di equilibrio.

Per sottolineare con ancora maggiore energia questa sua convinzione, Taut

14 Bruno TAUT, Die Stadtkrone, cit., p. 37.

15 Ibidem, p. 33.

grandezza della città antica

Bruno Taut, Il getto d’acqua

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Bruno Taut, Il grande Duomo stellare, in Die Aufl osung der Staedte

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prosegue affermando che “... l’immagine della città antica si percepisce come lo sviluppo di un organismo”16, come un corpo che armonicamente cresce e si sviluppa. Da quest’idea Taut parte per proporre una sua modifi cazione della città “moderna” del funzionalismo; la perduta coesione formale-strutturale può essere riconquistata se si lavora, contemporaneamente, su due fronti: da un lato si riportano, all’interno del costruire, quei principi di composizione formale, di progettazione urbana propri della disciplina architettonica del passato (la proposta di Taut, come si sa, prevede il “coronamento” della città “moderna” con un complesso di edifi ci collettivi i quali, non soltanto sul piano funzionale, ma soprattutto su quello compositivo-strutturale e linguistico-architettonico, siano in grado di assumere il valore che il Duomo o il Palazzo Comunale avevano nella città gotica); dall’altro si procede a riempire un vuoto di signifi cato che l’epoca moderna ha generato nell’immaginario collettivo, atteso il fatto che il concetto di Stato è stato provato di senso, ridotto ad un’astrazione politico amministrativa. Allo Stato inteso in maniera astratta ed impersonale si deve sostituire il concetto di collettività che Taut, con maggior precisione, intende nel suo valore di Comunità (Gemeinschaft)17, la comunità degli uomini liberi che hanno riacquistato il senso del cielo e dello spirito.

Se il primo aspetto di questa strategia intellettuale-progettuale ci mostra un Taut attento analista delle limitazioni dei metodi progettuale dell’architettura moderna e, ripeto, sorprendente anticipatore di un metodo di lettura strutturale della città che soltanto negli anni sessanta-settanta ha visto, in Italia, in una serie di studi approfonditi, concrete possibilità teoriche di avanzamento18, il secondo ci svela, compiutamente l’utopista appassionato ma nient’affatto ingenuo come, al contrario, parte della storiografi a architettonica recente ha sostenuto19.

Taut, infatti, pur proponendo un’utopia, è perfettamente consapevole del fatto che la visione del mondo dell’uomo metropolitano “moderno” è, in qualche maniera, compromessa e che riacquistare la perduta unità interiore e la concordanza con ciò che lo circonda è faccenda estremamente complicata20.

16 Ibidem, p. 35.

17 Taut adopera il termine proprio nel senso assicurato da Tönnies in Gemeinschaft un Gesell-schaft, Leipzig, 1887; (t.i. di G. Giordano, Milano, 1979).

18 Gli studi sul senso della città antica e, dunque, della storia come disciplina “operante”, in grado, cioè, di fornire indicazioni progettuali risalgono, com’è noto, a Saverio MURATORI ed al suo pri-mo lavoro Studi per un’operante storia urbana di Venezia, “Palladio”, fasc. III-IV, luglio-dicembre 1959.

19 Tafuri e Dal Co a più riprese.

20 In ciò Taut è perfettamente inserito nel clima delle avanguardie del primo Novecento ma non ne esalta le tecniche, non s’infervora per i meccanismi che le spingono. In qualche maniera riesce a starne al di fuori come i grandi analisti dell’ “incubo” metropolitano: Simmel, Benjamin, Baudelaire,

Memoria e Sogno

Bruno Taut, Alpine Architektur

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Giungiamo, dunque, a delle prime conclusioni: Taut è certamente un utopista; ma si tratta di un’utopia con i piedi per terra, per così dire: da un lato si svolge in essa un “Sogno” consapevole di essere destinato a rimanere tale, il desiderio di un’unità spirituale perduta; dall’altro rappresenta l’intuizione - certamente geniale per l’epoca - della necessità di una rifondazione teorica del modo di costruire la città contemporanea; un metodo, questo, integralmente desunto da un’attenta ed intelligente analisi della città del passato. E, parlando di “passato”, siamo giunti al secondo parametro di lettura che prima proponevo: la memoria.

Parlare di “memoria” è oggi compromettente; bisogna, dunque, intendersi, dissipare dubbi perché troppo spesso questo termine ricorre nel dibattito architettonico contemporaneo. Ma la “memoria” della quale si parla più diffusamente, a proposito degli architetti contemporanei, è sinonimo di “nostalgia”. Quella che pervade i progetti di Aldo Rossi, per esempio, è - come ha scritto Manfredo Tafuri - erede dell’ “autobiografi smo straripante della cultura italiana degli anni cinquanta; ma all’opulenza della affabulazioni di Gadda essa preferisce un’arcaica silenziosità”21.

Un silenzio antico che è come girare intorno ad un unico grumo di signifi cato il quale, però, caparbiamente si cela, “frustrando costantemente” il desiderio di rintracciare un’essenza originaria. Si tratta, dunque, d’una memoria che è sentimento del “tempo perduto”, poetica proustiana, del déja vu. E questo non è il signifi cato della memoria che compare nell’utopia di Taut: troppo battagliero e “ispirato” da sacro furore riformatore per accontentarsi ed esaurirsi nella contemplazione di ciò che non ritorna, del gioco di ombre proiettate, di sera, dalla lampada sulle pareti semibuie della camera del viandante del tempo perduto. La memoria cui Taut si riferisce quando analizza la città antica è attiva. L’autore della Stadtkrone, inseguendola, cerca nel passato quegli elementi che, congelati dalla storia, non hanno ancora avuto modo di manifestarsi; cerca quella struttura dello spazio urbano che è referente, sul piano del linguaggio architettonico, di un ordine sociale ed umano che, si deve sperare, riemergerà dal fondo.

In questo senso l’utopia cui Taut e i suoi compagni fanno riferimento è, per così dire, “messianica” proprio come suggeriscono le parole di Benjamin che introducono queste note; essa, dunque, pretende un grande sovvertimento dei costumi degli uomini. Il parallelo con Benjamin appare, di conseguenza, calzante se è vero quello che

Poe ecc. Cfr. La cattedrale..., cit.

21 Manfredo TAFURI, Storia dell’architettura italiana 1944-85, Torino, 1986, p. 169.

le utopie messianiche di Walter Benjamin

Gustav Klimt, Giuditta

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George Geotz Grossstadt

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ha scritto Remo Bodei:

“Benjamin stabilisce una parentela di passato remoto e di futuro messianico, di arcaico e di novissimum. L’arcaico, il dimenticato, è imprigionato in noi. E’ sempre presente, immutato, irrigidito nel singolo e nella collettività. Uno choc o la rottura di una tradizione lo fanno risorgere, lo riportano alla luce”22.

La memoria benjaminiana ed il suo disperdersi nei meandri dimenticati del passato, imparando a smarrirsi in esso come “ci si smarrisce in una foresta”23, è un’estrema astuzia della ragione, una nuova defi nizione per la ragione stessa che si fa labirintica, “porosa”24 e che, in questo modo, riesce a portare alla luce ciò che la storia ha costretto nel profondo; essa fa riemergere ciò che sarebbe potuto accadere ma che non è accaduto ed attende ancora di verifi carsi.

Della città antica Taut, con lo stesso furore “messianico”, vuole recuperare quell’ordine perduto che è rispecchiamento d’un più grande ordine spirituale. Certo, si tratta d’un’utopia. Ma è un’utopia fondata su una memoria che critica la superfi cialità del “moderno” quando questo accantona qualsiasi valore che non sia immediatamente coniugabile con il “progresso” industriale.

La memoria che anima Taut a leggere il passato non è, dunque, “postmoderna”, nel senso piuttosto sciatto e banale che questa parola acquista nelle recenti divagazioni “teoriche” di qualche architetto. Non si tratta, insomma, di guardare al passato come un inerte ed insignifi cante contenitore di quella sorta di “spazzatura” della storia costituita da stilemi formali, tronconi insignifi canti di linguaggi in disuso dallo splendore irrimediabilmente perduto, reclamando la “libertà” di utilizzarli come si vuole, inseguendo soltanto i capricci del gusto e della moda.

Questi fraintendimenti, come è stato più volte scritto25, sono conseguenza d’un modo del tutto superfi ciale ed improvvisato di leggere il “tragico” e le

22 Remo BODEI, Le malattie della tradizione, “Aut-Aut”, 1982, nn. 189-90, p. 166. Cfr., per questo tema, anche il cap. 3 del testo di Franco RELLA, Il silenzio e le parole, il pensiero nel tempo della crisi, Milano, 1981, dedicato al pensiero di Benjamin, in particolare a proposito del senso del pas-sato di cui qui si discute e della differenza con Proust, pp. 138-155.

23 Cfr. Walter BENJAMIN, Infanzia berlinese, F.a.M., 1950, t.i. di M.Bertolini Peruzzi, Torino, 1973, p. 9.

24 Il termine usato è di Rella nel suo bel saggio I sentieri del possibile, “Casabella”, n. 486 e ri-guarda una sua tesi affascinante. Non si tratta più di inseguire i dettami della ragione classica, ma, al contrario, di inventare nuove strategie di pensiero che riconducono al passato; sistema, questo, messo compiutamente a punto dalla poesia piuttosto che dalla fi losofi a.

25 Manfredo TAFURI, op.cit., cfr. cap. IV, pp. 230-234.

il mito dell’Eterno Ritorno Odilon Redon, Una maschera che suona a morto (dedi-

cato a E.A. Poe) 1885

Alfred Kubin, E’ inutile ribellarsi

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sue manifestazioni nella crisi del “moderno”; così, tanto per fare degli esempi, le acute rifl essioni di Lyotard, il suo raffi nato dissertare sui giochi linguistici che s’imbastiscono nel discorso scientifi co e in quello narrativo del sapere contemporaneo sono banalizzati; Nietzsche con la sua fi losofi a è ridotto a “canzone da organetto” cantata “dagli animali amici di Zarathustra” e l ‘“Eterno ritorno” si trasforma nei cicli della moda e del costume; l’esistenzialismo di Heidegger, il suo tormentato peregrinare in quella terra di frontiera che si stende tra la fi losofi a e la poesia alla ricerca del “luogo” (Erörterung) inteso come condizione complessiva, “dimora” nella quale riposa il signifi cato delle cose, viene proditoriamente e sconsideratamente ridotto ad una sorta di sciocca pseudomanualistica ambiental-percettiva nella quale, così come i frammenti stilistici presi dal passato convergono nel defi nire le facciate-pastiche del “progetto architettonico postmoderno”, si assommano monconi di pensiero e frasi alla rinfusa di Piaget, Merleau-Ponty, Bachelard ed altri i quali, si sostiene, “appartengono tutti alla corrente di Heidegger”26.E, tornando a Taut, nulla di ciò appare, nessun compiacimento formale nel suo lavoro. L’operazione da lui eseguita è effettivamente drammatica; essa apre un varco nell’ideologia “forte” del “moderno” in architettura e ne mostra gli aspetti contraddittori; ma, soprattutto, sottolinea, sul piano della prassi consueta del progetto se non l’impossibilità di fare riferimento ad un modello di città strutturalmente equilibrato, certamente le enormi diffi coltà che si presentano a chi s’avventuri in questa direzione di ricerca senza porsi domande intorno alla condizione dell’uomo moderno. E questi interrogativi, come abbiamo visto, aprono il campo all’utopia.

L’aver sottolineato questi aspetti del pensiero di Taut ci è servito, tra l’altro, ad esprimere forti riserve, come dicevo, nei riguardi di quelle interpretazioni storiografi che baste su di uno schema lineare di “progresso-accumulazione” ed a portare alla luce alcune delle più vistose contraddizioni che sono disseminate lungo il cammino della ricerca architettonica contemporanea.C’è ancora qualcosa da ricordare a proposito di “memoria”.

Essa, nel caso dell’architettura dell’espressionismo, prende la forma di un accentuato interesse per il gotico; non soltanto, come abbiamo visto, per la città gotico-mercantile ma anche per altri aspetti che caratterizzano quest’epoca storica. Viene esaltato, ad esempio, il valore del lavoro “collettivo” e il signifi cato dell’ Arbeitgemainschaft (la comunità del lavoro) che si costruisce nel cantiere

26 Cfr. LYOTARD, La condition postmoderne, Paris, 1979, t.i. di C. Formenti, Milano, 1981; Manfre-do TAFURI, op.cit., pp. 233-34; Martin HEIDEGGER, Unterwegs zur Sprache, Pfullingen, 1959 (t.i. di A. Caracciolo, Milano, 1979); cfr., in part., Il linguaggio, p.27 e ss. e, soprattutto, Il linguaggio nella poesia, p.45 e ss. e, infi ne, C. NORBERG-SCHULZ, Esistenza, spazio e architettura, Roma, 1975, p. 23.

la cattedrale del futuro

Carlo Carrà, Pino sul mare

F.L. Wright, Falling Water

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Munch, Il vampiro

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in costruzione della cattedrale gotica27; nei gruppi di lavoro di artigiani - lapicidi, intagliatori, carpentieri, ecc. - infatti (dato il lungo tempo necessario alla realizzazione dell’opera, le particolari condizioni di lavoro, l’affi atamento indispensabile ad edifi care un unico, grandioso manufatto pregnante di signifi cato simbolico-religioso) si veniva a creare un modo di vedere il mondo unitario, nel quale gli uomini fi nivano per avere le stesse aspirazioni, gli stessi obbiettivi, lo stesso modo di sentire la vita.

Questo spirito vagamente collettivistico viene, per così dire, enfatizzato e caricato di valori ideologici nella lettura che l’espressionismo esegue del gotico e viene condensato in un unico simbolo omnicomprensivo, un’opera d’arte totale (Gesamtkunstwerk), la cattedrale del futuro (Zukunftskathedrale), la “casa del popolo”, il cuore della società futura dove, con il lavoro liberato, si potranno ristabilire le vecchie leggi di equilibrio e, dunque, l’antico splendore strutturale e formale della città degli uomini.Del gotico si esalta, inoltre, il valore dei colori e della luce, la sua verticalità che lo collega al cielo. Ha scritto Ernst Bloch:

“La volontà gotica di trasfi gurare tutto lo spazio interno smaterializza ogni massa nella pienezza della sua tendenza ascensionale: in essa trovano spazio dipinti su legno carichi di appassionata tensione; tra le foglie rampanti e sui capitelli v’è un rigoglio di reticoli e lacci, opera di straordinari maestri dello scalpello che suddividono le ardenti fi nestre con trafori ornamentali e rosoni. Ci sono curvature non volte vere e proprie: nella navata centrale, nella profondità del coro, ovunque, il pathos dinamico imprime la propria spinta ascensionale”28.

E, al di là del tono “visionario” di Bloch - che s’inquadra precisamente nell’ esaltazione che l’espressionismo compie del gotico - questa “forza ascensionale” è collegata alla luce, al tema della trasparenza delle vetrate policrome attraverso le quali essa passa, creando, all’interno della costruzione, un’atmosfera irreale. Parlando di luce, di colori e di vetro siamo giunti al terzo parametro di lettura che ho proposto: la tecnologia.

Nei riguardi della tecnologia l’architettura dell’espressionismo ha un atteggiamento apparentemente deciso, di rifi uto; ma, in realtà, come vedremo tra poco, estremamente ambiguo e contraddittorio. Ciò che colpisce, infatti, ad una prima analisi non approfondita, è il rifi uto della tecnologie e del progresso che caratterizza l’espressionismo nel suo complesso, come movimento di idee e di sperimentazione nei vari campi disciplinari, non soltanto in quello dell’architettura. E’ noto, per esempio, come uno dei temi cari alla letteratura espressionista sia quello del mondo futuro completamente vittima della

27 Sul valore dell’Arbeitgemeinschaft in Taut cfr. Francesco DAL CO, Bruno Taut, l’utopia e la spe-ranza, “Casabella”, n. 460, luglio-agosto 1980.

28 Ernst BLOCH, Geist der Utopie, cit., p. 24 e ss.

potenza del gotico

standardizzazionePeter Behrens, Casa Behrens, prospetto

Peter Behrens e la moglie

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Ensor, Ingresso di Gesucristo a Bruxelles

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tecnica e degli automi; l’uomo si trasforma, quasi sempre, nell’immaginario espressionista, in una caricatura di se stesso, in marionetta-robot, vittima di complicati e tirannici meccanismi che controllano la vita.

Questo generale rifi uto del mondo della tecnologia ha un suo preciso rifl esso all’interno del dibattito architettonico di quel periodo. Basta pensare allo scontro che avvenne nel 1914, in occasione del Congresso del Werkbund di Colonia, tra i sostenitori delle tesi di Muthesius e quelli di van de Velde per rendersene conto29; da un lato la teoria della necessità della razionalizzazione della produzione artigianale-architetonica e, dall’altro, la dichiarazione di indisponibilità a rinunciare all’arte, all’espressione, alla libertà della creazione. Un confl itto che ha un’importanza fondamentale perché elemento scatenante della polemica fu proprio quella Tipysierung (standardizzazione) proposta da Muthesius ai fi ni di conciliare tra loro metodi della produzione industriale e forma dell’oggetto d’uso. Problema, questo, che costituisce una specie di preludio a quelli che si porranno successivamente e che hanno il nome di “serialità” e “normalizzazione” e che sono propedeutici a ricerche più complesse come quelle intorno all’Existenzminimum.

In realtà questo fronte compatto opposto dagli architetti contro l’avanzamento tecnologico sembra andare in frantumi non appena si vada a scavare un po’ al di sotto delle apparenze e si vadano ad analizzare, ad esempio, concetti come quello di Glasarchitektur (architettura del vetro). Tracciamone brevemente la storia. Il termine appare per la prima volta come titolo di un libro scritto da Paul Scheerbart nel 1914 per le edizioni della rivista “Der Sturm” di Herwarth Walden e dedicato a Bruno Taut30. Scheerbart è ormai personaggio noto alla cultura italiana per esimerci di parlarne diffusamente in questa sede. Ricorderò, dunque, soltanto che fu uno stravagante letterato-sognatore, animo sensibile, pacifi sta, amato da tutti gli artisti che gli furono vicini, come Kokoschka, Strindberg, Munch, Knut Hamsun, per citare alcuni tra i più conosciuti. Scheerbart è stato defi nito, non a caso, il “poeta degli architetti”. Nelle sue visioni di un mondo completamente pacifi cato prende corpo l’utopia di Taut e degli altri. E, per tornare al nostro argomento, ingrediente fondamentale di quest’utopia è il vetro (Glas) che dovrà sostituire, dicono gli architetti, con la sua purezza e trasparenza, la muratura tradizionale, spessa ed incomunicante.

Scorrere le pagine del testo Glasarchitektur è certamente utile per comprendere il valore etico che viene attribuito a questo materiale, il suo porsi come simbolo di un’umanità liberata dai sentimenti del possesso e dell’egoismo. Chi bene ha posto in luce il signifi cato metaforico che questo materiale acquista nella

29 Cfr. Ulrich CONRADS, op.cit., p. 24 e ss.

30 Paul SCHEERBART, Glasarchitektur, Berlin, 1914, t.i. di M. Fabbri, Milano, 1982.

architettura del vetro Oscar Kokoschka, Ritratto di Paul Scheerbart

Paul Scheerbart, Copertina di Rakkok il Bilionario

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poetica espressionista è stato proprio Walter Benjamin. Nel suo bellissimo saggio Erfahrung und Armut (Esperienza e miseria) del 193331, Benjamin ha raccolto, infatti, le sue tesi sul signifi cato che l’avanguardia “eroica” d’inizio secolo in Germania ha costruito, sui contributi che questa ha fornito alla costituzione dello spirito che anima l’epoca nuova. La nuova epoca, per Benjamin, ha rotto i ponti con il passato e il caotico sovrapporsi di linguaggi, fonemi e simboli, propri dell’eclettismo, non ha più signifi cato alcuno, rappresenta una “falsa ricchezza”.

A questa Babele di signifi canti l’avanguardia ha contrapposto una radicale tabula rasa, un azzeramento linguistico, una “povertà” d’esperienza paragonabile ad una nuova barbarie.

“Barbarie? - scrive Benjamin - Proprio così. Diciamo questo per introdurre un nuovo, positivo concetto di barbarie. A cosa mai è indotto il barbaro dalla povertà di esperienza? E’ indotto a ricominciare da capo; a iniziare dal nuovo; a farcela con il Poco; a costruire a partire dal Poco, e inoltre a non guardare né a destra né a sinistra. Tra i grandi creatori ci sono sempre stati gli implacabili, che prima facevano piazza pulita”32.

Tra questi implacabili che Benjamin elenca - Loos, Klee, Brecht - fi gura anche Scheerbart, il poeta del vetro, perché, proprio con la poetica del vetro, ha azzerato ogni volgarità che era insita nella costruzione architettonica.

“Le case di vetro - prosegue - non hanno ‘aura’. Il vetro è soprattutto il nemico del segreto. E’ anche il nemico del possesso”33.

E’ dunque un signifi cato rivoluzionario quello che Benjamin legge in quanto Scheerbart ha proposto. Il vetro di cui parla l’autore di Glasarchitektur e l’acciaio del Bauhaus, egli conclude, hanno saldato i conti con il passato e aperto prospettive verso il futuro. E questa è una conclusione che fa rifl ettere. Ricacciato dalla polemica del Congresso di Colonia, il rapporto tra arte ed industria rientra, sotto forma di tecnologia “forte” con chiarezza nel linguaggio dell’architettura espressionista, confi gurandone, dunque, la successiva razionalizzazione produttiva. E’ sintomatico, d’altro canto, che le prime due opere di architettura espressionista, progettate da Taut, siano due padiglioni di esposizione, dunque di propaganda: il primo all’esposizione della Costruzione, tenutasi a Lipsia nel 1913, fu eseguito per mettere in luce le proprietà dell’acciaio e le capacità dell’industria siderurgica tedesca; il secondo, all’Esposizione di Colonia del 1914, per esaltare le proprietà del vetro e l’effi cienza dell’industria vetraria.

31 Walter BENJAMIN, Erfahrung und Armut, t.i. di F. Desideri, in “Metaphorein”, n.3, marzo-giugno 1978, p.12 e ss.

32 Walter BENJAMIN, op.cit., p. 13.

33 Ibidem, pp. 14-15.

Loos, Klee, Brecht, gli “implacabili”

Victor Horta, Casa Tassel

Paul Scheerbart, Rakkok il bilionario

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Queste contraddizioni sono, dunque, poco chiare se, come ho sottolineato più volte, ci si attiene a schemi interpretativi cumulativi, per così dire; ma, al contrario, ponendosi da altri punti di vista, sono estremamente utili per farci comprendere, ad esempio, che non è consentito - almeno nel caso dell’architettura moderna - stabilire strette corrispondenze tra il piano delle ideologie, quello dei signifi cati metaforici e quello stilistico-formale. E’ vero, al contrario - anche se può sembrare un paradosso - che i linguaggi architettonici sono, per così dire, intercambiabili, come le ideologie, come le tipologie. Questo spiega come il vetro assuma un signifi cato “avanzato” per Benjamin e Scheerbart ma, poi, fi nisce per essere uno status symbol dell’America produttiva e capitalista nelle opere tarde di Mies; spiega come Taut sia “visionario” nel 1919 e non più nel ‘23; come Gropius all’inizio del ‘19 militi nelle fi le dell’ Arbeitsrat für Kunst e, poi, nel novembre dello stesso anno, inauguri i corsi del Bauhaus; come il concetto di Tipysierung sia inizialmente inviso agli architetti e, poi, rientri come discorso forte - non soltanto sul piano funzionale ma anche, e soprattutto, su quello della strutturazione formale nel processo produttivo dell’edilizia residenziale - nell’architettura moderna.

Questo spiega, dunque, perché i ragionamenti lineari non funzionano a proposito di episodi come il periodo “utopistico” di Taut. Perché se si ragiona in base all’evoluzione del linguaggio architettonico si è portati a sminuire il periodo dell’utopia rispetto a quello costruttivo successivo, perdendo di vista importantissime rifl essioni di Taut che, come s’è visto, ancor oggi mostrano la loro piena validità; se si ragiona in base all’ideologia si è indotti a sminuire la portata del “razionalismo” che sembra una razionalizzazione dell’esistente e, dunque, in qualche maniera un tradimento dello spirito rivoluzionario iniziale; se si rimane, infi ne, sul piano delle tipologie si fi nisce per fraintendere i signifi cati della “serialità” e della “produzione industriale”, trascurando un’infi nità di osservazioni sul signifi cato profondo - legato ai modelli tradizionali della casa, alla sua struttura antropologica, per intenderci - che la cellula ripetitiva, costruita secondo i dettami dell’ Existenzminimum, ha defi nitivamente perduto34.

Come ho già sostenuto altrove, nel Taut degli anni venti esiste piena consapevolezza di questi problemi dell’esasperazione tecnica e della serialità. Il legame con Heinrich Tessenow e la negazione di quella “tecnica bum-bum” è un argomento che Taut autore di Bauen35 esplicitamente tratta, dichiarandosi a favore di quell’edilizia contadina spontanea ed “onesta”, senza pretese ma estremamente dignitosa sul piano formale se paragonata a tante costruzioni “moderne” in cui la “funzionalità” sembra aver preso il sopravvento. E queste osservazioni preludono, poi, a quell’altro argomento - oggi del tutto rimosso in

34 Mi permetto di rimandare al mio Casa, dolce casa, teorie e poetiche dell’abitazione moderna, clean, Napoli, 1988.

35 Bruno TAUT, op.cit.

Existenzminimum

Heinrich Tessenow, Progetto di una casa padronale

Heinrich Tessenow

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quasi tutti i progetti di edilizia pubblica che si rifanno alle esperienze tra le due guerre in Europa - tutto ancora da scoprire, dell’edilizia fondata sul modello di casa unifamiliare o, al più, di casette accoppiate a schiera, tanto immerse nel verde da richiamare vagamente l’idea di città-giardino36.

In conclusione questa lettura, certamente non approfondita come si conveniva data l’importanza dell’argomento, dell’opera di Taut del cosiddetto “periodo espressionista”, ci mostra un campo disseminato di contraddizioni ma anche molto più articolato e complesso di quanto si potesse credere. Pare, anzi, che il “moderno” non sia affatto tramontato; le contraddizioni di allora sono quelle di oggi; solo che, forse, cominciamo ad averne più consapevolezza. Le questioni aperte, che attendono risposta, sono le stesse. Ciò che è tramontato, defi nitivamente, è quell’ottimismo un po’ sciocco e furfante risposto in ogni progresso positivistico. E questo non può essere che un dato positivo dal quale partire per ogni rifondazione disciplinare.

36 Cfr. Carlo DOGLIO. op.cit.

Ernst Ludwig Kirchner, Donna allo specchio