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Materiali di Etnoantropologia Collana dei corsi di laurea in Teorie e pratiche dell’antropologia e in Discipline Etnoantropologiche 6 A11 56

Materiali di Etnoantropologia - Aracne · La presente raccolta di scritti è stata selezionata e organizzata, nell’ambito delle attività didattiche del modulo “Antropologia visiva”

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Materiali di Etnoantropologia

Collana dei corsi di laureain Teorie e pratiche dell’antropologiae in Discipline Etnoantropologiche

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A1156

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Bateson & Mead e la fotografia

a cura diAntonello Ricci

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Copyright © MMVIARACNE editrice S.r.l.

[email protected]

via Raffaele Garofalo, 133 A/B00173 Roma

(06) 93781065

ISBN 88–548–0581–5I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,

di riproduzione e di adattamento anche parziale,con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.

Non sono assolutamente consentite le fotocopiesenza il permesso scritto dell’Editore.

I edizione: maggio 2006

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Indice Presentazione ............................................................ 7 1. Immagini e forme di vita.

Fotografia e cinema nelle ricerche di Gregory Bateson e Margaret Mead Antonello Ricci ......................................................... 9 2. L’antropologia visiva in una disciplina di parole Margaret Mead ........................................................ 49 3. Margaret Mead and Gregory Bateson on the Use of the Camera in Anthropology ............. 61 4. Balinese Character: 20 tavole fotografiche .............................................. 69

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Presentazione La presente raccolta di scritti è stata selezionata e organizzata, nell’ambito delle attività didattiche del modulo “Antropologia visiva” dell’anno accademico 2005-2006, per gli studenti del corso di laurea specialistica in Discipline Etnoantropologiche. Si tratta di materiali inerenti l’aspetto monografico del modulo, sui quali si è ampiamente discusso durante il corso delle lezioni. Il tema riguarda una prospettiva di ricerca, sulla quale sono im-pegnato da qualche anno, relativa all’uso del mezzo fotografico e della fotografia nel lavoro sul campo, da parte di autori “clas-sici” dell’antropologia culturale come Malinowski, Boas, Lévi-Strauss, Bateson, Mead ecc. Questa seconda raccolta che esce dopo un analogo lavoro su Malinowski, è incentrata sulla pio-nieristica e mai superata ricerca di antropologia visiva che Gre-gory Bateson e Margaret Mead realizzarono a Bali e in altri luoghi del Pacifico meridionale. È unanimamente condivisa l’opinione che gli esiti di quella ricerca, in particolare il volume Balinese Character e la serie cinematografica “Character For-mation in Different Cultures”, siano tra le prime vere realizza-zioni di antropologia visiva.

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Un ringraziamento particolare vorrei esprimere agli studenti del modulo di Antropologia visiva per il vivo e stimolante interesse dimostrato per il tema del corso mediante continui e vivaci dia-loghi.

Antonello Ricci Roma, aprile 2006

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Le fonti

Margaret Mead, L’antropologia visiva in una disciplina di pa-role, “La ricerca folklorica”, 2, ottobre 1980, pp. 95-98.

Margaret Mead and Gregory Bateson on the Use of the Camera in Anthropology, estratto da For God’s Sake, Margaret, conver-sation between Stewart Brand, Gregory Bateson and Margaret Mead, “CoEvolutionary Quarterly”, 10, June 1976, pp. 32-44.

Gregory Bateson and Margaret Mead, Balinese Character. A Photographic Analysis, New York, Special Publications of the New York Academy of Sciences, 1942 (alcune tavole fotografi-che).

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1. Immagini e forme di vita. Fotografia e cinema nelle ricerche

di Gregory Bateson e Margaret Mead

Antonello Ricci Introduzione

Gregory Bateson e Margaret Mead si conobbero in Papua Nuova Guinea, nel 1932, nel corso dei loro rispettivi soggiorni di ricerca sul campo. In particolare Bateson stava conducendo uno dei periodi di rilevamento presso la popolazione di lingua iatmul1 che vive lungo il corso del fiume Sepik, uno dei mag-giori corsi d’acqua di Papua Nuova Guinea che ne definisce anche una regione, mentre Mead era arrivata nella stessa zona con Reo Fortune, antropologo inglese, con l’intento di iniziare un nuovo campo di ricerca dopo il lungo periodo di rilevamenti

1 Sulla base di quei rilevamenti Gregory Bateson realizzò la sua nota mono-grafia Naven. Un rituale di travestimento in Nuova Guinea, Torino, Einaudi, 1988.

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trascorso fra gli Arapesh e i Mundugumor.2 Margaret Mead e Reo Fortune a quell’epoca erano moglie e marito.

L’incontro sul terreno di ricerca di Gregory Bateson e Mar-garet Mead diede luogo a un’intesa intellettuale che durò per molti anni a seguire, fornendo ai due studiosi la possibilità di sperimentare un metodo di indagine sul campo di rilevante effi-cacia scientifica in quanto ai risultati che essi riuscirono a otte-nere. Altresì si determinò tra i due un legame sentimentale che contribuì a stimolare ulteriormente l’intesa intellettuale, dando luogo a una delle avventure umane e intellettuali tra le più affa-scinanti e foriere di aperture di orizzonti della storia dell’antropologia.

Come viene più volte riportato, tanto da apparire come una sorta di momento iniziatico avvenuto in un luogo altrettanto iniziatico, l’incontro fra i due antropologi ebbe luogo sulle rive del fiume Sepik, nel periodo di Natale del 1932. L’avvenimento viene così descritto da Margaret Mead:

Nel pomeriggio, la lancia approdò a Kankanamun, il villaggio iatmul dove lavorava Gregory Bateson. Salimmo nella sua bizzarra stanza con un albero che cresceva attraverso il tetto, in modo tale che il suo gatto - e naturalmente le zanzare - potevano andare e venire come vo-levano. Le lunghe ore sotto il cielo smagliante lungo il fiume erano state estenuanti. Dopo i primi saluti, come entrammo, Gregory mi guardò e disse: ‘Lei è stanca’, e tirò fuori una sedia. Mi ci abbandonai rendendomi conto che quelle erano le prime parole gentili che udivo da qualcuno in tutti i mesi passati fra i Mundugumor.3

2 I rilevamenti fra le due popolazioni della Papua Nuova Guinea vi avevano fatto emergere una contrapposizione molto netta riguardo al ruolo dei due sessi, una sorta di modello univoco di plasmazione culturale di genere, in senso pacifico o in senso aggressivo. Per cogliere una diversa prospettiva e poter avere dati di confronto Mead e Fortune decidono di cercare un’altra popolazione da studiare, individuando i Ciambuli sul lago Chambri nel bacino del fiume Sepik. Cfr. M. Mead, Sesso e temperamento, Milano, Il Saggiatore, 1994, pp. 255-254. 3 M. Mead, L’inverno delle more. La parabola della mia vita, Milano, Mon-dadori, 1977, p. 245.

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Ambedue erano al corrente dei lavori dell’altro e dei percorsi di ricerca vicendevolmente intrapresi. Da quello che si intuisce dai resoconti di Margaret Mead, l’intesa fra i due deve essere stata immediata, un vero colpo di fulmine intellettuale e senti-mentale che diede luogo a un rapporto così intimo da escludere subito completamente il “terzo incomodo”, Reo Fortune:

Due giorni dopo Natale, Gregory ci condusse a vedere i Washkuk, uno dei popoli che ci erano stati raccomandati per il nostro successivo viaggio di ricerche. La sua grande canoa con motore fuoribordo - un motore che le popolazioni del Sepik ricordano ancora con nostalgia - era stata rimorchiata dalla lancia e ora noi tre partimmo. La prima not-te dormimmo nella casa degli ospiti di un villaggio che ribolliva di frenetica eccitazione. La gente gridava - e noi non sapemmo mai se fosse vero o no - che da un momento all'altro si aspettava una razzia e temevano per la loro sicurezza e per la nostra. Sebbene parlassero una versione alto-Sepik dello iatmul, riuscirono a capire Gregory e così egli si sedette fuori nella ‘plaza’ a parlare con loro, mentre Reo con-trollava la scena, la rivoltella in pugno, dall'interno della casa degli ospiti. Quella notte tenemmo accesa la lampada e dormimmo a turno sdraiati sul pavimento della nostra improvvisata camera-zanzariera. Non si verificò nessun attacco, ma a un certo momento Reo si svegliò e udì Gregory e me che parlavamo. Ci sarebbe molto da dire a soste-gno dell’ipotesi che la vera situazione edipica non è costituita dalla scena originaria ma piuttosto dal sentire i genitori che parlano fra loro usando parole che il bambino non capisce. E Gregory e io avevamo già stabilito un tipo di comunicazione dal quale Reo era escluso. La si-tuazione fu resa ancor più difficile il giorno dopo, quando comin-ciammo a salire il monte Washkuk. Io camminavo a piedi nudi perché è quello l'unico modo in cui riesco a salire su una montagna della Nuova Guinea. Lungo la strada, Gregory propose che si facesse una nuotata, presumendo, secondo gli usi bohémiens dei suoi anni univer-sitari, che tutti nuotassimo nudi - e la proposta fece inorridire Reo. Gregory proveniva da un mondo nel quale le vicende d'amore multiple e complicate erano una cosa comune, mentre in quello in cui era cre-sciuto Reo resistevano ancora i più rigidi valori vittoriani.4

4 M. Mead, L’inverno delle more, cit., p. 248.

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Bali e Papua Nuova Guinea La spinta decisiva a studiare la cultura balinese fu data dal

fatto che il presidente del Commitee for the Study of Dementia Praecox propose a Margaret Mead di individuare un terreno di ricerca per osservare questo fenomeno medico in cambio di un sostanzioso finanziamento di ricerca. Il terreno di Bali sembrò essere adatto per la particolare ampia presenza di fenomeni di trance e di dissociazione del comportamento, diffusamente ri-correnti nella vita dei balinesi come aspetti istituzionalizzati e culturalmente previsti e non come fenomeni di disordine psichi-co, così come sono invece interpretati nel mondo occidentale. In tal senso la ricerca a Bali venne ampiamente finanziata dal Commitee a cui si aggiunsero altri canali di sovvenzionamento:

Mead’s next fieldwork was stimulated by conversations and inquiries from psychologists. The chairman of the Committee for the Study of Dementia Praecox (schizophrenia, as it was then called) asked Mead to suggest a field expedition in which to study the problem, and the Balinese appeared to her to be an appropriate choice. They seemed to have culturally institutionalized dissociative and trance like behavior, which in our culture is regarded as schizophrenic. The Committee supported much of the research and write-up, supplemented by funds from the American Museum of Natural History, Cambridge Univer-sity, the Social Science Research Council (SSRC), and personal re-sources.5 Altre motivazioni che indicarono la via di Bali, soprattutto a

Margaret Mead, furono di carattere propriamente documentario, avendo la studiosa verificato la presenza di un certo numero di rilevamenti etnografici riguardanti fenomeni di trance infantile ma mai riguardanti esempi balinesi.

Fra il 1933 e il 1936, vale a dire da quando lasciarono il campo in Papua Nuova Guinea a quando intrapresero il lavoro a Bali, Gregory Bateson e Margaret Mead trascorsero due periodi di tempo insieme, in Irlanda prima e a New York poi. In questo

5 I. Jacknis, Margaret Mead and Gregory Bateson in Bali: Their Use of Pho-tography and Film, “Cultural Anthropology”, III/2, 1988, pp. 160-177, p. 161.

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intervallo di tre anni i due posero le basi della loro importante produzione scientifica antropologica,6 ma anche, nell’estate del 1935, organizzarono il progetto di ricerca a Bali sulla scorta delle suggestioni ricevute dalla psicologia, dagli studi sul com-portamento, dall’uso scientifico dei mezzi di riproduzione visi-va: fotografia e cinema, che entrambi useranno largamente sul terreno balinese, come vedremo più avanti.

Avendo deciso di sposarsi e di lavorare insieme, i due parti-rono, dunque, alla volta del sud-est asiatico, dove condussero un lungo e impegnativo lavoro sul campo prima a Bali e poi, per raccogliere elementi di confronto, ritornando sul terreno di Ba-teson fra gli Iatmul in Nuova Guinea. Gli aspetti preparatori e le motivazioni che li indussero a intraprendere la ricerca sono rie-pilogate con la consueta suggestione letteraria da Margaret Me-ad:

La spedizione sul campo a Bali e tra gli Iatmul è stata diversa da ogni altra che io abbia intrapreso. È stata la più lunga e sotto molti aspetti quella che ha richiesto i preparativi più complessi. Fu progettata intor-no al matrimonio di due antropologi: Gregory Bateson e me. Ancora una volta feci da sola il lungo viaggio per mare attraverso il Pacifico. Avevamo predisposto di incontrarci a Giava, ma avevamo dovuto pro-seguire in volo per Singapore per sposarci. Di là prendemmo un bat-tello che procedette lentamente tra le isole fino a Bali. La scelta del problema e di Bali come luogo della nostra ricerca era stata fatta in ri-sposta a un'inchiesta del direttore del ‘Committee for Research on Dementia Praecox’, che era stato appena organizzato; egli aveva chie-sto a psicologi, psichiatri e antropologi cosa avrebbero fatto per stu-diare la dementia precox (oggi viene chiamata schizofrenia) nei termi-ni propri della loro disciplina, se avessero avuto diecimila dollari a di-sposizione per le ricerche. Io avevo qualche cognizione frammentaria sulla cultura balinese. Molti anni prima avevo visto un film sulla dan-za in trance. E nel 1939 Jane Belo, che avevo conosciuto fin da quan-

6 Fra il 1935 e il 1938 Margaret Mead scrisse, fra l’altro, Sex and temperament in Three Primitive Societies, (ed. it. Sesso e temperamento, cit.) e The Mountain Arapesh, New York, Museum of Natural History, 2 voll.; nello stesso periodo Gregory Bateson scrisse, fra l’altro, Naven. A Survey of the Problems Suggested by a Composite Picture of a Culture of a New Guinea Tribe Drawn from Three Points of View, Cambridge, Cambridge University Press, (ed. it. Naven, cit.).

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do era una studentessa al Barnard, mi aveva portato del materiale mol-to interessante da Bali, dove abitava. Mi sembrò allora che molti ele-menti della cultura balinese suggerissero che sarebbe stata adatta per esplorarvi la presenza, o l'assenza, di un comportamento schizofreni-co. Gregory venne in visita negli Stati Uniti e insieme studiammo un piano di lavoro che includesse anche Jane Belo e suo marito, Colin McPhee, che era un musicista e stava studiando la musica balinese.7

Fotografia, cinema e studio del comportamento

L’uso della fotografia e del cinema come modalità di rile-

vamento etnografico facevano parte del bagaglio della forma-zione universitaria sia di Gregory Bateson sia di Margaret Me-ad. Il primo era stato allievo di Alfred C. Haddon, fra i pionieri dell’uso del cinema e della fotografia sul campo, come attestano i rilevamenti visivi effettuati durante la spedizione allo Stretto di Torres.8 La seconda era allieva di Franz Boas anch’egli noto-riamente molto orientato verso un uso intensivo della documen-tazione visiva sul campo, in quanto importante supporto alla ricerca scientifica, e nel rilevare gli aspetti visivi presenti nelle culture, come attestano le campagne fotografiche realizzate per

7 M. Mead, Lettere dal campo 1925-1975, Milano, Mondadori, 1979, p. 169. 8 “One of the events marking the transformation of nineteenth-century specu-lative anthropology into a discipline with standards of evidence comparable to those of natural science was the Cambridge Anthropological Expedition to the Torres Straits, which Alfred Cort Haddon, a former zoologist, mounted in 1898. The expedition was conceived as a team effort of systematic salvage ethnography covering all aspects of Torres Straits life, including physical anthropology, psychology, material culture, social organization, and religion. A whole battery of recording methods was used, some of them new, such as W. H. R. Rivers’ genealogical method, which has since become standard, and photography, together with wax-cylinder sound recording and motion pictu-res. Haddon’s ethnographic films, for which a Lumière camera was used, are the earliest known to have been made in the field. What remains of them (se-veral minutes’ worth) shows three men’s dances and an attempt at firema-king.” E. De Brigard, The History of Ethnographic Film, in P. Hockings (ed.), Principles of Visual Anthropology, The Hugues-Paris, Mouton, 1975, pp. 13-43, p. 16.

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suo conto dal collaboratore “indigeno” George Hunt fra i Kwa-kiutl insieme a un film da lui stesso girato in età avanzata.9

Gregory Bateson realizzò un’ampia documentazione foto-grafica anche durante la sua precedente ricerca tra gli Iatmul, incentrata sull’articolato complesso rituale del Naven. Una si-gnificativa selezione di fotografie si trova pubblicata a chiusura dell’edizione originale del suo volume (nell’edizione italiana 21 immagini sono collocate al centro del libro). Pur non rivelando l’applicazione dello stesso rigore metodologico e l’impianto fortemente visualista del successivo lavoro con Margaret Mead, in questo volume l’uso della fotografia sembra già prefigurare l’orientamento dialogico fra immagini e scrittura su cui è im-piantato Balinese Character. L’utilizzo della sola parola scritta è evidentemente un forte limite per il Bateson di Naven, costret-to all’interno di quel “vincolo ermeneutico-empiristico” più vol-te evocato da George E. Marcus10, che lo costringe a tener conto di due prospettive fra loro antagoniste: l’empirismo della scuola inglese entro cui si è formato e la tensione epistemologica e ri-flessiva che ha caratterizzato tutta la sua opera. A conferma di ciò è l’uso delle fotografie in quanto, allo stesso tempo, docu-menti diretti della realtà stessa e rivelatrici del tono emotivo alla cui ricerca egli era impegnato. La collocazione delle fotografie in Naven, accompagnate da ampie didascalie - intuendo l’autore, probabilmente, lo statuto ambiguo della fotografia in bilico fra evidenza e incomunicabilità - lascia intravedere l’importanza metodologica da lui attribuita al legame dialogico fra scrittura e immagini, portato alle estreme conseguenze nel successivo lavoro congiunto con Margaret Mead.

9 Cfr. I. Jacknis, George Hunt, Kwakiutl Photographer, in E. Edwards (ed.), Anthropology and Photography 1860-1920, New Haven and London, Yale University Press, 1992, pp. 143-151; J. Ruby, Franz Boas and Early Camera Study of Behavior, “Kinesics Report”, III, 1, 1980, pp. 6-11, 16; l’interesse di Boas per la comunicazione visuale è attestato dal volume Arte primitiva, Tori-no, Bollati Boringhieri, 1981. 10 G. E. Marcus, Un’opportuna rilettura di “Naven”: Gregory Bateson saggi-sta oracolare, in G. Bateson, Naven, cit., pp.291-312.

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Per Bateson – scrive George Marcus – le immagini sono le prove più convincenti che si possano portare, superiori perfino alle descrizioni verbali, ed esse subentrano nel testo esattamente nel punto in cui le descrizioni verbali diventano più problematiche, cioè all’interno delle descrizioni quasi letterarie dell’ethos. E questo il punto in cui Bateson si sente metodologicamente più debole, e cosi egli comincia a citare le fotografie nel testo come prove, pur avendole praticamente ignorate nei capitoli precedenti. Bateson sperimenta in questo modo un tipo di descrizione che contraddice la sua attitudine empirista, e fa il possibile per alleviare il disagio che gliene deriva. Il più potente rimedio sono appunto i dati fotografici, simbolo della rappresentazione pura. Ma di fatto le immagini non parlano da sole; di qui la necessità di rafforzarle con didascalie narrative.11 Il lavoro sugli Iatmul rivela più di un nesso euristico attribui-

to all’uso della fotografia durante la ricerca sul campo. A esem-pio, ethos ed eidos,12 le due nozioni portanti della griglia inter-pretativa di Bateson vengono spiegate in alcuni casi proprio ricorrendo a esempi e a metafore tratte dall’uso della macchina fotografica o dalla pratica della tecnica fotografia. Una “quarta lettura” di Naven, riprendendo l’espressione coniata da Alberto Sobrero,13 potrebbe riguardare proprio il livello iconografico. Una descrizione del rapporto che instaurano gli Iatmul in pre-senza della macchina fotografica è funzionale a richiamare comportamenti che lasciano intravedere l’ethos femminile e maschile. Bateson offre una serie di considerazioni che rinviano a comportamenti più volte rilevati nella pratica del cinema e della fotografia documentaria e che richiamano le nozioni di “auto messa in scena” e atteggiamento “profilmico” elaborate in anni più recenti da Claudine De France14 proprio in quanto 11 Ibidem, pp. 302-303. 12 Riassumendo quanto scrive lo stesso Bateson: ethos è l’insieme delle rea-zioni standardizzate di tipo emotivo cui si confanno le personalità degli indi-vidui in una cultura; eidos è l’insieme standardizzato degli aspetti cognitivi cui si confanno le personalità degli individui in una cultura. 13 A. Sobrero, L’antropologia dopo l’antropologia, Roma, Meltemi, 1999, pp. 143-182. 14 C. De France, Cinéma et Anthropologie, Paris, Ed. de la Maison des Scien-ces de l’Homme, 1982, pp. 367-368 e 373. Francesco Faeta sottolinea come tali nozioni siano utilizzabili anche per la fotografia oltre che per il cinema,

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1. Immagini e forme di vita 17

comportamenti, a volte anche inconsapevoli, che i soggetti met-tono in atto in presenza di un apparecchio da ripresa visiva. Scrive Gregory Bateson:

Nelle condizioni sperimentali prodotte dal fatto di inquadrare un indi-viduo con la macchina fotografica si osserva abbastanza normalmente un fenomeno simile a quello che si vede in occasioni rituali. Quando una donna è fotografata, la sua risposta alla macchina fotografica dif-ferisce a seconda che indossi le sue cose più belle o i vestiti di ogni giorno. Nel primo caso tiene la testa alta davanti all’obiettivo, ma in abiti quotidiani piega il collo, distoglie il viso ed evita di comparire in pubblico, cioè di stare da sola davanti al fotografo mentre le amiche guardano, mentre un uomo, qualunque sia il suo abito, tende a glori-arsi davanti alla macchina fotografica e porta quasi istintivamente le mani alla paletta da calce come se dovesse produrre il suono forte che esprime collera e fierezza.15 Un’altra descrizione questa volta viene riportata da Bateson

allo scopo di far emergere un tratto dell’eidos iatmul; si tratta del comportamento tenuto da un individuo davanti alla reazione chimica che avviene nel corso della stampa di una fotografia:

Un’altra volta chiamai uno dei miei informatori ad assistere allo svi-luppo delle lastre fotografiche. Le sviluppavo con una luce fioca in un largo piatto e quindi egli poteva vedere il graduale apparire delle im-magini. La cosa lo interessò molto e alcuni giorni dopo mi fece pro-mettere che non avrei mai mostrato il procedimento ai membri di altri clan. Kontum-mali era uno dei suoi antenati ed egli vide nel processo di sviluppo fotografico la vera incarnazione delle increspature dell’acqua in immagini e lo considerò la dimostrazione della verità del segreto clanico.16

intorno al quale sono state elaborate, cfr. F. Faeta, Strategie dell’occhio. Saggi di etnografia visiva, Milano, Angeli, 2003, pp. 115-116. 15 G. Bateson, Naven, cit., pp. 143-144. 16 Ibidem, pp. 216-217. Va specificato per meglio chiarire il senso della cita-zione, che la reazione dello iatmul davanti all’apparire dell’immagine in se-guito al prodursi delle increspature sul liquido di sviluppo, è da porsi in rela-zione con la sua discendenza dall’antenato totemico Kontum-mali incarnazio-ne del movimento delle onde sull’acqua (ivi).

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Francesco Faeta riprende questo suggestivo esempio riporta-to da Bateson a suffragio dell’idea che la formazione delle im-magini e la loro decodificazione e collocazione nel complesso cognitivo di ogni cultura, lo statuto che ogni cultura attribuisce all’organizzazione della visione e alla conseguente rappresenta-zione possono essere fortemente divergenti da ambito culturale ad ambito culturale.17 Il modo di accostarsi agli universi visivi di culture differenti dalla propria dovrebbe essere, pertanto, par-ticolarmente accorto.

A Bali Gregory Bateson e Margaret Mead misero in atto e realizzarono il loro più articolato e complesso lavoro di antro-pologia visiva. Come già detto, la ricerca sul campo a Bali nac-que all’interno di un progetto del Committee for Research in Dementia Praecox e, come racconta Margaret Mead, fu proget-tata “intorno al matrimonio di due antropologi: Gregory Bate-son e me.”18 Vita privata e vita scientifica si intrecciano in ma-

17 “Nel suo celebre studio su un rituale di iniziazione degli Iatmul […] Gre-gory Bateson ricorda, a un certo punto, come un indigeno fosse particolarmen-te attratto dal graduale emergere dell’immagine fotografica dalla latenza e come, osservando il sollevarsi delle minuscole increspature nella bacinella, collegasse la nascita della fotografia al dio delle onde, suo antenato, conside-rando così l’immagine dimostrazione della verità del segreto clanico del suo gruppo. A una lettura affrettata si può pensare che la fotografia svolga, presso la cultura iatmul, un ruolo, sia pur indiretto, di conferma della verità; ruolo simile dal punto di vista logico a quello che assolve nel pensiero positivista e nel senso comune occidentali. A ben riflettere, invece, il processo iatmul è opposto rispetto a quello da noi praticato. Qui l’immagine prova elementar-mente una verità, nella Nuova Guinea, al contrario, è l’esistenza di un dio-antenato, che si incarna in un elemento (l’acqua) e in un fenomeno (l’onda) che prova un’immagine e, per il suo tramite, un sistema di rappresentazioni percepite come tradizionali. L’immagine, tra gli uomini studiati da Bateson, proviene dalla divinità e non è rilevante in sé, ma nel suo costruirsi, nel suo promanare dalla tremula azione delle onde. È l’in sé della rappresentazione che viene scartato lì, a favore dell’agente mitico e del processo. Da noi, inve-ce, è il prodotto finito che s’inscrive nella dinamica culturale e nella Storia, cortocircuitando ogni processo e obliterando agenti e attori dell’interazione rappresentativa. Come si vede, sotto un’apparente coincidenza, siamo in pre-senza, in realtà, di processi logici assai differenti, per non dire opposti.” F. Faeta, Strategie dell’occhio, cit., p. 24. 18 M. Mead, Lettere dal campo 1925-1975, cit., p, 169.

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niera significativa dando prova che la vicenda umana di un an-tropologo non può essere facilmente separata dalla sua vicenda scientifica; lo lascia pienamente intendere la stessa Mead nei Ringraziamenti posti in calce alla sua autobiografia L’inverno delle more: “sebbene l’argomento principale di questo libro non siano loro [le popolazioni da lei studiate], essi sono presenti e per questo li ringrazio.”19

A partire dalla fine del XIX secolo l’isola di Bali e la sua cultura erano state molte volte fotografate e le immagini aveva-no iniziato ad alimentarne il mito che si è pian piano consolida-to, congiuntamente all’interesse per le culture esotiche e “primi-tive” che a partire dai primi anni del ’900 si è andato diffonden-do soprattutto tra le avanguardie artistiche europee e occidenta-li.20 Per quanto riguarda l’attenzione fotografica appuntata su Bali, Gerald Sullivan ci informa che fotografie dell’isola erano già state pubblicate “in 1865 by the studio of Woodbury and Page of Surabaya, eastern Java.”21 Altri fotografi, anche di fa-ma, hanno contribuito a dilatarne l’immagine a un grande pub-blico, tra gli altri Thilly Weissenbom, Gregor Krause,22 il pittore messicano Miguel Covarrubias,23 Henri Cartier-Bresson.24 Con-temporaneamente a Bateson e Mead si trovavano a Bali “Jane Belo e Colin McPhee, Walter Spies, il pittore tedesco, Beryl de 19 M. Mead, L’inverno delle more, cit., p. 7. 20 È nota la stretta relazione che lega l’attenzione delle avanguardie artistiche del primo Novecento, in particolare il Surrealismo, per le espressioni artistiche non europee con gli studi antropologici dello stesso periodo. A puro titolo esemplificativo si rinvia a J. Clifford, I frutti puri impazziscono, Torino, Bol-lati Boringhieri, 1993 (ed. or. 1988) e in particolare per il campo dell’espressione musicale D. Carpitella, Il primitivo nella musica contempo-ranea, in Id., Conversazioni sulla musica. Lezioni, conferenze, trasmissioni radiofoniche 1955-1990, Firenze, Ponte alle Grazie, 1992, pp. 166-204. 21 G. Sullivan, Margaret Mead, Gregory Bateson, and Highland Bali. Fiel-dwork Photographs of Bayund Gedé, 1936-1939, Chicago-London, Chicago University Press, 1999, p. 2. 22 G. Krause, K. With, Bali. People and Art, Bangkok, White Lotus Press, 2000 (ed. or. 1922). 23 M. Covarrubias, Island of Bali, Singapore, Berkeley Books, 1973 (ed. or. 1937). 24 H. Cartier-Bresson, Les danses à Bali, con prefazione di A. Artaud, 1954.

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Zoete e Katharane Mershon, una ex-ballerina.”25 Belo e McPhee erano moglie e marito, la prima anch’essa antropologa, ben co-nosciuta soprattutto da Mead, il secondo musicista. Un aspetto che accomunava tutti questi ospiti dell’isola è l’essere stati per-sonalità multiformi, insieme artisti, etnologi, archeologi, danza-tori. Tutti hanno fatto fotografie.26 Il rapporto intrattenuto dai due con il gruppo di occidentali che viveva già a Bali fu di aiuto reciproco, di condivisione di molti campi di ricerca, di scambio di informazioni, ma anche di condivisione amicale del tempo trascorso sull’isola:

Spies arranged for Bateson and Mead’s housing in Ubud as well as for their household staff. He and Beryl de Zoete showed Mead and Bateson many ceremonies with their requisite dances between March and June 1936. Spies also helped Mead and Bateson make the ar-rangements necessary to build a house in and then move to Bayung Gede, their principle fieldsite.27 Un ruolo fondamentale ha avuto l’assistente balinese della

coppia, I Made Kaler, un giovane che conosceva bene l’inglese (“il nostro incredibile segretario balinese che conosceva cinque lingue e possedeva un vocabolario di 18.000 parole in inglese, anche se non aveva mai incontrato prima di allora una persona di lingua inglese”28) e aveva anche una buona conoscenza del malese, usato diffusamente nell’arcipelago indonesiano come lingua franca. La presenza del segretario balinese è stata deter-minante per la riuscita della ricerca fin dal primo impatto con la popolazione locale, meno disorientata dal rapporto con una per-sona della propria cultura. Il ruolo fondamentale di Made Kaler è attestato dalla sua ricorrente presenza nelle immagini fotogra-

25 M. Mead, Lettere dal campo, cit. p. 171. 26 Si veda ad esempio il volume di M. Hitchcock e L. Norris, Bali: the Imagi-nary Museum. The Photographs of Walter Spies and Beryl de Zoete, Oxford, Oxford University Press, 1995. Molti di loro scrissero dei resoconti di viaggio come a esempio C. McPhee, Una casa a Bali, Vicenza, Neri Pozza Editore, 2003 (ed or. 1944). 27 G. Sullivan, op. cit., p. 6. 28 M. Mead, L’inverno delle more, cit., p. 271

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fiche, seduto o comunque molto vicino alla situazione che viene ripresa e intento a prendere appunti. La stessa Margaret Mead è frequentemente presente in diversi scatti fotografici e in diverse situazioni domestiche e rituali. Tale ampia presenza del ricerca-tore in prima persona è sicuramente una novità di rilievo in un’epoca in cui l’orientamento scientifico propendeva più per l’estraneità dell’osservatore e la sua distaccata oggettività. I re-soconti di Margaret Mead e anche le più scarne annotazioni di Bateson lasciano intravedere, al contrario, un atteggiamento di forte e intensa condivisione con il mondo che stavano studian-do, quasi una prefigurazione dell’atteggiamento riflessivo e dia-logico che si è andato diffondendo in anni più recenti, ma anche un atteggiamento di differenziazione dalla cultura coloniale che pervadeva allora la vita nel sud-est asiatico.

Il tandem composto da Gregory Bateson e Margaret Mead ha dato luogo a una vera e propria macchina per la ricerca sul campo: il primo impegnato nelle riprese fotografiche e cinema-tografiche, la seconda, insieme con Made Kaler, nella organiz-zazione di appunti scritti. Vale la pena spendere due parole sul modo di prendere appunti di Margaret Mead, che rimane tuttog-gi un modello insuperato di organizzazione della memoria dell’osservazione sul campo. La morfologia della pagina di ap-punti di Mead prevede una divisione in due colonne: a sinistra vengono scritte le note riguardanti i principali argomenti da lei osservati; a destra vengono annotate una serie di questioni che stanno avvenendo intorno a lei (cosa sta facendo Bateson, chi sta arrivando). Oltre alla data, periodicamente viene annotata l’ora del rilevamento. Gli appunti si fanno più fitti mentre Bate-son compie riprese visive. La velocità e la capacità di messa in forma della pagina scritta da parte di Margaret Mead hanno dato luogo alla definizione di “running field notes” e per il carattere di stretto rinvio fra appunti e riprese visive queste annotazioni di campo sono state appellate “scenarios”, sceneggiature.29 Ogni sera Mead trascriveva a macchina (in triplice copia) tutto quan-

29 I. Jacknis, Margaret Mead and Gregory Bateson in Bali, cit., p. 163 e G. Sullivan, op. cit., p. 10.

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to annotato nel corso della giornata affinché la sua veloce scrit-tura stenografata potesse risultare comprensibile.

Le note di campo di Margaret Mead si completano con quel-le di Made Kaler, il quale ha trascritto più di cinquecento pagine di testo in balinese che costituiscono sia il corpus documentario della ricerca in lingua locale di ciò che avveniva, sia il riscontro delle annotazioni di Margaret Mead la quale non poteva avere la stessa facilità di comprensione linguistica. Egli seguì le indica-zioni impartitegli dalla stessa Mead: i suoi taccuini contengono minute annotazioni di tempo e di spazio in cui gli avvenimenti si svolgevano e uno stretto collegamento con le fotografie di Bateson.30 Fotografie e appunti scritti sono stati realizzati quasi sempre in contemporanea. Margaret Mead sovente avvertiva Bateson di quanto stava accadendo, di cui egli non si accorgeva avendo gli occhi fissi al mirino. Molto spesso forme di rappre-sentazione visiva della cultura balinese (sculture, pitture, dise-gni) sono state inserite a pieno nella comparazione e nel rileva-mento etnografico, lasciando intendere un preciso interesse ver-so gli aspetti della comunicazione visuale presenti nella cultura balinese. Venivano continuamente richiesti pareri a persone del luogo in merito alle fotografie realizzate o ai film appena girati: le prime montate in sequenze su pannelli di cartone, i secondi tramite un proiettore cinematografico a manovella. Argomenti di discussione potevano essere a esempio il reale o presunto raggiungimento dello stato di trance da parte di qualcuno, anti-cipando, come già accennato, la oggi ricorrente metodologia riflessiva e dialogica.31

Con Gregory Bateson e Margaret Mead per la prima volta fotografia e cinema vengono usati come documenti primari32 della ricerca sul campo e non soltanto come mero supporto dell’osservazione e conseguentemente con funzione illustrativa della scrittura. Il loro progetto di ricerca prevedeva già un largo impiego della ripresa di immagini proprio perché esse avrebbe-

30 G. Sullivan, op. cit., p. 10. 31 I. Jacknis, Margaret Mead and Gregory Bateson in Bali, cit., p. 164 32 Ivi, p. 165

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ro dovuto costituire la principale base etnografica. La concreta attuazione del lavoro sul campo, tuttavia, li obbligò quasi subito a incrementare drasticamente la quantità di pellicola da impie-gare.

Quando pianificammo il nostro lavoro di ricerca, decidemmo di im-piegare in larga misura film e fotografie. Gregory aveva comperato settantacinque rotoli di pellicola Leica che dovevano esserci sufficien-ti per due anni di lavoro. Ma un pomeriggio, dopo che avevamo stu-diato genitori e bambini per un periodo normale di quarantacinue mi-nuti, scoprimmo che Gregory aveva consumato tre rotoli interi. Ci guardammo l’un l’altra, guardammo le fotografie che Gregory aveva scattato fino ad allora e che erano state sviluppate da un cinese della città e poi accuratamente montate e catalogate su larghi fogli di carto-ne. Era chiaro che eravamo giunti a una soglia – superarla avrebbe si-gnificato un impegno pauroso di denaro (e non ne avevamo molto) e anche di lavoro. Allora prendemmo una decisione. Gregory scrisse a casa e si fece spedire una bobinatrice veloce di recente invenzione, che ci rese possibile scattare fotografie in rapidissima successione. Poi ordinò anche pellicole all’ingrosso, che avrebbe lui stesso tagliato e messo in cassette; infatti non potevamo assolutamente permetterci il lusso di comperare al minuto la quantità di pellicola che ora ci propo-nevamo di usare. Come ulteriore misura di economia una vasca di svi-luppo che poteva servire per dieci rotoli in una volta e, alla fine, fum-mo in grado di sviluppare in una sola serata circa 1600 fotografie. La decisione che prendemmo allora non appare oggi eccezionale. I ca-ricatori fotografici che possono essere inseriti alla luce del giorno sono ormai disponibili da anni, i fotografi dilettanti hanno da molto tempo adottato la fotografia a sequenze e i fondi dei ricercatori per lavorare con i film sono enormemente aumentati. Ma allora la cosa era davvero fuori del comune. Mentre avevamo progettato di scattare 2000 foto-grafie, ne facemmo 25.000. Ciò significava che gli appunti che scrissi furono analogamente moltiplicati per dieci e, quando vi si aggiunsero anche quelli di Made, il volume del nostro lavoro mutò in modo stra-ordinariamente significativo.33 Si può dire che in questo caso il campo abbia determinato

l’orientamento metodologico dei ricercatori, portandoli a indi-viduare un più ampio modo di applicazione di una tecnica come quella della ripresa visiva e tale ampliamento abbia determinato

33 M. Mead, L’inverno delle more, cit., pp. 275-277.

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non tanto un mero incremento numerico di metri di pellicola utilizzata, quanto una vera e propria indicazione di rotta: l’uso della fotografia e del cinema come forma di etnografia e come prospettiva di elaborazione antropologica. Nello scritto di Mar-garet Mead ripubblicato in questo volume, contenente la nota e più volte ripresa affermazione, peraltro ancora condivisibile, che l’antropologia culturale sia diventata una disciplina solo di parole, si coglie il rammarico che l’importante traccia metodo-logica da loro indicata non sia stata gran che seguita nella ricer-ca sul terreno e nella riflessione antropologica.

La ripresa visiva, secondo le convinzioni dei due antropolo-gi, avrebbe fornito un importante e insostituibile supporto alla ricerca scientifica, fornendo dati inoppugnabili in merito all’oggetto della loro indagine: l’individuazione di modelli di comportamento culturalmente orientati da un lato, dall’altro il processo di formazione di tali modelli di comportamento me-diante l’osservazione delle pratiche con cui i bambini sono alle-vati e istruiti in una determinata cultura. Non si tratta di un semplice atteggiamento positivista che pone fiducia nell’applicazione di una tecnologia moderna: si tratta, invece, di aver individuato la potenzialità di conoscenza scientifica attua-bile mediante la ripresa visiva, fino ad allora sconosciuta alla pratica della ricerca antropologica, per la quale le immagini rac-colte sul campo costituivano semplicemente una forma di colla-zione di informazioni. Tale ampliamento delle potenzialità di ricerca era stato già intuito da Bateson nello studio del Naven, come si è visto.34 In Balinese Character le immagini hanno il totale sopravvento sulla parola e sulla scrittura, e quest'ultima viene “confinata” al ruolo di supporto per un inquadramento contestuale delle fotografie, per sopperire a quello statuto ambi-guo delle immagini di cui si è detto. Le fotografie sono utilizza-te per costruire sequenze significative dell’argomento che si vuole trattare, per analizzare gesti e posture, per mettere in rela-zione comportamenti fra di loro apparentemente distanti, per rilevare e rivelare opposizioni e convergenze, per esprimere le 34 Cfr. G. E. Marcus, Un’opportuna rilettura di “Naven”, cit.

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nozioni di spazio e di tempo. Non appare in alcun modo l’uso catalografico della fotografia proprio dell’applicazione evolu-zionista. Per la prima volta l’etnografia non è veicolata (soltan-to) tramite la scrittura ma per mezzo delle immagini.

È nota l’influenza esercitata dalle prospettive ermeneutiche della psicologia e della psicanalisi sulla scuola di pensiero di “cultura e personalità”, così come è nota l’influenza che il pen-siero di Ruth Benedict ha avuto su Bateson e Mead: essi stessi ricordano nei loro resoconti l’arrivo del manoscritto di Patterns of Culture sul campo del fiume Sepik come un importante mo-mento di discussione e approfondimento di tali tematiche.35 È in tal senso che matura l’interesse dei due studiosi per il compor-tamento infantile e per il ruolo dei genitori nella costruzione della personalità adulta. Sono soprattutto gli studi di Arnold Gessel a fornire loro un’importante base di partenza, in partico-lare la cosiddetta analisi filmica (cinemanalysis) che Gessel a-veva impiegato per studiare lo sviluppo mentale durante la pri-ma infanzia.36 Analogamente a ciò che fecero Bateson e Mead sul campo, Gessel proponeva l’analisi di modelli di comporta-mento attraverso serie di fotografie, mediante l’uso della messa in contrasto di immagini fotografiche, tramite l’uso di sequenze fotografiche utilizzate come metafore visive del tempo che tra-scorre e quindi della crescita.

35 M. Mead, L’inverno delle more, cit., p. 256. 36 Secondo la tecnica della cinemanalysis lo studioso, posto al di là di una parete finta o al di fuori di una sorta di cupola, osserva senza essere visto il comportamento di uno o più bambini. Sul rapporto fra gli studi di Gessel e l’analisi di Margaret Mead si veda A. Lakoff, Freezing Time: Margaret Me-ad’s Diagnostic Photography, “Visual Anthropology Review”, XII, 1, Spring 1996, pp. 1-18. La stessa Mead richiama il suo debito scientifico a Gessel in Some Uses of Still Photography in Culture and Personality Studies, in D. H. Haring (ed.), Personal Character and Cultural Milieu, Syracuse-New York, Syracuse University Press, 1964, pp. 79-105.

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Le fotografie Ritornati negli Stati Uniti Bateson e Mead avviano una serie

di lavori e di attività volti all’analisi e al ripensamento critico dei materiali registrati sul campo, applicando il medesimo ap-proccio multidisciplinare che aveva guidato la ricerca: psichia-tri, sociologi e altri esperti di scienze umane vengono interpella-ti e coinvolti a diverso titolo. L’interruzione forzata dovuta all’entrata degli Stati Uniti nella Seconda guerra mondiale ne ha impedito il completamento, che è stato possibile realizzare sol-tanto nel 1942 con la pubblicazione di Balinese Character. A Photographic Analysis, per la New York Academy of Sciences. Il volume rimane a tutt’oggi un esperimento non più ripetuto di lettura per immagini di una realtà culturale. Come già detto le fotografie sono state realizzate come “documenti primari” della ricerca e, anche se non è chiaro se i due avessero già in mente di realizzare un libro fotografico, esse appaiono, in quanto tali, come i dati su cui poggia l’idea etnografica dei due studiosi: la descrizione e l’analisi per immagini del comportamento dei Ba-linesi.

Criteri di ripresa, di selezione e di organizzazione delle im-magini pubblicate nel volume sono ampiamente descritti da Gregory Bateson ed è interessante ripercorrerne le indicazioni riguardanti la tecnica di rilevamento fotografico. In primo luogo viene chiarito che in rarissimi casi le persone fotografate erano in posa, mentre il criterio generale di ripresa è stato improntato a “to shoot what happened normally and spontaneously”.37 In tal senso gli apparecchi di ripresa sono stati utilizzati “as recording instruments, not as devices for illustrating our theses.”38 Quattro fattori, scrive Bateson, hanno contribuito a rendere meno inva-siva la massiccia presenza degli apparecchi da ripresa e, allo stesso tempo, ad attenuare l’inevitabile comportamento profil-

37 G. Bateson, M. Mead, Balinese Character. A Photographic Analysis, New York, Special Publications of the New York Academy of Sciences, 1942, p. 49. 38 Ibidem.

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mico: l’uso intenso della ripresa fotografica ha come risultato la non consapevolezza del mezzo; il fatto di non chiedere di fare fotografie, ma di farle come se fosse un’abitudine, produce pure un’ulteriore attenuazione della consapevolezza della presenza della macchina da presa; porre attenzione soprattutto verso i bambini attenuava la sorveglianza degli adulti rendendoli più naturali nei loro comportamenti; in rari casi il fotografo ha fatto ricorso ad attrezzature per la ripresa di nascosto (mirini angola-ri). Viene anche esplicitato chiaramente che molte riprese sono state preparate in funzione del rilevamento fotografico, pur chiarendo che non si è mai trattato di mettere in posa le persone: alcune riprese di danza e di teatro sono state organizzate a pa-gamento (come si vedrà meglio più avanti), trattandosi di attivi-tà professionali; oppure in alcuni casi è stato chiesto a una ma-dre di ritardare il bagno del bambino fino a che il sole fosse alto per avere più luce per le riprese. Fare fotografie durante il ba-gno di un bambino consentiva anche di ampliare il set di riprese prima e dopo l’avvenimento centrale, in modo da comprendere tutto il contesto familiare.

Il libro nasce dalla selezione di 759 fotografie a partire dal corpus di 25.000 immagini scattate sul campo. La selezione, avvenuta con l’aiuto di alcuni collaboratori, costituisce il primo passo verso un’organizzazione scientifica dei dati, secondo quanto scrive lo stesso Bateson: “Selection of data must occur in any scientific recording and exposition, but it is important that the principles of selection be stated.”39 I criteri cui accenna Bateson possono essere così riassunti: riorganizzazione delle serie di immagini sulla base di ciò che è stato il lavoro sul cam-po (si ricordi lo stretto legame che è intercorso fra riprese visive e taccuini di appunti); un altro criterio di selezione deriva da un limite insieme economico e tecnico, vale a dire che i due antro-pologi, pur ritenendo di dover realizzare in contemporanea la documentazione fotografica e filmica, tuttavia riservarono l’uso del cinema alle riprese più dinamiche e ai comportamenti rite-nuti più importanti, alla fotografia le situazioni meno dinamiche 39 Ivi, p. 50.

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e i comportamenti meno significativi. La selezione finale delle immagini per la pubblicazione è stata condotta “in terms of re-levance, photographic quality, and size.”40 Precisa Bateson che quando si è trattato di scegliere è stata data precedenza alla rile-vanza scientifica prima della qualità fotografica, mentre la que-stione della dimensione a volte ha imposto dilemmi angosciosi circa la riduzione o l’eliminazione di un’immagine preventivata che, al momento dell’impaginazione sulla tavola, risultava ec-cedente. Anche sotto il profilo dell’attenzione alla funzione dell’impaginazione del libro, Balinese Character risulta, dun-que, un lavoro pionieristico rivolto in maniera già sufficiente-mente consapevole verso uno slittamento da un’antropologia visiva a un’antropologia della comunicazione visuale.41

Nel volume le fotografie si sviluppano in 100 tavole rag-gruppate sotto 10 argomenti: Introductory, Spatial Orientation and Levels, Learning, Integration and Disintegration of the Body, Orifices of the Body, Autocosmic Play, Parents and Chil-dren, Siblings, Stages of Child Development, Rites de Passage. Ogni tavola contiene un numero variabile fra 4 e 13 fotografie dislocate sullo spazio della pagina seguendo un preciso progetto scientifico-editoriale in base al quale le immagini vengono indi-viduate e poste in relazione l’un l’altra secondo una serie di te-mi generali, “psychological generalization”, molto spesso ricor-rendo alla pratica della messa in contrasto o in contrapposizione fra immagini per meglio chiarire il discorso. In questi casi la maggior parte dello spazio della tavola è occupato dalle fotogra-fie che illustrano il tema, mentre quelle in contrasto sono poste in fondo alla pagina. Altre volte le tavole sono composte da lunghe sequenze fotografiche, quasi di tipo cinematografico, che illustrano una forma di comportamento nel suo rapido svol-gersi nel tempo. Sovente vengono riportate immagini che ripro-ducono sculture, disegni, dipinti, marionette sulle quali è possi-

40 Ivi, p. 51. 41 S. Worth, Margaret Mead and the Shift from “Visual Anthropology” to the “Anthropology of Visual Communication”, “Studies in Visual Communica-tion”, VI, 1, 1980, pp. 15-22.

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bile riconoscere gesti e posture colti nella realtà espressiva delle persone fotografate, ma anche per evidenziare il collegamento più volte sottolineato fra vita quotidiana e vita cerimoniale nei diversi modelli di comportamento rilevati.

La scansione del volume prevede sempre una tavola fotogra-fica e una pagina di didascalie a fronte. La struttura dei colle-gamenti fra immagini e scrittura rinvia alla complessità del pro-getto di antropologia visiva ideato dai due antropologi e reso possibile dal minuzioso e dettagliato lavoro etnografico con-giunto fra immagini e note scritte di cui si è detto. Come scrive Bateson: “each plate is accompanied by a general statement […]. Each photograph, or each series of photographs, is then described separately.”42 Nel cappello di introduzione generale di ogni tavola vengono riportate una serie di notizie di contesto relative alle fotografie proposte insieme ai criteri teorici secon-do cui le fotografie sono state accorpate insieme. Le didascalie delle singole immagini entrano nel dettaglio e, a esempio, ripor-tano nomi e relazioni sociali dei soggetti fotografati, nonché luogo, data e numero del fotogramma. Riassumendo quanto scrive Bateson a proposito del supporto scritto alle immagini, la strutturazione dei dati fornisce al lettore diversi gradi di ogget-tività e generalizzazione e consente a chi è esperto di cultura balinese, come a chi non lo è, di affrontare una lettura appro-fondita delle tavole fotografiche. A esempio la didascalia di una singola immagine ha un valore puramente oggettivo, ma ponen-do in relazione due o più immagini e le rispettive didascalie si procede verso una prospettiva generalizzante. Se da un lato gli aspetti più chiaramente oggettivi delle immagini sono stati trat-tati in maniera libera nelle didascalie, dall’altro sono stati sotto-lineati ed enfatizzati quegli aspetti che sembravano rilevanti. È stato anche fatto largo uso di rinvii incrociati fra le fotografie e fra le tavole, e tali richiami incrociati si trovano nelle didascalie, come anche nel glossario e indice dei nomi in lingua locale ri-portato alla fine del volume. Si tratta, dunque, di un complesso sistema di organizzazione dei dati etnofotografici che consente 42 G. Bateson, M. Mead, Balinese Character, cit., p. 53.

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di leggere le immagini a più livelli: a livello del dato in quanto il dialogo fra fotografia e didascalia consente una lettura esau-stiva di ciò che i due autori hanno raccolto e del perché lo han-no raccolto, ma anche a livello della conoscenza scientifica che i dati sono in grado di restituire mediante la loro messa in rela-zione secondo i criteri di cui si è appena detto; infine, a un livel-lo più profondo, gli stessi dati etnofotografici possono restituire il denso dialogo di sguardi che si attiva fra chi osserva e chi viene osservato. Analogamente Gerald Sullivan, ritenendo le fotografie un sistema denso di comunicazione, sostiene che le immagini realizzate nel corso di un’indagine etnografica resti-tuiscano comunque sempre tre livelli di lettura che egli defini-sce come “note”, “segni” e “ombre”:

Among the treasures anthropologists regularly bring back with them from their field explorations are photographs of the people and places they have visited. These photographs are at once notes, signs, and shadows: notes insofar as the anthropologist uses the photographs as aide-memoire or record of what he or she sees; signs when the photo-graphs become part of the anthropologist's attempt to elucidate for others what he or she has seen; and shadows in that the photographs always take their form in great part from the world into which the an-thropologist has peered. The communicative density of such photo-graphs, that is, their capacity to simultaneously illuminate and ob-scure, to simultaneously draw in and stand apart, extends in one fash-ion from the choices of the particular ethnographer toward a world partly seen as well as in another manner from the sensibilities of the world which that ethnographer examines with partial understanding.43 La consapevole applicazione di una grammatica della ripresa

fotografica è ben leggibile nelle immagini pubblicate in Baline-se Character. L’uso preponderante del modulo linguistico della sequenza risulta messo in pratica sempre con consapevolezza e padronanza visiva, così pure risulta molto utilizzato il modulo dell’istantanea. La ricorrenza di ambedue questi moduli rinvia all’impostazione metodologica chiaramente espressa da Bateson e prima richiamata, vale a dire di scattare fotografie senza far

43 G. Sullivan, op. cit., p. 1.

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mettere in posa il soggetto, ma riprendendolo il più possibile in atteggiamenti spontanei. Da ciò deriva anche la quasi totale as-senza di ritratti che, al contrario, prevedono proprio la messa in posa. La fotocamera appare utilizzata con padronanza e anche con un’attenzione particolare al punto di ripresa e all’uso crea-tivo dell’inquadratura: a esempio l’altezza del punto di ripresa e la direzione dello sguardo. Questi due aspetti, trattandosi ricor-rentemente di fotografie che ritraggono bambini, sono di parti-colare rilevanza poiché la macchina da presa cerca sempre di adattarsi alla loro altezza adeguandosi, in tal modo, al loro pun-to di vista e attenuando fortemente il distacco gerarchico fra sguardo (adulto) e soggetto (bambino). Ancora sull’inquadratura c’è da dire che essa è quasi sempre ottenuta mediante la delimitazione del campo in sede di stampa della fotografia, vale a dire che le immagini non sono quasi mai stampate a tutto fotogramma e questo accentua ancora di più l’aspetto creativo sopra citato: si vedano a esempio gli allinea-menti delle linee, la prospettiva che ne risulta, il posizionamen-to dei soggetti secondo direttrici ortogonali o diagonali rispetto alla riquadratura. Una certa attenzione appare rivolta alla pro-fondità di campo, a volte rilevabile con esiti compositivi sull’immagine. Tale forma espressiva appare consapevolmente messa in pratica con l’uso del teleobiettivo: “the photographs taken with the telephoto lens can easily be recognized by the unusual perspective.”44

L’approccio professionale all’uso dei mezzi di riproduzione visiva è attestato anche dalle precise e dettagliate note tecniche riguardanti l’attrezzatura utilizzata sul campo, che lasciano tra-sparire anche un altrettanto consapevole orientamento metodo-logico. Gregory Bateson utilizzò una fotocamera Leica equi-paggiata prevalentemente con obiettivo normale Elmar 50mm. È anche annotato l’uso di un esposimetro che, viene sottolinea-to, “was used constantly (with both Leica and the moving-picture camera)”.45 Successivamente, nel 1937, l’attrezzatura

44 G. Bateson, M. Mead, Balinese Character, cit., p. 52. 45 Ibidem.

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viene ampliata con un mirino rapido, un teleobiettivo Telyt 200mm e un grandangolare Elmar 35mm. Bateson evidenzia un ricorrente uso del teleobiettivo nelle più diverse occasioni spe-cialmente quelle cerimoniali e performative, diversamente dal grandangolare utilizzato raramente. L’autore aggiunge che nella parte finale della ricerca ha sostituito il 50mm con un medio teleobiettivo Hector 73mm molto luminoso che gli consentiva di stare non troppo vicino alla scena e, avendo lo stesso campo visivo dell’obiettivo da 25mm montato sulla cinepresa (un ap-parecchio Movikon 16mm), permetteva di utilizzare più facil-mente i due apparecchi insieme. L’attrezzatura di ripresa è ben visibile nella fotografia che ritrae la coppia al lavoro nella stan-za-zanzariera (foto 7).

Margaret Mead riutilizzò le fotografie scattate a Bali da Gregory Bateson in un successivo lavoro svolto con Frances Cooke McGregor ancora sul tema dell’infanzia e dei modi di allevare i bambini in una prospettiva culturale.46 Infatti, mentre Bateson dopo l’uscita di Balinese Character abbandona la pro-spettiva etnografica per dedicarsi alla psicologia e allo studio del funzionamento del cervello e perde progressivamente inte-resse verso i materiali raccolti sul campo a Bali e in Nuova Guinea, Mead si dedica sempre di più allo studio del compor-tamento in chiave culturale mediante la fotografia e il cinema e, soprattutto, diventa la più accesa sostenitrice dell’importanza dei mezzi audiovisivi nella ricerca antropologica. In un saggio pubblicato nel 1956 dal titolo Some Uses of Still Photography in Culture and Personality Studies47 l’autrice ripercorre una se-rie di nodi problematici e propone alcuni dei temi di base ri-guardanti l’uso della fotografia in etnografia. In primo luogo Mead sostiene che la fotografia, diversamente dal cinema, ha un costo di utilizzo più basso e quindi più facilmente accessibile, ma anche pone meno problemi di ordine tecnico, inoltre le foto-

46 M. Mead, F. C. Mcgregor, Growth and Culture: A Photographic Study of Balinese Childhood, G. P. Putnam’s Sons, New York, 1951. 47 M. Mead, Some Uses of Still Photography in Culture and Personality Stu-dies, cit.

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grafie possono essere successivamente riprodotte nella forma del libro, di gran lunga assai più familiare al mondo degli stu-diosi. Molta attenzione viene posta sulle possibilità che offre la fotografia in campo didattico e scientifico e per la presentazione dei risultati ottenuti: le fotografie consentono un facile confron-to fra ricercatori; a partire dalle fotografie scattate sul campo si possono intraprendere nuovi percorsi di ricerca; le fotografie consentono una buona applicazione del metodo dell’incrocio dei dati così come della messa in contrasto dei dati; le fotografie possono essere di volta in volta riorganizzate in base alla pro-spettiva di studio che si sta perseguendo, ma anche nel corso della riorganizzazione dei materiali fotografici è spesso possibi-le giungere a intuizioni non previste durante il lavoro sul cam-po; le fotografie consentono una comunicazione diretta e imme-diata fra membri di un’équipe di lavoro o anche fra il ricercato-re e i soggetti della ricerca. Vengono anche affrontate alcune questioni di tecnica fotografica in quanto problemi di metodo, come a esempio la scelta di alcuni tipi di obiettivi per ridurre l’impatto con chi viene fotografato (ricordiamo che l’oggetto della ricerca è sempre il comportamento individuale e sociale).

L’uso della fotografia come mezzo privilegiato per lo studio del comportamento umano deve aver influenzato profondamen-te il modo di pensare di Margaret Mead, tanto che se ne può trovare traccia in alcune pagine della sua autobiografia come modalità per ripensare la propria personale storia di vita:

Questa settimana, frugando tra vecchie fotografie negli archivi che Marie Eichelberger conserva per me (le fotografie fatte nel corso degli anni da numerose persone con le quali ho lavorato gomito a gomito: Karsten Stapelfeld, Gregory Bateson, Jane Belo, Paul Byers, Ken He-yman e Robert Levin), non ho scoperto nessuna frattura netta con il passato. Mettendo l’uno accanto all’altro i ritratti di mia figlia e di mia nipote, di mia nonna da giovane e come la vidi l’ultima volta, di mio padre con mia sorella minore e, molti anni più tardi, con mia madre, di me stessa bambina con mio fratello, e di mio fratello e delle mie sorel-le ormai adulti, ho scoperto che tutte quelle fotografie erano l’una l’eco dell’altra. Ciascuna era un ritratto di una persona in un particola-

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re momento, ma così sparse davanti a me le vedevo, per così dire, co-me la trama che la mia famiglia aveva tessuto per me.48

I film Analogamente a ciò che è avvenuto con le fotografie, anche

la quantità di pellicola cinematografica preventivata per la ri-cerca a Bali è risultata largamente insufficiente al metodo di lavoro intrapreso: alla fine i due hanno girato circa 22.000 piedi di pellicola 16mm. Al loro ritorno a New York alcuni di questi materiali sono stati utilizzati per uso didattico o per conferenze e anche per meglio mettere a fuoco le intuizioni prefigurate sul campo.

L’edizione definitiva dei film è stato curata da Margaret Me-ad con il tecnico di montaggio, Joseph Bohmer, avendo nel frat-tempo Bateson abbandonato quel campo d’interesse.49 Dal 1951 al 1953 è stata pubblicata la serie di sei film denominata “Cha-racter Formation in Different Cultures”. I primi quattro hanno visto la luce nel 1951 e sono: Bathing Babies in Three Cultures, Karba’s First Years, First Days in the Life of a New Guinea Baby, Trance and Dance in Bali. Nel 1952 è uscito A Balinese Family e nel 1953 è stata la volta di Childhood Rivalry in Bali and New Guinea. Soltanto nel 1979 è stato preparato il settimo film della serie: Learning to Dance in Bali. Tutti i film sono stati girati da Gregory Bateson, mentre Margaret Mead vi com-pare come curatrice, scrittrice e narratrice dei testi: è sua, infatti, la voce narrante che guida lo spettatore. In Trance and Dance in Bali i titoli di testa sono più articolati che negli altri film: i due autori vi compaiono anche come produttori insieme al pull di istituzioni che hanno finanziato la ricerca sul campo; è presente

48 M. Mead, L’inverno delle more, cit., p. 15. 49 Più tardi Gregory Bateson sperimentò il tentativo di una lettura del sistema culturale nazista a partire dall’analisi di un film di propaganda: Hitlerjunge Quex (1933) del regista Hans Steinhoff. Gli esiti di questo lavoro non furono pubblicati, fatto salvo un breve resoconto in M. Mead, R. Metraux, The Study of a Culture at a Distance, New York, Berhahan Books, 2000.

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anche Jane Belo per alcune sequenze al rallentatore della danza dei kris e Colin McPhee in qualità di curatore delle musiche.

Come scrive Ira Jacknis, Margaret Mead non ha lasciato molti appunti riguardanti il lavoro di post-produzione dei film, ma appare evidente che avesse un preciso intento nel pensare il criterio di realizzazione e la destinazione dei prodotti finali: va-le a dire un uso scientifico del cinema volto a mostrare “a defi-nite theoretical interpretation of the material, perhaps the first films in anthropology to do so.”50 Né ha aggiunto ai film una guida dettagliata che spiegasse modalità e criteri di realizzazio-ne: a esempio, per Trance and Dance in Bali non è indicato che il film è il risultato del montaggio di due eventi diversi registrati in date molto lontane fra di loro (16 dicembre 1937 e 8 febbraio 1939), né vengono forniti elementi sull’inserimento delle scene al rallentatore.

Bathing Babies in Three Cultures prende in esame la pratica del bagno ai bambini secondo la cultura balinese, quella degli Iatmul della Nuova Guinea e quella degli Stati Uniti fra gli anni ’30 e gli anni ’40. Karba’s First Years è il risultato del montag-gio in sequenza temporale di due anni della vita di un bambino balinese (Karba), seguito dall’età di sette mesi all’età di trenta-quattro mesi. First Days in the Life of a New Guinea Baby mo-stra tutto ciò che avviene nei primi giorni di vita a partire dal momento del parto e comprendente il trattamento del neonato e della madre. Trance and Dance in Bali riguarda la rappresenta-zione rituale del combattimento di due entità soprannaturali del-la cultura balinese, la strega Rangda e il drago Barong, durante la quale si manifestano molti fenomeni di trance collettiva.51 Gli avvenimenti registrati in questo film sono stati esplicitamente

50 I. Jacknis, Margaret Mead and Gregory Bateson in Bali, cit., p. 170. 51 Come nota Ira Jacknis riferendosi a quanto scrive Jane Belo: “the particular ritual they filmed was not an ancient form, but had been created during the period of the their fieldwork. In 1936 a group of Balinese had combined the Rangda or Witch play (Tjalonarang) with the Barong and kris-dance play, which was then popularized with tourists through the efforts of Walter Spies and his friends.” Margaret Mead and Gregory Bateson in Bali, cit., p. 168.

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messi in scena su richiesta dei due ricercatori per poter effettua-re le riprese:

Uno dei nostri film più riusciti fu fatto quando chiedemmo a un grup-po di esibirsi alla luce del sole in una rappresentazione che di solito veniva eseguita solo a notte inoltrata. Non disponevamo di riflettori e volevamo filmare modi diversi in cui uomini e donne maneggiavano i loro kris, affilati come rasoi, nelle danze in trance, quando rivolgeva-no il pugnale contro la loro persona in un’imitazione scherzosa del suicidio. L’uomo che aveva combinato la cosa decise di sostituire donne giovani e belle alle vecchie rugose che si esibivano la notte, e così potemmo registrare come donne che prima di allora non erano mai cadute in trance ripetessero senza un solo errore il comportamen-to tradizionale al quale avevano assistito tutta la loro vita.52 Non solo, ma i due ricercatori introdussero con le loro ri-

chieste anche una serie di mutamenti significativi nelle rappre-sentazioni danzate e nella pratica della trance cerimoniale:

We had seen women dance with krisses at temple festivals at night and had observed that their dancing, though nominally the same as that of the men, was fundamentally different. We wanted to get a mo-tion-picture record of the women’s dancing, and therefore suggested to the dancing club of Pagoetan, in 1937, that they should include in their performance some women with krisses. This they did without any hesitation, and by 1939 the women were an established part of the performance.53 A Balinese Family e Childhood Rivalry in Bali and New

Guinea riguardano ancora la vita quotidiana, mentre Learning to Dance in Bali si sofferma sull’attività didattica di Mario, uno dei più famosi ballerini e maestri di danza di Bali nel periodo della loro ricerca.

52 M. Mead, L’inverno delle more, cit., p. 272. 53 G. Bateson, M. Mead, Balinese Character, cit., p. 167.

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Qualche breve conclusione

L’incontro fra Margaret Mead e Gregory Bateson, nel Natale del 1932 sul fiume Sepik, ha costituito sicuramente un momen-to determinante nella vita dei due antropologi, ma ha costituito un momento altrettanto determinante nel corso degli studi an-tropologici. È da quell’incontro che nasce una nuova prospetti-va metodologica incentrata sull’uso creativo e sperimentale del-le immagini e si consolida anche l’intuizione ormai avviata a maturazione in quegli anni dell’importanza di soffermare l’attenzione sugli aspetti visivi della cultura: antropologia visiva da un lato, antropologia della comunicazione visiva dall’altro.54

Margaret e Gregory fecero fare grandi progressi all’antropologia dal punto di vista della registrazione dei particolari etnografici, inventan-do modi completamente nuovi di usare la cinepresa e la macchina fo-tografica. Si impegnarono moltissimo sul piano della documentazione e nel cercare di fare della ricerca sul campo un’operazione più scienti-fica.55 A ciò si aggiunga l’idea, assolutamente innovativa per

l’epoca, di una prospettiva di studio volta a indagare aspetti in-tangibili come il tono emotivo, le forme espressive, le tecniche del corpo, i comportamenti sociali e individuali culturalmente orientati, prefigurando in maniera chiara le successive aperture di orizzonte dell’antropologia verso un sistema di relazioni complesse che coniugano insieme arte e scienza, creatività e rigore metodologico:

During the period from 1928 to 1936 we were separately engaged in efforts to translate aspects of culture never successfully recorded by the scientist, although often caught by the artist, into some form of

54 Cfr. C. Pennacini, Filmare le culture. Un’introduzione all’antropologia visiva, Roma, Carocci, 2005, pp. 53-62. 55 M. C. Bateson, Con occhi di figlia. Ritratto di Margaret Mead e Gregory Bateson, Milano, Feltrinelli, 1985, p. 164.

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communication sufficiently clear and sufficiently unequivocal to sat-isfy the requirements of scientific enquiry.56 L’incontro sul fiume Sepik, al di là della retorica e dei luo-

ghi comuni, ha assunto i contorni di un episodio mitico, collo-cato in un passato irraggiungibile e non più riproducibile: un avvenimento fondante che ha inaugurato un esemplare percorso scientifico da cui è nato il primo vero progetto di antropologia visiva.

56 G. Bateson, M. Mead, Balinese Character, cit., p. XI.

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Fotografie sul campo: Le fotografie di seguito presentate e le relative didascalie sono tratte da G. Sullivan, Margaret Mead, Gregory Bateson, and Highland Bali. Fieldwork Photographs of Bayund Gedé, 1936-1939, Chicago-London, Chicago University Press, 1999.

1. Margaret Mead prende appunti durante la rappresentazione Calona-rang (29 maggio 1937).

2. Margaret Mead nota come cammina una nipote di Men Bina (21 marzo 1937).

3. Margaret Mead con una madre, probabilmente Men Sama, e il suo bambino (26-28 novembre 1936).

4. La consacrazione del cortile di Mead e Bateson. Margaret Mead siede sotto un ombrello sulla sinistra (3 aprile 1936).

5. Margaret Mead davanti al reliquiario del cortile di Mead e Bateson (8-9 aprile 1937).

6. Made Kaler prende nota mentre passa il Barong (9 maggio 1937).

7. Margaret Mead e Gregory Bateson al lavoro nella loro stanza zan-zariera durante il soggiorno tra gli Iatmul della Nuova Guinea nel 1938.

8. “Io prendo nota mentre Gregory filma un gruppo di bambini che gioca”. Fotografia e didascalia tratte da Lettere dal campo 1925-1975.

9. Danzatori di Tiga ballano davanti al Bale Agung nel Pura Gedé. Si nota il cavalletto di Bateson (12 maggio 1937).

10. Una giovane danzatrice in trance, I Renoe, posseduta dagli dei in quello che sembra essere il cortile di Mead e Bateson. Sullo sfondo si trova il cavalletto di Bateson (13 luglio 1936).

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2. L’antropologia visiva in una disciplina di parole*

Margaret Mead

L’antropologia, in quanto insieme di discipline - variamente definite e organizzate nei diversi paesi come antropologia cul-turale, antropologia sociale, etnologia, etnografia, linguistica, antropologia fisica, folklore, storia sociale e geografia umana - ha assunto implicitamente ed esplicitamente la responsabilità di produrre e conservare la documentazione delle civiltà e delle etnie in via di estinzione, si tratti di popolazioni endogamiche, prealfabete isolate in qualche giungla tropicale, o nella profon-dità di un cantone svizzero, o sulle montagne di un regno asi-atico. La coscienza del fatto che forme del comportamento

* Questo testo costituisce l’Introduzione al volume Principles of Visual An-thropology, Paul Hockings ed., Mouton, The Hague-Paris 1975, pp. 3-10. La presente traduzione in italiano (di Paola Capriolo) è tratta da “La ricerca fol-klorica”, L’antropologia visiva. La fotografia, a cura di S. Spini, numero 2, 1980, pp. 95-98. Citazioni e rinvii sparsi nel testo fanno riferimento al XIX Congresso Internazionale di Scienze antropologiche ed etnologiche di Chica-go del 1973 e al volume più sopra citato.

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umano tuttora esistenti sono inevitabilmente destinate a scom-parire ha condizionato gran parte della nostra cultura scientifica ed umanistica. Non c’è mai stata abbastanza gente che lavorasse per raccogliere le sopravvivenze di questi mondi; e, proprio come ogni anno diverse specie di creature viventi cessano di esistere impoverendo il nostro patrimonio biologico, cosi ogni anno diversi linguaggi parlati solo da uno o due superstiti scom-paiono per sempre con la loro morte. Questa consapevolezza ha fornito una forza dinamica che ha sostenuto gli operatori sul campo nel prendere appunti con le dita gelate, intirizzite, in un clima artico, o nel preparare le proprie lastre al collodio nelle difficili condizioni di un clima torrido. Alla luce di questi documenti, frutto di lavoro svolto con dediz-ione, noioso, spesso non ricompensato, eseguito in condizioni dure e difficili, ci si potrebbe aspettare che ciascun settore di professionisti dell’antropologia si sia servito con impazienza dei nuovi metodi che potrebbero semplificare e migliorare il lavoro sul campo. Così, i metodi di datazione divengono progres-sivamente disponibili per gli archeologi; il fonografo, il magne-tofono a filo e il registratore per i musicologi e i linguisti; le immagini fisse o in movimento e il video per gli etnologi. Gli straordinari progressi che sono stati compiuti in ogni campo quando sono diventati disponibili nuovi strumenti (come il car-bonio 14 ha rimpiazzato gli anelli dei tronchi, i nastri magnetici hanno preso il posto dei rulli di cera, il sonoro sincronizzato e il film hanno sostituito le lastre di collodio) sembrerebbero così evidenti che nel 1973, ad un congresso mondiale, ci si dovrebbe solo preoccupare di discutere sulle più recenti acquisizioni te-oriche prodotte dagli strumenti più avanzati e di spiegare e di-mostrare l’uso dei mezzi più efficaci. Un approccio come quello presentato nel saggio di Joseph Schaeffer1 in questo volume. E invece ci troviamo davanti alla triste descrizione delle occasioni

1 J. Schaeffer, Videotape: New Techniques of Observation and Analysis in Anthropology, in Principles of Visual Anthropology, Mouton Publishers, The Hague-Paris, 1975, p. 253.

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2. L’antropologia visiva in una disciplina di parole 51

perdute tracciata nell’articolo di Emilie de Brigard2 ed alla de-scrizione di ciò che si può ancora fare, tenuto conto delle possi-bilità sprecate, nel panorama sintetico della situazione mondiale, fornito da Alan Lomax3. In tutto il mondo su ogni continente e isola, nei recessi nascosti delle moderne città industriali come nelle valli isolate, raggiun-gibili solo con l’elicottero, stanno sparendo comportamenti preziosi assolutamente insostituibili e definitiva mente irripro-ducibili, mentre i dipartimenti di antropologia continuano a mandare sul campo operatori senz’altra attrezzatura che una matita e un taccuino e magari qualche test, qualche questionario - chiamati anch’essi “strumenti” - come concessione alla scienza. Saltuariamente cineasti dotati e creativi hanno fatto dei film sul comportamento umano e qualche antropologo in grado di fare dei film o di fare in modo che venissero fatti, ha sgob-bato, ed è stato apprezzato o denigrato secondo le regole della perversa ,competizione creata da un mercato instabile e capric-cioso... ma è tutto qui. Ciò che possiamo mostrare, dopo quasi un secolo di disponibilità degli strumenti audiovisivi, sono al-cuni splendidi ed appassionati tentativi: i film di Marshall sui Boscimani, quelli di Bateson sugli abitanti di Bali e gli Iatmul, le spedizioni Heider-Gardner tra i Dani, gli sforzi instancabili di Jean Rouch nell’Africa Occidentale, alcuni film sugli aborigeni australiani, la serie sugli eschimesi Netsilik di Asen Balikci, le serie di Asch-Chagnon sugli Yanomamö, e per quanto riguarda l’aspetto archivistico e analitico, gli sforzi giganteschi del Co-lumbia Cantometrics Project, del Child Development Film Pro-ject, del National Institutes of Health, del Research Unit at the Eastern Pennsylvania Psychiatric Institute, dell’Encyclopaedia Cinematographica, e del Royal Anthropological Institute di Londra. Oserei dire che sono state consumate, dette o scritte, più parole per contestare il valore, rifiutare i fondi, e respingere questi

2 E. De Brigard, The History of Ethnographic Film, ibidem, p. 13. 3 A. Lomax, Audiovisual Tools for the Analysis of Culture Style, ibidem, p. 303.

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progetti, di quante ne siano state impiegate nei progetti stessi. Una serie infinita di dipartimenti e di programmi di ricerca non includono il cinema e insistono nel continuare col metodo, asso-lutamente inadeguato e legato ad uno stadio ormai superato, di prendere appunti, mentre contemporaneamente il cinema avrebbe potuto riprendere e conservare per secoli (per la gioia dei discendenti di coloro che danzano un rituale per l’ultima volta o per la formazione delle future generazioni di scienziati umani) usanze che scompaiono sotto gli occhi di tutti. Perché? Che cosa è andato male? Una spiegazione parziale di questo rimanere aggrappa ti alle descrizioni verbali quando sono disponibili tanti modi migliori di documentare vari aspetti della cultura, risiede nella natura stessa del mutamento culturale. Gran parte del lavoro sul campo che gettò le basi dell’antropologia come scienza fu condotto in condizioni di rapidissimo mutamento, per cui il ricercatore doveva basarsi sulla memoria degli informatori anziché sull’osservazione di eventi contemporanei. L’informatore aveva soltanto parole per descrivere la danza di guerra che non veniva più danzata, la caccia al bufalo dopo la scomparsa del bufalo, il banchetto di cannibali non più praticato, o i metodi abbandonati di scarnificazione e mutilazione. Di conseguenza le indagini etnografiche finirono per dipendere da parole, parole, parole, proprio nel periodo in cui l’antropologia stava maturando come scienza. Lévi-Strauss ha dedicato i suoi anni maturi a un’analisi di quella parte di mito e folklore presa da una traduzione scritta di un testo scritto. Lowie, lavorando sulle riserve indiane si chiedeva come fosse possibile sapere che un individuo era il fratello della madre di qualcuno se qualcuno non te lo “diceva”. Basandosi sulle parole (parole di informatori dei quali non avevamo modo di conservare i gesti, parole di etnografi che non avevano danze di guerra da fotografare) l’antropologia divenne una scienza di parole, e quelli che si basavano sulle parole erano molto restii a permettere che i loro allievi si servissero di nuovi strumenti, mentre i neofiti hanno fin troppo servilmente seguito i metodi antiquati dei loro predecessori.

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Un’altra spiegazione è che occorre una maggiore specializzazi-one e capacità - per fotografare e filmare che non per mettere in moto un registratore o per prendere appunti. Ma non si pretende da un linguista, che ha registrato con cura sul campo, che al ri-torno riesca a montare una sinfonia con questi materiali. Si pos-sono raccogliere campioni di comportamenti filmati, adeguati quanto i testi registrati, da parte di qualsiasi etnologo corret-tamente preparato, che sia in grado di caricare una macchina, posarla su un cavalletto, leggere un esposimetro, misurare la distanza e disporre il diaframma. Certo qualunque etnologo con intelligenza sufficiente a superare esami basati su una cono-scenza critica dei sacri testi del momento e meritevole di essere mantenuto sul campo può imparare a fare queste documentazi-oni; documentazioni che possono poi essere analizzate con i nostri metodi sempre più perfezionati di microanalisi della danza, dei canti, del linguaggio e dei rapporti transazionali tra le persone. Non pretenderemo che un etnologo sappia scrivere con l’abilità di un romanziere o di un poeta, anche se in effetti ac-cordiamo un’attenzione sproporzionata a quelli che sanno farlo. È del pari sbagliato chiedere che il comportamento filmato ab-bia le caratteristiche di un’opera d’arte. Possiamo essere contenti quando questo avviene e possiamo amare quelle rare combinazioni di abilità artistica e fedeltà sci-entifica che ci hanno dato grandi film etnografici. lo credo però che non abbiamo il minimo diritto di sprecare fiato e risorse per pretenderle. Che poi lo facciamo è la sciagurata conseguenza della tradizione europea che attribuisce importanza all’originalità nelle arti e nello stesso tempo del modo in cui la macchina da presa ha sostituito il pennello dell’artista facendo del film una forma d’arte. Cosi l’esorbitante pretesa che i film etnografici siano grandi opere d’arte, unita alla contemporanea condanna di quelli che fanno opere d’arte e non si mostrano fedeli a certe frequenze statisticamente definite di eventi dram-matici, continua a ingombrare il campo del cinema mentre in-tere culture spariscono, non documentate. Una seconda spiegazione della nostra criminale trascuratezza nell’adoperare il cinema è il costo. Si afferma che i costi

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dell’attrezzatura, della lavorazione e dell’analisi del film sono proibitivi in termini di tempo e di denaro. Ma ogni scienza, man mano che ha sviluppato i propri strumenti, ha sempre avuto bi-sogno di attrezzature più costose. Gli astronomi non hanno rin-unciato all’astronomia perchè sono stati fabbricati telescopi migliori nè i fisici hanno smesso con la fisica quando hanno avuto bisogno di un ciclotrone, ne i genetisti hanno abbando-nato le genetica per il costo di un microscopio elettronico. Al contrario ognuna di queste discipline ha tenuto il passo coll’aumento e coll’espansione della propria efficienza, mentre gli antropologi non solo non sono stati capaci di sfruttare le po-tenzialità dei propri strumenti, ma hanno continuato a servirsi di questionari per chiedere alle madri come disciplinano i propri bambini, di parole per descrivere come viene fatto un vaso, e di un guazzabuglio di segni per descrivere le inflessioni vocali. Aggiungendo al danno la beffa in molti casi hanno scoraggiato, ostacolato, e persino sabotato gli sforzi fatti dai loro compagni di ricerca per usare i nuovi metodi. lo penso che dobbiamo ren-derci ben conto del fatto che noi, come scienza, dobbiamo pren-dercela solo con noi stessi per questa grossolana e spaventosa negligenza. Essa ha prodotto perdite che non potranno mai essere recuperate. Ma c’è ancora tempo per raccogliere, con un serio e coordinato sforzo internazionale, almeno campioni adeguati di comportamenti significativi in ogni parte del mondo, e per procurarci documentazioni più ricche di intere culture, da aggiungere al pochissimo che abbiamo. C’è poi un secondo problema affrontato in modi diversi nelle pagine di questo volume: come addestrare nel modo migliore l’etnologo a capire la realizzazione e l’analisi del film? Come indirizzare coloro che partono come cineasti e vogliono im-parare a fare film etnografici?E come organizzare équipes per un massiccio lavoro sul campo? Mezzo secolo di tentativi coraggiosi e disinteressati intorno a questo problema, ci ha for-nito un bel patrimonio di esperienze utilizza bili. È possibile dirigere un operatore che non ha una conoscenza reale del sig-nificato di ciò che riprende, specialmente quando devono essere realizzate molte riprese in studio, come nel tipo di ricostruzione

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partecipata usata da Asen Balikci nella sua serie sugli es-quimesi. È possibile per il cineasta utilizzare il lavoro di un et-nografo che lo ha preceduto sul campo, come fece Gardner con il lavoro di Heider, e come fecero Craig Gilbert e la sua equipe col mio lavoro sui Manus. Ma io credo che il risultato migliore si ottenga quando il cineasta e l’etnografo sono la stessa per-sona, benché in molti casi un interesse o una capacità possa sof-focare l’altro. Abbiamo insistito a lungo sul fatto che l’etnologo deve imparare a tenere in considerazione gli aspetti di una cul-tura per la quale non ha un interesse personale, e le tecniche specialistiche per la documentazione. Se impara una lingua ci si aspetta che porti indietro dei testi; se la popolazione fabbrica pentole, ci si aspetta che ne documenti la tecnica; qualunque sia il suo problema ci si aspetta che riporti la nomenclatura adatta. I presupposti perchè si riporti da ogni spedizione sul campo un minimo di documentazione sonora, cinematografica, fotografica e video (dove è tecnicamente possibile) non sono un grosso ag-gravio alla normale spedizione sul campo. Simili presupposti non produrranno film magnifici, su larga scala, artisticamente soddisfacenti e validi sia dal punto di vista umanistico che da quello scientifico questi forse saranno sempre pochi. Ma il la-voro recente nella Nuova Guinea condotto sul campo da Wil-liam Mitchell e Donal Tuzin, ha dimostrato che è possibile unire ad una buona analisi etnografica tradizionale la produzi-one di film, fotografie e registrazioni. Raccogliere, padroneg-giare, trasportare, provvedere alla manutenzione e usare l’attrezzatura, aggiunge certamente pesi in più. Ma in passato, il ricercatore sul campo doveva lottare con molte malattie (oggi prevenibili con vitamine e sostanze minerali), e con immense distanze, tra la base di partenza e la stazione sul campo, ora ri-dotte da mesi a giorni. I diari dei ricercatori sul campo di una volta come Malinowski (nelle Trobriand), Deacon (morto di febbre emoglobinurica nelle Nuove Ebridi), e Olsen (a lungo malato sugli altipiani andini) documentano a sufficienza i van-taggi che la tecnologia moderna ci ha dato. Il tempo e l’energia che ci mettono a disposizione le moderne tecnologie mediche e

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meccaniche, possono ora essere dedicati a usare la stessa tec-nologia per migliorare la nostra documentazione antropologica. Un terzo problema è quello del rapporto che si instaura tra et-nologo, cineasta ed equipe da una parte, e le persone il cui com-portamento (così prezioso e sul punto di sparire per sempre) si sta filmando dall’altra. Benché non sia mai stato girato un film senza una certa cooperazione dei partecipanti alle danze o alle cerimonie che venivano riprese, è stato possibile in passato che il cineasta imprimesse al film la propria visione della cultura e della popolazione che costituivano l’oggetto del suo lavoro. È una cosa che non credo possa essere del tutto evitata. Tuttavia il gruppo isolato o la nuova nazione emergente che vietano le riprese cinematografiche per paura di una rappresentazione negativa, perderanno più di quello che guadagnano. Nel tenta-tivo di proteggere un’immagine nazionale attualmente gradita, sottrarranno la loro legittima eredità ai propri discendenti che (dopo i ricorrenti sussulti di modernizzazione, di innovazione tecnologica, di nuove forme di organizzazione economica) pos-sono voler tornare ai ritmi e alle tecniche della loro gente. Sa-ranno quindi impoveriti non soltanto il mondo della scienza e dell’arte, ma le loro stesse future generazioni. Comunque ci so-no misure che oggi possono essere prese dall’etnografo, dalle persone filmate e dai governi che hanno da poco scoperto i problemi del cambiamento culturale in un contesto mondiale. Si possono concludere accordi per impedire che vengano mostrate all’interno di quel paese riproduzioni di fotografie o copie di film che documentino cerimonie sacre ed esoteriche o illegali e pertanto vietate dal nuovo sistema di governo. Può anche essere proibito filmare per la televisione; in questi casi i film potranno essere riservati al solo uso scientifico. Questo è un primo gruppo di precauzioni. Ce n’è poi un secondo che però non sostituisce (benché spesso si affermi sentimentalmente il contrario) queste precauzioni formali riguardo alla diffusione e all’uso di materiale visivo. Si tratta dell’inclusione delle persone filmate nell’intero processo, cioè nella preparazione e programmazione, nella lavorazione e nel montaggio del film. Troviamo i primi esempi di questa col-

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laborazione, non ancora completamente integrata, nei film che Adair e Worth fecero realizzare dagli indiani Navajo, nei tipi di partecipazione concessi a Peter Adair per Holy Ghost People; nell’addestramento di assistenti e critici locali (come quelli da noi preparati a Bali, che potevano per esempio vedere i film sul campo e discutere se un trance-dancer è “in trance” oppure no); e nei film realizzati da alcuni ex assistenti di Jean Rouch nel Niger. Un ideale al quale potremmo tendere sarebbe una com-binazione di film realizzati da cineasti etnografi provenienti da culture moderne differenti - per esempio giapponesi, francesi, americani - e di sequenze girate e montate da coloro che dan-zano o rappresentano le cerimonie o gli episodi di vita quotidi-ana che vengono filmati. I rischi di tendenziosità, sia da parte di coloro che filmano solo in base alla propria ottica culturale, sia da parte di quelli che vedono la propria cultura filmata at-traverso lenti deformanti, potrebbero essere compensati non da insensate pretese a procedure neutrali, ma - come in tutto il la-voro comparativo che è l’essenza dell’antropologia come scienza - dal correttivo di punti di vista con basi culturali differ-enti. Noi dobbiamo, io credo, riconoscere chiaramente e senza equi-voci che, poiché questi sono tipi di comportamento in via di sparizione, abbiamo bisogno di conservarli in forme che non solo permettano ai discendenti di reimpadronirsi della propria identità culturale (e alle attuali generazioni di incorporarla nei loro stili emergenti), ma offrano alla nostra comprensione della storia e delle potenzialità umane un corpus attendibile, riproduci bile e rianalizzabile. Dobbiamo anche tener presente che non esisterebbe una scienza comparativa delle culture se non ci fos-sero i materiali forniti dal lavoro comparativo in ogni parte del mondo (studi sulle tecniche di gruppi contadini isolati e sulla gestualità delle culture alfabete oltre che dei popoli prealfabeti che hanno conservato forme antichissime di comportamento); le scienze umane si dibatterebbero ancora, come tanta della nostra sociologia specializzata che si occupa di cultura, in un quadro di esperienze inadeguato, che ha come presupposto che la storia e

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che la storia e la civiltà, come le configurarono i greci, sono il modello della cultura. Man mano che ci avviciniamo a un sistema di comunicazione mondiale, ci sarà inevitabilmente una diffusione di assunti fon-damentali comunemente condivisi, molti dei quali diventeranno parte del patrimonio culturale comune ad ogni membro della società. Possiamo sperare, e in questo consiste in parte il com-pito dell’antropologia, che, prima che si sviluppino questi sis-temi di pensiero, la tradizione euroamericana venga allargata e approfondita incorporando i presupposti fondamentali delle al-tre grandi tradizioni e riconoscendo ciò che abbiamo imparato dalle piccole tradizioni. Tuttavia verrà il tempo in cui l’illuminazione dell’autentico shock culturale sarà più difficile da raggiungere, in cui la diver-sità culturale sarà molto più sottilmente calibrata e in cui sarà necessaria una maggiore e più raffinata esperienza educativa per coglierla e farne un uso costruttivo. Come potremo allora forni-re materiali contrastanti come quelli provenienti oggi dall’Europa, dall’Asia, dall’Africa e dalle Americhe e compren-sivi e comprensibili come l’intera cultura di un gruppo isolato di Esquimesi e di Boscimani? È stato ponendoli di fronte a queste differenze che abbiamo addestrato i nostri allievi a raccogliere i materiali partendo dai quali abbiamo poi sviluppato le nostre teorie. Le tecnologie emergenti del cinema, delle registrazioni su nastro, del video e, speriamo, della camera a 360° render-anno possibile preservare materiale (almeno di alcune culture selezionate) per l’addestramento degli studenti anche quando da tempo l’ultima valle isolata del mondo riceverà immagini via satellite.

Infine bisognerà affrontare sommariamente l’obiezione spes-so ripetuta che la registrazione e il film sono selettivi e non og-gettivi. Se il registratore, la camera o il video vengono fissati e lasciati nello stesso posto, si possono raccogliere grandi quanti-tà di materiale senza l’intervento del cineasta e dell’etnografo e senza il continuo imbarazzo delle persone osservate. La camera o il registratore che sta fermo in un posto, che non viene regola-to, riavvolto, rimesso a fuoco o ricaricato in maniera palese di-

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venta parte integrante dello sfondo e ciò che registra è ciò che è successo. È una curiosa anomalia che proprio quelli che sono stati accusati di essere soggettivi e impressionistici, quelli che di fatto erano disposti a fidarsi dei propri sensi e delle proprie ca-pacità di integrare l’esperienza, siano stati i più attivi nell’uso di strumenti in grado di fornire masse di materiali oggettivi riana-lizzabili alla luce di una teoria differente. Quelli invece che hanno più clamorosamente chiesto un lavoro “scientifico” sono stati i meno disponibili a servirsi di strumenti che facciano per l’antropologia ciò che hanno fatto per altre scienze: raffinare ed espandere l’area dell’osservazione esatta. Oggi film applauditi come grandi risultati artistici raggiungono i loro effetti con ra-pidi sposta menti della cinepresa e con montaggi di tipo calei-doscopico. Quando si gira solo per produrre un film attualmente alla moda, non si hanno quelle lunghe sequenze da un punto di vista fisso che sole possono fornirci brani non montati di osser-vazione sui quali deve essere basato il lavoro scientifico. Tutta-via anche se dobbiamo rallegrarci del fatto che la camera forni-sca un mezzo di espressione a chi è incapace di esprimersi ver-balmente e che possa drammatizzare una cultura esotica sia per i suoi membri che per il mondo, come antropologi dobbiamo insistere su un modo di filmare e di registrare prosaico, control-lato e sistematico che ci fornisca materiale ripetuta mente riana-lizzabile con strumenti più raffinati e con nuove teorie. Molte delle situazioni di cui ci occupiamo, situazioni fornite da mi-gliaia di anni di storia umana, non potranno mai essere riprodot-te in laboratorio. Ma con i materiali visivi e sonori correttamen-te raccolti, annotati e conservati, potremo riprodurre in conti-nuazione e analizzare scrupolosamente gli stessi materiali. Co-me strumenti più raffinati ci hanno insegnato più cose sul co-smo, cosi una migliore registrazione di questi preziosi materiali può illuminare la nostra crescente conoscenza e valutazione dell’umanità.

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3. Margaret Mead and Gregory Bateson on the Use of the Camera in Anthropology*

Bateson: I was wondering about looking through, for example, a camera. Mead: Remember Clara Lambert and when you were trying to teach her? That woman who was making photographic studies of play schools, but she was using the camera as a telescope instead of as a camera. You said, ‘She’ll never be a photogra-pher. She keeps using the camera to look at things.’ But you didn’t. You always used a camera to take a picture, which is a different activity. B: Yes. By the way, I don’t like cameras on tripods, just grind-ing. In the latter part of the schizophrenic project, we had cam-eras on tripods just grinding. M: And you don’t like that? B: Disastrous. M: Why?

* Questo scritto è stato estratto da una più ampia intervista: For God’s Sake, Margaret, conversation between Stewart Brand, Gregory Bateson and Marga-ret Mead, “CoEvolutionary Quarterly”, 10, June 1976, pp. 32-44.

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B: Because I think the photographic record should be an art form. M: Oh why? Why shouldn’t you have some records that aren’t art forms? Because if it’s an art form, it has been altered. B: It’s undoubtedly been altered. I don’t think it exists unal-tered. M: I think it’s very important, if you’re going to be scientific about behavior, to give other people access to the material, as comparable as possible to the access you had. You don’t, then, alter the material. There’s a bunch of film makers now that are saying, ‘It should be art,’ and wrecking everything that we’re trying to do. Why the hell should it be art? B: Well, it should be off the tripod. M: So you run around. B: Yes. M: And therefore you’ve introduced a variation into it that is unnecessary. B: I therefore got the information out that I thought was rele-vant at the time. M: That’s right. And therefore what do you see later? B: If you put the damn thing on a tripod, you don’t get any relevance. M: No, you get what happened B: It isn’t what happened. M: I don’t want people leaping around thinking that a profile at this moment would be beautiful. B: I wouldn’t want beautiful. M: Well, what’s the leaping around for? B: To get what’s happening. M: What you think is happening. B: If Stewart reached behind his back to scratch himself, I would like to be over there at that moment. M: If you were over there at that moment you wouldn’t see him kicking the cat under the table. So that just doesn’t hold as an argument. B: Of the things that happen the camera is only going to record one percent anyway.

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M: That’s right. B: I want one percent on the whole to tell. M: Look, I’ve worked with these things that were done by artis-tic film makers, and the result is you can’t do anything with them. B: They’re bad artists, then. M: No, they’re not. I mean an artistic film maker can make a beautiful notion of what he thinks is there, and you can’t do any subsequent analysis with it of any kind. That’s been the trouble with anthropology, because they had to trust us. If we were good enough instruments, and we said the people in this culture did something more than the ones in that, if they trusted us, they used it. But there was no way of probing further material. So we gradually developed the idea of film and tapes. B: There’s never going to be any way of probing further into the material. M: What are you talking about, Gregory? I don’t know what you’re talking about. Certainly, when we showed that Balinese stuff that first summer there were different things identified - the limpness that Marion Stranahan identified, the place on the chest and its point in child development that Erik Erikson iden-tified. I can go back over it, and show you what they got out of those films. They didn’t get it out of your head, and they didn’t get it out of the way you were pointing the camera. They got it because it was a long enough run so they could see what was happening. Steward Brand: What about something like that Navajo film, ‘Intrepid Shadows?’1 M: Well, that is a beautiful, an artistic production that tells you something about a Navajo artist. B: This is different, it’s a native work of art. M: Yes, and a beautiful native work of art. But the only thing you can do more with that is analyze the film maker, which I

1 Sol Worth and John Adair, Through Navajo Eyes, Bloomington, Indiana, Indiana University Press, 1972. ‘Intrepid Shadows’ was made by Al Clah, a 19-year old Navajo painter and sculptor.

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did. I figured out how he got the animation into the trees. B: Oh yes? What do you get out of that one? M: He picked windy days, he walked as he photographed, and he moved the camera independently of the movement of his own body. And that gives you that effect. Well, are you going to say, following what all those other people have been able to get out of those films of yours, that you should have just been artistic? SB: He’s saying he was artistic. M: No, he wasn’t. I mean, he’s a good film maker, and Balinese can pose very nicely, but his effort was to hold the camera steady enough long enough to get a sequence of behavior. B: To find out what’s happening, yes. M: When you’re jumping around taking pictures ... B: Nobody’s talking about that, Margaret, for God’s sake. M: Well. B: I’m talking about having control of a camera. You’re talking about putting a dead camera on top of a bloody tripod. It sees nothing. M: Well, I think it sees a great deal. I’ve worked with these pic-tures taken by artists, and really good ones... B: I’m sorry I said artists; all I meant was artists. I mean, artist is not a term of abuse in my vocabulary. M: It isn’t in mine either, but I ... B: Well, in this conversation, it’s become one. M: Well, I’m sorry. It just produces something different. I’ve tried to use ‘Dead Birds’,2 for instance ... B: I don’t understand ‘Dead birds’ at all. I’ve looked at ‘Dead Birds,’ and it makes no sense. M: I think it makes plenty of sense. B: But how it was made I have no idea at all. M: Well, there is never a long-enough sequence of anything, and you said absolutely that what one needed was long, long

2 Dead Birds, Directed by Robert Gardner for the Peabody Museum, Harvard University, color, 83 minutes, 1964. Available through New York Public Li-brary.

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sequences from one position in the direction of two people. You’ve said that in print. Are you going to take it back? B: Yes, well, a long sequence in my vocabulary is twenty sec-onds. M: Well, it wasn’t when you were writing about Balinese films. It was three minutes. It was the longest that you could wind the camera at that point. B: A very few sequences ran to the length of the winding of the camera. M: But if at that point you had a camera that would run twelve hundred feet, you’d have run it. B: I would have and I’d have been wrong. M: I don’t think so for one minute. B: The Balinese film wouldn’t be worth one quarter. M: All right. That’s a point where I totally disagree. It’s not science. B: I don’t know what science is, I don’t know what art is. M: That’s all right. If you don’t, that’s quite simple. I do. [To Stewart:] With the films that Gregory’s now repudiating that he took, we have had twenty-five years of re-examination of the material. B: It’s pretty rich material. M: It’s rich, because they’re long sequences, and that’s what you need. B: There are no long sequences. M: Oh, compared with anything anybody else does, Gregory. B: But they’re trained not to. M: There are sequences that are long enough to analyze ... B: Taken from the right place! M: Taken from one place. B: Taken from the place that averaged better than other places M: Well, you put your camera there. B: You can’t do that without a tripod. You’re stuck. The thing grinds for twelve hundred feet. It’s a bore. M: Well, you prefer twenty seconds to twelve hundred feet. B: Indeed, I do. M: Which shows you get bored very easily.

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B: Yes, I do. M: Well, there are other people who don’t, do you know? Take the films that Betty Thompson studied.3 That Karbo sequence - it’s beautiful - she was willing to work on it for six months. You’ve never been willing to work on things that length of time, but you shouldn’t object to other people who can do it, and giving them the material to do it. There were times in the field when I worked with people with-out filming, and therefore have not been able to subject the ma-terial to changing theory, as we were able to do with the Bali-nese stuff. So when I went back to Bali I didn’t see new things. When I went back to Manus, I did, where I had only still photo-graphs. If you have film, as your own perception develops, you can re-examine it in the light of the material to same extent. One of the things, Gregory, that we examined in the stills, was the extent to which people, if they leaned against other people, let their mouths fall slack. We got that out of examining lots and lots of stills. It’s the same principle. It’s quite different if you have a thesis and have the camera in your hand, the chances of influencing the material are greater. When you don’t have the camera in your hand, you can look at the things in the back-ground. B: There are three ends to this discussion. There’s the sort of film I want to make, there’s the sort of film that they want to make in New Mexico (which is ‘Dead Birds,’ substantially), and there is the sort of film that is made by leaving the camera on a tripod and not paying attention to it. M: Who does that? B: Oh, psychiatrists do that. Albert Scheflen4 leaves a video camera in somebody’s house and goes home. It’s stuck in the wall.

3 Betty Thompson, Development and Trial Applications of Method for Identi-fying Non-Vocal Parent-Child Communications in Research Film, (Teachers College, New York, 1970, PhD thesis). 4 Albert E. Scheflen, Body Language and the Social Order: Communication as Behavioral Control, Englewood Cliffs, New Jersey, Prentice-Hall, 1973.

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M: Well, I thoroughly disapprove of the people that want video so they won’t have to look. They hand it over to an unfortunate student who then does the rest of the work and adds up the fig-ures, and they write a book. We both object to this. But I do think if you look at your long sequence of stills, leave out the film for a minute, that those long, very rapid sequences, Koewat Raoeh, those stills, they’re magnificent, and you can do a great deal with them. And if you hadn’t stayed in the same place, you wouldn’t have those sequences. SB: Has anybody else done that since? M: Nobody has been as good photographer as Gregory at this sort of thing. People are very unwilling to do it, very unwilling. SB: I haven’t seen any books that come even close to Balinese Character.5 M: That’s right, they never have. And now Gregory is saying it was wrong to do what he did in Bali. Gregory was the only per-son who was ever successful at taking stills and film at the same time, which you did by putting one on a tripod, and having both at the same focal length. B: It was having one in my hand and the other round my neck. M: Some of the time, and some not. B: We used the tripod occasionally when we were using long telephoto lenses. M: We used it for the bathing babies. I think the difference be-tween art and science is that each artistic event is unique, whereas in science sooner or later once you get some kind of theory going somebody or other will make the same discovery.6 The principal point is access, so that other people can look at your material, and come to understand it and share it. The only real information that ‘Dead Birds’ gives anybody are things like the thing that my imagination had never really encompassed,

5 Margaret Mead and Gregory Bateson, Balinese Character: A Photographic Analysis, New York, The New York Academy of Sciences, Special Publica-tions, II, 1942; reissued 1962. 6 Margaret Mead, Towards a Human Science, “Science”, vol. 191 (March 1976), pp. 903-909.

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and that’s the effect of cutting off joints of fingers. You re-member? The women cut off a joint for every death that they mourn for, and they start when they’re little girls, so that by the time they’re grown women, they have no fingers. All the fine work is dime by men in that society, the crocheting and what not, because the men have fingers to do it with, and the women have these stumps of hands. I knew about it, I had read about it, it had no meaning to me until I saw those pictures. There are lots of things that can be conveyed by this quasi-artistic film, but when we want to suggest to people that it’s a good idea to know what goes on between people, which is was you’ve al-ways stressed, we still have to show your films, because there aren’t any others that are anything like as good. SB: Isn’t that a little shocking? It’s been, what, years? M: Very shocking. B: It’s because people are getting good at putting cameras in tripods. It isn’t what happens between people. M: Nobody’s put any cameras on tripods in those twenty-five years that looked at anything that mattered. B: They haven’t looked at anything that mattered, anyway. All right.

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4. Balinese Character: 20 tavole fotografiche

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70 20 tavole fotografiche

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4. Balinese Character 71

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Finito di stampare nel mese di settembre del 2011

dalla ERMES. Servizi Editoriali Integrati S.r.l.

00040 Ariccia (RM) – via Quarto Negroni, 15

per la Aracne editrice S.r.l. di Roma

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