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1 Vincenzo Carbone MEMORIAMARA Immagine da Flickr - Miss_gruviera Mi chiamo Mara. Mi sveglio con le prime luci dell’alba. Vivo in strada. È stata una notte fredda, e ho sofferto nonostante i cartoni e gli stracci con i quali ho tentato di coprirmi. Gli altri senzatetto della stazione centrale si alzano dalle loro cucce. Tra poco comincerà la giornata anche per “i normali”. Quelli produttivi, vivi, visibili, inquadrati nelle divise sociali che rendono accettabili. Andranno a prendere il treno per riunioni in altre città, a lezione all’università, nella metropolitana che li ingoierà come fanno i serpenti con le uova. Saranno l’ingranaggio della grande macchina della società produttiva. Con una cravatta, uno shampoo e una sciarpa di cashmere ottengono un biglietto per la città dei giusti. È un viaggio di sola andata. Io invece faccio parte degli invisibili. Ho scelto di non essere la parte di un tutto che non mi rappresenta. Non più. Scelgo di non scegliere per non sbagliare ancora. Vivo senza esistere, guardo la luna senza andare in nessun posto. Sono una goccia in un oceano, un punto che viene quotidianamente scavalcato e ignorato come un volantino caduto dal parabrezza di

MemoriaAmara - Il racconto di Vincenzo Carbone

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"Abbiamo diverse etichette. Randagi, barboni, accattoni, clochard. Homeless, derelitti, falliti, bastardi, figli di nessuno, bestie, mortidifame. Siamo solo esseri viventi che non riescono a integrarsi in un sistema che li ha rigettati...". MemoriaAmara, il racconto di Vincenzo Carbone

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Vincenzo  Carbone  

MEMORIAMARA  

Immagine da Flickr - Miss_gruviera

Mi chiamo Mara. Mi sveglio con le prime luci dell’alba. Vivo in strada. È stata una notte fredda, e ho

sofferto nonostante i cartoni e gli stracci con i quali ho tentato di coprirmi. Gli altri senzatetto della

stazione centrale si alzano dalle loro cucce. Tra poco comincerà la giornata anche per “i normali”.

Quelli produttivi, vivi, visibili, inquadrati nelle divise sociali che rendono accettabili. Andranno a

prendere il treno per riunioni in altre città, a lezione all’università, nella metropolitana che li ingoierà

come fanno i serpenti con le uova. Saranno l’ingranaggio della grande macchina della società

produttiva. Con una cravatta, uno shampoo e una sciarpa di cashmere ottengono un biglietto per la città

dei giusti. È un viaggio di sola andata. Io invece faccio parte degli invisibili. Ho scelto di non essere la

parte di un tutto che non mi rappresenta. Non più. Scelgo di non scegliere per non sbagliare ancora.

Vivo senza esistere, guardo la luna senza andare in nessun posto. Sono una goccia in un oceano, un

punto che viene quotidianamente scavalcato e ignorato come un volantino caduto dal parabrezza di

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un’automobile. A noi va bene così, considerando che quando si rendono conto della nostra presenza ci

umiliano. L’altro ieri un ragazzo con la faccia feroce e un odore acre mi ha dato un calcio. Ha colpito

forte, mentre me ne stavo accucciata davanti a una grata da cui usciva un po’ di aria calda. Sono

scappata via. I suoi compagni ridevano per la mia andatura incerta. Zoppico un po’ a causa dei malanni

che non ho mai curato.

Ho gli occhi celesti, ma probabilmente da quando la strada è la mia casa nessuno c’ha mai fatto caso.

Ho tra i 60 e i 65 anni, credo. Una volta ero in forma. Correvo ogni mattina con il mio compagno.

Partivamo dal centro di Roma e scendevamo le scalette davanti a Castel Sant’Angelo per arrivare sotto,

lungo il fiume. Era bello, mi sentivo viva. I ponti che si riflettono sulla superficie verde del fiume

creano dei grandi cerchi, occhi nei quali entravamo durante le nostre corsette. Ora sono talmente lenta

che alla mensa dei poveri arrivo sempre in ritardo, e non mi fanno entrare. Andare prima non se ne

parla: la fila per la cena comincia alle 17, quando io sono in giro a cercare nei rifiuti dei mercati

qualcosa da mangiare. Alla mensa di via Marsala mi accontento di qualche avanzo che mi porta un

anziano tunisino. Quel poveretto passa la giornata a pulire i vetri ai semafori di piazza della

Repubblica. Con amara ironia dice sempre che da piccolo sognava di lavorare in centro, in una grande

città. Gli hanno rubato l’attrezzo per pulire i parabrezza e ora si limita a sfregare i vetri dei fari delle

macchine con un panno lercio. “E devo pure pagare quei tre criminali che mi affittano il semaforo” mi

ripete ogni giorno dandomi una pacca sulla schiena mentre mangio. Forse è il mio unico contatto

umano. Mi lascia sempre un pezzetto di pane e il polpettone che sa di cartone. Meglio di niente. “Mara

piano, sennò ti strozzi”. Lo mangio con ferocia, quasi senza masticarlo. Meglio non farsi vedere con del

cibo. Aziz il tunisino è il mio unico amico, se così si può definire un altro senzatetto.

La competizione per la sopravvivenza è feroce. Ogni mese a piazza Vittorio, su quelle panchine offese

dalle scritte dei writers, si fa il conto dei caduti: “Stanotte è morto Josaphat, il marchigiano con

l’occhio di vetro. L’hanno trovato sdraiato davanti alla saracinesca di un emporio indiano sotto a una

montagna di giornali, abbracciato a un cartone da due litri di vinaccio. Gli avevano pure rubato le

scarpe”. È un macabro bollettino, ma tutti lo ascoltano con attenzione. Magari è sparito quello che ti

doveva 3 euro, e anche questa settimana non si mangia. Aziz mi racconta sempre di suo fratello che sta

a Milano e lavora in un supermercato. Dice che gli manca. Ogni volta io lo guardo implorando di

smetterla. Oggi finalmente ha capito. “Scusa Mara, non volevo ricordarti Sergio”. Lo diceva mentre un

pakistano gli tagliava i capelli. A via di Castro Pretorio c’è questo tipo che per qualche spiccio ti

sforbicia i capelli. Ti fa sedere su una cassa di legno da frutta e senza ascoltare quello che dici comincia

a tagliare. Sembra sapere quello che fa. In questo periodo ha poco da fare, è inverno. Noi “senza

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dimora” badiamo al sodo, e con il gelo i capelli lunghi aiutano a proteggere dal freddo. A me

comunque quel tipo non taglia un bel nulla. Non lo voglio io e, in fondo, credo che non lo voglia

nemmeno lui. Sono ipertricotica, porto una fascia di velluto che mi aveva regalato il mio compagno

troppo tempo fa. Non mi curo e questo crea un risultato che certamente non attrae.

Quando c’era Sergio non mi trascuravo e non avevo mai freddo. La domenica mattina andavamo al

parco. Quelle incredibili giornate autunnali in cui gli alberi e le foglie sembrano infuocate, dipinte di

tutti i toni di rosso. Lui leggeva i suoi giornali, a volte mi raccontava le notizie che lo colpivano di più.

Sapeva bene che non mi interessavano molto, ma era bello condividere. Il mio mestiere era un altro, ed

era grazie ad esso che c’eravamo conosciuti. Ci siamo trovati a Yakhroma, una piccola provincia russa

a nord di Mosca. Lì quando c’è il sole tutti vanno sul canale a guardare i riflessi della luce sull’acqua.

La gente cammina serena, con il sorriso placido di chi non ha mai cambiato lavoro. Io ero impiegata nei

trasporti, specializzata in casi d’emergenza. Dove la neve sembrava non dare possibilità di passaggio,

io e la mia squadra passavamo. Mi fa ridere pensare a quanto il tempo fosse importante per me. Adesso

mi passa davanti come un perfetto sconosciuto, e io non gli presto la minima attenzione. Prima

rappresentava tutto. Il tempo era denaro, il denaro era vita, la vita era fottuta. Se non portavo a termine

un compito i “padroni” non pagavano. Se non giravano soldi io non mangiavo. E mangiare era la parte

della giornata che preferivo.

Un giorno arrivò Sergio, un manager romano della Sda spedizioni che era rimasto bloccato nella

piccola stazione cittadina. Quindicimila abitanti russi non possono certo pretendere la Stazione

Termini. Dopo che lo riportammo a Mosca con delle slitte non volle più separarsi da me. Diceva che

ero bellissima e i miei occhi l’avevano stregato. Io non rispondevo nulla, mi limitavo a sorridere.

Successe tutto molto velocemente. Mi trasferii a Roma dove non lavorai più, non ne avevo bisogno. A

volte giravo per il quartiere alla ricerca dei profumi, dei colori e del calore del sole. Non ero abituata

alla magnificenza di una metropoli. Non ne avevo mai vista una, a parte Mosca. Ascoltavo la nuova

lingua e cercavo di imparare le parole di base. D’estate impazzivo per l’odore dell’aria, una cosa del

tutto nuova e affascinante. Annusavo il vento e sentivo i fiori, il pane del fornaio del quartiere ebraico,

il gelato alla fragola dei bambini, gli scarichi del Tevere all’isola Tiberina e lo smog dei camion.

Non mi sembra più quella città. Vivo cercando di limitare i danni. Nessuno mi guarda pensando che

sono bella. Ho una ferita ad un occhio che non riesco a tenere aperto, una cicatrice in testa e sono

sporca, emano un cattivo odore. Perché tutto quello che per gli altri ha un senso per me non ce l’ha. Se

l’è portato via Sergio, il significato della mia vita. Perché lavarmi? Ogni tanto qualche vecchietta di

San Lorenzo mi invita a mangiare qualcosa. Ma è solo una scusa, poi vorrebbero che mi lavassi. Le

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gattare di Roma sono una categoria umana pericolosa. Hanno territori specifici come gli animali.

Scendono dalle loro case popolari con la vestaglia del mercatino, le calze con l’elastico rotto, i bigodini

in testa e il cibo per gatti dentro a piatti di plastica. Hanno sguardi feroci, pronti a cogliere in fallo chi

disturba i gatti. E io sono una di quelli. Non mi piacciono i gatti. Forse perché li invidio. Passano la

giornata a sonnecchiare e a guardarti con quell’aria di chi t’ha truffato. Le gattare di San Lorenzo

cercano di farmi capire che quegli stupidi felini sono animali intelligenti, puliti, precisi. Tutto il

contrario di me. Io odio i gatti. A me piacciono i cani. Piacevano, anzi, quando ancora vivevo le

emozioni della vita.

Nessuno riesce a rispettare la mia scelta. Abbiamo diverse etichette. Randagi, barboni, accattoni,

clochard. Homeless, derelitti, falliti, bastardi, figli di nessuno, bestie, mortidifame. Siamo solo esseri

viventi che non riescono a integrarsi in un sistema che li ha rigettati. Infezioni che nessuno vuole curare

perché impressionano. Rappresentiamo uno spauracchio, il simbolo del fallimento che le madri

possono indicare ai figli che non vogliono studiare.

Il macro sistema sociale della Stazione in cui vivo è ben definito. Noi siamo l’ultima ruota del carro.

Sopra di noi ci sono gli ubriaconi. Non vivono in strada, per quanto ci passino la maggior parte del loro

tempo. Vengono qui perché nessuno ha il tempo o la voglia di guardarli. La gente che viaggia li evita

come lebbrosi, noi non vogliamo essere confusi con loro. Perché chi ha una casa dove tornare non è dei

nostri. Scelgono di poter far un passo indietro. E poi gli alcoolisti non ragionano. Cercano lo scontro

verbale e quando lo trovano si picchiano. Per poi abbracciarsi. Vivono su una montagna russa emotiva

che stroncherebbe un cavallo. Subito sopra di loro ci sono i drogati. Sono caratterizzati dall’avere un

obiettivo: la dose. Non pensano ad altro e possono essere molto violenti. A me piacciono, in realtà. Non

so per quale strano motivo ma con me sono sempre gentili. E non può essere solo la pena. Spesso mi

danno qualcosa da mettere sotto i denti. L’appetito a loro è sparito da tempo. Poi, procedendo nella

“piramide” di Termini, trovano spazio i ladri. Quelli sì che sono dei parassiti. Truffano la gente in tutti i

modi. Di solito girano in coppia, uno va a sbattere contro la vittima e l’altro gli sottrae il portafogli o la

macchina fotografica. Non si fermano mai, come una catena di montaggio. Troppo veloci per essere

visti dalla sicurezza, hanno dei turni organizzati. Infine ci sono gli impiegati della stazione e la gente

comune. I lavoratori di Termini hanno la tipica espressione di chi ha dovuto ripiegare sul primo lavoro

trovato in un momento di crisi. La gente comune rappresenta il vertice piramidale. Ha fretta, a qualsiasi

ora del giorno e della notte. Non interagisce in nessun modo con le altre categorie se non per

lamentarsene.

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Noi dannati viviamo in questo spazio perché per non sentirci morti a tutti gli effetti abbiamo bisogno

che qualcuno ci ignori. Se non stessimo qui ci massacrerebbero. Finiremmo davvero per credere di non

essere vivi. Io, inoltre, ho un motivo in più per vivere qui. È stato l’ultimo posto dove sono stata con

Sergio. Lui aveva 51 anni, io 40. Doveva partire per Genova dove aveva una conferenza della sua

azienda. Lo avevamo accompagnato ai binari io e Giovanna, la portiera del palazzo dove vivevamo. Lei

lo conosceva da quando era piccolo. Arrivammo sui binari di mattina presto. Per me allora la stazione

era un luogo come tanti, un punto di passaggio. Io mi guardavo intorno perché dopo 3 anni in città

ancora non mi ero abituata ai grandi spazi, alla folla. Aspettavamo il treno seduti davanti ai tabelloni

elettronici che raccontavano di viaggi da tutti i luoghi del mondo e d’Europa.

Vicino a noi c’era una coppia di ragazzi con lo zaino e un piccolo yorkshire che si affannava a correre

dietro ad una pallina. I padroni, due giovani tedeschi che viaggiavano zaino in spalla con gli occhi

gonfi di sonno, puntualmente gli tiravano la palla. Sembrava un gioco divertente, a giudicare da come

ridevano. Un lancio del ragazzo, alto almeno quanto pallido, superò il muretto alto mezzo metro che

delimitava lo spazio dei binari. Fino a quel momento la palla ci aveva rimbalzato per poi tornare

indietro. Axel, così si chiamava l’ipercinetico cane, non ci pensò troppo e si lanciò oltre. Successe tutto

molto in fretta. Ricordo ancora ogni singolo istante e lo rivivo al rallentatore. Qualsiasi particolare è

stampato nella mia mente. Ho memoria di tutto quello che accadde. La percezione si è fermata a quel

giorno. Da quell’istante non ho più vissuto, sono esistita.

Il cane salta il muretto. I tedeschi urlano ordini incomprensibili. La portiera si porta le mani alla bocca

e invoca la Vergine Maria. Gli altoparlanti annunciano il treno in arrivo da Bologna sul binario 8,

accanto al nostro. Una macchinetta a quattro ruote di quelle usate per pulire il pavimento mi passa

davanti per una decina di secondi. Nell’aria c’è il forte odore di fritto del Mac Donald’s. Un bambino

piange e strilla mentre il padre lo tiene per mano in fila alla biglietteria. Un ubriaco ciuccia avide

sorsate dalla sua bottiglia di vino scadente come farebbe un bambino con la coca cola fresca d’estate.

Ha un’espressione beata, sospeso in un mondo lontano anni luce da quello che sta accadendo. Una

vecchia signora polemizza sul ritardo di un treno. Una ragazza strilla al telefonino mentre prende a

calci il suo trolley. Un uomo obeso con la pancia sul punto di esplodere tiene una sigaretta pendente tra

le labbra. Non aspira, la cenere è ancora attaccata e sembra non voler cadere in barba alle leggi di

gravità. L’odore di disinfettante passato dentro ad un bar dietro i tabelloni orari. Il fischio di un

impiegato delle ferrovie. Due studenti seduti per terra che dividono gli auricolari di un iPod su cui

Biagio Antonacci sta cantando delle improbabili rime. L’odore della tunica nera della Morte che mi

passa davanti.

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Sergio si alza e si avvicina al binario 8. Ha un amore innato per i cani. Lo adoro anche per questo.

Intanto in fondo, dietro al curvone si vede l’Eurostar in arrivo. Il cane continua a cercare la pallina sotto

al muretto, ma è entrata in una buca. Il treno si avvicina, ha superato la curva. Sergio vive gli ultimi

minuti della sua vita. Io sento morire la mia anima per la prima volta.

Sergio cerca di tirare su il cagnolino mentre quegli idioti dei padroni parlano con un poliziotto,

sbracciandosi. Chissà che poteva fare un uomo in divisa…

Il treno è a 200 metri da Axel continua a ringhiare alla palla. Il mio uomo continua a ripetere comandi

al cane. Non posso restare ferma. Mi alzo e senza pensarci salto giù sui binari. Scivolo sul brecciolino

che divide le linee di metallo su cui scorrono le locomotive. Prendo Axel per la collottola e lo porto su,

al sicuro. La portiera mi viene incontro e mi abbraccia, ringraziando la Madonna di Galatina. Sorrido e

cerco Sergio per rimproverarlo della sua incoscienza. Non lo trovo. Vedo quattro persone intorno a

dove stava fino a qualche secondo prima.

Gli altoparlanti dicono che il treno in partenza per Reggio Calabria è pronto sul binario 12. L’orologio

segna le 14.27. Le ragazzine cantano con Antonacci che Iris e le poesie e non so che altro. Il ciccione si

è alzato, la cenere gli è caduta sulla camicia e guarda in direzione di Sergio, sdraiato in terra con

un’espressione di dolore che gli deforma il viso come un amplesso proibito. La ragazzina che stava al

telefonino piange mentre guarda il display. Il rumore della macchina che pulisce a terra viene da

lontano.

Mi butto su Sergio, piangendo. “Portatela via, e chiamate un’ambulanza” dice una signora. Un altro le

risponde “Sono un medico. Mi lasci sentire se respira”. Il dottore tenta un massaggio cardiaco ma il

mio uomo è già andato via, per sempre.

Mi chiamo Mara, adesso. Prima ero Nika. Tutto è cambiato da quel maledetto lunedì. Non sono voluta

tornare a casa perché ogni giorno, alle 14.27, vado davanti a quel muretto. Una piccola targhetta che

non riesco a leggere dice “Sergio Camerani, 1950-2001”. Mi accuccio lì e penso a lui. Per un po’,

giusto il tempo di ricordarmi che non sono più niente, non ho emozioni. Un bambino aggrappato alla

gonna della madre mi indica. “Mamma mamma, belo!” dice eccitato. “Ma no Luca, non lo vedi che è

tutto sporco e malato?”. “Ma ci ha un ochio belo, mama, azzurro come il tuo!” risponde piccato il

bambino. “È un Husky, Luca, adesso fai il bravo e cammina” ordina la madre mentre lo trascina via.

Ero un Husky. Ero un cane. Adesso sono Mara la randagia. Mi ha chiamato così Aziz dopo aver visto

che tutti i giorni vado davanti a quella targa. Memoriamara. Mara.

 Vincenzo  Carbone  

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Vive  per  scrivere   in  attesa  di   fare  definitivamente   il  contrario.  Ha  fatto   il  giornalista,   la  radio,  ufficio  stampa,  il  Web  Content  Manager,  il  Community  Consultant,  il  ghost  writer,  il  musicista  e  rappresenta  il  più  grande  fan  vivente  del  presenzialista  tv  Gabriele  Paolini  e  di  Bukowski.  Da  grande  vuole  fare  lo  scrittore.  

BIOGRAFIA

Vincenzo Carbone: vive per scrivere in attesa di fare definitivamente il contrario. Ha fatto il giornalista, la radio, ufficio stampa, il Web Content Manager, il Community Consultant, il ghost writer, il musicista e rappresenta il più grande fan vivente del presenzialista tv Gabriele Paolini e di Bukowski. Da grande vuole fare lo scrittore