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Dialettica e filosofia - ISSN 1974-417X [online] 1 MISTICISMO E LOGICA di Raffaele Danese 1 Infatti queste cose, come sapete bene, me le comanda il dio. E io non ritengo che ci sia per voi, nella Città, un bene maggiore di questo mio servizio al dio. Socrate Quelli della mia parte sanno bene che la «voce» mi fu mandata da Dio, hanno visto e conoscono questa voce. Anche il mio re e molti altri hanno udito e visto le voci che venivano a me.. vidi san Michele con gli occhi del mio corpo, come vedo voi. Giovanna d’Arco L’ascesa sulla scala della mistica è molto affine a quella speculativa. Si può difficilmente tracciare una linea di separazione tra questi due tipi di ascesa, poiché quella mistica si muove in massima parte sulla linea della speculazione. Anders Nygren 1 Docente di Filosofia e Storia. [email protected]

Misticismo e Logica

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Dialettica e filosofia - ISSN 1974-417X [online]

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MISTICISMO E LOGICA

di Raffaele Danese1

Infatti queste cose, come sapete bene, me le

comanda il dio. E io non ritengo che ci sia

per voi, nella Città, un bene maggiore di

questo mio servizio al dio.

Socrate

Quelli della mia parte sanno bene che la

«voce» mi fu mandata da Dio, hanno visto e

conoscono questa voce. Anche il mio re e

molti altri hanno udito e visto le voci che

venivano a me.. vidi san Michele con gli

occhi del mio corpo, come vedo voi.

Giovanna d’Arco

L’ascesa sulla scala della mistica è molto

affine a quella speculativa. Si può

difficilmente tracciare una linea di

separazione tra questi due tipi di ascesa,

poiché quella mistica si muove in massima

parte sulla linea della speculazione.

Anders Nygren

1 Docente di Filosofia e Storia. [email protected]

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Il platonismo tra religione e politica

Nella celebre Scuola di Atene, opera realizzata da Raffaello tra il 1509 ed il 1511, il

Rinascimento ha fissato visivamente l’immagine dominante che, di Platone, il

pensiero occidentale si è costituito nei secoli. Il filosofo è, infatti, collocato al centro

della parte sinistra, ove è collocata pure la corrente orfico-pitagorica e tutti i

pensatori di orientamento mistico-religioso. Di fronte a lui, sempre al centro del

dipinto, è Aristotele, assieme ai filosofi della natura e agli scienziati, come il famoso

Tolomeo. Platone, che con la mano sinistra regge il Timeo, un trattato cosmologico

molto amato dagli umanisti, con la mano destra punta l’indice verso il cielo.

Aristotele invece, indirizza la mano verso il suolo, verso la superficie della terra. Il

significato è chiaro ed inequivocabile: Platone incarna la metafisica e, in genere, gli

interessi mistico-trascendenti; Aristotele invece, la scienza della natura e gli

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interessi pratico-mondani, (non si dimentichi che, nel quadro, se Platone ha sotto il

braccio il Timeo. Aristotele regge l’Etica).

A partire da Plotino è, infatti, prevalsa

nel pensiero occidentale

un’interpretazione che vede nel

platonismo una filosofia di natura

essenzialmente religiosa, tutta orientata

verso la Trascendenza. Anche la

patristica cristiana, influenzata proprio

dalla lettura neoplatonica, trasformerà

Platone in un «Mosè attico», un

pensatore pagano, inconsapevolmente

illuminato dalla Grazia. Pertanto la

scolastica medioevale scorgerà nella

filosofia platonica il pensiero religioso

per eccellenza, in cui l’immutabile e

l’eterno vengono contrapposti al mutevole ed al transeunte. Anche il Rinascimento

– e l’affresco di Raffaello è, al riguardo, esemplare – presenterà Platone come un

pensatore religioso e metafisico, sostenitore della presenza divina nel mondo. Sarà

solo nel novecento, però, che, accanto a questa lettura classica, emergerà una

nuova lettura del pensiero platonico, che ne privilegia l’aspetto politico, per cui il

fondatore dell’Accademia, diviene, più che il padre della metafisica occidentale, il

padre del totalitarismo moderno (si pensi, qui, alla interpretazione popperiana). In

realtà, noi oggi possiamo sostenere che queste due linee interpretative non si

escludono, bensì si integrano reciprocamente, proprio perché, come ben sottolinea

Giovanni Reale, esse meglio esprimono, se prese assieme, la poliedricità e la

polivalenza del filosofare platonico2. Prova ne sia la presenza, all’interno della

Repubblica, ovvero di un dialogo di natura politica, di un mito, quale il celebre mito

della caverna, in cui palesi sono i significati etico-religiosi. La caverna rappresenta,

2 G. Reale – D. Antiseri, IL pensiero occidentale dalle origini ad oggi. La Scuola, Brescia, 1983, Vol I, p.97.

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come è noto, il mondo materiale, il mondo oscuro ed illusorio, in cui gli uomini

vivono come prigionieri. Le immagini ed il linguaggio adoperati da Platone nel

costruire questo mito richiamano, per analogia, immagini e linguaggio del Fedone,

ovvero di uno dei dialoghi in cui il maggiore è il pathos religioso e spirituale

ispiratore; il lessico è esplicito: «prigionieri», «carcerati», «schiavi», «catene»,

«corpi immobilizzati» si dice degli abitanti della caverna. Analogamente, nel

Fedone, l’anima appare «tenuta stretta ed incatenata al corpo», «ogni piacere o

dolore inchioda l’anima al corpo, ve la conficca e la rende corporea», così che essa

«esce sempre dal corpo contaminata… e per questo non partecipe della

compagnia di ciò che è divino». Queste idee, che potremo, secondo l’analisi di Ugo

Bianchi, definire già «gnostiche»3, ci riconducono al mondo dei “misteri” e della

cosiddetta tradizione orfico-pitagorica, una tradizione mistico-religiosa che ha

esercitato un potente influsso sulla prima speculazione greca, fino al platonismo4.

La visione ed il logos

Da un punto di vista fenomenologico,

misticismo e logica, - binomio scelto da

Bertrand Russel come titolo di un suo

breve saggio del 1914, che abbiamo

voluto adottare come titolo anche di

questo nostro lavoro -, sembrano porsi

come due modalità di esperienza della

coscienza completamente opposte ed

antitetiche. Mentre infatti il logico parte

dal mondo fenomenico così come esso

3 Cfr. U BIANCHI, Il dualismo. Saggio storico ed etnologico. Ed. del’Ateneo, Roma, 1983, p.13-53. ID. La religione greca UTET, Torino, 1975, p.153-7 e 209-39. Interessante, al riguardo, può essere anche E.R. Dodds: I greci e l’Irrazionale, la Nuova Italia, Firenze, 1978, che, però, nega l’esistenza di una vera “tradizione orfica”, considera Pitagorica «uno sciamano» e pone il platonismo all’origine del «puritanesimo» 4 Non è, come si è detto – v. nota precedente – la posizione di tutti gli studiosi, ma è sicuramente la tesi di Ugo Bianchi e Giovanni Reale, che a noi sembra la più convincente. Di quest’ultimo si veda, sulle dottrine orfiche, il 1° volume della Storia della filosofia greca e romana, Ed. Bompiani.

Gustave Moreau: Apollo e satiri

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è, e cerca di comprenderlo attraverso procedure di tipo discorsivo, il mistico al

contrario è animato da una «fede nell’intuito contrapposto alla conoscenza analitica

deduttiva: la fede in una forma di saggezza improvvisa, penetrante, coercitiva, in

contrasto con lo studio lento e fallibile delle apparenze esterne»5. Si parla, al

riguardo e non a caso, di illuminazione mistica, di immagini o «visioni» che

permettono alla mente umana di intuire, letteralmente, la verità, ovvero di «andar

dentro» (intus-ire) le cose stesse, cogliendone l’intima e vera natura; superando,

così, quelle barriere e intermediazioni che la ragione analitico-discorsiva,

inevitabilmente, incontra sul proprio cammino. Il mistico è, perciò, colui che «vive

nella luce piena della visione: ciò che gli altri cercano faticosamente egli lo sa,

grazie ad una conoscenza al cui confronto ogni altra conoscenza è ignoranza»6.

Soprattutto, la conoscenza basata sui sensi rischia di essere, dal suo punto di vista,

una pseudo-conoscenza che conduce solo nel pantano dell’illusione. Ecco come

una mistica famosa, Teresa d’Avila, descrive la sua esperienza:

La verità a cui faccio riferimento nel dire d’averla capita è

l’essenza della Verità, senza principio né fine, da cui

dipendono tutte le altre verità, come tutti gli altri amori da

questo Amore e tutte le altre grandezze da questa

Grandezza, benché sia un parlare oscuro il mio, in

confronto alla chiarezza con cui il Signore si degnò di

farmi intendere tutto ciò. 7

La rivelazione di cui beneficia il mistico è connessa ad una realtà che sta dietro ed

al di sopra del mondo fenomenico: «Questa realtà viene guardata con

un’ammirazione che spesso giunge all’adorazione; si sente che è sempre ed

ovunque a portata di mano, appena velata dalle manifestazioni dei sensi, pronta,

per la mente ricettiva, a risplendere in tutta la sua gloria nonostante l’evidente follia

e malvagità dell’uomo».8

5 B. Russel, Misticismo e logica, Longanesi, Milano, 1970, p.9. 6 Ibidem, p.10. 7 T. d’Avila, Libro della mia vita, Mondadori, Milano 1986, p.352. 8 B. Russel, op.cit., p.10

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Tale realtà però – ecco l’aspetto decisivo e caratterizzante dell’esperienza mistica –

non è facilmente esprimibile in concetti, tramite un normale e usuale discorso. Nel

brano sopracitato, abbiamo sentito come Santa Teresa dichiari come il suo «sia un

parlare oscuro», in confronto alla chiarezza della visione soprannaturale. Ecco il

punto: l’ineffabilità dell’esperienza mistica, la sua intraducibilità in un linguaggio di

tipo ordinario. E ciò perché l’esperienza del mistico, a differenza della comune

esperienza, e del linguaggio su di essa costruito, è una esperienza straordinaria

che solo lui vive e comprende pienamente.«Possiamo avvicinarci alla sua

esperienza – osserva R.A. Gilbert – in virtù dell’analogia e dell’enfasi sull’intensità,

ma non possiamo coglierne il nucleo, perché è, prima di tutto, la sua esperienza, e

non potrà mai essere la nostra; possiamo avere anche noi esperienze dello stesso

genere, ma non sarà grazie alle parole che le riconosceremo»9. Emblematica,

ancora una volta, questa dichiarazione di Santa Teresa:

Io vorrei poter dare un’idea del meno che vedevo, ma

pensando come riuscirvi, trovo che è impossibile, perché

solo la differenza tra la luce che vediamo qui e quella che

appare lì, dove tutto è luce, non permette alcun confronto;

di fronte ad essa perfino la luce del sole sembra molto

offuscata. Insomma, neanche la più raffinata

immaginazione riuscirà mai a raffigurarsi e a descrivere

non solo quella luce, ma neppure una delle grandi

meraviglie che il Signore mi ha svelato, dandomi, insieme,

un così straordinario diletto, che non si può esprimere,

essendo tutti i sensi pervasi da un godimento di tale alto

grado e di così gran dolcezza che non ci sono parole a

dirlo, e pertanto è meglio non aggiungere altro. 10

Credere e dimostrare

9 R.A. Gilbert, Il misticismo, Xenia, Milano, 1994, p.92 10

T.D’Avila, op. cit., p. 326

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Poste tali premesse, il

misticismo ha un esito

decisamente non

razionalistico ed anche

(conseguentemente) anti-

intellettualistico: per la

fermezza con cui sancisce

la veridicità dei contenuti

della propria esperienza, la

fede mistica toglie alla

dimostrazione razionale il

valore di garanzia assoluta

ed esclusiva di verità,

divenendo il fondamento di

una verità più alta, che le

normali e profane capacità

dell’uomo non sono in

grado di ottenere e produrre. Muta, di conseguenza, la gerarchia dei saperi e delle

relative verità: per il mistico il primato spetta sicuramente alle verità di fede, per il

razionalista alla scienza di tipo analitico – dimostrativo. Per quest’ultimo le verità

religiose sono problematiche, (ed anche fortemente dubbie), proprio perché non

prevedibili e spiegabili razionalmente. Per il mistico, invece, che guarda il mondo

sub specie aeternitatis, le verità religiose appaiono certissime, incontrovertibili,

addirittura più certe delle verità scientifiche. Ecco allora che misticismo e logica si

sono storicamente concretati (almeno nella cultura occidentale moderna) in due tipi

umani completamente diversi: il mistico, o il santo, o il veggente, e l’intellettuale

razionalista, di orientamento scettico ed empirista, al punto che se essi decidessero

– come si dice, in ossequio al politically correct oggi dominante – di voler e dover

ad ogni costo «dialogare», l’unico risultato sicuro sarebbe un dialogo tra sordi. Ciò

nonostante, esiste in tutto il pensiero occidentale, (anche in quello moderno, che di

primo acchito sembrerebbe completamente alieno da un approccio misticheggiante

Carl Bloch:Sermone della montagna.

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e spiritualizzante alla realtà), una commistione implicita e “segreta” tra queste due

forme di relazione conoscitiva con le cose. Interessante, ci sembra al riguardo,

quanto afferma Jean Guitton:

Colpisce ritrovare in Socrate, Platone, Plotino, ma anche

nei filosofi razionalisti come Descartes, Leibniz, Spinoza e

Kant nello loro origini e fonti nascoste uno stato mistico o

qualcosa di analogo. Sono ricadute concettualizzate di

esperienze di tipo mistico. 11

Dunque anche in talune esperienze filosofiche moderne, e proprio in quelle che

costituiscono le prime tappe del processo di secolarizzazione culturale, il

misticismo è presente come in nuce, come un impulso oscuro ed iniziale alla

ricerca, poi sommerso e occultato dal profluvio dei concetti e dei ragionamenti. Più

evidente e palese la sua presenza è, invece, all’interno del pensiero greco-antico:

Socrate, Platone e Plotino, nominati da Guitton, hanno elaborato quella che

potremo anche chiamare “una mistica della ragione”. Nelle Enneadi Plotino parla

espressamente dell’estasi e della visione, da parte dell’anima umana, dell’Uno,

come egli lo definisce, cioè del principio metafisico assoluto. Afferma di aver avuto

diverse volte tale esperienza straordinaria che, in fondo, è lo scopo ultimo della

filosofia. Ma anche Platone – e torniamo all’argomento del presente saggio - non

sembra essere estraneo a tale esperienza, come attestano il Fedro e, soprattutto, il

Simposio (questa sorta di Itinerarium mentis in Deum della grecità classica). Già

dal discorso sin qui sviluppato dovrebbero essere evidenti le analogie tra il pensiero

dei mistici e quello di Platone: la verità come una visione che si dischiude agli occhi

dell’anima (visione che, pertanto, costituisce l’atto “spirituale”, o razionale –

conoscitivo per eccellenza), la fede in una realtà posta altre le illusorie apparenze

sensibili e che costituisce la realtà vera, infine, (e lo analizzeremo meglio tra breve,

proprio esaminando il più famoso mito platonico, quello della caverna), il profondo

cambiamento morale, indotto nella persona da tale esperienza interiore.

11 J. Guitton, Poteri misteriosi della fede, Piemme, Casale Monferrato, 1994, p.402.

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Il mito della caverna

Che il più famoso mito platonico abbia un significato di tipo mistico, nel senso che

esso esprima, o sottenda, un’esperienza di questo tipo, è chiaramente dimostrabile

osservando come, quando i mistici tentano di esprimere e di rendere, nei limiti del

possibile, comprensibile la loro esperienza, ricorrono alle stesse identiche immagini

del mito platonico. Ecco una testimonianza riportata da R. A. Gilbert:

«O stolti (dissi), coloro che preferiscono la notte oscura

alla vera luce e vivono in grotte e caverne, e odiano il

giorno perché mostra loro il cammino, il camino che da

quella dimora morta e oscura conduce a Dio un cammino

dove puoi seguire il Sole ed essere ancora più luminoso.

Ma siccome avevo così ingiuriato la loro follia uno allora

sussurrò: Questo Anello lo sposo lo ha forgiato per non

darlo a nessun altro se non alla sposa».12

Chi parla così è appunto, un mistico il quale aveva creduto che chiunque potesse

raggiungere l’Assoluto, il Divino, salvo poi rendersi conto che è necessario la

Grazia. (Platone, invece, penserà che è necessaria la Grazia della Dialettica,

ovvero il ragionamento epistemico concesso solo ed unicamente agli uomini

«aurei», cioè ai filosofi, uomini «pneumatici» o spirituali per eccellenza, elìte

dell’intera umanità)

Ma vogliamo, ancora e nuovamente, citare l’autobiografia di Santa Teresa, alcuni

brani della quale evocano spontaneamente celebri pagine platoniche, soprattutto

quelle in cui i beni autentici e duraturi dell’anima, vengano contrapposti ai beni falsi

ed effimeri del corpo. Anche per la Santa la verità che si dischiude alla

contemplazione dell’anima è un sole, un «sole di giustizia che la costringe ad aprire

12

R.A. Gilbert, op.cit. p.54-55

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gli occhi»13. E a questo punto «l’anima vede anche l’accecamento che procurano i

piaceri, le inquietudini e gli affanni che con essi si comprano già in questa vita»14.

Si verifica, perciò, una metánoia, una «conversione», che rovescia la prospettiva

comune sul mondo e sulla felicità, e che la fa vergognare profondamente della vita

sin lì condotta15. Allora, proprio come il prigioniero della caverna platonica il quale,

dopo che ha visto ed ammirato il sole, compatisce coloro che vivono nell’illusione, -

scambiata per unica e vera realtà, solo perché non si è visto altro, - così si

comporta che è stato baciato dalla Grazia divina16. E proprio come il prigioniero

platonico, una volta che è stato liberato dalle catene ed aver contemplato il Sole,

non tornerebbe mai nelle basse ed oscure profondità della materia, se non fosse

spinto da un senso etico del dovere e dalla necessità di aiutare gli altri17, così il

mistico cristiano non può non rendere gli altri partecipi della Verità:

L’anima mia, dopo queste visioni, avrebbe voluto

starsene sempre lassù, e non tornare più a vivere nel

mondo, di cui le era rimasto un gran disprezzo per tutto.

Mi sembrava spazzatura, e capisco quanta bassezza sia

da parte nostra fermarsi a occuparsene. 18

Ma Dio stesso gli affida la missione di annunciare e di testimoniare quella verità

che, per grazia, gli ha rivelato:

Una volta rimasi più di un’ora in questo stato, durante il

quale mi sembrava che il Signore mi facesse vedere cose

meravigliose, standomi molto vicino, finché mi disse

13 T. d’Avila, op. cit., p. 171. 14 Ibidem, p. 170. 15 Ibidem, p.25,26 e 169 16 Ibidem, p.169-70 e 320-327 17 Platone, Repubblica, 519C-520A 18 T. d’Avila, op. cit., p.327

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«Guarda, figlia mia, che cosa perdono coloro che mi sono

nemici. Non tralasciare di farglielo sapere».19

E del resto, egli steso è spinto da sincero amore verso i suoi simili; non teme perciò

nulla: irrisione, persecuzione, morte; solo l’annunciò di quella «Verità», che egli ha

già contemplato e da cui dipende la vera vita ed il destino di tutti gli uomini, diviene

sommamente importante:

Oh, Signore! Se voi mi deste modo di proclamarlo a gran

voce, non mi crederebbero lo so, come non credono a

molti che lo sanno dire ben diversamente da me, ma io,

almeno ne rimarrai soddisfatta. Mi sembra che, pur di far

conoscere una sola di queste verità, terrei in poco conto

la vita. 20

Ed ancora:

Tutto consiste nell’arrischiare la vita, ch’io molte volte

desidero perdere, e sarebbe avventurarsi a guadagnar

molto per poco prezzo, perché non si può vivere vedendo

con i propri occhi il grande inganno in cui si è indotti e la

cecità che ne consegue. 21

Così pensarono, così agirono, e così morirono, Socrate e Santa Giovanna d’Arco,

«logico» l’uno, «mistica» l’altra.

La follia della Croce

Il cristianesimo delle origini ha vissuto sulla propria pelle, tutto il contrasto che

esiste tra l’approccio mistico e l’approccio razionale alla realtà. Gli Atti degli

Apostoli raccontano, al capitolo 17, l’incontro di San Paolo con i filosofi di Atene:

dopo essersi imbattuto in dei pensatori stoici ed epicurei, viene condotto

19 Ibidem, p. 326 20 Ibidem, p. 172. 21 Ibidem, p. 173

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all’Areopago dove, ritto davanti ad un altare consacrato «Al Dio ignoto», espone i

fondamenti della nuova fede alla quale egli, giudeo e fariseo, si era convertito.

Finché si limitò a parlare di un Dio unico, raccontano gli Atti, tutti i presenti lo

ascoltarono, ma non appena essi «sentirono parlare di resurrezione dei morti»,

ecco che si opposero, addirittura schernendolo. E proprio in seguito a tale

esperienza che, poco dopo, Paolo visita la comunità di Corinto «con timore e

tremore», timore suscitato senza dubbio dall’amara esperienza di Atene. Ma ciò

Andra Mantegna:Crocifissione.

nonostante egli predica la verità del Vangelo in modo chiaro e forte, perché non

teme la «sapienza del mondo»:

Annunziamo, si, una sapienza a quelli che sono perfetti, ma

una sapienza non di questo mondo, né dei prìncipi di

questo mondo che vengono annientati; annunziamo una

sapienza divina, avvolta nel mistero, che fu a lungo

nascosta, e che Dio ha preordinato prima dei tempi per la

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nostra gloria. Nessuno dei prìncipi di questo mondo l’ha

conosciuta; se l’avessero conosciuta, non avrebbe

crocefisso il Signore della gloria. Sta scritto infatti: Cosa

che occhio non vide, né orecchio udì né mani entrò in

cuore di uomo, ciò che Dio ha preparato per quelli che lo

amano. Ma a noi l’ha rivelato mediante lo Spirito; lo Spirito

infatti scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio. 22

All’origine di ogni religione

rivelata vi è,

fenomenologicamente e

secondo la magistrale analisi di

Rudolf Otto, un’esperienza di

irruzione mondana del Divino,

percepito come «totalmente

Altro» e, perciò, inquietante,

“numinoso” in quanto mysterium

tremendum 23. Nel caso del

cristianesimo tale irruzione

coincide con la vita del suo

fondatore, Gesù di Nazareth,

che per coloro che si professano

cristiani è «Dio fatto uomo»; tale

divinità, però si è manifestata

pienamente solo al momento

della resurrezione; solo allora, a

coloro che lo seguivano, Gesù è apparso anche come il Cristo, solo allora le sue

parole, spesso fraintese, sono state colte nel loro vero significato. Il Mysterium

tremendum del cristianesimo è, perciò, il suo «mistero pasquale»: esso ha,

22 I Corinzi, 2,6-10 23 R. Otto, Il Sacro, Feltrinelli, Milano, 1992, p. 15-98.

Caravaggio:Conversione di Saulo.

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letteralmente, aperto gli occhi della comunità evangelica, suscitando fede,

speranza, ma anche paura; il “numinoso” infatti è sempre “tremendo”, e perciò,

quando sul sepolcro vuoto siede un angelo simile alla folgore, i soldati di guardia

sono sconvolti e tramortiti, ed anche le donne che, dal sepolcro portano la notizia ai

discepoli, appaiono «piene di gran timore e di grande gioia insieme» (Matteo, 28,8)

Il secondo capitolo degli Atti, al versetto 43, così si esprime:

Un senso di timore era in tutti, e prodigi e segni

avvenivano per opera degli apostoli.

Se la manifestazione del Divino, nella persona stessa di Gesù, è all’origine della

comunità cristiana, un’esperienza mistica – una visione accecante ed una voce – è

all’origine della conversione di Saulo; è la famosa esperienza sulla via Damasco.

Ed è a partire da questa esperienza sconvolgente che egli, da fanatico

persecutore, diviene apostolo del cristianesimo. La verità che, allora, viene da lui

proclamata, sembra sfidare tutti quei parametri che, per l’epoca, potevano essere

definiti «logici». Citiamo, ancora, le sue parole:

La parola della croce è infatti stoltezza per quelli che

vanno in perdizione, ma per quelli che si salvano, per noi,

è potenza di Dio. Sta scritto infatti: Distruggerò la

sapienza dei sapienti, e l’intelligenza degli intelligenti

riproverò. Dov’è il sapiente?. Dove lo scriba?Dove

l’intellettuale di questo mondo? Non ha forse Dio

dimostrato stolta la sapienza di questo mondo? Poiché

infatti, nel disegno sapiente di Dio, il mondo non conobbe

Dio con la sapienza, piacque a Dio di salvare quelli che

credono con la stoltezza della predicazione. E mentre i

Giudei chiedono miracoli e i Greci cercano la sapienza,

noi predichiamo Cristo crocefisso, scandalo per i Giudei,

stoltezza per i pagani; ma per i chiamati, sia Giudei sia

Greci, è Cristo, potenza di Dio e sapienza di Dio. Poiché

la stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e la

debolezza di Dio è più forte degli uomini. 24

24 I Corinzi, 1,18-25

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Le parole di San Paolo sembrano portare ad un esito che, in termini filosofici,

potremmo definire di un estremo anti- intellettualismo, od anche di irrazionalismo.

Nessuno si illuda! Se uno pensa di essere sapiente tra di

voi in questo mondo, si faccia stolto per diventare

sapiente; perché la sapienza di questo mondo è follia

davanti a Dio. Sta scritto infatti: Colui che coglie i sapienti

nella loro astuzia. E ancora: Il Signore sa che i disegni dei

sapienti sono vani. 25

Certamente, era l’esperienza mistica allo stato puro – l’esperienza di una verità

donata all’uomo dalla Grazia divina, verità che sarebbe illusorio presumere di poter

raggiungere mediante le catene dei ragionamenti – che spingeva san Paolo ad una

sfida culturale (in senso antropologico), ardita e temeraria: proclamare il valore

morale e spirituale della croce. Perché, era proprio questo che, alla mentalità

dell’epoca, doveva apparire rivoltante.

Legati ad una concezione regale e trionfalistica della divinità, né gli ebrei, né i greci

e i pagani in genere, potevano accogliere l’idea di un Figlio di Dio morto in Croce.

La crocifissione, nell’impero romano, era infatti il servile supplicium, il «supplizio

degli schiavi», la pena più infamante da cui erano perciò esclusi i nobili ed i cittadini

romani, mentre era esclusivamente comminata ai membri delle classi più basse ed

a tutti coloro che, letteralmente, erano «fuori legge», cioè al di fuori di ogni tutela

giuridica, (come – oltre agli schiavi – banditi, ribelli e briganti) Era talmente

vergognosa questa pratica della croce, che negli ambienti colti e socialmente

elevati dell’Urbe, esse divenne un tabù culturale e linguistico: è preferibile non

nominarla e neppure pensarla, così si consigliava a quanti volessero essere

veramente «eleganti».26

25 Ibidem, 3,18,23 26 Cfr. La croce di Gesù: scandalo e follia. Editoriale de Civiltà Cattolica, 18 settembre 1999, p.459-62

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Il Vangelo descrive perciò, in mondo estremamente realistico, lo scherno degli

ebrei e di tutti gli astanti convenuti sul Gólgota: I passanti inveivano contro di lui

scotendo il capo e dicendo:

«O tu che puoi distruggere il tempio e riedificarlo in tre

giorni, salva te stesso. Se sei Figlio di Dio, scendi giù

dalla croce!».Nello stesso modo i sommi sacerdoti,

insieme agli scribi e agli anziani, beffeggiandolo,

dicevano: «Ha salvato gli altri, non può salvare se stesso.

Se è il re d’Israele, discenda ora dalla croce e crederemo

in lui. Ha confidato in Dio, lo liberi ora, se lo ama. Ha detto

infatti: “ Sono Figlio di Dio”».Nello stesso modo lo

beffeggiavano i ladroni che erano stati crocifissi con lui. 27

«Se sei figlio di Dio, scendi giù dalla croce!»: così si sarebbe dovuto comportare,

per la mentalità dell’epoca, un autentico “figlio di Dio”. È significativo che anche il

neoplatonico Celso, il più celebre polemista anticristiano dell’antichità; riprenda lo

stesso medesimo motivo: «come il sole illuminando tutte le cose mostra per primo

se stesso, così avrebbe dovuto fare il figlio di Dio»28, argomenta egli infatti.

E questa dimostrazione Gesù di Nazaret l’avrebbe dovuta fornire, proprio nel

momento decisivo della crocifissione: «per dare una dimostrazione della sua

divinità, egli avrebbe dovuto sparire dalla croce all’improvviso»29, provando in tal

modo, istantaneamente e magicamente, la propria sovra-umanità!.

E del resto, la morte di Gesù non poteva avere, agli occhi di un greco o di un

romano, quel fascino intellettuale che, invece, per lui aveva la morte Socrate:

mentre quest’ultimo, impersonando già la figura del saggio stoico, muore in modo

sereno ed imperturbabile, confortando addirittura egli stesso i suoi discepoli più cari

(che gli rimangono tutti fedeli fino alla fine e che vengono addirittura invitati ad

offrire un sacrificio ad Asclepio, il dio della medicina e della salute), Cristo muore

completamente solo e disperato, abbandonato dai suoi stessi discepoli, (uno dei

27 Matteo, 27, 39-44 28 Celso, Discorso Vero, Adelphi, Milano, 1987, p. 75 29 Ibidem, p. 80.

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quali lo tradisce per trenta denari, ed uno altro, dopo aver giurato che lo avrebbe

sempre e comunque seguìto, lo rinnega ripetutamente). Alla fine, anche quel Padre

celeste da cui aveva ricevuto forza e potenza, sembra non curarsi minimamente di

lui («Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?»). Proponendo l’immagine di

un Dio incarnato, offeso ed umiliato sino alla morte più infamante, il cristianesimo

operava così una sfida antropologica inaudita ed immane; una sfida che mai

nessuno avrebbe immaginato e proposto, se non fosse stato animato dalla

certezza incontrollabile che solo l’esperienza mistica può indurre nell’animo umano.

Eros ed agápe

Questa sfida culturale gigantesca il cristianesimo l’ha potuta vincere, riordinando

dal proprio punto di vista teologico i quadri stessi della logica e della razionalità

filosofica ,( si pensi alle grandi sintesi della patristica e della scolastica, ma anche ai

sistemi della modernità, certamente materialistici ed anticristiani nei loro esiti

intellettuali, ma pur sempre “cristiani” nei loro postulati di fondo – e qui ricordiamo

l’affermazione crociana, «perché non possiamo non dirci cristiani» o l’analisi

löwithiana della parabola teoretica ottocentesca «da Hegel a Nietzsche», come di

una progressiva secolarizzazione e mondanizzazione del cristianesimo

medesimo30), questa sfida storica, dicevamo, il cristianesimo la poteva vincere solo

operando all’interno del mondo tardo-antico un grande cambiamento culturale: solo

mutando radicalmente la mentalità etico-religiosa, la civiltà antica al tramonto

poteva accogliere e fare sua la «follia della croce». Orbene, questa rivoluzione

culturale il cristianesimo l’ha operata a partire da quello che è, sicuramente, il suo

concetto teologico più originale: il concetto dell’amore come agápe. Certamente – e

qui torniamo nuovamente a parlare di Platone – la classicità greca aveva, con la

dottrina dell’éros (mirabilmente esposta nel Simposio), raggiunto grandi vertici

intellettuali, morali e spirituali: «l’amore platonico» descrive l’ascesa che l’anima

umana, infiammata dall’amore per le cose belle, compie salendo dal mondo fisico

30 Cfr. B: Croce, Perché non possiamo non dirci “cristiani” in La mia filosofia, Adelphi, Milano, 1993, p. 38-53 E K. Löwith, Da Hegel a Nietzsche, Einaudi, Torino, 1981

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al mondo delle Idee, fino a contemplare il «Bello in sé», il Bello assoluto e divino in

cui l’anima trova il proprio pieno appagamento31. Anche se proprio il platonismo,

per la sua forte componente religiosa, è stato spesso inteso come una sorta di

avviamento al cristianesimo, c’è in realtà, tra il concetto platonico di éros e quello

neotestamentario di agápe, una profonda antitesi, un irriducibile contrasto che è

stato attentamente analizzato dal teologo protestante Anders Nygren, in uno studio

intitolato, appunto, Eros e agápe, che è così ponderoso e filologicamente accurato,

quanto denso di profondità e di

dottrina, da risultare

imprescindibile – un vero

capolavoro dell’ermeneutica

novecentesca, oserei definirlo –

per chiunque voglia addentrarsi

in questo genere di

problematiche. Vediamo

dunque di analizzare queste

due nozioni teologico -

filosofiche, proprio seguendo

questo lavoro.

Anzitutto Nygren chiarisce il

significato proprio dell’eros

platonico, individuandone il

postulato di fondo: l’incapacità,

o meglio l’impossibilità da parte

di Dio, di amare, l’uomo, stante

proprio la Sua suprema

perfezione. Non a caso, a partire dall’introduzione o «prologo» al discorso

sull’amore, Socrate stabilisce la seguente verità: l’amore di qualcosa è sempre

31 Simposio, 201°-212C

Carl Bloch:Trasfigurazione di Gesù.

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desiderio di ciò di cui si è privi32. Da tale premessa deriva, come suo logico

corollario che Dio, nella sua autosufficienza e perfezione, non può amare affatto; se

infatti amasse, desidererebbe, ma se desiderasse, evidentemente sarebbe privo di

qualcosa, e se così fosse non sarebbe più perfetto, dunque non sarebbe Dio.

Tuttavia, continua Socrate, se Dio non ama, neppure gli animali amano. Ad amare

sono solo gli uomini, perciò Eros non è propriamente un dio, ma un «démone»,

cioè un essere intermedio tra l’umano ed il divino, tra male e bene che, proprio per

questo spinge l’uomo verso il divino come luogo a lui più confacente, L’uomo, cioè

la sua «anima», ha un origine «celeste»: il trauma della caduta – chiamiamolo così

– e l’imprigionamento nel corpo provocano nell’anima un oscuramento delle verità

eterne, che tuttavia rimangono latenti e che, avvertite come nostalgia del divino,

possono nuovamente aiutare l’uomo a riconquistare la sua patria perduta. Ecco che

perciò, la dottrina platonica dell’eros ha una profonda valenza soteriologica; essa

delinea ciò che nel Medioevo San Bonaventura definirà “itinerarium mentis in

Deum”: ritornare in Dio, al Creatore, partendo dalle creature e seguendo in esse,

come in una scala, le vestigia o “tracce” che Dio stesso ha in esse disseminato. Ma

queste analogie col pensiero cristiano medioevale non devono far dimenticare,

ripetiamo, le profonde differenze che sussistono col pensiero degli autori del Nuovo

Testamento. Per Platone, e per tutti i greci il «movimento» salvifico riguarda solo

l’uomo: è solo l’uomo che tende alla divinità come suo unico scopo e perfezione,

ma mai viceversa, perché, dice Socrate, «un dio non si mescola all’uomo»33. Posto

ciò, ne deriva come assurdo, logico e teologico, l’idea cristiana dell’incarnazione,

(ed ecco chiarito il passo paolino della prima lettera ai Corinzi, secondo cui la croce

di Cristo è «scandalo e follia» per i pagani). Il pensiero antico pre-cristiano rimarrà

sempre saldamente ancorato a questa idea di una «perfezione» divina, che fa

tutt’uno con la sua completa autosufficienza. Aristotele, in perfetta coerenza con

tale concezione, dirà che Dio altro non può essere che «pensiero di pensiero»,

ovvero continua ed infinita auto-rappresentazione; poiché se Dio, anche solo per un

istante, tralasciasse di pensare a sé per occuparsi del mondo, perderebbe la

32 Ibidem 200 A-C 33 Ibidem, 203 A

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propria assoluta perfezione34. Questa idea del Divino verrà spezzata dalla teologia

neotestamentaria che proclamerà, invece, «Dio è amore»! Tale principio, osserva

Nygren, contiene una sorta di vera e propria metafisica dell’amore. «Dio è amore»

significa infatti che l’amore coincide con l’essenza stessa di Dio: «Egli è amore non

solo in rapporto all’umanità caduta, ma lo è già in sé»35. Esemplare è, in questo

senso, quanto dichiara la Prima lettera di S. Giovanni:

Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, poiché l’amore è da

Dio e chi ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non

ama non ha conosciuto Dio, poiché Dio è amore. L’amore

di Dio si è manifestato tra noi in questo: Dio ha inviato il

suo Figlio unigenito nel mondo, affinché noi avessimo la

vita per mezzo di lui. In questo si è manifestato l’amore:

non noi abbiamo amato Dio, ma egli ha amato noi ed ha

inviato il Figlio suo come propiziazione per i nostri peccati

(4,7-10).

Gli ultimi versetti del brano permettono di capire la profonda differenza che sussiste

tra l’ideale platonico dell’eros e la nuova concezione cristiana dell’amore come

agápe: mentre il primo è essenzialmente mancanza che spinge l’anima a “salire”

verso la divinità, il secondo è invece pienezza che spinge Dio a “scendere”, ad

abbassarsi verso gli uomini. Non è “acquisto” ma “dono” (grazia), che non è affatto

motivato dal valore dell’oggetto verso cui si dirige, come in Platone, ma, al contrario

è qualcosa, dice Nygren, di «immotivato», cioè di spontaneo e di gratuito36, (che

anzi, se esso dovesse basarsi sul “valore” dell’uomo, non potrebbe affatto

sussistere, essendo l’uomo un “nulla” rispetto a Dio). È piuttosto Questi che,

traboccando di amore e potenza può, dice San Paolo,«svuotare sé stesso» per

salvare e redimere l’uomo:

34 Aristotele, Metafisica, XII, 9 35 A. Nygren, Eros e agápe, Ed Dehoniane, Bologna, 1990, p. 127 36 Ibidem, p.41-42

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Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio,non

ritenne un privilegio l’essere come Dio,ma svuotò se

stesso assumendo una condizione di servo,diventando

simile agli uomini.Dall’aspetto riconosciuto come uomo,

umiliò se stesso facendo si obbediente fino alla morte , e

a una morte di croce Per questo Dio lo esaltòE gli donò il

nomeChe è al di sopra di ogni nome,perché nel nome di

Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto

terra, e ogni lingua proclami: che Gesù Cristo è

Signore!,in Gloria di Dio Padre.37

Pertanto, mentre per l’uomo greco è l’uomo che ama, per il cristiano è soprattutto Dio che

ama: l’amore come agápe non è più indice di debolezza ed imperfezione, bensì è il

contrassegno stesso della divinità.

Dio infatti ha tanto amato il mondo, che ha dato il Figlio

suo Unigenito affinché chiunque crede in lui non perisca,

ma abbia la vita eterna. Dio infatti non mandò il Figlio nel

mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia

salvato per mezzo di lui. 38

A questo punto, l’uomo può a sua volta amare, solo operando un radicale

mutamento interiore ed assimilando il proprio comportamento a quello di Dio; solo

riempiendosi dell’amore di Dio, l’uomo può amare anche il suo prossimo, (oltre allo

stesso Dio). E poiché l’amore di Dio è assoluto ed infinito, anche l’amore per l’uomo

deve essere altrettanto assoluto ed infinito, così da investire – ecco un altro

“scandalo e follìa” – persino i propri nemici:

«Avete inteso che fu detto: Amerai il prossimo tuo e

odierai il tuo nemico. Io invece vi dico: amate i vostri

nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, affinché

siate figli del Padre vostro che è nei cieli, il quale fa

sorgere il suo sole sui cattivi come suoi buoni e fa piovere

sui giusti come sugli empi. Qualora infatti amaste solo

37 Filippesi, 2,6-11 38 Giovanni, 3,16-17

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quelli che vi amano, che ricompensa avreste? Non fanno

lo stesso anche i pubblicani? E se salutate soltanto i

vostri fratelli, che cosa fate di speciale? Non fanno lo

stesso anche i gentili? Voi dunque sarete perfetti, come

perfetto è il Padre vostro che è nei cieli».39

Ecco allora che il concetto nuovo è sconvolgente dell’amore cristiano, man mano

che penetrava nelle coscienze diffondendosi nella società del tempo, aveva

l’incredibile forza di trasformare un simbolo negativo di vergogna, come la croce, in

un’immagine positiva di amore. Se, infatti, Dio è amore, e l’amore ha la sua

manifestazione tipica nel “dono”, spinto fino al dono della vita, al sacrificio estremo

della morte di sé per l’altro, ecco che allora la croce è diventata il più importante

simbolo, anzi il simbolo stesso

del cristianesimo : «Nella croce

Dio e l’agápe sono una sola

cosa» afferma perciò in modo

netto Nygren40.

La questione della gnosi

Vorremmo concludere questo

nostro excursus storico-

religioso e filosofico,

spendendo qualche parola su

quella che può essere definita

«la questione della gnosi»

ovvero il problema che da circa

un secolo anima ed appassiona

39 Matteo, 5,43-48 40 A. Nygren, op. cit, p. 123 Gustave Moreau: San Giorgio e il drago

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le discussioni di studiosi di storia religiosa, ma anche teologi e filosofi, su quale sia

il significato da attribuire al termine Gnosi. Il richiamo a questo concetto non poteva

mancare in un saggio come il nostro, dedicato all’aspetto religioso del platonismo

ed, in generale, ai rapporti tra misticismo e logicità. È evidente infatti, quando si

esaminino i sistemi religiosi della tarda antichità, definiti appunto “gnostici” o

“gnostico – manichei”, il legame culturale che essi hanno con i temi da noi trattati;

prendiamo il mito della caverna, ebbene questo che è il più famoso dei miti di

Platone potrebbe essere anche un perfetto mito gnostico, perché le sue figure ed i

suoi simboli ben si prestano ad esprimerne metaforicamente l’inconfondibile

Weltanshauung; anche per gli gnostici il mondo fisico è una tenebrosa caverna in

cui gli uomini, o meglio le loro anime, sono incatenate. Salvarsi significa, allora,

prendere coscienza di tale condizione, “risvegliarsi” o, come diceva Platone,

ricordare la propria origine celeste e, tramite una guida, un «maestro spirituale»,

risalire lentamente e faticosamente la strada che porta al «mondo della Luce», il

regno divino del puro spirito o «Pleroma», facendo attenzione o superare lo

sbarramento frapposto all’anima dagli Arconti, le divinità infere ed astrali, che

cercano di tenere incatenate le anime alla materia ed ai loro corpi. È interessante

come, nei sistemi gnostici, le divinità arcontiche svolgono quel ruolo di sistematici

ingannatori che, nel platonismo, viene svolto dai cattivi maestri o «portatori di

statuette»:

Gli arconti vollero ingannare l’uomo, a motivo della sua

parentela con quelli che sono veramente buoni. Presero il

nome di coloro che sono buoni e lo attribuirono a coloro

che non sono buoni, per poterlo ingannare mediante i

nomi e poterlo vincolare a quanti non sono buoni. In

seguito, se essi fanno loro un favore, (gli arconti) li

allontanano da quelli che non sono buoni e li collocano tra

i buoni, che essi conoscono. Essi, infatti, vogliono

eliminare chi è libero e farne un loro schiavo per sempre.

Vi sono forze che lottano contro l’uomo perché non

vogliono che egli sia salvato…41.

41 Vangelo di Filippo, 20-30, in L. Moraldi (a cura di) Vangeli gnostici, Adelphi, Milano, 1984, p. 51

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Questa componente “gnostica” del platonismo non è affatto sorprendente, se si

tengono presenti gli studi sull’argomento e, nel nostro caso, gli studi filosofici di

Giovanni Reale e quelli storico-religiosi di Ugo Bianchi, cui accennavano proprio

all’inizio del presente saggio: è stato Giovanni Reale a sottolineare l’importanza

della cosiddetta tradizione orfico-pitagorica nella genesi del platonismo, mentre

Ugo Bianchi considera tale

tradizione una forma di “gnosi

ante-litteram”. Ora, proprio a

partire dall’età alessandrina, e per

tutto il lungo periodo della tarda

antichità, tra platonismo,

gnosticismo e teologia giudaico-

cristiana, si sono verificati tutta

una serie di influssi e

contaminazioni reciproche,

all’insegna di quel «sincretismo»

che sembra essere una delle cifre

dominanti del periodo suddetto.

Tale sincretismo, nel caso dei

sistemi gnostici, sembra mettere

insieme proprio sia il misticismo

che la logica; i testi gnostici,

infatti, popolati da «pallide ed

esangui figure» (M. Filoramo),

sembrano frutto di una fantasia

mistico-visionaria, particolarmente

accentuata e dotata di un suo specifico repertorio di immagini; nel contempo, però,

emerge in essi come un atteggiamento raziocinante, elucubrativo, che ha spinto il

grande studioso Adolf Von Harnack (1851-1930) a definire gli gnostici i primi veri

teologi del cristianesimo. Ora, - ed è questa una tesi affacciatasi per la prima volta

Adam Qadmon,figura della Kabbalah (sorta di

"gnosi"tardo-giudaica)

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verso la metà del ‘900 e da molti oggi sostenuta -, sembra che la gnosi come

atteggiamento religioso o, più in generale, antropologico ed esistenziale, non sia

mai venuta meno; anzi proprio essa sarebbe, in quanto anti-cristianesimo radicale,

l’anima segreta di molti ed importanti aspetti della modernità. Per cercare di

orientarsi all’interno di questo labirinto teorico-interpretativo è fondamentale,

riteniamo, esaminare il discorso che, ancora una volta, svolge il Nygren. Il suo

studio è, ricordiamo, anteriore ai due momenti fondamentali attraverso cui, nel

novecento, si è sviluppata la questione gnostica: la pubblicazione dei lavori di Hans

Jonas42 e la scoperta dei papiri di Nag-Hammadi (1947), nell’Alto Egitto. Eppure, è

tanta la potenza teorica e la profondità ermeneutica del suo lavoro, che esso

risulta, nondimeno, imprescindibile e fondamentale. Seguiamo perciò attentamente

il suo discorso.

Non c’è dubbio che, sostiene Nygren, se esaminati alla luce del contrasto eros-

agápe, cristianesimo e gnosi risultino, essi stessi, antitetici ed inconciliabili. La

gnosi si situa infatti pienamente nel quadro dell’eros platonico; essa ha, in un certo

qual modo, perfezionato e radicalizzato quello «schema alessandrino del mondo»,

quella concezione filosofico-religiosa tipica della tarda antichità, che misteri orfici e

dottrina platonica dell’eros hanno, rispettivamente, prefigurato e teorizzato.

Secondo Nygren lo gnosticismo è fondamentale sincretistico «nel vero senso della

parola», cioè nel senso che «esso perviene al cristianesimo con un motivo

elaborato a lui estraneo, al quale vuole adattare il significato del cristianesimo

stesso»43. E questo “motivo estraneo” è proprio il concetto platonico dell’eros:

anche per gli gnostici «lo spirito umano deve percorrere una via determinata, deve

superare grado per grado diverse tappe per tornare a Dio»44. L’immagine simbolica

della scala, che compare in Platone – e che ritornerà nella mistica cristiana del

medioevo – compare anche nello gnosticismo, anche se «in una veste più

spiccatamente mitologica»: Nel viaggio verso il cielo lo spirito umano deve salire

attraverso le diverse sfere: egli deve deporre una parte del suo rivestimento

corporeo – non solo il grossolano corpo materiale, ma anche quello più fine e

42 Cfr. H. Jonas, Lo gnosticismo, SEI, Torino. 43 D. Nygren, op. cit., p. 280. 44 Ibidem, p. 285

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leggero, quello etereo o astrale, ecc., finché, in ultimo, libero da ogni

contaminazione del sensibile, diviene del tutto spirituale45. Questa concezione

soteriologica esclude, esattamente come nel pensiero greco classico, qualsiasi

idea di una salvezza del mondo operata da Dio. Per lo gnostico, infatti Dio non

salva il mondo, ma salva dal mondo e, salvando l’uomo dal mondo, non fa che

salvare sé stesso. Per capire una concezione del genere, occorre tenere presente

l’idea che fa da sfondo e da vero e proprio postulato ontologico fondamentale dello

gnosticismo: il radicale dualismo metafisico. Per gli gnostici il mondo fisico è

intrinsecamente, in sé stesso, cattivo; esso è stato fatto non dal Dio buono, il «Dio

della luce», bensì dal Demiurgo, il malvagio dio delle tenebre. L’anima umana,

consustanziale alla divinità, - anzi, una parte stessa della divinità imprigionata nel

corpo (ricordiamo il tema platonico di derivazione misterica, soma= sema, il corpo

come “tomba” dell’anima) – deve salvarsi dal corpo e dalla materia mediante la

“conoscenza” o gnosi; tale conoscenza viene dispensata agli uomini da Cristo, il

Lógos inviato dal Padre; ma, salvando “gli uomini”, cioè lo loro anime, Cristo salva

pure quella stessa parte di sé che gli Arconti avevano intrappolato nella materia. È

la teoria del “Salvatore – salvato”, che vanifica l’idea cristiana di incarnazione. Per

gli gnostici infatti, Cristo non si incarna realmente, ma solo apparentemente

(“docetismo” cristologico); non potrebbe essere diversamente, posto il radicale

dualismo ontologico di cui sopra: il divino, lo spirito, il «soffio» (pnèuma), non può

mai macchiarsi e contaminarsi con la materia. E se l’incarnazione è apparente,

altrettanto sono la passione e la morte di Gesù, (che l’ Apocalisse gnostica di Pietro

descrive addirittura mentre ride sulla croce! 46). Ma, - ecco il punto decisivo – se

Cristo solo apparentemente si è incarnato ed è morto per noi, apparente è stato

anche il suo amore, (sempre che, beninteso, tale «amore» sia concepito, seguendo

il Nuovo Testamento, come agápe, come sacrificio e dono di sé che la Divinità

compie a favore di un «altro da sè», quale è l’uomo, e che, rispetto alla Divinità

medesima, non può che essere decisamente inferiore ed indegno). Per la gnosi, al

contrario, Dio quando salva «l’uomo», salva in realtà sé medesimo. Il Dio gnostico

45 Ibidem 46 Cfr. Apocalisse di Pietro, 20, in L. Moraldi, Le apocalissi gnostiche, Adelphi, Milano, 1987, p.28.

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non si allontana allora minimamente dalla concezione “greca”, antico-classica, di

Dio come «totalmente Altro» che, chiuso nella sua assoluta e totale autosufficienza

rispetto al mondo, non manifesta se stesso come «Provvidenza». Anche quando

parla il linguaggio del Cristianesimo, la Gnosi esprime una visione religiosa, in

realtà, anti-cristiana.