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43 ANTICHE CONOSCENZE «Questo corpo è la sacra Kashi, il fiume della spiritualità e questo interno sé, il testimone della mente di ognuno, è il Dio. Se tutti i luoghi sacri sono così riuniti in questo corpo, quale altro più sacro potrei cercarne?» Kashi-Pancaca N on si può certo affermare che la tra- dizione occidentale più antica tenga in gran conto l’arte del rilassamen- to. Tutt’al più ne conserva una considerazio- ne del tutto fisica, collegata alle tecniche di massaggio già sofisticate della Grecia anti- ca o alle pratiche termali, in voga soprattutto in epoca romana e antesignane dei moderni “centri benessere”. Più di recente, dopo la nascita della psico-

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antiche conoscenze

«Questo corpo è la sacra Kashi, il fiume della spiritualità

e questo interno sé, il testimonedella mente di ognuno, è il Dio.

Se tutti i luoghi sacri sono così riuniti in questo corpo, quale altro più sacro potrei cercarne?»

Kashi-Pancaca

N on si può certo affermare che la tra-dizione occidentale più antica tenga in gran conto l’arte del rilassamen-

to. Tutt’al più ne conserva una considerazio-ne del tutto fisica, collegata alle tecniche di massaggio già sofisticate della Grecia anti-ca o alle pratiche termali, in voga soprattutto in epoca romana e antesignane dei moderni “centri benessere”.

Più di recente, dopo la nascita della psico-

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logia scientifica moderna, nella seconda me-tà dell’Ottocento, fisici e medici cominciaro-no a interessarsi allo studio della psiche, ap-plicando a sensazioni, emozioni e attività in-tellettive le metodologie già utilizzate nelle scienze naturali.

In realtà, esisteva da molto tempo la no-zione dell’esistenza di una parte della psiche non presente alla coscienza di veglia; uno spazio psichico fatto di pensieri, emozioni, istinti, rappresentazioni e modelli comporta-mentali spesso protagonisti dell’agire uma-no, ma di cui l’individuo non è per nulla con-sapevole.

Platone – ispirandosi a conoscenze orfi-che e pitagoriche – sosteneva l’esistenza di un “sapere nascosto” nell’anima, provenien-te dal mondo delle idee, molto simile alla no-zione di inconscio collettivo che Jung avreb-be suggerito più di duemila anni dopo.

A sua volta, Plotino – cinque secoli dopo Platone – riferendosi ai processi dell’anima non illuminati dalla coscienza, distinse due qualità dell’anima – superiore e inferiore – collegate rispettivamente al pensiero intuiti-vo, rivolto alla contemplazione degli archeti-pi, e al pensiero logico-discorsivo, più simile

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a quel genere di processi intellettivi che chia-miamo “consci”.

Benché queste intuizioni abbiano sottil-mente suggestionato anche il pensiero dei se-coli successivi, è solo nell’età moderna che – prima con Leibniz e poi con l’idealismo te-desco – l’idea dell’esistenza di una “zona in-conscia” si fa strada nel dibattito filosofico, contribuendo significativamente alla forma-zione del contesto culturale in cui sarebbe sorta la psicanalisi.

Non è questo un testo di storia del pensiero, né tanto meno di dibattito scientifico. Que-sti pochi accenni avevano il semplice inten-to di segnalare quanto certi concetti che rite-niamo oggi scontati abbiano in realtà subíto una lunga gestazione e, avanzati da menti del tutto straordinarie, siano poi divenuti una co-mune matrice di interpretazione della realtà.

Certamente, la nozione di “inconscio” elaborata dalla scienza a cavallo tra Ottocen-to e Novecento sta alla base della spiegazio-ne di molti fenomeni che prima, almeno nel-la concezione popolare, assumevano conno-tazioni magiche e soprannaturali, ingeneran-do paure, dubbi e superstizioni.

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Proprio l’emergere di questa idea di uno spazio mentale sommerso, più vasto e poten-te del pensiero razionale, dà luogo per tut-to il Ventesimo secolo a vari esperimenti con tecniche psichiche – l’ipnosi in testa – che scatenano grande curiosità e sembrano apri-re nuovi orizzonti.

In particolare, l’ipnosi viene definita co-me «un tipo molto particolare di comporta-mento complesso e insolito, ma normale, che in condizioni opportune può essere sviluppa-to probabilmente da tutte le persone comuni e anche dalla gran parte di quelle che hanno problemi di salute.

«Si tratta principalmente di una specia-le condizione sia psicologica sia neuro-fi-siologica nella quale la persona funziona in un modo speciale, un modo in cui la persona può pensare, agire, e comportarsi come nel normale stato di coscienza o anzi anche me-glio, grazie all’intensità della sua attenzione e alla forte riduzione delle distrazioni».4

Attraverso l’ipnosi – o l’autoipnosi – è possibile accedere alla dimensione incon-

4. Milton H. Erickson (1901-1980), definizione scientifica del termine “ipnosi” nella XIIII edi-zione dell’Enciclopedia Britannica, 1954.

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scia ed emotiva dell’individuo, introducen-dolo a una propria condizione particolare che gli consente di influire sulle proprie condi-zioni sia fisiche, sia psichiche e sia di com-portamento.

Tutto questo per dire che esiste un vasto territorio dentro di noi – che possiamo chia-mare inconscio, ma che più probabilmente corrisponde a diversi gradi di manifestazio-ne della coscienza di sé – il quale contiene potenzialità in genere sconosciute alla men-te razionale. Potervi accedere in maniera co-sciente consente di intervenire potentemente su tutto il complesso psico-fisico, generan-do anche importanti trasformazioni su corpo, mente e mondo emotivo.

Il rilassamento ha a che vedere con tutto ciò. Nello stato di rilassamento profondo, infat-ti, è possibile accedere a quell’area di cui sopra,5 intervenendo su fenomeni normal-mente inaccessibili alla mente razionale.

5. Che possiamo, d’ora in poi, per comodità chia-mare incoscio, ma solo per distinguerla dalla mente razionale, senza alcun riferimento alle definizioni della psicanalisi o della psicologia del profondo.

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In quello stato, sempre più svincolato dal-le sensazioni provenienti dall’esterno, il sog-getto rivolge all’interno di sé l’attenzione e la sensibilità, andando ad attingere a quello spazio vastissimo in cui sono rimaste regi-strate esperienze e osservazioni rimosse dal-la mente razionale o neppure pervenute.6

Benché esistano oggi diverse tecniche, per lo più provenienti da un approccio psicoterapi-co (di cui qui non ci occupiamo), il concet-to di rilassamento in Occidente ha una storia piuttosto recente, anche se il termine è piut-tosto popolare come contraltare alla crescen-te evidenza degli stati di stress tipici dell’e-poca in cui viviamo.

6. Il nostro cervello registra normalmente molto di più di quanto poi noi siamo in grado – o decidia-mo istintivamente – di portare alla coscienza di veglia. Si può discutere di quali informazioni si tratti, se esiste un inconscio collettivo o meno, se esistono registrazioni di eventi non necessa-riamente esperiti dal soggetto, e così via. Non ci interessa, in questo caso sposare un’ipotesi o un’altra: ciò che conta è che l’area a cui possia-mo accedere attraverso certe tecniche è molto più ricca e vasta di quanto tutta la nostra intelli-genza possa accumulare in una vita.

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Probabilmente la risposta più significati-va è quella proposta dal neurologo berline-se J.H. Schultz, negli anni Trenta, nota con il nome di training autogeno.

Schultz approfondì alcune osservazioni provenienti dagli studi sull’ipnosi, cercan-do di sviluppare e mettere a punto una tecni-ca attraverso la quale il soggetto potesse ap-prendere ad autoindurre in sé uno stato psi-cofisico particolare. Egli basò la procedura soprattutto su due principi: riduzione della stimolazione esterna e concentrazione pas-siva su formule mentali.

Il training autogeno è quindi una tecnica di rilassamento e autodistensione che ha tro-vato discreta diffusione e applicazioni in di-versi campi tanto in psicologia clinica quan-to in medicina. Può essere collocato nell’am-bito delle varie tecniche terapeutiche non far-macologiche brevi, a metà strada tra le tecni-che di rilassamento e gli stati di autoipnosi.

“Training” 7 suggerisce la gradualità di apprendimento e maturazione della tecnica, mentre il termine “autogeno” sottolinea il

7. Dal verbo inglese to train, significa “esercitare, addestrare”.

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fatto che gli effetti psicofisici si generano au-tonomamente nel corso della pratica.

Benché il training autogeno sia stato so-vente presentato come uno “yoga occidenta-le”, in realtà esistono profonde differenze tra i due metodi. Il training autogeno è una sem-plice tecnica di concentrazione mentale pas-siva in grado di procurare alcune modifica-zioni psicofisiche; lo yoga è invece una di-sciplina che costituisce parte integrante di un più ampio sistema filosofico e di conoscen-ze, che prevede al contrario un atteggiamen-to attivo e volto allo sviluppo di una consa-pevolezza dell’individuo.

Se l’Occidente, dunque, non ha saputo da-re al rilassamento un valore in sé, l’Oriente si rivela molto più attento alla sua importan-za come prassi, e se ne può trovar traccia in molte discipline di origine diversa.

Tutte le più antiche conoscenze orientali tengono in gran conto il ripristino di una con-dizione di armonia, tanto a livello fisico che psichico – ambiti non separati, ma in mutua relazione –, attraverso vari metodi.

Nel taoismo si manipola l’energia (il Chi) attraverso il respiro (Chi Chung), certi movi-

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menti del corpo (Tai Chi Ch’uan) o l’utilizzo di stimolazioni su punti specifici del corpo corrispondenti a canali energetici (agopuntu-ra e coppettazione in Cina e moxa, in Giap-pone), concetto applicato anche a diverse tecniche di massaggio (shiatsu, an-ma, tui-na, do-in, ecc.).

Il riequilibrio energetico e il ripristino di un’armonia naturale producono un profondo rilassamento nel soggetto, sebbene ciò non sia il fine specifico di queste tecniche.

Anche nello yoga indiano lo stato di ri-lassamento è fondamentale, tanto nell’ese-cuzione delle asana dell’haṭha yoga, quanto in innumerevoli altre pratiche di prāṇāyama (tecniche di respirazione) e di dhāraṇa (con-centrazione).

In particolare, nel Raja Yoga di Patanjali, viene descritto uno stato – chiamato pratyā ­hāra – nel quale la mente e la consapevolez-za mentale sono dissociate dai canali senso-riali. Si tratta di uno stadio della pratica che conduce agli stati più elevati di concentra-zione (dhāraṇa) e di samādhi.8

8. Lo stato in cui la mente rimane focalizzata su un unico punto – o su un solo oggetto – e le nozioni di “soggetto” e “oggetto” scompaiono.

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Nel pratyā hāra le sollecitazioni prove-nienti dai sensi vengono progressivamente condotte all’interno: si “spengono” sostan-zialmente le sensazioni tattili, visive, uditi-ve e olfattive rivolgendo l’ascolto delle stes-se all’interno di sé (sui “suoni interiori” per esempio) e sviluppando quindi progressiva-mente un’attenzione concentrata sull’attività della coscienza individuale. Tecnica che, ve-dremo più avanti, risulta molto simile a certi stadi del rilassamento profondo.

Le conoscenze più direttamente inerenti a un concetto di rilassamento, inteso come tecni-ca specifica di introspezione, ci provengono tuttavia dal Tantra – o meglio dai Tantra, vi-sto che si tratta di un’insieme di conoscenze e fonti non sistematizzate di origine antece-dente alla trasmissione scritta.

Il Tantra ha sicuramente influenzato mol-te visioni delle civiltà più antiche, ispirando direttamente diversi sistemi filosofici indiani (darśana), nonché certi rami del buddhismo e persino frange consistenti del pensiero oc-cidentale egizio, greco e romano.

In particolare, nel Mahanirvana tantra viene citata la pratica di nyasa (“concentrare

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la mente su un punto”) che consente di rilas-sare completamente il corpo e la mente attra-verso il sonno apparente. Con questa tecnica di concentrazione la mente giunge a una vera e propria liberazione, a un “vuoto cosciente” simile a quello della meditazione, rimanendo allo stesso tempo vigile e attenta.

Per quanto sia possibile storicizzare una pratica così antica, possiamo comunque ri-tenere che gran parte di ciò che conosciamo delle tecniche di rilassamento proviene dal Mahanirvana Tantra, lo Yoga tantrico della “Grande Liberazione” dove gli adepti si con-centravano sulle varie parti del corpo fisico e sui canali energetici interni, con i loro punti focali – i chakra –, inviando vibrazioni sono-re attraverso particolari mantra, che avevano la funzione di trasportare nel corpo una “co-scienza divina”.

Buona parte di questo genere di tecniche provenienti dalla concentrazione sui pun-ti focali del corpo è state molto più recen-temente sistematizzata e denominata “Yoga Nidra”, che non è il nome di uno Yoga tradi-zionale, bensì un termine coniato da Swami Satyananda Paramahansa Saraswati, disce-polo del celebre Swami Sivananda di Rishi-

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kesh.9 Egli stesso ammette di aver “costru-ito” il termine associando la parola “yoga” (che significa unione, ma anche soggiogare) con “nidra”, che vuol dire sonno, in seguito alle sue letture dei Tantra e ad alcune espe-rienze personali.

In pratica, egli avrebbe “semplificato” la tecnica tantrica già accennata del nyasa (ov-vero “mettere” o “portare la mente su quel punto”).

Nyasa veniva praticato originariamente da seduti – la posizione classica del loto usa-ta nella meditazione – e comprendeva l’uso di mantra (suoni vocali) specifici che veni-vano recitati, o semplicemente ascoltati, op-pure di cui si faceva esperienza in diverse parti del corpo. Prima veniva recitato il no-me della parte del corpo, poi questa veniva visualizzata o toccata, e infine in quel punto veniva diretto il mantra.

Nyasa era il mezzo per consacrare il cor-

9. Swami Sivananda (1887–1963) è considerato uno dei più recenti maestri dello yoga prove-niente dall’India contemporanea. Promotore di una sintesi tra i vari sistemi di yoga conosciuti, esercitava nel suo Paese anche la professione di medico.

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po fisico attraverso l’esercizio di una consa-pevolezza così elevata da porsi in grado di cogliere la coscienza originaria nelle varie parti del corpo, durante i rituali tantrici.

Per esempio l’Angushtadi Shadanga nya-sa veniva utilizzato per “disporre” i mantra nella mano nel modo seguente:

Pollice - Hram angushtabhyam namah. Indice - Hrim tarjanibhyam swaha.Medio - Hrum madhyamabhyam vashat. Anulare - Hraim anamikabhyam vashat. Mignolo - Hraum kanishthabhyam vaushat. Palmo e dorso mano - Hrah karatalaprishtabhyam phat.

In modo del tutto simile, nell’Hridayi Sha-danga nyasa, altri mantra venivano diretti in varie parti del corpo, con procedimenti sofi-sticati e alquanto complessi.

Satyananda, sostanzialmente, ha eliminato la parte mantrica, ha semplificato le tecniche respiratorie e adattato le immagini evocate durante la pratica, facendo inoltre eseguire le tecniche in posizione sdraiata: questa sua ef-ficace rielaborazione è ciò che viene ora de-finito “Yoga Nidra”.

Dai suoi esperimenti protratti negli an-

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ni egli giunge alla conclusione che «Il son-no più profondo potrebbe non essere sonno per niente. Forse, quando siete nel sonno profondo, di notte, avete molta più consape-volezza, più potenziale di quando vi trovate nello stato di veglia. Ciò significa che pote-te imparare di più quando siete addormenta-ti che quando siete svegli. Questo è il modo in cui utilizziamo Yoga Nidra per l’evoluzio-ne della mente».

Tra tutti i sistemi di rilassamento fin qui cita-ti, scegliamo volutamente di approfondire da qui in avanti lo Yoga Nidra, sia perché lo ri-teniamo il metodo più completo – e quello di cui abbiamo un’esperienza pluriennale –, sia soprattutto perché, contrariamente agli altri, presuppone una consapevolezza dell’indivi-duo che vi si sottopone.

Riteniamo la consapevolezza elemento fondante di ogni pratica che aspiri al miglio-ramento di sé. Senza un’azione diretta dal-la coscienza anche le più sofisticate tecniche alla lunga diventano meccaniche, rischiando inoltre di risultare fini a se stesse, sovrappo-nendosi alla crescita e alla libera scelta del soggetto.

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Meccanismo di azione

Quando il rilassamento è completo, lo stato di ricettività è maggiore; quando la coscien-za è invece collegata a tutti i sensi, la ricet-tività risulta affievolita. È questo è il concet-to di base su cui si fonda lo Yoga Nidra: rag-giungere uno stato di rilassamento profondo – oltre che produrre beneficio in sé – è anche il presupposto per affinare la percezione di tutti i segnali, che non necessariamente pro-vengono solo dal mondo fisico.

A causa del processo di mentalizzazione cui abbiamo già accennato, l’enorme mole di dati sensoriali che entrano nel cervello non vengono per lo più portati alla coscienza vi-gile. Ma, quando ritiriamo un poco la nostra mente, ed entriamo in uno stato in cui non siamo né nel sonno profondo né completa-mente svegli, ogni impressione che ricevia-mo in quel momento diviene estremamente potente e in grado di essere osservata in pro-fondità.

Possiamo distinguere, semplificando, due diversi livelli mentali: l’uno più resisten-te, l’altro meno. La mente conscia – cioè la mente ordinaria, quella allo stato di cosiddet-ta “veglia” – è il livello più resistente poi-

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ché in essa operano l’intelletto e la logica, procedimenti attraverso cui vengono analiz-zati i dati sensoriali. Tra l’altro, questo livel-lo soffre di una serie di limiti collegati alla memoria e all’esperienza, per cui gran parte dei dati non vengono neppure presi in consi-derazione perché giudicati “già conosciuti” o ininfluenti. La mente razionale soffre insom-ma del preconcetto, dell’abitudine, dell’a-spettativa, e così via, filtri che la mettono sì in grado di accettare alcune cose, ma è anche di rifiutarne altre.

La coscienza più profonda – l’altro gra-do di livello mentale – non presenta invece queste caratteristiche. Qualsiasi impressione si immetta nella mente subcosciente non può essere “rifiutata”. Essa vi penetra e in quel terreno cresce, e i suoi frutti potranno influ-ire su qualche aspetto della vita. Divenirne consapevoli rappresenta un grande vantag-gio, una possibilità in più di osservazione e comprensione di sé.

Proprio perché la consapevolezza ne costi-tuisce un elemento portante, durante la prati-ca di Yoga Nidra bisogna cercare di rimanere svegli, senza tuttavia preoccuparsi se capita

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di addormentarsi (cosa che, all’inizio, succe-de piuttosto di frequente). La tecnica funzio-na lo stesso, poiché le suggestioni inviate in una certa fase della pratica raggiungono co-munque il subconscio.

Ovviamente, la tecnica risulta assai più potente se riusciamo a non addormentarci. Accingendoci alla pratica, dobbiamo quindi porci una prima, forte risoluzione: «Io non dormirò!».

In Yoga Nidra la coscienza si trova in uno stato a metà strada tra la veglia e il sonno, ma non è soggetta alle caratteristiche di nessuno dei due: pur desta e presente, non dipende to-talmente dalle considerazioni della mente lo-gica e razionale.

Nella psicologia moderna questo stadio viene definito come “stato ipnagogico”,10 condizione coscienziale che corrisponde allo “stato di Yoga Nidra”. In questa situazione di

10. In psicologia, è definita stato ipnagogico è quel-la fase della coscienza che porta dalla veglia al sonno (lo stato ipnopompico è quello opposto, dal sonno alla veglia). In tali fasi il cervello può avere delle sensazioni, in particolare visive e uditive, che vengono percepite come reali anche in modo assai vivido.

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rilascio delle identificazioni indotte dall’am-biente circostante la mente si mostra ecce-zionalmente ricettiva: durante il cambiamen-to di stato si possono imparare rapidamente e con poco sforzo lingue sconosciute e altre nozioni, così come, nello stesso modo, sug-gestioni e risoluzioni espresse durante que-sta condizione producono buoni risultati nel rimuovere abitudini e tendenze indesiderate.

Non si tratta di un ordine ipnotico11 indot-to da un operatore esterno, ma di una risolu-zione presa dallo stesso individuo che si sot-topone a una seduta di rilassamento in Yo-ga Nidra.

In ogni caso, non necessariamente lo Yo-ga Nidra viene utilizzato per questo genere di scopi: vi si può anche far ricorso sempli-cemente per beneficiare di un rilassamento profondo, in situazioni di stress o durante fa-si di attività impegnative che permettono po-che ore di sonno. Abbiamo infatti già detto

11. È comunque scientificamente appurato che un soggetto sotto ipnosi non solo mantiene la ca-pacità di usare la volontà o la ragione, ma di-mostra anche di essere meno manipolabile, al punto che non è in alcun modo possibile co-stringerla ad agire contro il suo volere.

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che un’ora di rilassamento profondo rigene-ra almeno quanto quattro ore di sonno “nor-male” ma, anche se utilizzata semplicemen-te come breve consuetudine prima di addor-mentarsi, la pratica di Yoga Nidra è in gra-do di elevare in modo significativo la qualità complessiva del riposo notturno.

Nello stato di Yoga Nidra entriamo in contatto con la nostra personalità psichica, che sta alla base di ciò che siamo più real-mente, al di là dei condizionamenti che ci provengono dal mondo esterno. Si tratta di una condizione esistenziale più oggettiva, che ci mette in grado di avvicinarci maggior-mente alla nostra natura.

Il sankalpa

Durante la pratica del rilassamento profondo il mezzo più efficiente per allenare la men-te è il sankalpa, che viene formulato autono-mamente dal praticante.

Sankalpa è un termine sanscrito che si può tradurre come “proposito” o “risoluzio-ne” e costituisce un potente strumento per trasformare la personalità identificata e for-

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nire un indirizzo più propositivo alla propria vita. Se abbiamo ben chiaro cosa desideria-mo realizzare nella nostra esistenza, il san-kalpa può a buon titolo aiutarci a diventare “padroni del vostro destino”.

Il sankalpa non è altro che una breve af-fermazione mentale che si imprime nella mente subconscia quando questa è partico-larmente ricettiva, durante la pratica del ri-lassamento profondo. Deve essere formulata allorché la mente è calma e tranquilla, e non quando è attiva intellettualmente.

In genere, prima o dopo la pratica di Yoga Nidra vi è un breve periodo di tempo dedica-to al sankalpa: la risoluzione presa all’inizio della seduta assomiglia all’atto di “piantare un seme” e quella formulata al termine del-la pratica suggerisce l’idea di “irrigare” il se-me interrato.

Ovviamente, occorre anche convinzione e forza di volontà: dobbiamo essere noi per primi convinti della bontà e dell’importanza di ciò che ci proponiamo.

Il sankalpa è una tecnica potente e do-vrebbe essere usata con intelligenza: anche se è possibile formulare una risoluzione per scopi terapeutici, sarebbe bene tuttavia uti-

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lizzarla per intendimenti più elevati ed etici come il miglioramento di sé, la presa di re-sponsabilità rispetto ai propri compiti socia-li o familiari, la comprensione e l’aiuto degli altri o – addirittura – il raggiungimento della realizzazione di se stessi.

È naturalmente possibile correggere abi-tudini o tendenze negative attraverso un’a-deguata risoluzione positiva, ma il sankal-pa non è la “lampada di Aladino” che per-mette di esaudire ogni più recondito deside-rio: il suo scopo è solo quello di rinforzare la struttura profonda della mente, aiutandoci ad esercitare un’azione più libera dalle paure e più convinta delle proprie aspirazioni.

Nello stato di rilassamento profondo otte-nuto attraverso la pratica di Yoga Nidra l’at-tenzione viene progressivamente ritirata dal mondo esterno, dal corpo, dal respiro, dal-la mente conscia e infine dai contenuti del-la mente inconscia. Negli stadi più avanza-ti, quando il rilassamento è completo, si può spontaneamente entrare in uno stato di pura concentrazione.

Si può, ma in genere non accade se non esiste già una buona esperienza di pratica

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della meditazione. Anzi, molto spesso lo Yo-ga Nidra porta a scivolare spontaneamen-te nel sonno – favorito, quest’ultimo, dalla posizione sdraiata – anche se si tratta di un sonno assai particolare, sempre al limite del-la coscienza vigile.

Per evitare che la coscienza si ritiri com-pletamente e il sonno prenda il sopravvento, la consapevolezza – ritirata via via da tutto il resto – viene condotta verso un’unidirezio-nalità, in genere concentrata sul canale uditi-vo, attraverso cui giungono le parole dell’i-struttore. Gli altri sensi vengono progressi-vamente scollegati, dissociandone l’intera-zione con la corteccia cerebrale.

Gli stimoli, naturalmente, continuano ad esserci (il contatto col pavimento, l’aria in-torno al corpo, i profumi della stanza, ecc.) ma la coscienza ne viene progressivamente allontanata e impegnata su un solo “canale”, fino a rendere del tutto ininfluente il colle-gamento con il cervello. È, questo, lo stato di pratyā hāra del Raja yoga di cui abbiamo già detto; una condizione di “ritrazione dei sensi” in cui la coscienza “galleggia” in uno stato di leggerezza, sgravata dal peso delle identificazioni con il conosciuto.

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Ovviamente, sarebbe totalmente libera se potesse “sganciarsi” anche dal canale uditi-vo – la voce dell’istruttore – ed è un risultato che si può certamente raggiungere con mol-ta esperienza di pratica, così come anche con altre tecniche.

Lo Yoga Nidra non sostituisce affatto la meditazione, né rappresenta una scor ciatoia per la realizzazione di se stessi. Tuttavia è una tecnica piuttosto semplice che, ben gui-data, può condurre anche un neofita a spe-rimentare stati di profondo benessere e ad entrare in contatto con parti di sé che prima neppure ipotizzava.

Occorre, come sempre, esercizio e perse-veranza. Anche per rilassarsi.