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Note e discussioni
L ’ultima vittoria del fascismo Spagna 1938-1939
Lucio Ceva
L’afflusso degli aiuti stranieri all’una o all’altra parte ebbe un peso determinante, talvolta decisivo, sull’andamento della guerra. La tempestività degli arrivi fu spesso più risolutiva che non la mole degli invii, giacché o l’una o l’altra parte sarebbe stata costretta diversamente a soccombere o ad addivenire a un compromesso, qualora non avesse ricevuto in tempo i rifornimenti necessari (corsivo mio).
Queste considerazioni compendiano bene l’azione degli interventi stranieri nella tragedia consumata in Spagna fra il 1936 e il 19391. In effetti, nel luglio 1936 pochi velivoli italiani e tedeschi avevano permesso il trasporto delle truppe d’Africa sul territorio metropolitano impedendo alla Repubblica di domare l’ammutinamento dei generali e di parte dell’esercito. Nel successivo autunno il materiale bellico sovietico e le brigate internazionali avevano aiutato a scongiurare la presa di Madrid da parte dei nazionalisti. Tra dicembre 1938 e febbraio 1939 l’arrivo di materiali tedeschi e soprattutto l’iniziativa italiana del Corpo Truppe Volontarie (Ctv) permisero la liquidazione della Catalo
gna e il conseguente crollo a fine marzo del ridotto Madrid - Valencia. Così la Repubblica spagnola cadde giusto in tempo perché la sua lotta non si saldasse alle vicende della seconda guerra mondiale nel settembre 1939. Infinite sarebbero le ipotesi sulle conseguenze che il prolungarsi della guerra civile in Spagna avrebbe potuto avere sugli sviluppi operativi del nuovo gigantesco conflitto2. La logica per altro conforta la supposizione che, al conto finale, l’esito non sarebbe cambiato salvo che il crollo dei regimi totalitari avrebbe travolto anche quello di Franco.
Desiderando offrire, come già fatto per il precedente volume, un ordinato campionario di osservazioni e commenti su questa nuova e conclusiva fatica dell’Ufficio storico, converrà ora seguirne la successione espositiva ritornando solo in chiusura ai consuntivi della vicenda. Nell’anno e mezzo che corre dall’autunno 1937 alla fine della guerra (1° aprile 1939) i principali eventi operativi furono cinque. L’offensiva repubblicana di Teruel (15 dicembre 1937-23 feb-
1 Si vedano le “Considerazioni conclusive” (la citazione è tratta da p. 442) del volume che intendiamo discutere in questa sede: Alberto Rovighi, Filippo Stefani, La partecipazione italiana alla guerra civile spagnola (1936-1943), volume secondo Dall’autunno 1937all’estate 1939, Tomo I, Testo e Tomo II, Allegati, Roma, Ufficio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito 1993. Sul primo volume vedi Lucio Leva, Ripensare Guadalajara, “Italia Contemporanea”, 1993, n. 192.2 È da pensare che la dichiarazione di “neutralità” che Franco mise avanti nell’estate 1938 quando si profilò il pericolo della guerra europea poi rimandata di un anno, poco gli avrebbe giovato finché in Spagna esisteva un fronte di guerra.
Italia contemporanea”, settembre 1994, n. 196
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braio 1938) è faticosamente contenuta e alla fine respinta dai franchisti. L’offensiva nazionalista di Aragona (9 marzo-19 aprile 1938) porta, in due distinte fasi, al risultato strategico di aprire un corridoio a sud del- l’Ebro fino al Mediterraneo isolando la Catalogna dal resto della Repubblica. L’ulteriore offensiva franchista su Valencia (battaglia del Levante, aprile-luglio 1938) realizza solo avanzate costose e poco concludenti. La grande controffensiva repubblicana sul- l’Ebro (luglio-novembre 1938), dopo un esordio promettente, si stempera in azioni di logoramento per oltre cento giorni e lascia esausti i contendenti. L’offensiva franchista (23 dicembre 1938-4 febbraio 1939) conquista Barcellona e l’intera Catalogna ponendo virtualmente fine al conflitto già prima dell’ultima spallata nazionalista al centro (fine marzo 1939).
A Teruel e all’Ebro, dove era stata veramente fiaccata la forza militare della Repubblica, il Ctv aveva partecipato solo con artiglieria e aviazione e, nel secondo caso, anche con qualche intervento di carri (pp. 40- 48 e 293-296). Nella lunga e inconclusa battaglia del Levante il Ctv ebbe parte di primo piano nell’ultima fase (luglio 1938). Ma nelle battaglie di Aragona e di Catalogna l’azione del Ctv fu veramente decisiva e su di esse pertanto concentreremo l’attenzione. Se l’offensiva in Aragona è di concezione spa
gnola, fu però l’azione impetuosa del Ctv a farla a tratti esorbitare dagli schemi caratteristici della prima guerra mondiale che in genere si ritrovano nelle principali operazioni in Spagna.
Il Ctv del generale Berti (vicecomandante Frusci, capo di Stato maggiore Gambara) organicamente non è più quello di Guadalajara e nemmeno quello di Santander. Consta di tre divisioni di fanteria: la “Fiamme Nere-XXIII marzo” (console generale Fran- cisci) derivata dalla fusione delle divisioni “Fiamme nere” e “XXIII marzo” e la “Littorio” (generale Bergonzoli) entrambe ora su formazione ternaria; la “Frecce” (generale Roatta) italo-spagnola e quaternaria su ben 14 battaglioni derivante dalla somma delle due brigate miste “Frecce Nere” (generale Piazzoni) e “Frecce Azzurre” (generale Guassardo). Vi è poi il Raggruppamento carristi” del colonnello Babini3. L’artiglieria, parte frazionata nelle divisioni e nei reggimenti e parte concentrata in uno speciale Comando affidato al generale Manca di Mores, comprende 236 bocche da fuoco dal 149/12 al 65/17, oltre a 94 fra antiaerei e controcarri4.
I 40.000-45.000 uomini del Ctv (38.700 di cui 13.500 spagnoli nelle tre divisioni, il resto negli altri reparti e supporti) dispongono complessivamente, ed esclusi i motocicli, di 3.165 automezzi fra i quali 352 autovetture,
3 Articolato su due battaglioni carri (56 L3), un battaglione motomeccanizzato (1 cp. di 9 vetuste autoblindo Lancia IZ, 1 cp. mitraglieri con un centinaio di moto e circa 30 armi automatiche), una batteria controcarri (6 da 37/45 e 2 da 47/32).4 Comprendeva: circa 60 pezzi da 65/17 distribuiti ai reggimenti di fanteria; 32 anticarro (30 da 37/45 e 2 da 47/ 32) e 30 mitragliere contraeree da 20 in reparti reggimentali, divisionali o di brigata oltreché nel Raggruppamento carristi; 3 gruppi da 75/27 (36 pezzi), 2 gruppi da 100/17 (16 pezzi), 3 gruppi da 65/17 (36 pezzi) formanti le artiglierie divisionali; 2 gruppi da 149/12 (24 pezzi) e 2 da 105/28 (24 pezzi), 2 gruppi da 100/17 (16 pezzi), 1 gruppo da 75/27 (12 pezzi), 1 gruppo da 65/17 (12 pezzi), 5 batterie antiaeree da 75 CK (20 pezzi) e 12 mitragliere da 20, distribuiti nei raggruppamenti “medi calibri”, “piccoli calibri” e “contraereo” del Comando Artiglieria Ctv. Parte dei 65/17 era someggiata, gli altri pezzi erano autotrainati oppure autotrasportati, più raramente installati su automezzi dai quali potevano far fuoco (come i 20 pezzi da 75 CK contraerei e forse qualche mitragliera da 20). È inoltre da presumere che l’organico dei gruppi e delle batterie sia stato completato prima della battaglia attingendo ai materiali del “Comando centro complementi e addestramento”; inoltre il numero dei trattori era spesso inferiore al numero dei pezzi da trainare. Do questo conteggio dettagliato perché esso si ricava solo, con calcoli e ragionamenti, dalle note 7-13 a pp. 92-98 le quali permettono di rimediare a qualche imprecisione dell’elenco a p. 74 del testo.
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108 trattori d’artiglieria e 20 autocannoni. A parte un certo numero di “autospeciali” (ambulanze, autoradio, autofrigoriferi, veicoli-officina, ecc.), il grosso era rappresentato da autocarri leggeri e pesanti e da non molte autocarrette. La media era di 1 mezzo ogni 14-16 uomini, più che ragguardevole in assoluto e addirittura impressionante rispetto alle disponibilità spagnole5. Poiché la forza complessiva impiegata dai nazionalisti nell’offensiva è stimata dall’Ufficio a 14 divisioni con 750 pezzi d’artiglieria (p. 72 senza indicazioni documentali), le tre divisioni del Ctv (25 per cento di tale forza) coi loro 300 pezzi di ogni genere detenevano quasi il 40 per cento dell’artiglieria. Le dotazioni del Ctv sono abbondanti anche per il genio (pur mancando un’unità pontieri) e per le trasmissioni (sia radio sia a filo). Il genio così come il servizio sanitario e l’Intendenza sono ben organizzati, ma trovano il loro limite nella scadente qualità dei materiali e degli equipaggiamenti che d’altronde corrispondono alle normali dotazioni dell’esercito italiano (pp. 72-75). Il morale, abbassatosi nei lunghi periodi di stasi operativa (oltre sei mesi per il grosso del corpo), pare si sia rialzato in vista dell’impiego (pp. 54-56 e 75).
Quanto alle forze avversarie, l’Ufficio si limita a un confronto “tabellare” alquanto sfavorevole ai repubblicani: 12 divisioni con 350 pezzi d’artiglieria contro 14 con 750,
meno di 350 velivoli contro 400, fra italiani, nazionalisti e tedeschi (p. 72).
Fonti franchiste attribuiscono ai repubblicani effettivi più rilevanti: 12 divisioni e 33 brigate senza contare quelle accorse poi, una riserva di 200 cannoni e più di 350 aerei6. Lavori spagnoli più recenti assegnano invece ai repubblicani in tutto e per tutto 34.000 uomini con 74 cannoni poi rafforzati da truppe dell’armata di manovra e da formazioni internazionali7.
Il successo del Ctv culminò nella presa di Alcaniz il 14 marzo con un’avanzata di 80 chilometri in linea d’aria alla media di 15 al giorno contro una resistenza avversaria “tutto sommato scarsa, nulla addirittura su alcuni tratti” (pp. 81, 88). Ma, come le quattro giornate iniziali di Guadalajara avevano provato, anche resistenze non formidabili possono, se l’attaccante è indeciso, creare il ritardo che permette alle riserve di intervenire8. Giustamente gli autori riconoscono al comando del Ctv il merito di aver saputo “trarre tempestivamente vantaggio dalla grave crisi morale e tecnica dell’esercito repubblicano in fase di riordino dopo le sconfitte di Teruel e dell’Alfambra” (p. 88) nonché quello di essere riuscito a vanificare taluni ordini di Franco intesi a far deviare il corpo italo-fascista dalle direttrici d’attacco iniziali dopo che i primi successi gli assicuravano un ruolo da protagonista (pp. 83, 89).
5 La distribuzione era la seguente: 477 (di cui 62 vetture e 24 trattori) alla “Frecce”, 385 (di cui risp. 35 e 19) alla “F.N-XXIII marzo”, 286 (risp. 33 e 10) alla “Littorio”; 150 (16 vetture) al Raggruppamento carristi; 408 (fra cui 25 vetture, 55 trattori, 20 autocannoni e 6 autocassoni per gli stessi) al Comando Artiglieria Ctv, altri 1459 a vari elementi di supporto di cui 1156 all’Intendenza. Anche questa distribuzione si ricava con calcoli e ragionamenti dalle note 7-13.6 Così José Martinez Bande, nella monografia n. 11 dello Stato Maggiore spagnolo, La llegada al mar, Madrid, San Martin, 1975, pp. 36-37. Più generico il vecchio Manuel Aznar, Historia Militar de la guerra de Esporta, Madrid, Editora Nacional, 1958-1963 (3 voli.), I li, pp. 24-25. Notizie solo generiche nel IX volume della Historia de Esporta di autori vari diretti da Manuel Tunon de Lara, La crisis de l ’Estado: dictadura, repiiblica, guerra (1923- 1939), pp. 443-444.7 Così Gabriel Cardona, Las operaciones militares in M. Tunon de Lara (a cura di), La guerra espaiiola 50 anos después, Barcellona, Labor, 1985, p. 248, il quale peraltro riduce anche le forze nazionaliste (Ctv e corpi Marroqul e Galicia) a soli 150.000 uomini con 150 pezzi, cosa che sembra poco credibile. In Historia de Espana IX voi., cit., p. 443 si dice che il 50% delle divisioni franchiste attaccava il 20 per cento delle divisioni repubblicane.8 L. Ceva, Ripensare Guadalajara, cit.
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Quest’ultimo rilievo mi sembra credibilissimo dato il clima dei rapporti tra comando franchista e Ctv, del quale si è già accennato in altra occasione9.
Si può però ricordare che almeno nella vecchia storia franchista di Aznàr, non sempre tenera coi “legionari” di Mussolini, vi sono riconoscimenti in gran parte coincidenti con molte osservazioni odierne dell’Ufficio. Così la preparazione d’artiglieria il mattino del 9 marzo realizzata con grande sapienza dal generale Manca (pp. 79-80) è definita “esemplare” . Dopodiché — si aggiunge — “rapidamente cannoni, carri, camion da trasporto e ambulanze saltano fuori a centinaia da tutte le parti e come torrente inarrestabile spingono lo schieramento ben oltre la linea prevista per il primo giorno”. A proposito della colonna celere lanciata su Alcaniz con tempestiva energia da Francisci (p. 86) lo storico franchista annota:
[...] nella notte sul 13 Berti ha ordinato che i battaglioni “Lupi” e “Ardente” rinforzati da 30 carri d’assalto, da una compagnia motomitraglieri, dall’artiglieria della “XXIII marzo” e da due batterie anticarro si lancino su Alcaniz senza nessuna particolare preparazione [...]. Gli italiani mettono a segno il loro attacco frontale, sorprendono le brigate rosse [...] e concludono la manovra con l’occupazione di Alcaniz che alle prime luci dell’alba li vede trionfatori per le sue strade. La rapidità, la manovrabilità, la precisione di tiro, la violenza d’urto, lo sfruttamento della sorpresa rivelano l’accresciuto valore delle truppe legionarie [...]. Poi, come se il Ctv volesse superare se stesso, la divisione “XXIII marzo” collabora al suc
cesso del corpo d’armata di Galicia sulla sua destra [...]. Lì, con le sue tre brigate, si trova Lister che dopo Guadalajara prova particolare piacere a contendere il terreno al Ctv [...] ma la “XXIII marzo” assale Lister e lo obbliga a sgombrare con le sue brigate malconcie. L’artiglieria italiana si è dimostrata insuperabilmente efficace e precisa”10.
Meno lirico e più tecnico l’Ufficio storico italiano mette in rilievo soprattutto quattro aspetti. La modernità dell’azione d’artiglieria, realizzata senza preventivi aggiustamenti, fu resa possibile dalla “minuta preparazione topografica” , dalla posizione molto avanzata degli osservatorii nonché dalla rapidità delle spinte in avanti a dispetto dei “vecchi pregiudizi” sulla sicurezza “che vorrebbero i pezzi sempre molto protetti con la fanteria” . “Si era data importanza alla difesa contraerei delle batterie specie quando il terreno rendeva difficile l’occultamento”11. Buona si mostrò la capacità di manovra delle divisioni di fanteria sia nell’iniziale progresso appiedato sia nelle azioni celeri autocarrate attraverso il “costante ricorso alla manovra in campo tattico, anche ai livelli minori” (p. 89).
Inoltre risultò spregiudicato l’uso dei corazzati. Perfino i modestissimi L3 trovano utile impiego quando operano riuniti anziché sparpagliati tra la fanteria, come l’allora colonnello von Thoma della legione Condor tentava di insegnare ai nazionalisti, sembra con limitato successo12. Si incomincia ad affacciare il concetto che non la fanteria ha bi-
9 L. Ceva, Ripensare Guadalajara, cit., pp. 484-485.10 M. Aznar Historia militar, cit., pp. 57-59. Vedi anche p. 36 e pp. 64-65 sul procedimento di attacco speditivo contro villaggi fortificati realizzato dalle colonne motorizzate legionarie appoggiate dai carri leggeri. Si tratta di riconoscimenti interessanti non solo per la loro rarità nella stessa opera di Aznàr ma anche perché la battaglia di Aragona nel suo complesso è considerata merito strategico del Caudillo tanto da venir definita dallo stesso autore come “batalla de Franco y de Aragón”.11 Vedi generale Ettore Manca di M ores, L ’impiego dell’Artiglieria italiana nella guerra di Spagna. Maggio 1937- novembre 1938, Roma, Tip. Regionale, 1941, p. 342.12 Hugh Thomas, La guerra civil espanola, Barcellona, Grijalbo, 1976 ( l a ed. inglese 1961), 2 voli., II voi., pp. 773, 857 e fonti in esso citate.
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sogno dei carri ma questi di quella13 perché “ne consolidi il successo, ne faciliti il dispiegamento e la manovra, ne protegga il dispositivo” (p. 74). Ciò fu percepito dal colonnello Babini che, nella sua relazione sulla battaglia, lamentava “la manchevole costituzione organica del Raggruppamento privo di truppe di sostanza (bersaglieri e cavalleria)” e affermava che proprio la mancanza di queste truppe avrebbe impedito di “prolungare molto oltre il fortunato colpo su Al- caniz” . Dichiarò inoltre necessario che le fanterie “seguano immediatamente i carri sul loro obiettivo se si vuol mantenere sul serio tale obiettivo” ed evitare ai carri la ripetizione degli stessi percorsi “per dare mano e impulso” alle fanterie sopraggiungenti.
Infine, quarto ed ultimo punto, l’azione aerea sia a terra sia nel tenere pulito il cielo della battaglia, favorita dalle condizioni atmosferiche, si rivelò efficace.
Più contrastato e sanguinoso, reso arduo dal terreno e dalla mancanza di sorpresa, è il successivo sviluppo della battaglia. Il Ctv, costretto più volte a sostare per la lentezza delle fiancheggianti colonne franchiste e in un caso anche per il loro inopinato arresto (pp. 139-140), porta l’operazione alla sua conclusione. Trattenuto all’altezza di Torto- sa dai forti contrattacchi di Lister, il corpo legionario vede sfumare l’occasione di arrivare al Mediterraneo dove a Vinaroz, picco
10 porto di pescatori, giungono invece il 15 aprile le colonne di Aranda. Il Ctv deve accontentarsi di occupare i quartieri di Torto- sa a destra dell’Ebro sulla cui riva i repubblicani abbandonano uomini e materiali (15- 19 aprile)14. Questa seconda parte della battaglia, più dura per l’afflusso di riserve repubblicane con carri armati e truppe internazionali, non smentisce nessuna delle “lezioni” della fase precedente. L’aumentata necessità di proteggere i fianchi per l’ampiezza dei fronti, è meno favorevole alle penetrazioni audaci che tuttavia non mancano del tutto come nella manovra del Raggruppamento carristi (p. 135) conclusa il 31 marzo dalla conquista di Calaceite. Anche l’impiego dell’artiglieria ha tratti di originalità.11 carattere d’intenso movimento assunto dalla lotta impone concentramenti improvvisati, talora con schieramento molto addossato agli ostacoli perfino dei grossi obici da 149/12 in contraddizione coi canoni classici che prevedevano lo scaglionamento in ordine di distanza crescente con l’aumento della gittata (p. 126)15.
La duplice offensiva di Aragona, pur ponendo a cimento la Repubblica, non fu decisiva. Probabilmente Mussolini lo sperava a metà marzo quando, anche come compensazione psicologica per la sconfitta politica rappresentata dall’Anchluss, ordinò16 i bombardamenti di Barcellona (pp. 156, 170,
13 Vedi colonnello Valentino Babini, Relazione sulle operazioni da Rudilla (9 marzo) a Tortosa (19 aprile), pubblicata in L. Ceva, A. Curami, La meccanizzazione dell’esercito italiano dalle origini al 1943, Roma, Ussme, 1989, 2 voli., II voi. doc. 33 (pp. 165-183), vedi pp. 171, 180 e passim (ora riprodotta anche nel volume qui recensito come doc. 125).14 L’Ufficio lamenta (p. 158) che J. Martinez Bande, La llegada, cit., lasci in ombra l’apporto del Ctv. Ciò non meraviglia per ragioni sulle quali ritornerò. Si può notare che anche M. Aznar, Historia, cit., pur non ignorando il Ctv (III, pp. 101-110 e passim) è qui assai contenuto nei giudizi. Equilibrati appaiono i sintetici cenni di G. Cardona, Las operaciones militares, cit., p. 248, mentre riesce difficile commentare adeguatamente le dicerie avallate da Ramon Salas Larrazabal (pur serio in altri lavori) nell’opera curata da M. Tunon de Lara, La guerra civil, 3 voli., Madrid, Historia 16, 1986-87, IV, 19, pp. 40-41: Franco avrebbe “promesso” agli italiani di trattenere i suoi corpi per permettere loro di giungere per primi al mare e quindi di prendere Tortosa. Ben altro equilibrio si riscontra in questo come nel precedente volume dell’Ufficio storico italiano dove l’apprezzamento per i successi del Ctv è sempre accompagnato da obiettive denuncie di limiti ed errori: vedi ad esempio pp. 40, 99, 246-247.15 Ma vedi soprattutto E. Manca di Mores, L ’impiego dell’Artiglieria italiana, cit. pp. 352-354.16 Galeazzo Ciano, Diario, 20 marzo 1938 e anche 8 febbraio 1938. Molti anni dopo Franco spinse la sua vanità fi-
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178, 499-500) la cui ferocia anticipa quelli della seconda guerra mondiale. L’aviazione fascista, che non ha nulla da invidiare a quella tedesca di Guernica, ebbe la fortuna di non incappare in un Picasso che ne eternasse le gesta.
Sorvolo sui capitoli XX, XXI e XXII pur di grande interesse per le vicende delle due Spagne e dell’offensiva franchista nel Levante mirata a Valencia, attraverso i difficilissimi terreni dell’alto Maestrazgo. Alla prima fase il Ctv partecipò onorevolmente con una brigata di “Frecce” e col fuoco spesso determinante della sua artiglieria (p. 194). Mentre nella seconda fase il Corpo, riordinato, rinforzato e molto appoggiato dall’aviazione legionaria, realizzò progressi importanti verso Sagunto e Valencia per altro bruscamente interrotti il 25 luglio 1938 dal sopravvenire della controffensiva repubblicana sull’Ebro17.
Interamente dedicati alla battaglia dell’E- bro sono i capitoli XXIII e XXIV. Ricchi di assennate valutazioni, essi offrono una seria ricostruzione del vasto cozzo che, dopo i successi repubblicani dei primi dieci giorni (25 luglio-2 agosto), degenerò in terribile lotta di logoramento, priva di utilità per i franchisti, ma giustificata da parte dei re- pubblicani. Questi infatti, nella difesa osti
nata — metro per metro — delle teste di ponte, videro la miglior ricetta per prolungare la guerra sperando di poterla dissolvere nella nuova conflagrazione europea poi scongiurata a Monaco ma che lungo i mesi estivi era sembrata imminente. Il grosso del Ctv restò in riserva ad eccezione dell’artiglieria attivissima per tutto il tempo, sempre agli ordini di Manca di Mores, unico generale italiano presente in quella battaglia18. Qualche azione fu svolta tra agosto e novembre anche dal Raggruppamento carristi. Molto impegnata fu l’aviazione che in campo tattico risultò più efficace di quanto lasciasse sperare il tipo dei velivoli in dotazione19.
Circa la battaglia di Catalogna (capitolo XXVI), come del resto per le operazioni in Levante, l’Ufficio non pubblica un dettagliato ordine di battaglia del Ctv che precisi le quantità di armi e materiali20. L’unico dato generico, da scovarsi nel documento 83 bis, è quello dei pezzi d’artiglieria impiegati nel bombardamento d’apertura: “248 bocche da fuoco (esclusi i contraerei) un pezzo ogni dieci metri di attacco”. Siamo lontani dalla testimonianza di Gambara che, seguito poi da altri, così descrive il bombardamento iniziale: “In un tratto di appena quattro chilometri erano stati schierati quasi 500 canno
no a negare, privatamente, che Mussolini avesse potuto ordinare i bombardamenti senza il suo consenso: Francisco Franco Salgado Araujo Mis conversaciones privadas con Franco, Barcellona, Pianeta, 1976, p. 494. Vedi anche Josep M. Solé y Sabaté, Joan Villaroya y Font, Els bombardeigs de Barcelona durante la guerra civil, Barcellona, Monserrat, 1981, pp. 81-112 e Catalunya sota las bombes (1936-1939), Barcellona, Monserrat, 1986, pp. 113-143.17 Ancora una volta, diversamente dalle monografie del Servicio Histórico militar, l’apporto del Ctv è valutato con favore da M. Aznar, Historia, III voi., pp. 164-168.18 II doc. 55 coi messaggi di Manca di Mores a Berti dal fronte dell’Ebro costituisce importante testimonianza su 75 giorni di quella battaglia (19 agosto-3 novembre 1938).19 I pochi velivoli d ’assalto, i discussi Breda 65, a girono contro le passerelle gettate dai repubblicani sull’Ebro nella zona di Flix. Vedi: Ferdinando Pedriali, Guerra di Spagna e aviazione legionaria, Roma, U.S Aeronautica Militare 1992, pp. 320-321 e Giancarlo Garello, Il Breda 65 e l ’aviazione d ’assalto, Roma, Ateneo & Bizzarri, 1980, pp. 141-143.20 Gli elementi sparsi alle pp. 303, 306-307, 315, 327-330 e doc. 74 (per la Catalogna) e alle pp. 195, 203, 217, 249 (per il Levante) non permettono il computo analitico delle artiglierie e nulla dicono circa automezzi e veicoli corazzati. Anche Comitato per la storia dell’Artiglieria italiana, vol. XVI, L'artiglieria nelle operazioni belliche, Roma Biblioteca di Artiglieria e Genio, 1955 (pp. 121-149) presenta le stesse lacune, essendo basato — al pari del volume dell’Ufficio storico — sul libro di E. Manca di Mores.
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ni, un cannone cioè ogni otto metri circa, quasi come durante la grande guerra!”21. A meno che Gambara abbia voluto riferirsi a tutte le artiglierie comprese quelle spagnole, in questo caso tuttavia l’ampiezza dello schieramento avrebbe dovuto essere ben altra. Mancano inoltre dati attendibili sulle forze repubblicane. Al riguardo non vi sono due autori che vadano d’accordo cosicché anche le cifre riportate dall’Ufficio a p. 327 (300.000 uomini, 5.000 armi automatiche, 800 pezzi compresi contraerei, costieri e riserve e ben 200 corazzati, oltre a 200 aerei)22 sono da prendere con beneficio d’inventario. Spiacevole infine l’assenza di precise notizie sul materiale bellico che Franco avrebbe ottenuto dai tedeschi quale contropartita della vantaggiosa convenzione mineraria 19 novembre 193823, tanto più che l’Ufficio tende ad attribuire a questo fattore — e non già alle insistenze italiane — la decisione di Franco di assalire la Catalogna nel dicembre 1938 (pp. 319, 442).
Fatte queste premesse, la battaglia è ricostruita con minuzia e con ausilio cartografi- co buono anche se non eccellente. Troppo spesso infatti negli schizzi mancano nomi di località importanti menzionate nel testo, mentre la riproduzione delle carte d’epoca coi segni tracciati presso il Comando del Ctv è più suggestiva che utile: avrebbe dovuto essere accompagnata almeno da dettagliata legenda (questa osservazione vale anche per le operazioni precedenti). La posizione ini
ziale del Ctv era tutt’altro che facile poiché si doveva sboccare da una ristretta testa di ponte su un fiume ingrossato dalle piogge. La resistenza dei repubblicani fu invero ineguale ma non si può dire, come pure è stato affermato, che il Ctv avanzò nel vuoto. Vero invece che esso il più delle volte fu abile e pronto a sfruttare il vuoto (o il “meno pieno”!) secondo un canone tattico di validità invariata dalla preistoria ad oggi. Di notevole interesse le pur sobrie notizie sull’impiego dei carri sia in collegamento con le divisioni di fanteria nelle fasi iniziali sia poi con le varie colonne celeri che appoggiarono la presa di Tarragona da parte dei navarrini (20 gennaio) e che, guidate dal colonnello Olmi, entrarono per prime a Barcellona (26 gennaio). Presa Gerona il 4 febbraio, la corsa del Ctv si concluse sul rio Fluvià non lungi dai Pirenei l’8 febbraio 1939. Il Corpo italiano ebbe dunque parte di rilievo nell’inseguimento dell’esercito repubblicano attardato da circa500.000 profughi civili e in atmosfera di tragedia.
Noto incidentalmente che su questo èsodo, definito di “dimensioni quasi bibliche”, gli autori riportano un giudizio di Thomas (altrove definito “non credibile” , p. 320), secondo cui si tratterebbe di “un movimento dettato da panico e isterismo collettivo perché di coloro che fuggivano soltanto una piccola percentuale avrebbe rischiato la vita se fosse rimasta” (p. 405). Sul che dissento perché non era certo facile indovinare quale
21 Gastone Gambara, L ’ultima parola sulla guerra di Spagna, “Tempo” (sei puntate sui numeri 1, 8, 22, 29 agosto, 5 e 12 settembre 1957, v. Ili, 22 agosto). I 500 pezzi si ritrovano in John F. Coverdale, Ifascisti italiani alla guerra di Spagna, Roma-Bari, Laterza, 1977, p. 345. G. Cardona, La guerra civil, in M. Tunon de Lara (a cura di), Histo- ria de Espana, cit., IV, 22, p. 12, attribuisce addirittura 600 pezzi al Ctv, mentre le fonti di H. Thomas, La guerra civil espanola, cit., II voi., p. 931, danno 565 pezzi all’intero esercito del Nord comandato da Dâvila. A parte ciò, non so perché l ’Ufficio preferisca ignorare questo testo di Gambara per altri aspetti attendibile (non mancano riscontri documentali) e in ogni caso vivace e interessante.22 Cifre ricavate dalla monografia n. 14 del Servicio Histórico Militar, La campana de Cataluna, Madrid, San Martin, 1979 che però l’Ufficio ritiene — credo a ragione — poco attendibile (v. oltre). H. Thomas, La guerra civil espanola, cit., vol. II, p. 932, dà cifre diverse e così altri autori come ad esempio G. Cardona nei lavori sopra citati.23 Generici e poco attendibili sono i dati offerti al riguardo da H. Thomas, La guerra civil espanola, cit., vol. II, p. 913.
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preciso trattamento i vincitori avessero in serbo per ciascun cittadino della morente Repubblica. Astraendo dai sistematici massacri di avversari politici veri o supposti, i franchisti — quando non fucilavano seduta stante — “processavano” i prigionieri24 che erano in massima parte soldati di leva solo colpevoli di avere adempiuto agli obblighi militari del governo legale (circostanze riconosciute anche dagli autori: p. 320 e p. 444). Più utili per una valutazione del fenomeno sarebbero state queste cifre: su 470.000 spagnoli rifugiatisi in Francia, 288.000 rimpatriarono nei mesi seguenti mentre ben182.000 (39 per cento) preferirono restare in esilio25.
La ricostruzione della campagna proposta dall’Ufficio è nell’insieme interessante, ma avrebbe potuto esserlo ancora di più se avesse fatto posto a vicende significative e attendibili tratte da altre fonti come ad esempio il citato scritto post-bellico di Gambara. Si potevano ricordare problemi creati dalla presenza di partigiani repubblicani26 * nelle retrovie nazionaliste. Al riguardo la testimonianza di Gambara è netta e avrebbe forse portato a ripensare la frase (p. 500) circa “il nullo o scarso rilievo avuto dalla lotta partigiana nella guerra civile” . Beninteso da un paese “maestro di guerriglie” (Napoleone insegna) ci si sarebbe potuti aspettare anche di più. Tuttavia studi specifici gioverebbero sia per
ché la presenza di guerriglieri repubblicani in territorio nazionalista risulta da varie testimonianze (non solo da quella di Gambara) sia per indagare i collegamenti fra essi e una certa guerriglia antifranchista durata in alcune zone fino al 1951 ed oltre 21. Non sarebbe stato poi inutile considerare l’impatto che le leggi razziali ebbero anche sull’ufficialità del Ctv ricordando, fra gli altri, il caso del valoroso colonnello Giorgio Morpur- go che, informato del suo allontanamento dall’esercito, deliberatamente avanzò nella terra di nessuno cercando e trovando la morte alla vigilia dell’attacco sul Segre28.
La battaglia di Catalogna fu decisiva non solo per l’esito dell’intera guerra ma soprattutto per i tempi di tale esito in relazione alla mancata saldatura alla seconda guerra mondiale con probabili enormi conseguenze nel futuro della Spagna: del che si è già detto in apertura. L’apporto italiano fu determinante sia nella decisione di scatenare l’offensiva sia nella sua favorevole condotta. Può anche darsi che a far decidere Franco abbiano contato i non meglio specificati rifornimenti tedeschi dell’autunno 1938, ma è certo che l’insistenza di Mussolini e dei suoi generali perché si puntasse sulla Catalogna ebbe la sua parte. In ciò concordano autori e testimoni29. Il precedente dell’estate 1938, in cui la contesa spagnola aveva rischiato di confondersi in una guerra generalizzata, avrà
24 Centinaia di migliaia di prigionieri, non messi a morte dalle corti marziali, furono condannati ai lavori forzati (in perpetuità o per vari decenni) e, organizzati in “battaglioni del lavoro” e “distaccamenti penali”, vennero usati come mano d’opera schiava in lavori pubblici tra i quali l ’edificazione del faraonico Valle de los caidos iniziato nel 1940 e terminato nel 1959: Paul Preston, Franco. A Biography, Londra, Harper Collins, 1993, pp. 226-227, 352, 679, Max Gallo, Storia della Spagna franchista, Bari, Laterza, 1972 (ed. or. 1969), pp. 84-91.
J. Villaroya y Font, Exodo y los campos de refugiados en Francia, in M. Tunon de Lara (a cura di), La guerra civil, cit., vol IV, p. 90.26 G. Gambara, L ’ultima parola sulla guerra di Spagna, cit., quinta puntata, 5 settembre.
Per la guerriglia fino agli anni cinquanta e in Catalogna fino a quelli sessanta: Espaha, bajo la dictadura franquiste (1939-1975), in M. Tunon de Lara (a cura di), Historia de Espaha cit., vol. X, pp. 200-212 e 245-281; Paul Preston, Franco, cit., pp. 331, 334 e passim.28 G. Gambara, L ’ultima parola, cit., seconda puntata, 8 agosto.29 G. Cardona, La guerra civil, in M. Tunon de Lara (a cura di), Historia de Espaha, cit., vol. IV, p. 12; John F. Coverdale, I fascisti italiani alla guerra di Spagna, Roma-Bari, Laterza, 1977, p. 344; G. Gambara, L ’ultima parola, cit., passim. Cfr. inoltre doc. 80.
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certo stimolato Franco ad agire ma ciò non gli avrebbe impedito di imboccare ancora una volta la difficile e poco fortunata direttrice di Valencia. Mentre d’altra parte il parziale ritiro di legionari (i noti 10.000 del novembre 1938 sia pure poi compensati dai “complementi”) avrà dato al Caudillo l’impressione che, per quanto dopo Guadalajara Mussolini fosse divenuto malleabile, non poteva far conto su un’eterna permanenza in Spagna del corpo italo-fascista.
Venendo alla conduzione osservo che, come già nella battaglia di Aragona, il balzo iniziale di 30 chilometri realizzato dal Ctv poteva rimanere fine a se stesso se Franco non fosse stato persuaso da Gambara — tramite Mussolini, l’ambasciatore Viola e il capo di S.M. Bodini — a ordinare il movimento dei corpi laterali (pp. 356, 400-401)30. Più in generale è riconosciuto anche da avversari come Lister ed altri31, che il rotolamento delle forze repubblicane fu provocato dall’azione carrista del Ctv su Borjas Blancas (5 gennaio). E non vi è dubbio che punta di diamante dell’intera offensiva sia stato il corpo di Gambara coi veterani italiani e con le 3 divisioni miste, dove la truppa spagnola era in gran parte alle prime esperienze. Il che naturalmente non significa sminuire l’apporto degli altri 5 corpi componenti il gruppo Dâvila e particolarmente dei navar- rini di Solchaga e dei marocchini di Yagiie.
Tutti, secondo le loro possibilità, operarono con efficacia.
Spiegabile pertanto è la protesta degli autori contro il più volte ricordato lavoro sulla battaglia di Catalogna del Servizio storico dell’esercito spagnolo: “È una costante della serie di monografie del ‘Servicio Historico Militar’ la minimizzazione — spesso il silenzio assoluto — degli interventi del Ctv, anche quando determinanti, mentre non meno frequenti sono le messe in rilievo della capacità operativa dell’esercito repubblicano — che è in definitiva un esercito pur sempre spagnolo — fatte forse a maggior gloria dell’esercito nazionale” (pp. 361-362, vedi anche pp. 158, 197, 400-401, 491).
Le origini di questo atteggiamento risalgono agli stessi anni della guerra. Vi sono testimonianze sulla mentalità assurdamente “coloniale” da cui furono animati i più rozzi gerarchi del fascismo e purtroppo anche qualche ufficiale delle forze armate soprattutto nei primi tempi della guerra 1936-1939. Né va dimenticato che il giornalismo e la pubblicistica italiani del tempo dipingevano la guerra come se fossero solo gli italiani a combatterla, mentre per ognuno dei 3.318 caduti del Ctv (pp. 472, 488) vi furono al- l’incirca 30 caduti nazionalisti32. E d’altra parte i successi del Ctv in Aragona e in Catalogna erano stati molto facilitati dal terribile logoramento imposto ai repubblicani a
30 Ma vedi soprattutto documenti e narrazione in G. Gambara L ’ultima parola, cit., specie sesta puntata, 12 settembre nonché G. Cardona, La guerra civil, cit., p. 16; J.F. Coverdale, Ifascisti italiani alla guerra di Spagna, cit., p. 345; P. Preston, Franco, cit., p. 318.31 Enrique Lister, Nuestra guerra, Parigi, Ebro, 1966, p. 110 così citato nella monografia 14 La batalla de Catalu- na, cit., p. 92 dove sono riportati anche gli analoghi giudizi di Vicente Rojo, Alerta los pueblos!, Buenos Aires, Aniceto, Lopez, 1939, p. 124 e sgg. e di Manuel Taguena Lacorte, Testimonio de dos guerras, México, Oasis, 1973 pp. 269-270. Vedi anche H. Thomas, La guerra civil espanola cit., vol. II, p. 934. Valutazioni sintetiche ma non malevole nel cit. vol. IX di M. Tunon de Lara (a cura di), Historic deEspana, pp.491-493 e 496.32 I caduti sul campo nell’intera guerra sono stimati in circa 200.000 di cui 90.000 nazionalisti. Queste cifre non hanno nulla a vedere con le uccisioni avvenute nel territorio della Repubblica durante la guerra (intorno a 55.000) e le esecuzioni disposte dai nazionalisti: circa 75.000 guerra durante e almeno 40.000 dalla fine del 1939 al 1974. Vedi: H. Thomas, La guerra civil espanola, cit., II, p. 993 e fonti ivi cit.; James W. Cortada (a cura di), Historical Dictionary o f the Spanish civil War 1935-1939, Westport, Connecticut, 1982 pp. 114-115; Manuel Rubio Cabeza, Diccionario de la guerra civil espanola, Barcellona, Pianeta, 1987 (2 voli.) II, pp. 617-618; M. Tunon de Lara, Ili- storia, cit., vol. XI, p. 18, nota 1.
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Teruel e sull’Ebro dove l’apporto “legionario” era stato minore. Sono cose che possono lasciare tracce anche dopo molto tempo. È poi spiegabile, anche se non sempre giustificato, che una guerra civile in cui l’intervento straniero assunse tanto peso generi comportamenti se non proprio xenofobi quantomeno di orgoglio nazionale un po’ cieco. L’esaltazione dell’avversario spagnolo a preferenza dell’alleato straniero è del resto diffusa anche sul versante repubblicano. Ad esempio è risaputo che le brigate internazionali furono pubblicamente e solennemente ringraziate dalla Repubblica durante la guerra, eppure bisogna vedere con quanto studio ancor oggi molti autori di simpatie repubblicane si affrettino a spiegare per esempio che non furono le brigate internazionali a salvare Madrid nell’autunno 193633.
E poi non tutti gli studiosi spagnoli hanno eguali reazioni. Ho riportato sopra, da una vecchia storia franchista, passi che esprimono ammirazione per il Ctv nella battaglia d’Aragona e ve ne sono altri analoghi a proposito di quella di Catalogna34. Non basta. Se si legge Cardona, uno storico militare di oggi per nulla franchista e tutt’altro che tenero verso gli alleati del Caudillo, ci si imbatte in questo sereno giudizio:Nonostante la loro azione nella campagna del Nord fosse stata corretta, gli italiani stentavano a liberarsi della cattiva nomea guadagnata a Guadalajara. Gli spagnoli di Franco scaricavano molte frustrazioni nazionaliste sui loro alleati del
Ctv mentre ricoprivano di elogi la legione Condor. Perfino i generali criticavano gli uomini del Duce e minimizzavano l’aiuto della loro aviazione e dell’artiglieria [...]. Da parte loro i generali del Ctv lamentavano l’angusta visione strategica di Franco che consideravano incapace di mettere a profitto le vittorie concludendo rapidamente la guerra. Le informazioni spedite a Roma denunciavano la sua dissennata abitudine di trasferire artiglieria e riserve da un fronte all’altro per rintuzzare le offensive repubblicane invece di mirare a obiettivi strategici propri (c.vo mio)35.
È dunque probabile che gli estensori franchisti delle monografie del “Servicio Histó- rico Militar” avessero ancora frustrazioni da scaricare sugli antichi alleati del Corpo Truppe Volontarie.
Il capitolo XXVII contiene notizie interessanti sulla preparazione della battaglia finale (non combattuta per il sopravvenuto crollo della Repubblica), sui rinforzi inviati dall’Italia e sulla permanenza del Ctv presso Barcellona coi relativi problemi disciplinari (p. 417 e doc. 97)36. Quanto all’epilogo del marzo-aprile 1939, è abbastanza nota la vicenda del Ctv ad Alicante: suicidio di esponenti repubblicani, vano tentativo degli sconfitti superstiti di avere dagli italiani trattamento meno estremo di quello riservato loro dai franchisti.
Meno conosciuto è invece il fatto che il 28 marzo Gambara provvide “d’iniziativa”, cioè a dispetto dei suoi superiori spagnoli, a mandare anche forze italiane a Madrid e a Guadalajara appena arrese: un nuovo episo-
33 Non ho studiato il punto abbastanza per avere opinioni precise, m’importa solo rilevare l’atteggiamento come sintomo di una forma mentis.34 M. Aznar, Historia, cit., pp. 304-305, 309-310 (riconoscimento esplicito che l’arresto del Ctv fu necessario per lasciare il tempo a Solchaga di raggiungere l’ala destra dei legionari), 311-312, 318-321, 325 (riconoscimento del contemporaneo ingresso di navarrini e Ctv a Barcellona), 328-329.35 G. Cardona, La guerra civil, cit., pp. 11-12. Vedere alle successive quattro pagine la corretta rievocazione della bataglia nonché delle pressioni italiane su Franco affinché “le truppe spagnole abbandonassero la tattica prudente e avanzassero con maggior velocità”. V. anche dello stesso autore, Las operaciones, cit., pp. 254-255.36 Né il testo né la documentazione pubblicata contengono accenni all’ordine impartito — tramite Ciano — da Mussolini a Gambara di far fucilare i comunisti e gli anarchici italiani catturati in Catalogna (cfr. G. Ciano, Diario, 22 febbraio 1939).
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dio della lunga gara fra protagonismo italo- fascista e gelosia ispano-nazionalista (pp. 426-427). Non però l’ultimo episodio perché, come si fa notare (p. 432 e doc. 109), Franco dovette concedere al Ctv il primo posto nella sfilata della vittoria a Madrid il 19 maggio mentre — aggiungo — l’onore di chiuderla dopo ben cinque ore toccò ai tedeschi della “Condor” . Ma l’interminabile parata fu uno solo e neppure il più rilevante aspetto del trionfo di una parte della Spagna sull’altra. Franco era entrato a Madrid il giorno 18 con un cerimoniale ricalcato su quello di Alfonso VI quando, accompagnato dal Cid, aveva fatto il suo ingresso a Toledo il 25 maggio 1085 nel cuore del Medio Evo. Unica variante: i Mori “infedeli”, invece che sconfitti e fuggiaschi, formavano la Guardia a cavallo del trionfatore della guerra civile tra bianchi. Quindi, nella basilica di Santa Barbara e mentre gli facevano ala la bandiera di Las Navas de Tolosa e lo stendardo di Lepanto, Franco aveva consegnato la spada al cardinale Goma primate di Spagna e arcivescovo di Toledo perché la deponesse nella cattedrale dove si trova tutt’ora.
Sulle più alte cime d’ogni provincia ardevano i falò mentre dall’etere piovevano i radiogrammi gratulatori del fascismo mondiale e del capo della Chiesa romana37. In quei saturnali una collocazione apparentemente non illogica potevano trovare le camicie nere del Ctv, di fatto per lo più ignare. Più duro da accettare, almeno per chi scrive, che alla festa partecipassero i discendenti di quell’ufficialità militare napoletana e piemontese che si era riconosciuta italiana nella bandiera liberale e costituzionale e che aveva chiuso il Risorgimento con la breccia di Porta Pia.
Veniamo ai capitoli finali (XXVIII-XXX) dedicati alle riflessioni sulla guerra e sullo sforzo italiano e a un consuntivo dell’intero lavoro. Del tutto condivisibili sono le conclusioni di carattere strettamente militare38. Anzi tutto gli autori si guardano bene dal- l’allinearsi sulla tesi corrente che lo sforzo in Spagna non ebbe conseguenze rilevanti sul rendimento militare italiano nella seconda guerra mondiale perché — si sente ripetere — non potevamo perdere in Spagna quei materiali moderni che non avevamo39. Giu-
37 Per le cerimonie della vittoria franchista: M. Gallo, Storia della Spagna franchista, cit., pp. 100-101; P. Preston, El Cid and the masonic superstate. Franco, the Western Powers and the cold war, London, School o f Economics and Political Science, 1992 (pp. 1-25), pp. 5-6 e Id., Franco, cit., pp. 329-330. Questo cerimoniale fu superato in truculenza da quello del novembre 1940 per il trasporto dei resti di José Antonio Primo de Rivera da Alicante al- l’Escorial: lungo 11 giorni e notti la bara spalleggiata e accompagnata da torce attraversò città e villaggi mentre, col procedere del corteo, il numero delle fucilazioni di repubblicani vinti era sistematicamente raddoppiato. Nel 1960 la salma fu trasferita al Valle de los caidos (M. Gallo, Storia della Spagna franchista, cit., p. 127; P. Preston, El Cid and the massonicsuperstate, cit., pp. 346-347, 689).38 Non altrettanto direi degli accenni alle intenzioni politiche di Franco (p. 434 e doc. I l i ) e al suo atteggiamento nella seconda guerra mondiale (p. 496). Le leggende riprese a questo riguardo non reggono di fronte alla storiografia degli ultimi anni. Rinvio a P. Preston, Franco and Hitler. The Myth o f Hendaye 1940, “Contemporary European History”, n. 1, 1992 (pp 1-16) tema ora esaurientemente studiato dallo stesso autore in P. Preston, Franco, cit., pp. 374-481. Vedi anche Ramón Serrano Suner, Entre el silencio y la propaganda. La Historia corno fue, Barcellona, Pianeta, 1977, pp. 284-324 (per taluni aspetti vedi di quest’ultimo autore anche Entre Hendaya y Gibraltar, Barcellona, Nauta, 1947). Per il 1943 rinvio al mio Momenti della crisi del Comando Supremo in corso di pubblicazione a cura della Commissione Italiana di Storia Militare.39 Su questa linea fra gli altri: Giacomo Zanussi, Guerra e catastrofe d ’Italia, Roma, Corso, 1945 (2 voli.) I voi., pp. 54-55; Mario Montanari, L ’impegno italiano nella guerra di Spagna, in Memorie storiche militari, Roma, Uss- me, 1980 (pp. 121-152) e L ’esercito italiano alla vigilia della seconda guerra mondiale, Roma, Ussme, edizioni 1982 e 1993 risp. a pp. 251 e 260; J.F. Coverdale, Ifascisti italiani alta guerra di Spagna, cit., pp. 381-384. Ben diverso e documentato avviso ha espresso Brian R. Sullivan, The consequences o f Italian intervention in the Spanish civil war, relazione presentata al seminario “La guerra civil espanda en su contexto europeo” tenuto a Santander (29 giugno-3 luglio 1992) presso la Universidad Internacional Menéndez Pelayo (dattiloscritto inedito di 27 cartelle).
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stamente essi ricordano che anche i materiali “di modello e di fabbricazione remoti” erano pur sempre quelli che “armavano ed equipaggiavano l’esercito italiano” essendo tratti o dalle “scorte di mobilitazione non ripianatali in tempi brevi” o addirittura da dotazioni di reparti attivi comprese “le divisioni celeri e motorizzate” e persino “la appena costituita prima brigata corazzata” (p. 481). Non tutto era poi “remoto”: moderni erano per lo più i 7.500 fra automezzi e motomezzi ingoiati dalla Spagna i quali per esempio, unitamente ai 442 vecchi pezzi di medio calibro, avrebbero forse potuto rendere meno disastrose le nostre sorti in Africa Settentrionale nel 1940-1941 (pp. 481-482). Aggiungerei che anche altri materiali non modernissimi potevano avere un peso. Così il centinaio di S. 79, velivolo già scarseg- giante nell’estate 194040, e i quasi 400 caccia Fiat CR 32 avrebbero potuto costituire un notevole rinforzo, magari per l’aviazione dell’Africa Orientale. Fra le armi “remote” lasciate in Spagna41 figura un gruppo di 12 cannoni da 152/37, eccellente materiale Skoda di preda bellica (21 km di gittata) del quale l’Italia al giugno 1940 possedeva solo
29 esemplari una dozzina dei quali furono usati con grande efficacia in Africa Settentrionale nel 1941-194242. Senza contare poi che quasi tutto il materiale “vecchio” avrebbe potuto essere efficacemente rimodernato con spese e tempi certo inferiori a quelli richiesti dall’allestimento del “nuovo”. Sin dagli anni venti esistevano infatti studi per aumentare sensibilmente (fino al 24 per cento) le gittate delle principali artiglierie terrestri italiane (75/13, 75/27, 100/17, 105/28, 105/32 e 149/13)43. Invece, come è noto, si preferì limitare l’aumento di gittata ai soli 75/13, varando per tutto il resto i mastodontici programmi di nuovi pezzi, tanto graditi a industrie che — incassati gli anticipi a fondo perduto — li realizzarono solo in minima parte. Ma ciò non autorizza a considerare “ferri vecchi” le artiglierie lasciate in Spagna così come le migliaia di pezzi analoghi ancora esistenti in Italia. Troppo spesso si dimentica che vari pezzi britannici, di cui lamentavamo le superiori gittate, nonché molti dei pezzi tedeschi che invidiavamo, erano appunto adattamenti di armi nate per la guerra 1914-1918 e talora “novità” sorte durante quella guerra44. Infine i “vecchi can-
40 Le necessità della ricognizione aerea sul Mediterraneo erano stringenti già nel luglio 1940: l’Aeronautica aveva dovuto rinunciare ai propri stormi di idrobombardieri (su Cant Z 506) e cedere i velivoli alla marina, ma il compito dovette presto essere affidato anche agli S 79, i migliori bombardieri terrestri disponibili. Vedi: Giuseppe Santoro, L ’aeronautica italiana nella seconda guerra mondiale, Roma, Esse 1957 (2 voli.) II voi., pp. 454-455; Francesco Pricolo, La regia aeronautica nella seconda guerra mondiale, Milano, Longanesi, 1971, p. 247 e Stato Maggiore esercito Ufficio Storico, Diario Storico del Comando Supremo, Roma, Ussme, 1986 vol. I, tomo 2, docc. 13-16. Per la potenziale straordinaria utilità dei motori dei “vecchi” aeroplani se li si fosse adattati ai carri armati rinvio a L. Ceva, A. Curami, La meccanizzazione, cit., I voi., pp. 387-392.41 Sul fatto che, forse all’infuori delle armi individuali, tutto l’altro armamento ed equipaggiamento (terrestre ed aeronautico) fu abbandonato agli spagnoli e non riportato in Italia: pp. 432-433 e docc. 110, 115, 115bis e 116.42 Cfr. Comitato per la storia dell’Artiglieria italiana, L ’artiglieria, vol. XVI, cit., (pp. 495-497) sappiamo che l’8° Raggruppamento di artiglieria d’armata sbarcato in Africa settentrionale nell’ottobre 1941 aveva un gruppo da 152/37 (nonché uno da 149/40 e due da 149/28). Il Feldmaresciallo Michael Carver nel suo Dilemmas o f the Desert (London, Batsford, 1985, p. 52) illustra il vantaggio costituito per l’Asse da questi pezzi operanti insieme con quelli tedeschi (da 170 e da 150) dell’Arko 104 del colonnello Bòttcher.43 Renzo Garrone, Le nostre artiglierie post-belliche, “Rivista di artiglieria e genio”, agosto, 1930 (pp. 1503-1516) v. pp. 1505 e sgg.44 Buona parte degli 87,6 inglesi (QF 18 pr Mks I e II, QF 25 pr Mk I) nonché vari 75, 105 e 150 tedeschi (7.5 cm le FK 18, 10.5 cm Le FH 16, 10.5 cm Le FH 18 nelle versioni M e 18/40, 15 cm s FH 18, 15 cm s FH 18/40) e altresì i famosi 88/56 (8.8 cm. Flak 18 nelle versioni 36 e 37). Vedi al riguardo Terry Gander, Peter Chamberlain, Small
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noni” italiani, anche non volendo né usarli quali erano né rammodernarli, potevano sempre essere messi “a rottame” per ricavarne materie prime e “correttivi pregiati”, di cui tante volte e per lo più a torto si lamenterà l’insufficienza45.
A escludere del resto che l’intervento in Spagna sia rimasto senza apprezzabili conseguenze sulle prestazioni militari italiane nella seconda guerra mondiale basterebbe il suo costo in denaro: circa 8 miliardi di lire secondo la valutazione più restrittiva che gli autori fanno propria (p. 506). È stato calcolato che dei 116 miliardi di lire stanziati per forze armate e colonie dal 1935 al 1940 ben 77 siano stati spesi fra Etiopia (campagna e successiva “pacificazione”), Spagna e Albania. Dunque la Spagna se non fu la più costosa delle avventure fasciste certo pesò in modo più che notevole46.
Al riguardo però eviterei di parlare di “ri- strettezze finanziarie italiane” (p. 481) perché è affermazione che può dar luogo a equivoci. Qui infatti non rilevano povertà o ricchezza in termini assoluti ma solo le spese affrontate per le forze armate. Ora nel periodo 1926-1940 la spesa militare italiana fu pari al 79,5 per cento di quella britannica e al 97 per cento di quella francese. Tali percentuali nel quinquennio 1935-1939 raggiunsero P89,5 per cento della prima e superarono la seconda del 28 per cento, proporzioni impressionanti se si considera che il reddito nazionale italiano (ecco la povertà!) fu nel 1940 meno di un quarto di quello britannico e meno della metà di quello francese47.
Un’altra osservazione dell’Ufficio riguarda i mancati vantaggi economici tratti dall’alleanza con Franco. Con esatta percezione gli autori non ripetono la solita versione secondo la quale l’Italia fascista non avrebbe voluto ottenerne. Notano che per varie ragioni, pur proponendosi di ricavarne, essa non vi riuscì (pp. 505-506). Certamente l’aspetto economico non stava particolarmente a cuore a Mussolini il quale nella Spagna cercava soprattutto l’occasione di una seconda vittoria militare, dopo quella etiopica (p. 501). E tuttavia non si può dire che esso fosse programmaticamente escluso. Si tratta di un’osservazione incidentale in una trattazione d’indole militare ma che mostra come l’attenzione degli autori sia spesso vigile anche al di fuori dello specifico campo d’indagine.
Ben colta appare, nei capitoli finali, la fisionomia tattica e operativa della guerra di Spagna. Nel corso dell’opera sembrerebbe a volte di imbattersi in affermazioni contraddittorie. Ad esempio, si elogia il “costante ricorso alla manovra anche in campo tattico” e la raggiunta capacità del Ctv di “aggirare le resistenze più robuste senza prenderle di petto ma isolandole” (pp. 89 e 382). Al tempo stesso si afferma però che “nonostante i richiami continui alla necessità della manovra anche ai livelli medi e minori [...] prevalsero [...] i combattimenti a botta dritta e i dispositivi delle unità rimasero in genere compatti e serrati anziché articolati, aperti e distesi” favorendo così “avanzate uniformi poco adatte alla manovra” (p. 449 ma anche 468 e passim). In realtà, a parte il fatto che nel corso dello stesso ciclo operativo la fan-
arms, artiller and special weapons o f the Third Reich-An encyclopedic survey, Londra, MacDonald and Jane’s, 1978, pp. 147, 154, 170-174, 176-177, 187, 188, 194, 195, 198, 200.45 Vedi esplicitamente Aussme, Diario Cavallero, promemoria 6 agosto 1942, allegato 6 di quel mese. Constato che il tema della “mancanza” italiana di materie prime viene acriticamente ripreso (sia pure in via incidentale) anche nel 1° tomo dell’opera qui recensita (ad es. a pp. 509 e 481).46 Brian R. Sullivan, The Italian armed forces 1918-40 in Military Effectiveness, (3 voli.), Boston, Allen & Unwin, 1988, II voi., The interwar Period (pp. 169-217), p. 171 e fonti citate.47 B.R. Sullivan, The Italian armed forces, cit.
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teria del Ctv fu ora più ora meno “restìa ad abbandonare i procedimenti tattici tradizionali per evolvere verso la tattica d’infiltrazione” (basta confrontare le due fasi della battaglia d’Aragona: pp. 46 e 77), la contraddizione non è nei rilievi dell’Ufficio storico bensì nelle cose stesse. Infatti, come notano gli autori,la guerra civile spagnola, pur simile sotto molti aspetti sul piano tecnico-militare alla prima guerra mondiale, se ne discosto per altri, prefigurando, specialmente negli ultimi periodi, la strategia e la tattica della seconda guerra mondiale (p. 448).
Spesso si ha proprio l’impressione di un contegno bellico che, per improvvisi spunti favoriti da questa o quella circostanza di terreno o di cedimento avversario, tenti di porsi sui binari della guerra di movimento salvo poi ricadere negli schemi del più opaco cozzo frontale, dell’ossessiva tutela dei fianchi, in una parola del logoramento.
Rilievi del pari centrati riscontriamo nelle pagine dell’Ufficio sull’impiego dei corazzati dalle due parti. Con riferimento al versante nazionalista si scrive che “i carri armati fino ad allora impiegati quasi sempre in stretta cooperazione con la fanteria appiedata, pur restando prevalente o quasi assoluto tale tipo d’impiego, aprirono larghe prospettive alla loro funzione di arma-base, nell’ambito di raggruppamenti corazzati, comprendenti anche fanterie e artiglierie mobili, dotate di analoga velocità di movimento e di analoga capacità di operare fuori strada” (p. 448). E in effetti “prefigurazioni” del genere si possono cogliere sia nell’azione carrista del Ctv ad Alcaniz (marzo 1938) sia nella decisiva puntata su Borjas Blancas del gennaio 1939. E più in generale è innegabile che il Ctv, pur nella modestia di molte sue prestazioni, sia stata l’unità più manovriera del versante nazionalista (p. 499). Su ciò avrà si
curamente influito la ricchezza di automezzi, non però la qualità tecnica dei carri inferiore persino a quella dei Panzer I forniti dai tedeschi ai franchisti, veicoli modesti an- ch’essi ma pur sempre di tonnellaggio quasi doppio dell’L3 e dotati di torretta girevole. Interesserebbero perciò chiarimenti circa talune affermazioni del ricordato rapporto Babini sul ciclo operativo Rudilla-Tortosa. Le imprese degli L3 italiani vengono contrapposte a quelle dei carri russi e tedeschi (stranamente considerati come un tutt’uno) i quali “non reggono il confronto, in vivacità, in maneggevolezza, in prestazioni, in rendimento tattico; essi partecipano pigramente alla battaglia, non hanno mai dato un apporto decisivo e travolgente, manifestano la loro presenza con azioni limitate e procedimenti monotoni”48. Indubbiamente i carristi di Babini e poi di Olmi realizzarono qualche brillante penetrazione in profondità e taluni avvolgimenti a piccolo e medio raggio, ma c’è da chiedersi se l’accenno sfavorevole ai tedeschi (che avevano presso la Condor un maestro quale von Thoma!) sia qualche cosa di più e di diverso da altre vanterie che nel rapporto stesso sono messe avanti solo per “farsi perdonare” dalle superiori autorità le lamentele sul materiale Fiat-Ansaldo e le richieste di mezzi migliori. Per fortuna dei nazionalisti la capacità di servirsi abilmente dei carri mancò quasi del tutto sul versante re- pubblicano nonostante le superiori doti d’armamento e di abitabilità dei T26B e dei BT5 sovietici. In ogni caso anche gli spunti di iniziativa carristica del Ctv furono per lo più epidermici e si deve convenire con gli autori che “nella impostazione e condotta delle operazioni non furono mai concretamente neppure adombrati i criteri ai quali si atterranno di lì a poco i tedeschi nelle loro offensive di Polonia e di Francia. Eppure” — essi aggiungono — “la guerra civile spagnola se-
48 A. Rovighi, F. Stefani, La partecipazione italiana alla guerra civile spagnola, cit., p. 448.
L’ultima vittoria del fascismo 533
gnò la transizione da un tipo di guerra ad un altro” (p. 499, corsivo mio).
Circa l’impiego italiano dei corazzati si può ancora notare che esso avvenne quasi sempre nell’ambito del Raggruppamento carristi che comprendeva, oltre ai motociclisti, piccoli reparti di fanteria autoportata (battaglione motomeccanizzato, compagnie Arditi) e alla fine anche una batteria da 65 autotrasportata49. Vien fatto di chiedersi se questa assegnazione in proprio ai carri di elementi motorizzati non abbia fatto balenare il concetto, divenuto poi cardinale nella guerra corazzata tedesca, che il carro anziché appoggiare la normale fanteria doveva essere appoggiato da una sua apposita fanteria (per accenni vedi p. 75).
A proposito delle prestazioni dei nostri corazzati nella successiva campagna nordafricana 1940-1943 è stato scritto con ragione che la trascuratezza italiana per le vicende della forza corazzata inglese sperimentale degli anni venti-trenta mantenendoci lontani dalla scuola britannica All Tanks basata sulle teorie estremiste di Fuller e non su quelle di Liddell Hart50, finì per giocare come un premio all’ignoranza. Infatti le truppe corazzate italiane, non appesantite da alcuna teoria, assimilarono più rapidamente di quanto non poterono gli inglesi la concezione tedesca della guerra corazzata come fatto
di cooperazione e non di esclusività51. È mai possibile che l’esperienza italiana di Spagna abbia anch’essa aiutato l’assimilazione del modello tedesco? Tenderei ad escluderlo e non tanto per il fatto che nella nostra più grossa sconfitta carrista in Libia (Beda Fomm, febbraio 1941) il comandante italiano, che era proprio Babini divenuto nel frattempo generale, aveva ai suoi ordini carri M 13 quattro volte più numerosi dei cruiser britannici. La superiorità quantitativa italiana non compensava infatti il danno dovuto alla ignoranza da parte degli equipaggi di quelle nuove macchine non rodate, appena uscite d’officina, ancor prive di impianti radio, ecc.52. La ragione mi sembra altra e cioè che da parte di Babini non vi fu alcun tentativo di coordinare l’azione dei carri quanto meno con l’artiglieria motorizzata di cui gli italiani avevano larga disponibilità53. Dunque non la sconfitta in sé ma le sue modalità portano ad escludere ogni profitto delle esperienze di Spagna. Infatti le migliori prove furono date successivamente da altri reparti corazzati italiani (Ariete e Littorio), che messi a diretto confronto con le novità tedesche seppero improvvisare da soli il proprio modo di combattere54.
La Spagna aveva reso evidente la necessità di migliorare l’addestramento. Esigenza capitale ma davvero non assimilata dall’eserci-
49 E. Manca di Mores, L ’impiego dell’Artiglieria italiana, cit., pp. 171-172.50 In difetto di indicazioni dell’Ufficio su quantità e genere dei mezzi occorre aiutarsi con altre fonti non sempre esaurienti come José L. Alcofar Nassaes, C.T. V. Los Legionarios italianos en la guerra civil espahola 1936-1939, Barcellona, Dopesa, 1972, pp. 170-174 e passim.51 Per la precoce intuizione della fanteria corazzata (“marines dei carri armati”), Basii Henry Liddell Hart, The Memoirs, Londra, Cassell, 1965 (2 voli.) I vol, pp. 90-92, 124-125, 175, 275 e II vol., pp. 249-250.52 Questa maggior rapidità di assimilazione italiana è stata notata da MacGregor Knox, The italian armed forces 1940-1943 (“Effectiveness” cit., I ll, p. 151) che appunto la collega esclusivamente all’ignoranza italiana dei concetti britannici A ll Tanks. Vedi fra gli altri Robert H. Larson, The British Army and the Theory o f Armoured Warfare 1918-1940, Londra-Toronto, Associated University Press, 1984 e per una sintesi il mio I “Tank Advocates" e la strategia britannica 1918-1940, “Storia Contemporanea”, n. 1, 1986.53 Rinvio ai miei Africa settentrionale 1940-43 negli studi e nella letteratura, Roma, Bonacci, 1982, pp. 19-20 e passim; Gli italiani in Africa Settentrionale, in Francesca Ferratini Tosi, Gaetano Grassi, Massimo Legnani (a cura di), L ’Italia nella seconda guerra mondiale e nella Resistenza, Milano, Angeli, 1988 (pp. 185-196), pp. 186-187 e The North African Campaign 1940-43: a Reconsideration, “The Journal o f Strategic Studies”, n. 1, 1990, pp. 87-88.54 I resti della X armata italiana contavano circa 200 pezzi fra medi e piccoli calibri tutti a traino meccanico, oltre
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to italiano il cui stato addestrativo nel 1940 si confermerà infimo. Il bisogno invece era stato ben avvertito nell’ambito stesso del Ctv e nel corso della campagna e tuttavia non si era potuto fare abbastanza per la ragione già illustrata dagli autori nel precedente volume: la “mancanza di provetti istruttori”55. Cosicché i ricordati accenni di questo volume al miglior rendimento della fanteria, alla sua capacità di fare manovra anche alla soglia tattica sono da intendersi in senso comparativo rispetto al disastroso livello di Guadalajara nonché alla primitività di molte operazioni spagnole, ma fermo restando quanto già scritto dagli autori e cioè che l’addestramento anche nei casi migliori rimase “tale da poterlo considerare appena sufficiente56”. Né infine va dimenticato che anche i repubblicani, pur battendosi col valore frequente nel soldato spagnolo, erano — come scrisse Babini57 — “sensibilissimi alla manovra” ma “incapaci di manovrare”.
Informazioni sugli insegnamenti della guerra furono spesso richieste dagli organismi centrali romani e abbondantemente fornite dai comandi in Spagna (pp. 506 e sgg., docc. 113, 121/a, 121/b, 122). Ma scarso profitto ne fu ricavato. Taluni fra i pareri espressi non furono confermati dalle successive esperienze del conflitto mondiale. Valga l’esempio dell’opinione di Gambara secondo
cui si sarebbe dovuto tornare a una fanteria “pura”, fatta di soli fucilieri, concentrando le armi di accompagnamento e anticarro in separati reparti (pp. 509, 510 e doc. 98). Eppure tutti gli eserciti si avviavano al frazionamento di tali armi fino alle soglie minime di compagnia e addirittura di plotone e di squadra! Altri pareri furono rifiutati perché contrastanti con riforme in corso (divisione ternaria) alle quali alti papaveri militari avevano legato il loro nome. Quanto invece alle opinioni su armi e mezzi (carri, artiglierie, ecc.) e sulla necessità di migliorarli, è indubbio che esse non ebbero séguito per ragioni connesse a difetti di capacità industriale58.
Degni di attenzione sembrano alcuni giudizi espressi dagli autori sui generali italiani e specialmente su quelli che ebbero poi parte di qualche rilievo nella seconda guerra mondiale. Di Bastico si parla soprattutto nel precedente volume e abbiamo già avuto modo di scriverne59. Qui si ribadisce che il suo siluramento, pur alPindomani del successo di Santander, fu il più clamoroso dei cedimenti di Mussolini alla prepotenza di Franco (p. 464), divenuta irresistibile dopo che Guadalajara aveva definitivamente inchiodato l’Italia fascista alle sorti della Spagna nazionale. Su Roatta è ribadito un apprezzamento forse anche troppo severo (p. 464). Manca un giudizio complessivo su Bergonzoli cui si
agli anticarro e agli antiaerei: M. Montanari, Le operazioni in Africa Settentrionale (4 voli.), I voi., Sidi el Banani, Roma, Ussme, 1985, pp. 338 e 405-406.55 Vedi: Feldmaresciallo Claude J.E. Auchinleck, Operations in the Middle East from 1st November 1941 to 15th August 1942, supplemento della “London Gazette”, 15 gennaio 1948, pp. 332, 334; Enrico Serra, Carristi dell’A riete (fogli di diario 1941-1942), Roma ed. fuori commercio, 1979, pp. 21-22 e 126-127 nonché L. Ceva, Interludio carristico di uno studioso, in Alessandro Migliazza, Enrico Deeleva (a cura di), Diplomazia e storia delle relazioni internazionali. Studi in onore di Enrico Serra, Milano, Giuffrè, 1991 (pp. 15-30), pp. 28-30.56 Cfr. A. Rovighi, F. Stefani, La partecipazione italiana alla guerra civile spagnola, cit., vol. I, p. 354 e L. Ceva, Ripensare Guadalajara, cit., pp. 484-485.57 A. Rovighi, F. Stefani, La partecipazione italiana alla guerra civile spagnola, cit. Sintomo di deficiente addestramento è la proporzione di ufficiali caduti in combattimento: 1 ogni 9,7 sottufficiali e soldati (p. 472). Decisamente elevata anche se non fu di 1 ogni 5 come scrive Dino Campini, Nei giardini del diavolo, Milano, Longanesi, 1979, p. 87.58 E. Manca di Mores, L ’impiego dell’Artiglieria, cit., p. 167.59 Poco comprensibilmente gli autori accennano una difesa dell’industria scrivendo di “insufficienza di materie prime” (p. 481, 509). Vedi sopra nota 45.
L’ultima vittoria del fascismo 535
riconoscono qua e là doti di coraggio e fermezza. Molto positivo e generalmente condiviso il giudizio su Manca di Mores (p. 469 e passim). Alquanto sfaccettata la valutazione di Gambara. Gli sono riconosciute “perizia manovriera” e “condotta magistrale” in Catalogna allorché l’azione del Ctv “condizionò positivamente quella più vasta dell’esercito del nord” (p. 400). Si menziona una sua capacità di farsi “voler bene dai subordinati” e dalla truppa di cui curò sempre il benessere, ma al tempo stesso gli si rimproverano modi inutilmente burberi e duri (pp. 400 e 487)60. Grave mi sembra inoltre l’appunto messo a Gambara a proposito del positivo giudizio da lui pronunciato sulla divisione “binaria” . Sarebbe dipeso dalla sua inclinazione a non muovere controcorrente e a “rimettersi alle tendenze del capo di Stato maggiore dell’esercito del momento” (p. 451). Si afferma altresì che, se si eccettua la finale adesione a Salò e qualche altro trascorso, Gambara avrebbe confermato nel 1940-1943 le doti positive, sul che non tutti sono però d’accordo61. In ogni caso Gamba
ra dopo la Spagna divenne il generale prediletto da Mussolini, Ciano e relativo entourage e fu per conseguenza inviso al clan di Badoglio dove suscitò scandalo questo apprezzamento del duce: “il nostro Gambara che in Catalogna ha spinto avanti la sua divisione senza troppo preoccuparsi dei fianchi”. È una “teoria contrastante con una delle più ferme norme strategiche del maresciallo” annota sconvolto il generale Armellini62 63.
Occorre infine ribadire quanto già rilevato a proposito del volume precedente e cioè che, per ricchezza di documenti, acume, ordine, gradevolezza di scrittura, attenzione agli aspetti politici e alla pubblicistica straniera, questa monografia dei generali Rovi- ghi e Stefani si allinea fra le migliori pubblicate dall’Ufficio storico negli ultimi anni. I volumi offrono la prima articolata trattazione degli aspetti militari di quella che doveva essere l’ultima vittoria del fascismo. Essi saranno utile punto di partenza di ogni futuro studio.
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60 Rinvio al mio Ripensare Guadalajara, cit., pp. 484-485.61 II rilievo è mosso con riferimento all’urto fra Gambara e il comandante dell’aviazione legionaria generale Mario Bernasconi che portò alla sostituzione di quest’ultimo col generale Giuseppe Maceratini (pp. 486-487). Si può ricordare che il gerarca Bottai, descrivendo il Gambara del 1940, gli attribuisce “una tonda faccia badiale” e modi tut- t’altro che burberi: Giuseppe Bottai, Diario 1935-1944, Milano, Rizzoli, 1982, p. 194.62 Giudizio severo su Gambara esprime il generale Mario Montanari, Le operazioni, cit., vol. II, Tobruk, Roma, Ussme, 1985, p. 758. Interessanti anche i giudizi riduttivi di Montanari sull’operato in Africa Settentrionale di altri generali attivi in Spagna come Berti e Babini a p. 414 del I volume (Sidi el Barrani, 1983) della stessa opera. Una valutazione complessiva di Gambara dovrebbe considerare anche la sua azione in Albania nel 1941 e quella alla testa del XV Corpo d’Armata nell’operazione del giugno 1940 che conquistò parte dell’abitato di Mentone.63 Quirino Armellini, Diario di guerra-nove mesi al comando supremo, Milano, Garzanti, 1946, pp. 9-10.
RIVISTA STORICA ITALIANASommario del 3, settembre 1993
Edizioni scientifiche italiane, Napoli
Domenico Ligresti, L'organizzazione militare del Regno di Sicilia (1575-1635)\ Giorgio Spini, Sulle origini dei termini “socialista" e "socialismo"-, Enrico Serra, Il governo Giolitti-Sforza (15 giugno 1920-4 luglio 1921) ed il riconoscimento dell'Urss.
Rassegne
Paolo Simoncelli, Nei labirinti della Controriforma
Problemi e discussioni
Maurizio Harari, Cultura moderna e arte etrusco-italica; Aldo A. Settia, Longobardi in Italia: necropoli altomedievali e ricerca storica-, Renato Pasta, Libertà degli studi e controlli ecclesiastici nel primo Settecento-, Giorgio Vaccarino, / problemi degli studi e controlli ecclesiastici nel primo Settecento-, Giorgio Vaccarino, / problemi dell'unitarismo cisalpino nell’interpretazione di Carlo Zaghi.
Recensioni
G.W. Bowersock, Hellenism in Late Antiquity {E. Gabba); Achille Olivieri, Riforma ed eresia a Vicenza nel Cinquecento (S. Caponetto); Massimo Firpo, Riforma protestante ed eresie nell’Italia del Cinquecento (G, Spini); Vincenzo Burlamacchi, Libro di ricordi degnissimi delle nostre famiglie (0. Niccoli); Das Erbe des Christian Rosenk- reuz. Vortràge gehalten anlasslich des Amsterdamer Symposiums: 18-20. November 1986. Johann Valentin Andreae 1586-1986 und die Manifeste der Rosenkreuzer 1614-1616 {G. Cengiarotti); La scienza moderata. Fedele Lampertico e l ’Italia liberale (R. Nieri); Angelo Russi, Bartolomeo Capasso e la storia del Mezzogiorno d ’Italia (E. Gabba); Oleg V. Chlevnjuk, 1937: Stalin, Nkvd i sovetskoe obscestvo [1937: Stalin, il Nkvd e la società sovietica] (E. Cinnella).
Gli analfabeti nell’Italia del secondo Ottocento
Eugenio Torrese
Questa nota espone alcune sintetiche considerazioni che sono alla base di una ricerca in corso sulla scuola elementare del secondo Ottocento. Con essa non si vuole riproporre una storia dell’istituzione attraverso i suoi protagonisti e gli operatori, ma si intende rivolgere l’attenzione ai soggetti destinatari dell’offerta formativa, in particolare a quelli appartenenti alle “classi povere”, cercando in prima istanza di delinearne il profilo e le caratteristiche. Verso di loro l’offerta si presenta in modo codificato e programmato (le materie), tuttavia l’insegnamento della tecnica della lettura e scrittura, considerata non solo come prodotto, ma anche come educazione corporea, pur essendo ben diversa dalla ginnastica, risulta, rispetto a questa, più presente e condizionante.
Anche lo spazio svolge lo stesso compito silenzioso sui corpi, unendo alla cogenza implicita la regolamentazione nell’uso; uno spazio non inteso, quindi, come edilizia scolastica e relativa politica, ma quale luogo che simboleggia precetti morali dominanti (ad esempio la differenza di genere) e li rafforza mentre “parla” a quei corpi in crescita. La nota che segue tenta di offrire una generale, anche se incompleta, ricognizione bi
bliografica e ha lo scopo di fornire al lettore le indicazioni essenziali per riconoscere il percorso compiuto. Forzature e schematismi presenti nel testo sono ingredienti, forse al momento, meno dannosi di nebulose prospettive prefigurabili e probabilmente sono il frutto di un rapporto purtroppo ancora strumentale con gli apparati concettuali delle altre discipline, antropologia e sociologia in primo luogo.
Nella storia dell’alfabetismo occidentale1 l’Ottocento è sicuramente un secolo di svolta, perché nasce e si afferma quel sistema che in breve tempo renderà la scuola grande agenzia formativa e luogo di socializzazione di primaria importanza.
L’inizio è certamente stentato, ma, anche non condividendo l’enfasi di Bantock, per il quale si assiste ad un “esperimento unico nella storia deH’umanità”2, non c’è dubbio che in questo secolo prenda avvio una nuova fase. L’attenzione degli studiosi italiani3, prevalentemente indirizzata ad indagare connotazione sociale, limiti, lentezze e contraddizioni del processo di scolarizzazione, ha permesso di accumulare conoscenze di notevole interesse ed utilità, ma non ha valorizzato adeguatamente il segno innovativo
1 Harvey J. Graff, Storia dell’alfabetizzazione occidentale, voli. 3, Bologna, Il Mulino, 1989.2 Geoffrey H. Bantock, Cultura, industrializzazione, educazione, Firenze, La Nuova Italia, 1976.3 Onde evitare un lungo elenco di titoli, si richiamano qui alcuni autori: Dina Bertoni Jovine, Tina Tomasi, Giuseppe Ricuperati, Franco Cambi, Giovanni Genovesi, Enzo Catarsi, Ester De Fort, Stefano Pivato, Gaetano Bo- netta, Simonetta Ulivieri, Marzio Barbagli, Giacomo Cives, Marcella Bacigalupi, Piero Fossati.
“Italia contemporanea”, settembre 1994, n. 196
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e dirimente che questa realtà rappresenta con il passato più o meno recente. Una tale osservazione non vuole far cadere nell’errore opposto, ma sollecitare una sensibilità diversa e proporre altri spunti per l’indagine.
Il primo è rappresentato dall’esatta collocazione dell’istituzione scuola rispetto alle altre agenzie di comunicazione ed acculturazione. Harvey J. Graff sottolinea a più riprese che se la scuola è uno dei canali di alfabetizzazione che nella società raggiungono un numero sempre più elevato di individui, esercito, editoria e stampa concorrono in questa azione a senso unico: dall’alto al basso della gerarchia sociale e, si aggiunga, dal mondo degli istruiti, a prevalente cultura scritta, a quello degli analfabeti, a prevalente cultura orale. È opportuno sottolinearlo perché non è né data né scontata la coincidenza tra due minoranze: quella degli scriventi e quella dei gruppi che occupano i gradini più alti della scala sociale, riservando all’Italia pochi concorrenti tra i paesi europei, quali Grecia, Portogallo e Russia. In virtù di ciò è possibile considerare l’insieme degli interventi, le prese di posizione e le argomentazioni che le sorreggono come un unico ampio dibattito, a volte appassionato e dai toni aspri, altre ripetitivo, sulle ragioni, le modalità, le caratteristiche e le diffi
coltà di un processo di alfabetizzazione di massa attraverso la scuola. I vari ministri ed esperti della Pubblica istruzione, i parlamentari, Villari, De Sanctis, Ascoli e Manzoni e in generale gli intellettuali, gli agrari ed i capitalisti, i direttori e i collaboratori di riviste pedagogico-didattiche4 ne sono gli animatori, tutti accomunati dal possesso, al più alto grado, delle abilità del parlare, leggere e scrivere. A questi vanno aggiunti i dirigenti del nascente movimento operaio. Da un lato, quindi, un mondo di parlanti, di leggenti e di scriventi e dall’altro un popolo di parlanti, di leggenti in minor misura ed ancor meno di scriventi, e probabilmente con una competenza scrittoria superficiale, limitata alla capacità di apporre la propria firma5. La sud- divisione — a cui è estraneo ogni tentativo di minimizzare le tensioni di cui parla Ariès6 o di negare evidenti radicamenti sociali — può rivelarsi utile per puntare uno sguardo diverso sui destinatari dell’offerta formativa. Sguardo diverso perché fino ad ora sono stati osservati attraverso l’ottica dell’istituzione scuola e dei suoi operatori e sostenitori, con i quali gli storici di oggi condividono non una comunanza di pensiero e tanto meno di ideologia, ma il possesso dell’abilità scrittoria7. Infatti, una volta rilevati quantitativamente, gli analfabeti8 acquisiscono fisionomia stati-
4 Giorgio Chiosso (a cura di), Scuola e stampa nel Risorgimento. Giornali e riviste per l ’educazione prima dell’Unità, Milano, Angeli, 1989 e Id., I periodici scolastici nell’Italia del secondo Ottocento, Brescia, La Scuola, 1992.5 Nell’indagine storiografica si registra l’orientamento di tipo quantitativo con François Furet e Mona Ozouf e quello di tipo qualitativo con Engelsing, Hurichs, Norden e Rudolf Schenda. Sul primo si vedano le osservazioni di Roger Chartier, Le pratiche della scrittura, in Philippe Ariès, George Duby, La vita privata dal Rinascimento all’Illuminismo, Roma-Bari, Laterza 1990; per l’Italia Giovanni Vigo, “... quando il popolo cominciò a leggere’’. Per una storia dell’alfabetismo in Italia, “Società e storia”, n. 22, 1983. Sul tema cfr. Tullio De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Roma-Bari, Laterza, 1991; F. Tempesti, Carlo Collodi e la didattica dell’italiano: alcune risultanze di un centenario: 1890-1990, “Schedario”, n. 2, 1990, che anticipa gli atti di un convegno (in corso di stampa) “La scrittura dell’uso al tempo di Collodi”, tenuto a Pescia nel 1990; per un’analisi da economista cfr. Carlo M. Cipolla, Istruzione e sviluppo, Torino, Utet, 1969.6 Cfr. P. Ariès, voce Educazione, in Enciclopedia, Torino, Einaudi, 1978 e dello stesso Padri e figli, Roma-Bari, Laterza, 1976.7 Cfr. Robert Escarpit, Scrittura e comunicazione, Milano, Garzanti, 1976.8 G.S. Del Vecchio, La statistica dell’analfabetismo, Genova, 1894; Luigi Faccini, Rosalba Graglia, Giuseppe Ricuperati, Analfabetismo e scolarizzazione, in Storia d ’Italia, Atlante, vol. VI, Torino, Einaudi, 1976; Daniele Marchesini, L ’analfabetismo femminile nell’Italia dell’Ottocento: caratteristiche e dinamiche, in Simonetta Soldani,
Gli analfabeti nell’Italia del secondo Ottocento 539
stica in quanto senza alfabeto, con una indubbia connotazione negativa; altre volte saltano alla ribalta come soggetti da sottrarre all’ignoranza, sempre indissolubilmente legata a superstizione e abbrutimento; altre ancora diventano i destinatari di un’offerta formativa, di cui non approfittano perché non ne comprendono i benefici, o, quando l’evidenza non può essere negata, ne sono allontanati a causa della miseria9. Il tentativo di problematizzare questa visione reclama la rivalutazione, senza alcuna enfasi, del “punto di vista” dell’analfabeta, e trova negli studi di antropologi e di altri autori uno stimolo ed un incoraggiamento. Ci si riferisce ad Ong, Goody, Havelock, Watt e, in Italia, Callari Galli, Harrison e Cardona10, a cui vanno aggiunti Bartoli Langeli, Pétrucci, Marchesini e Azzolini11.
Lo stimolo è alimentato dagli studi sulla formazione di società dotatesi di codici scrittori e dalla dinamica, all’interno di queste, tra mondo della scrittura e mondo dell’oralità, senza alcuna separazione manichea. È bene, però, sgombrare il campo da equivoci. Qui si vogliono individuare le manifestazioni del punto di vista degli illetterati, cercando di evitare quegli errori che a lungo hanno
caratterizzato gli studi italiani di antropologia, relativi alla cultura delle classi subalterne12. Non esiste, cioè, alcun punto di vista intimamente coerente e tanto meno un pensiero alternativo alla scuola in difesa della propria cultura, ma una varietà di atteggiamenti e pratiche che il processo di alfabetizzazione, attraverso la scuola, incontra sulla strada. Metterli in risalto è il primo passo, occorre poi individuare l’entità e le relazioni con l’ambiente circostante e la società del tempo, nella misura consentita dai limiti e dalla peculiarità delle fonti. Solo per comodità espositiva si propone una suddivisione tra ragioni materiali ed altre di natura culturale, nel senso più ampio del termine.
Alle prime appartiene la necessità di utilizzare i minori quale forza lavoro presso terzi o come aiuto nelle attività dei grandi: quando devono svolgere il lavoro nei campi si assentano nei periodi primaverili ed estivi, quando sono impiegati in altre attività, dalle fabbriche tessili del Nord alle zolfatare siciliane13, non sono affatto iscritti o, se lo sono, frequentano in modo molto irregolare. Se si dovesse fare una graduatoria sulla base delle fonti è certo che le ragioni dello stomaco sarebbero al primo posto. Notissima è la
L ’educazione delle donne, Milano, Angeli, 1989. Maria Montessori, negli anni cinquanta, definiva l’analfabeta un “anormale”, un “extrasociale” (in Anna Lorenzotto, Alfabeto e analfabetismo, Roma, Armando, 1962, p. 168).9 Cfr. Roberto Berardi, Scuola e politica nel Risorgimento, Torino, Paravia, 1982.10 Walter J. Ong, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Bologna, Il Mulino, 1986; Jack Goody, L ’addomesticamento del pensiero selvaggio, Milano, Angeli, 1981; Id., La logica della scrittura e l ’organizzazione della società, Torino, Einaudi, 1988 e II suono e i segni, Milano, Il Saggiatore, 1989; Eric A. Havelock, La musa impara a scrivere, Bari, Laterza, 1987; P .P. Giglioli (a cura di), Linguaggio e società, Bologna, Il Mulino, 1974; Giorgio R. Cardona, Antropologia della scrittura, Torino, Loescher, 1981; Matilde Callari Galli, Antropologia ed educazione, Firenze, La Nuova Italia, 1975; della stessa con Gualtiero Harrison, Né leggere, né scrivere, Milano, Feltrinelli, 1976; della stessa, Antropologia ed educazione: problemi e prospettive, in Tullio Tentori et al., L ’antropologia oggi, Roma, Newton Compton, 1982.11 Si veda Attilio Bartoli Langeli, Armando Pétrucci (a cura di), Alfabetismo e cultura scritta (Atti del seminario tenutosi a Perugia il 29-30 marzo 1977), Bologna, Il Mulino, 1978; Orfeo Azzolini, La fatica di conoscere, Roma- Bari, Laterza, 1991; D. Marchesini, Il bisogno di scrivere. Usi della scrittura nell’Italia moderna, Roma-Bari, La- terza, 1992.12 Cfr. Luigi M. Lombardi Satriani, Antropologia culturale e analisi della cultura subalterna, Milano, Rizzoli, 1980.13 Accanto alle fonti statistiche vanno tenuti presenti gli atti delle inchieste ministeriali e la produzione letteraria di Verga e di autori minori, sui quali Daniela Maldini Chiarito, Ceti popolari nella narrativa dell’Ottocento. Realtà storica e immagine letteraria, Torino, Tirrenia-Stampatori, 1983.
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denuncia di Villari del 1872 ed è solo una delle tante che ricorrono nelle sedi più diverse e sulla stampa del tempo14. I più determinati accusatori sono i dirigenti del nascente movimento operaio. Essi ritengono che la prima riforma da attuare sia il miglioramento delle miserrime condizioni di vita; solo un tale cambiamento pone le premesse per la diffusione dell’istruzione negli strati popolari della società15.
Tra i fattori di natura immateriale, due sembrano essere i più frequentemente osservati: l’estraneità e la diffidenza degli analfabeti. In tutti e due i casi il risultato è la resistenza alla diffusione deU’alfabetismo attraverso la scuola. La diffidenza si manifesta ora nei confronti di chi insegna, soprattutto se viene dalla città, ora nei confronti del simbolo della cultura scritta, il libro16. Paola Lombroso, nella sua indagine, compiuta sul finire del secolo, rivela, non senza scandalizzarsi, che “le donne di Basaluzzo, che sono tutte un poco più colte, credono che i libri siano per istruirsi, per far andare avanti le terre, per raccontare le vite dei santi e per andare a messa. In generale anche su questo argomento dei libri ripetono il giudizio stereotipato che han sentito predicare dal pulpito; i libri buoni sono i libri da messa e delle vite dei santi; gli altri son tutti libri che fanno perdere l’anima e i romanzi fanno fare gli omicidi” .17. E recentemente Livia Be- duschi, nel suo studio su noti testi di tradizione orale del Mantovano e del Bergamasco, afferma: “in molti casi gli atteggiamenti
verso la pagina scritta, la stampa, denotano resistenze e rifiuti radicati e difficili da scalzare: basta ricordare la funzione comica della lettera, del bando pubblico e della loro lettura nel teatro dei burattini, o l’uso della carta stampata per fare copricapi a personaggi da prendere in giro”18. A conferma dell’estraneità, ma anche della lontananza e dell’ostilità nei confronti del mondo della scuola torna utile la testimonianza di un addetto all’alfabetizzazione, il maestro Tito Miserocchi, il quale, nella seconda metà dell’Ottocento in occasione di una cerimonia di premiazione di alunni ed alunne di scuole rurali romagnole, così si esprime: “il maestro cerca di sradicare, per esempio, gli errori, i pregiudizi e le superstizioni sulla creduta rotazione del sole intorno alla terra, sull’illimitata influenza della luna, sulle streghe, sul venerdì, sugli spiriti ecc.: allorquando il figlio racconta a casa ciò che gli ha insegnato il maestro in iscuola, gli sono quelle verità smentite con argomentazioni false e con una sequela di fatti apparentemente veri, perché corredati di nomi di famiglia e di circostanze di luogo e di tempo in cui si dicono accaduti”19.
È abbastanza evidente che i fattori materiali non vanno separati da quelli culturali, perché non si tratta solo di una loro compresenza nello stesso ambiente, ma anche di una combinazione che produce sinergie considerevoli. L’impiego dei minori, ad esempio, nel lavoro dei campi trova un sicuro alleato nella lentezza dei cambiamenti della
14 Pasquale Villari, La scuola e la questione sociale, in Id., a cura di Francesco Barbagallo, Le lettere meridionali e altri scritti sulla questione sociale, Napoli, Guida, 1979.15 Cfr. I dati sulla scarsa alimentazione degli alunni delle scuole elementari di Milano sul finire del secolo in R. Guaita, Igiene delta scuola e della famiglia, Milano, 1903; sui costi della scuola elementare cfr. Gianni Resti, L ’istruzione popolare a Siena nella seconda metà dell’Ottocento, Roma, Bulzoni, 1987.16 Alfonso di Nola, Libro, in Enciclopedia, Torino, Einaudi, 1979.17 Mario Carrara, Paola Lombroso, Nella penombra della civiltà, Torino, 1906; Amerigo Seghieri, Il libro magico, in L.M. Lombardi Satriani e Mariano Meligrana, Diritto egemone e diritto popolare, Vibo Valentia, 1975.18 Lidia Beduschi, Atteggiamenti e ideologie della scrittura nei testi della tradizione orale, “La ricerca folklorica”, n. 5, 1982.19 Stefano Pivato, Pane e grammatica, Milano, Angeli, pp. 141-144.
Gli analfabeti nell’Italia del secondo Ottocento 541
condizione dei genitori, cioè del loro analfabetismo, soprattutto se ciò comporta anche l’onere di vecchi sacrifici (quelli economici) e di nuovi impegni (i compiti a casa di Tito Miserocchi). L’ignoranza e la povertà, insomma, non generano naturalmente il bisogno di scuola20: perché ciò avvenga occorre anche un clima diverso nell’ambiente circostante e nella società nel suo insieme. Nel tentativo di dare spiegazione del disinteresse nei confronti dell’istituzione, molti osservatori contemporanei sono convinti che esso risieda nella incomprensione dei vantaggi da parte dei destinatari; i ragazzi, cioè, non frequentano perché le famiglie non ne capiscono l’utilità. Ma, a differenza di quanto ritengono i colti, la dimensione valoriale e simbolica della scrittura21 non è disgiunta, agli occhi degli incolti, da quella funzionale e questa, a sua volta, non può vantare nessuna neutralità in una società in cui scrittura e potere, nel senso più ampio della parola, stipulano alleanze e rimandano reciproci rispecchiamenti. A prevalere è una dinamica che abbraccia e travalica gruppi sociali più o meno ristretti, quella, cioè, tra mondo della scrittura e mondo dell’oralità. Un suo deciso
rafforzamento nell’Ottocento è dato dal- l’infittirsi dei canali di comunicazione22 grazie alla stampa periodica, ai libri “spazzatura” , all’editoria23, all’opera di marginali24, alla scuola stessa con una tendenziale prevalenza della scrittura sull’oralità. Questo processo è incarnato simbolicamente e materialmente dall’alfabetismo, la cui penetrazione nei tessuti della società25 però non rispecchia nessun modello di diffusionismo lineare. Alcuni esempi lo dimostrano.
In primo luogo l’istruzione per o delle donne, anche negli strati più elevati, non è generalizzata né pacificamente condivisa26. Se, cioè, negli strati subalterni le ragioni dello stomaco si abbinano ad altre meno immediate, in quelli più alti è il ruolo a diventare fattore primario. Paola Lombroso ed altre sono per lungo tempo “mosche bianche” . La stessa istruzione è fortemente caratterizzata: nei primi anni sono i lavori donneschi a predominare come testimoniano anche i ricami, pizzi, tovaglie e consimili, che abbondano nelle esposizioni didattiche. Il genere, cioè, precostituisce non solo percorsi ma anche contenuti differenziati.
20 Cfr. Oscar Lewis, La cultura della povertà e altri saggi di antropologia, Bologna, Il Mulino, 1973.21 G.R. Cardona, Antropologia cit., e alcuni aspetti dell’indagine di De Martino in Vittorio Lanternari, L ’“incivili- mento dei barbari”. Problemi di etnocentrismo e d ’identità, Bari, Dedalo, 1983, pp. 82-84; Roland Barthes, Patrick Mauriès, Scrittura, in Enciclopedia, Torino, Einaudi, 1981.22 G.R. Cardona, Sull’“etnografia della scrittura”, in Id., I linguaggi del sapere, Roma-Bari, Laterza, 1990; Id., / percorsi della scrittura, “Biblioteche”, n. 2, 1985; Giovanna Cerina, Cristina Lavinio, Luisa Mulas (a cura di), Oralità e scrittura nel sistema letterario, Roma, Bulzoni, 1982.23 Richard D. Altick, La democrazia tra le pagine, Bologna, Il Mulino, 1987 e tra gli altri Giulia Barone, Armando Pétrucci, Primo: non leggere, Milano, Mazzotta, 1976; Alberto M. Sobrero, Problemi di ricostruzione della mentalità subalterna letteratura e circolazione culturale alla fine dell’Ottocento, in Studi antropologici italiani e rapporti di classe, Milano, Angeli, 1980; A. Palermo, Per una antologia della sociologia letteraria, in Fernando Ferrara et al. (a cura di), Sociologia della letteratura. A tti del primo convegno nazionale (Gaeta 2-4 ottobre 1974), Roma, Bulzoni, 1978; Guido Verucci, L ’Italia laica prima e dopo l ’unità (1848-1876). Anticlericalismo, libero pensiero e ateismo nella società italiana, Bari, Laterza, 1981; Renato Monteleone, Che cosa legge la classe operaia?, “Movimento operaio e socialista”, n. 2-3, 1977; L. Martyn, Le triomphe du livre, France, 1987.24 Glauco Sanga, Marginali e scrittura, “La ricerca folklorica”, n. 15, 1987.25 Paolo Macry, Ottocento, Torino, Einaudi, 1988, p. 119.26 Cfr. Soldani, L ’educazione, cit.; la discussione in “Passato e presente”, n. 17, 1988 e i saggi di N.L. Green, La formazione della donna ebraica e M.C. Hoock Dentarle, Leggere e scrivere in Germania, in George Duby, Michelle Perrot (a cura di), Storia delle donne, L ’Ottocento, Roma-Bari, Laterza, 1990; ancora Simonetta Ulivieri (a cura di), Educazione e ruolo femminile, Firenze, La Nuova Italia, 1992.
542 Eugenio Torrese
In secondo luogo tra i protagonisti del dibattito sul tema non è difficile trovare possidenti, latifondisti e capitalisti che temono anche un grado minimo di istruzione delle classi subalterne. I timori, ed in molti casi la paura, si nutrono della concezione negativa che essi hanno del popolo, rendendo ancora più temibile il binomio popolo-istruzione. Le proposte di questi settori sociali vanno dal rifiuto di qualsiasi offerta formativa a quella di un intervento a soli scopi educativi; insomma, se socializzazione vi deve essere, non può e non deve travalicare i confini rigidi di una introiezione di concetti ed atteggiamenti di totale passività ed accettazione della propria condizione sociale e politica. A questi si contrappongono le élite dirigenti del movimento operaio propugnando l’esatto contrario, ma nei due casi si può registrare una concezione strumentale dell’alfabetismo: per i primi a fini di stabilità, per i secondi a fini di cambiamento27.
Come è noto, l’esito fu piuttosto controverso: finì col prevalere l’orientamento favorevole a un minimo di istruzione, fortemente segnata, però, da una volontà di acculturazione, tanto intensa quanto pervasi- va28. È questo il prezzo che la parte più grande della società dovette pagare alla dif
fusione e al radicamento di uno dei valori più noti della modernizzazione29.
Infine si deve considerare che la differenza sociale richiama quella ambientale: è la città, infatti, ad offrire, come dimostra Daniel Roche per la Francia, Attilio Bartoli Langeli e Daniele Marchesini per l’Italia30, occasioni e stimoli provenienti dalla sua parte inanimata (edifici, strade, insegne, ecc.) e dalla coesistenza di pratiche di lettura31 e di scrittura32. La contiguità di vari gruppi sociali (si pensi ai domestici) con queste provoca un contagio a considerevole potere diffusivo. La stessa formazione dello Stato moderno, che ha il suo cuore nella città, si accompagna alla proliferazione di strumenti e di prassi indissolubilmente legate alla scrittura33. Città e campagna, quindi, si presentano fortemente differenziate, evidenziando due metabolismi con ritmi diversi e con manifestazioni ed effetti duraturi34.
Oggi le statistiche italiane, anche per motivi demografici, mostrano in via di conclusione questo processo, registrando percentuali molto basse di analfabeti totali, che vengono soppiantati da due nuove figure: gli analfabeti di ritorno e “gli ignoranti del terzo tipo”35, mentre il “potere linguistico”36 ha subito solo scossoni. Infatti, “cosa acca-
27 Stefano Pivato, Movimento operaio e istruzione popolare, Milano, Angeli, 1986; Tina Tomasi (a cura di), Scuola e società nel socialismo riformista 1891-1926. Battaglie per l ’istruzione popolare e dibattito sulla questione femminile, Firenze, Sansoni, 1982.28 H.J. Graff parla di “curricolo implicito” e tra gli altri cfr. Marcella Bacigalupi, Piero Fossati, Da plebe a popolo, Firenze, La Nuova Italia, 1986.29 Gérard Delille, Stabilità e innovazione nella Puglia dei trulli: Alberobello nel X IX secolo, in Storia d ’Italia, Le regioni dall’Unità a oggi. La Puglia, Torino, Einaudi, 1989.30 Daniel Roche, Popolo di Parigi, Bologna, Il Mulino, 1986; Attilio Bartoli Langeli, D. Marchesini, I segni della città: Parma nell’antico regime e D. Marchesini, Una città e i suoi spazi scritti: Parma, secoli XVIII-XIX, “Storia urbana”, n. 34, 1986.31 Roger Chartier, Letture e lettori nella Francia di Antico Regime, Torino, Einaudi, 1988; Rudolf Schenda, Leggere ad alta voce: tra analfabetismo e sapere libresco, “La ricerca folklorica”, n. 15, 1987.32 A. Pétrucci, La scrittura. Ideologia e rappresentazione, Torino, Einaudi, 1986.33 D. Marchesini, Il bisogno, cit.34 Secondo G. Sanga “l’alfabetismo... è stato adottato e rivendicato dagli operai” mentre “ [...] è stato subito dai contadini”, in Id., Marginali e scrittura, cit., p. 15.35 Ermanno Detti, Il piacere di leggere, Firenze, La Nuova Italia, 1987; A. Pétrucci, Scrivere e no, Roma, Editori Riuniti, 1983 e prima A. Lorenzotto, Alfabeto, cit., pp. 28-30.36 Raffaele Simone (a cura di), L ’educazione linguistica, Firenze, La Nuova Italia, 1979, p. 6.
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drebbe se il mondo intero divenisse alfabetizzato? Risposta: nulla di speciale, giacché è strutturato nel suo complesso in modo da assorbire un simile impatto. Ma se l’intero mondo consistesse di individui alfabeti, autonomi, critici, costruttivi, capaci di tradurre le idee in azione, individualmente e collettivamente, allora il mondo cambierebbe”37.
Non è riduttivo quindi ritenere quella dell’alfabetizzazione la storia dell’affermazione e del radicamento di un valore38, direttamente correlata al successo della scrittura sull’oralità: scrittura ed alfabetismo quali valori positivi, oralità ed analfabetismo quali disvalori, da sospingere alla periferia delle città e della società. L’antropologia, però, non ha negato alcun diritto di cittadinanza a questa realtà nell’Ottocento con i Raffaele Satriani ed i Pitré ed in anni più recenti con De Martino, Lombardi Satriani, Cirese, Carpitella e Bosio. E sono gli antropologi delle società senza scrittura che, avendo fatto “il giro più lungo”39, sollecitano un diverso sguardo del “Noi” e spingono a non considerare la civiltà della scrittura come unico sbocco ed esito scontato di un processo naturale.
Rispondendo a simili sollecitazioni andrebbe, ad esempio, diversamente analizzata la data simbolo del processo di alfabetizzazione (1887), riducendone la portata nella diffusione sociale dell’alfabetismo, ma riva
lutandola come segnale importante degli orientamenti politici e culturali delle élite dell’Italia liberale; andrebbero indagate con diversa sensibilità le conseguenze di un simile processo, evitando di ricercare conferme al binomio scrittura-modernità, per riconsiderare le pratiche e gli atteggiamenti dei destinatari dell’offerta formativa; la scuola andrebbe esaminata non solo come centro di socializzazione palese, ma anche come luogo di educazione e disciplina del corpo che avviene non solo con l’attività didattica, ma anche attraverso la dimensione spaziale dell’ambiente scolastico, la sua organizzazione, il suo arredo e la sua fruizione, regolata e quindi esplicitamente orientata, ma anche implicitamente condizionata da scelte, come ad esempio quelle architettoniche, solo parzialmente dettate da criteri di funzionalità.
Il condizionale è d’obbligo, perché l’invito di Ricuperati40, rivolto venti anni fa e rinnovato successivamente, a produrre una storia sociale della scuola non ha sortito grandi effetti, perché pedagogisti e storici procedono per vie parallele o seguono percorsi differenziati ed infine perché gli stimoli provenienti da altre discipline, quali la sociologia e l’antropologia, trovano ancora scarsa ricezione nella ricerca storico-pedagogica.
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37 H.J. Graff, Storia dell’alfabetizzazione, cit., voi III, p. 303.38 Renzo Gubert, Dall’analfabetismo come dato di fatto all’analfabetismo come condizione accettata: tentativi di un’analisi causale, “Quaderni della Regione Lombardia”, n. 88, 1982.39 Francesco Remotti, Noi, primitivi, Torino, Bollati Boringhieri, 1990.40 Giuseppe Ricuperati, La scuola nell’Italia unita, in Storia d ’Italia. I documenti, vol V, tomo 1, Torino, Einaudi, 1973; Id., La storia dell’istruzione nella storiografia contemporanea, in Antonio Santoni Rugiu et al., Storia della scuola e storia d ’Italia dall’Unità a oggi, Bari, De Donato, 1982.
ISTITUTO NAZIONALE PER LA STORIA DEL MOVIMENTO
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Tra f o n t i e ricerca
Toscana autunno 1943Un rapporto dei servizi di sicurezza della Wehrmacht
Giovanni Verni
L’immediata, diffusa e manifesta ostilità popolare verso le truppe di occupazione germaniche che dopo l’otto settembre 1943 si erano impadronite fulmineamente del territorio italiano dalla Campania al Brennero è affermazione comune a tutte le opere storiografiche o memorialistiche riguardanti la nostra lotta di liberazione, ma nella quasi totalità dei casi essa è priva di un attendibile supporto documentario coevo ed ancor più rari sono i ricorsi alla documentazione di fonte tedesca1. Tanto è vero che le principali opere generali sulla storia della Resistenza italiana sono assai caute sia nel tratteggiare il quadro delle prime formazioni partigiane e della loro dislocazione, sia nel valutarne la consistenza: cautela particolarmente accentuata per quanto concerne la Toscana e indotta probabilmente da una forse accessiva diffidenza verso la documentazione disponibile fino a non molto tempo fa, costituita essenzialmente dalle relazioni ufficiali delle formazioni partigiane e da ricordi di protagonisti, ancora segnate dalle diffidenze su
scitate dal clima politico che si ebbe in Italia dagli ultimi anni quaranta a tutti gli anni cinquanta. Ma le fonti tedesche — pur sottovalutando il carattere degli italiani: “Gli stessi italiani che operano alla formazione delle bande non dovrebbero possedere, in generale, lo slancio richiesto e la durezza necessaria per una attiva azione di bande”2 e sopravalutando la possibilità di conquistarsi la fiducia della popolaziona italiana — ci offrono un quadro ben più ricco e articolato della situazione esistente nel nostro paese nei primi mesi dell’autunno 1943, anche se le valutazioni che vi compaiono risultano riferite ad un periodo leggermente antecedente alla data del documento in cui sono riportate, probabilmente per la difficoltà dei collegamenti, assai sensibile nel primo periodo. Infatti a metà di ottobre del 1943 L’Heer- esGruppe B, cui competeva il controllo dell’Italia centrosettentrionale, malgrado il giudizio negativo sugli italiani sopra riportato, era costretto a riconoscere anche “Umore e atteggiamento della popolazione civile sono
1 Già nel 1985 Jens Petersen in occasione del convegno promosso dall’Insmli su “L’Italia nella seconda guerra mondiale e nella Resistenza” faceva osservare questo limite della storiografia italiana, che solo in tempi recentissimi sembra muoversi in direzione di un suo superamento.2 HeeresGruppe B, Feindnachrichtenblatt N. 5, 23 ottobre 1943 in National Archives Washington (d’ora in poi NAW), T 311. Non si può fare a meno di rilevare la concordanza di questa valutazione con quella espressa ancora nel dicembre 1943 dal Comando supremo del R. Esercito italiano, che in apertura della sua circolare 333/OP, avente per oggetto “Direttive per l’organizzazione e la condotta della guerriglia” non si peritava ad affermare: “In Italia terreno e popolazione poco si prestano alla guerriglia”; cfr. Comando Raggruppamenti Bande Italia Centrale. Attività delle bande. Settembre 1943-luglio 1944, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 1945, p. 195.
Italia contemporanea”, settembre 1994, n. 196
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nel complesso immutati... Nelle città più grandi persiste l’atteggiamento di rifiuto e, in parte, di ostilità verso i tedeschi”3. A distanza di circa tre settimane il comando di Rommel, pur sostenendo che “l’attività delle bande nell’Italia Settentrionale ha continuato ad essere limitata” , rilevava che “soltanto nella zona di confine occidentale e nella zona appenninica ai due lati di Firenze sono riconoscibili indizi sicuri della presenza di bande e degli sforzi in direzione di un’attività di bande organizzata”4. A questa relazione sono allegate le esperienze nella lotta alle bande maturate fino ad allora dal LI Gebirge Armee Korps. Nel quadro dell’operazione “Alarico” Rommel aveva affidato a questa grande unità il compito, poi solo parzialmente riuscito, di impadronirsi del settore costiero tirrenico da Rapallo a Massa, con l’obbiettivo primario di occupare il porto militare di La Spezia ed impedire l’uscita in mare delle unità della Marina militare italiana ivi alla fonda; nei turbinosi giorni che seguirono l’otto settembre la scarsa resistenza incontrata e, soprattutto, la limitatezza delle forze a disposizione dell’HeeresGruppe B fecero sì che gli venisse affidato l’incarico di estendere il controllo del territorio fino oltre Livorno, di assicurarne la difesa contro i paventati sbarchi angloamericani e di avviare i rilievi per la costruzione della fortificazione appenninica — poi divenuta nota come Linea Gotica e quindi come Linea Verde — che, secondo gli orientamenti di Rommel, doveva costituire il primo bastione della difesa del territorio del Reich5. Nell’as- solvere tali compiti il LI Gebirge Armee Korps aveva dovuto registrare in data 24 set
tembre un attentato effettuato in Lunigiana contro la linea ferroviaria6, di grande importanza per i trasporti germanici, che, collegando la Spezia con Parma, mette in comunicazione la rete ferroviaria dell’Italia settentrionale con quella tirrenica ed il giorno successivo aveva ricevuto dall’HeeresGrup- pe B l’ordine di impegnare unità della subordinata 24 Panzer Division nella ricognizione del tratto appenninico da sud-est di Bologna a nord-ovest di Ancona, dove avevano fatto la loro apparizione le prime bande di ribelli7. Il LI Gebirge Armee Korps nel controllo del territorio assegnatogli era coadiuvato per le questioni relative alla sicurezza, oltre che dagli Uffici informazione dei comandi dipendenti, operanti nell’area di competenza delle loro unità, dalla Abwehr- trupp 371, il cui compito principale era l’individuazione delle bande, nonché l’accertamento delle loro caratteristiche e dei collega- menti loro e dei gruppi di resistenza onde consentirne l’annientamento, che veniva affidato ad altri reparti della Wehrmacht o, là dove possibile, della milizia fascista, alla cui resurrezione nell’ambito territoriale di sua competenza l’Abwehrtrupp 371 dette, come vedremo, un valido contributo. Il reparto di sicurezza in questione, stando alla relazione che segue, risulta essere stato impiegato fin dall’inizio, come conferma un documento di poco successivo, “soprattutto nella zona della costa occidentale e nella parte ovest dell’Appennino per la sorveglianza delle bande e delle organizzazioni comuniste”8, ma, a partire dalla seconda metà di ottobre, anche nelle provincie di Siena e Arezzo.
Il documento che viene presentato nelle
3 HeeresGruppe B, Feindnachrichtenblatt n. 5, loc. cit.4 Feindnachrichtenblatt N. 6, 14 novembre 1943, in NAW, T311, bob. 276.5 Enzo Collotti, L ’amministrazione tedesca dell’Italia occupata 1943-1945, Milano, Lerici, 1963, p. 105.6 LI Gebirge Armee Korps, Kriegstagebuch 1, 24 settembre 1943 in NAW, T 314, bob. 1263.7 LI Gebirge Armee Korps, Kriegstagebuch 1, 25 settembre 1943, in NAW, T 314, bob. 1263.8 14 Armeeoberkommando, comunicazione dell’Ic/Ia LI Gebirge Armee Korps al 14 Armeeoberkommando, 18 dicembre 1943, in NAW, T312, bob. 480.
Toscana autunno 1943 547
pagine seguenti è uno degli allegati alla “Relazione sull’attività svolta dall’ 1 al 31 ottobre 1943” dall’Ic, cioè dall’Ufficio Informazioni del LI Gebirge Armee Korps9 e si tratta della prima relazione ad essere stata individuata e probabilmente, stando alla data ed al contesto, della prima ad essere stata redatta nella nuova zona di operazioni dall’unità in questione.
L’interesse del documento — risultato di un vantaggio i cui scopi erano la valutazione delle condizioni di sicurezza della zona, la raccolta di rapporti sulla situazione e l’approntamento di una rete di informatori — risiede soprattutto nella ricchezza di notizie relative allo spirito ed all’ordine pubblico quale si era venuto determinando nel primo mese di occupazione nazista nelle provincie di Firenze, Pistoia, Lucca, Pisa e Livorno: notizie in parte fino ad oggi inedite o dimenticate.
Diviso in cinque capitoli, il documento si apre con la descrizione provincia per provincia della struttura informativa che l’Ab- wehrtrupp 371 era riuscita a costituire; struttura in cui, accanto a comandi e uffici germanici ed a pochi civili, compare un cospicuo numero di persone qualificate come appartenenti alla Milizia fascista o esponenti locali del Pfr, i quali vengono considerati come gli elementi più attendibili e disponibili ad attuare le direttive degli occupanti, ma di cui non è stato fino ad ora possibile accertare la continuità della collaborazione con la Wehrmacht nei mesi successivi. Seguono poi due capitoli dedicati alle notizie concernenti le prime formazioni partigiane e su coloro che avevano manifestato o manifestavano la
loro avversione verso i tedeschi e i fascisti, dai quali risulta una situazione assai fluida circa il diffuso aiuto prestato agli ex prigionieri angloamericani ed alle formazioni partigiane che andavano costituendosi in numerose località; situazione tutt’altro che congelata dalle minaccie e dalle repressioni nazifa- sciste che cominciavano a colpire con durezza. A questo proposito è opportuno notare che la relazione conferma in alcuni casi la presenza in questo periodo di bande la cui esistenza era finora considerata con molta cautela per il fatto che essi si erano poi dissolte senza seguito e senza storia per non esser riuscite a superare la crisi invernale o non aver saputo sottrarsi tempestivamente alla repressione degli occupanti. Devono essere, invece, oggetto di un accurato riscontro le ripetute affermazioni a proposito dell’esistenza di collegamenti fra bande e alleati, al pari dei dati relativi alla consistenza delle singole bande — spesso evidentemente sovradimensionate10 — ed al ruolo di organizzatori e comandanti di quest’ultime attribuito ad ex prigionieri angloamericani e ad ufficiali, spesso superiori, dell’esercito italiano. Infatti allo stato attuale delle conoscenze relative all’area ed al periodo in questione il ruolo sia dei primi che dei secondi appare decisamente eccessivo, come del resto si erano resi conto gli stessi comandi superiori germanici. Ma questi due capitoli del rapporto confermano anche come l’ostilità al nazifascismo, malgrado le prime rappresaglie di quest’ultimo, si manifestasse in ogni ceto sociale e sebbene in questa fase assumesse forme prevalentemente incruente essa segnava una precisa e decisa scelta di
9 LI Gebirge Armee Korps, Taetigkeitsberichte der Abt. Ic v. 1/31 ottobre 1943 mit Anlagen in NAW, T 314, bob. 1265 purtroppo la serie di allegati a questa relazione risulta lacunosa. Il documento di seguito riprodotto, tradotto dall’originale tedesco da chi scrive, comprende una cartina della zona, qui non pubblicata.10 II già ricordato Feindnachrichtenblatt n. 6 del 14 novembre 1943 osservava a questo proposito: “Le informazioni sulle bande provenienti dalla popolazione civile o dagli organi italiani si sono dimostrare per lo più esagerate o inesatte e possono essere valutate in parte come opera consapevole di sviamento”, Heeresgruppe B, Feindnachrichtenblatt n. 6, in NAW, T 311, bob. 276.
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campo, che “dovette [...] esercitarsi fra una disobbedienza dai prezzi sempre più alti e le lusinghe della pur tetra normalizzazione fascista” e fu “una rivolta contro il potere dell’uomo sull’uomo, una riaffermazione dell’antico principio che il potere non deve averla vinta sulla virtù”11: dall’autista lucchese Masetto, che si era fatto notare per il trasporto di viveri alle bande, al nobile pistoiese, che forniva ad alcuni ex prigionieri fuggiaschi la sua biancheria con tanto di corona marchionale, al colonnello livornese organizzatore, non molto esperto di clandestinità, della lotta di liberazione nella zona è tutto un moltiplicarsi di iniziative che determineranno le condizioni per raffermarsi della lotta di liberazione. Certamente il complesso quadro politico italiano e toscano di quei giorni doveva costituire un bel rompicapo per i servizi di sicurezza come è attestato non solo dalla qualifica di “comunista” , attribuita sbrigativamente e frequentemente anche a quegli oppositori del nazifascismo che tali non erano, ma anche dalla inclusione nel terzo capitolo — dedicato agli “Elementi antitedeschi e antifascisti” — degli appartenenti al Mgir (Movimento dei Giovani Italiani Repubblicani), movimento che trovò adepti fra i giovani fascisti soprattutto fiorentini, parte dei quali finì poi per schierarsi con la Rsi e/o divenire agenti dei servizi di spionaggio tedeschi12; l’inclusione di questo movimento fra gli oppositori sembrerebbe doversi far risalire al fatto che essi, pur definiti “neu-Faschisten”, nel tentativo di dar nuovo credito al fascismo, puntavano ad emarginare i vecchi e ormai screditati gerarchi locali, tentando anche, secondo l’estensore del rapporto, di porre in secondo piano la figura dello stesso Mussolini. Tentativo che, stando a quanto è detto nel quarto ca
pitolo, trovava consensi anche negli ambienti italiani filotedeschi, di cui è riportato anche il disagio per l’eccessivo spazio assunto dal Pfr nella struttura della Rsi fino al punto di sostituirsi, almeno in parte, anche all’esercito; tutti aspetti, questi, che, incidevano negativamente sull’atteggiamento della maggior parte della popolazione, prostrata dalle privazioni indotte dalla guerra e propensa, anche per formazione mentale, ad accogliere le indicazioni della propaganda angloamericana.
Il quinto ed ultimo capitolo si rivela di particolare interesse poiché evidenzia non solo il comportamento arrogante e violento delle truppe naziste nei confronti della popolazione italiana — comportamento che in taluni casi era istigato dagli stessi comandi inferiori della Wehrmacht o riceveva di fatto anche la copertura, almeno parziale, dei tribunali militari germanici chiamati a giudicarci reati commessi — ma anche la natura dei rapporti intercorrenti fra i comandi tedeschi e le autorità politiche e amministrative della Rsi, cui si negavano mezzi e non si lesinavano umiliazioni — la mancata restituzione della visita di cortesia al prefetto ed al federale di Livorno da parte del comandante germanico della piazza o le lunghe attese cui dovevano sottostare il vicefederale ed il tenente della milizia prima di aver un colloquio con il comandante del presidio di Pistoia — pur pretendendo da essi efficienza e sollecitudine nell’esecuzione degli incarichi loro affidati; comportamenti che suscitavano le decise critiche del capo dell’Abwehr- trupp 371, sonderfùhrer Gruenhagen, il quale metteva in rilievo il disagio che doveva serpeggiare fra gli esponenti salotini locali, portando ad esempio l’atteggiamento del federale livornese, e sollecitava provvedimenti
11 Claudio Pavone, Una guerra civile: saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1991, p. 25.12 Per maggiori notizie sul Mgir Cfr. Carlo Francovich, La Resistenza a Firenze, Firenze, La Nuova Italia, 1962, pp. 52-55 e Marcello Coppetti, La “fronda”fascista, Firenze, Il giornale di bordo, 1983.
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volti a favorire il potenziamento e la funzionalità della milizia fascista. In quale misura questi rilievi riuscissero nei mesi seguenti a modificare la situazione non è possibile stabilirlo allo stato attuale delle ricerche, certo è che la situazione tratteggiata nel rapporto in questione corrisponde in buona parte a quella allora esistente, come è dimostrato tra l’altro dalla corretta individuazione delle zone di “ribellismo”, che nella primavera successiva vedranno il sorgere o ospiteranno
Br. B. Nr. 2/43 G. Kdos17 ottobre 1943
Allegato: 1 schizzo d’insieme sulla situazione delle bande
AH’Abwehrkommando 309 (1 e 2 copia)Al generale Kdo. LI Gebirge Armee Korps/ le (3 copia).Progetto (4 copia)
Rapporto sul viaggio di ricognizione nella zona Lucca-Pistoia-Prato-Firenze-Livorno-Pisa dal 9 al 15 ottobre 1943Scopo del viaggio: valutazione dello stato delle misure di sicurezza, stabilire relazioni, preparazione di una rete informativa.
I. Fonti di informazione
Nel seguente rapporto le fonti vengono indicate mediante cifra (es. Al, B3, ecc.).
A. Lucca1) il comandante del luogo, capitano Ludwig2) il Gruppe Geheime Feldpolizei 637 (L)3) tenente Camillo Cerboneschi, ufficiale dell’Ufficio di informazioni politiche della Milizia4) caporale della Milizia Tommaso Stussi5) sottufficiale della Milizia Ezio Tirinanzi6) sottufficiale della Milizia Pellegrino Papera7) sottufficiale della Milizia Papini8) sottufficiale della Milizia Rosso9) sottufficiale della Milizia Palla10) signora Rosa Gennari, abitante a Marlia, S. Caterina (nata in Germania)
alcune delle più efficienti formazioni parti- giane toscane. Abbiamo ritenuto opportuno rendere noto il documento in questione poiché, ci pare, possa risultare utile alla comprensione del processo che creò le condizioni indispensabili al profondo radicamento della guerriglia in una zona di grande importanza per la Wehrmacht, inutilmente accanitasi con le più dure e sanguinose forme di repressione.
Giovanni Verni
Valutazioni: A3 si è impegnato con notevole attività nella collaborazione con gli ufficiali tedeschi. Le sue informazioni appaiono attendibili, poiché sono state ripetutamente confermate da parte tedesca. Egli dispone di una serie di informatori (quelli da A4-A9), i quali sono stati da lui avvicinati per l’attuazione degli incarichi affidatigli. Con AIO si è progettato di stabilire un collegamento. Essa ha ripetutamente fornito informazioni ad Al. Con A2 c’è stato un abboccamento sulla situazione. Sono stati accettati alcuni rapporti non perfezionati.
B. Pistoia
1) il comandante della piazza, tenente colonnello conte von Hardenberg2) tenente Siracusa, ufficiale dell’Ufficio di informazioni politiche della Milizia3) vicefederale Celli
Valutazioni: il collegamento con B2 e B3 è stato stabilito dalla ex le della 90 Panzergrenadiere Division, colonnello Kristomanus, il quale ha collaborato con essi per qualche tempo. B2 e B3 sono disponibili ed animati dalla migliore volontà di una positiva collaborazione. I loro rapporti appaiono attendibili.
C. Prato
1) commissario del fascio Gino Bresci, Casa del fascio, piazza Vittorio Emanuele, tei. 2314, 2315
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2) maggiore della Milizia Danilo Sanesi133) Eckberger, svizzero tedesco, proprietario di una ditta di spedizioni in Prato4) Milano-Alieto, Prato, via Calimaia, 3
Valutazioni: Cl e C2 finora non hanno collaborato con i servizi tedeschi e non sono ancora provati. Con C3 è stabilito il collegamento. La sua possibilità di impiego viene esaminata. C4, il quale ha già portato dei rapporti, è previsto per l’istituzione dei collegamenti.
D. Firenze1) comandante militare, colonnello von Ku- nowski2) console generale dottor Wolf3) maggiore della Schtzpolizei Star4) capitano dei Servizi di Sicurezza Gòbel5) dottor Siebenhiiner, direttore facente funzioni dell’Istituto tedesco di storia dell’arte di Firenze6) generale della Milizia Marino, comandante della VII zona7) generale dei Carabinieri Calino8) Giuseppe Varrocchi, viale principessa Margherita, 43, tei. 248859) Vanetti, capo del personale viaggiante della stazione fiorentina di Campo di Marte10) Giuseppe Lombardi11) Angiolo Bertini, via Aretina
Valutazioni: D3 e D4 hanno già collaborato strettamente con D6 e D7; D4 particolarmente con un certo capitano Carità14 della Milizia. La Milizia viene indicata come sicura. D7 viene indicato da D2 come persona fidata, però pare necessaria riservatezza. D8-D11 sono previsti come informatori.
È prevista l’installazione di una succursale a Firenze sotto il sottufficiale Spinner. Il sottuffi
ciale Spinner è stato lasciato il 14 ottobre a Firenze ed ha già avviato il lavoro. Nei prossimi giorni dovrà essergli assegnato un assistente della Sicurezza ed una autovettura.
E. Livorno1) Comandante del luogo colonnello Zallmer- Derbe2) console Bauer3) federale Paglia4) il prefetto della provincia di Livorno
Valutazioni: E3 ed E4 i primi due giorni erano in servizio15. E4 era già attivo prima del 25 luglio come prefetto di Livorno. E3 è un fascista convinto e assai energico e volenteroso. I suoi rapporti appaiono utili ed attendibili.
F. Pisa1) Comandante della città, maggiore Giinther2) De Angelis, segretario dei sindacati fascisti3) Pietro Conti, finora a Pisa, adesso a Viareggio presso il fascio, attivo nel servizio segreto del partito
Valutazione: con F2 non è stato possibile stabilire nessun rapporto, poiché egli per il momento si trova a Roma. Ugualmente non è stato possibile incontrare F3. Entrambi vengono qualificati da FI come buoni informatori. Prevista la istituzione di rapporti.
II. Situazione delle bande(confronta schizzo allegato [qui non obbligato])
A. Lucca
Si delineano due zone di bande: 1) monti delle Pizzorne, fra Lucca, Bagni di Lucca e Pescia; 2)
13 Con molta probabilità si tratta di Duilio Sanesi, che rimase ferito gravemente in uno scontro con i partigiani, verificatosi il 3 gennaio 1944 a Valibona, località fra Prato e Firenze, e deceduto dieci giorni dopo nell’ospedale di Prato a seguito delle ferite; cfr. Michele Di Sabato, La battaglia di Valibona, Prato, Comitato unitario per la difesa dell’ordine democratico del Comune di Prato, 1992.14 Mario Carità dopo l’8 settembre 1943 fu comandante di un reparto speciale, nominalmente dipendente dalla 92a legione della Mvsn nma di fatto dal comando del Servizio di sicurezza germanico di sede a Firenze; cfr. C. Franco- vich, La Resistenza a Firenze cit., in particolare p. 87.15 Alla data dell’otto settembre 1943 il prefetto di Livorno era Riccardo Ventura, che dal 16 agosto precedente aveva sostituito Giannino Romualdi; quest’ultimo assunse nuovamente l’incarico di prefetto di Livorno in data primo
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la Garfagnana, cioè l’alta valle del Serchio, fra Piazza al Serchio e Barga. Le informazioni per ciascuna di queste aree sono state elencate in ordine cronologico. Seguono alcune notizie sull’attività delle bande in altre zone.
1. Monti delle Pizzorne8 settembre. Matraia e S. Pancrazio (A3). In ognuna di queste due località lavoravano 50 prigionieri inglesi. Quando la truppa italiana di vigilanza si è squagliata dopo l’armistizio abbandonando le proprie armi, i prigionieri sono fuggiti nei monti; essi pernottano nei casolari, vengono raccolti nei castagneti e da allora sono stati mantenuti dai loro ex datori di lavoro.
8 settembre. Marlia (AIO). Nella villa reale erano occupati cinquanta prigionieri di guerra. Essi sono fuggiti alla proclamazione dell’armistizio e da allora sono assistiti dall’amministratore della villa.
25 settembre. Pescia (A2). Nei monti a nord di questa località, presso Pietrabuona, una banda di italiani armati.
Inizi ottobre. Villa Basilica (Rapporto le d. 90. 1. Panzer Grenadiere Division). Presi prigionieri 2 inglesi e 1 disertore italiano.
Inizi ottobre. Boveglio (A3). Attraverso La Foce presso Boveglio (vicino a Colorno e Ropracon- do [sic!]) sono arrivati badogliani e inglesi diretti verso Bagni di Lucca (dunque a nord).
15 ottobre. Boveglio (A3). Un negozio di alimentari di Boveglio con una macchina rifornisce le bande di viveri in scatola; guidatore della macchina un certo Masetto, abitante in Lucca, piazza S. Michele.
15 ottobre. Casoli (A3). Le bande che si trovavano sotto un capitano di aviazione fra Casoli e Bagni di Lucca si sono spostate verso i monti delle Pizzorne, cioè a sud, per effetto dei movimenti di truppe tedesche (sulla strada S. Marcello-Ba- gni di Lucca).
15 ottobre. Matraia. Là due prigionieri di guerra inglesi si spacciano per evacuati francesi. Essi vengono preavvertiti telefonicamente dal maresciallo dei Carabinieri di Ponte a Moriano dei movimenti delle truppe tedesche. Questo rapporto viene confermato da Valgiano.
Repressione. Finora solo sporadica (cfr. il rapporto della 90 1. Panzer Grenadiere Division. Un progetto di azione del 23 settembre si trova fra gli atti di A2. Il piano prevede un attacco concentrico da nord (Lugliano e Benabbio), da est (Villa Basilica, Pontore, Boveglio) e da sud ovest (Matraia). Inoltre in alcuni rapporti vengono indicate le persone da arrestare per il sostegno alle bande.
2. Zona della GarfagnanaQui abita molta gente di modesta estrazione, che ha fatto soldi con il commercio delle figurine di gesso in Inghilterra e in America; essa sostiene le bande con raccolte, con trasmissione di informazioni (per questo vengono usate anche auto private) e generalmente in ogni maniera. Anche i carabinieri di Barga e Gallicano sono attivi contro di noi (A3).
15 ottobre Gorfigliano (A3). Là si nascondono prigionieri di guerra inglesi.
15 ottobre Gallicano-Tiglio-Biaccioni (Al). Dislocato là un maresciallo tedesco cammuffato da inglese. Notata attività di bande.
15 ottobre Piazza al Serchio (A3). Là molti prigionieri di guerra inglesi, che sono fuggiti.
15 ottobre Castelnuovo Garfagnana (A2). Anche là prigionieri di guerra inglesi fuggiti.
3. Varie25 settembre Abetone (A2). Le indagini, eseguite sulla già in precedenza segnalata attività delle bande colà, non hanno potuto individuare nessuna attività da parte di quest’ultime.
15 ottobre Lunate (A3). In questo sobborgo di Lucca si dovrebbero nascondere dei prigionieri.
15 ottobre Faeta (A3). Là venticinque prigionieri di guerra inglesi sono nascosti presso contadini. Non è stato possibile finora rilevare la situazione di questo paese.
B. Pistoia
Due principali zone di bande: 1. a nord di Pistoia, nell’Appennino; 2. a sud di Pistoia, sul monte Albano. Nel territorio a nord sono state iniziate reazioni approntate dal capitano Kristo-
ottobre 1943, per designazione della Rsi. Dal contesto appare ipotesi attendibile che l’estensore della relazione si riferisca ai Romualdi. Per le nome dei suddetti prefetti v. Mario Missori, Governi, alte cariche dello Stato, alti magistrati e prefetti del regno d ’Italia, Roma, Ministro dei Beni Culturali e Ambientali, 1989, pp. 503-504.
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manus; egli ha voluto riferire direttamente sulla sua attività ed ha comunicato solo che là sarebbero attivi paracadutisti inglesi e che un generale Aselli sarebbe l’organizzatore delle bande. Perciò si può riferire solo sul territorio a sud.
Monte AlbanoA quanto pare si trova nelle vicinanze di Case Nuove di Masiano dove c’era un campo di concentramento per prigionieri di guerra. Da là e forse anche dal campo di concentramento di Al- topascio, anch’esso poco distante, dove di nove- mila prigionieri ne sono rimasti solo ottocento, i prigionieri sono fuggiti sul monte Albano. Da allora essi si spostano là intorno, in piccoli gruppi di sei sette uomini e vengono aiutati dalla popolazione, come dai numerosi civili inglesi e americani là internati (B2).
14-16 settembre. Cecina, presso Larciano. Due inglesi alloggiati dal parroco, uno da Pietro Dami in via del Popolino (B2).
25 settembre. Casalguidi. Là accertati prigionieri inglesi. Aiutati dalla popolazione (B2).
25 settembre. Burlano e Bacchereto. Fra questi paesi e il S. Baronto prigionieri inglesi (B2).
6 ottobre. Cantagrillo. Là prigionieri inglesi aiutati dalla popolazione (C2).
C. Prato
Due principali zone di bande: 1. a nord-ovest di Prato, presso Montale; 2. a nord di Prato, lungo il tratto della ferrovia principale per Bologna.
Metà settembre. Montale. Nella casa colonica di Casa al Bosco, presso Montale, erano impiegati 10 prigionieri inglesi. Alla proclamazione dell’armistizio essi sono fuggiti in una casa colonica isolata nei dintorni di Case Basse, precisamente Ponte di Luciaccio, non lontano da Montale. Essi sono mantenuti dalla popolazione (C2 e A2 e C4).
11-13 ottobre. Prato. Nella notte dall’ 11 al 12 ottobre e nella notte dal 12 al 13 ottobre i soldati della milizia di Prato di guardia alla linea ferroviaria principale Prato-Bologna sono stati fatti segno a colpi di arma da fuoco (C2).
13 ottobre. Vernio-Montecuccoli-Vaiano. Attività di bande in questa zona, che si trova nel tratto principale ricco di tunnel della linea ferroviaria principale Prato-Bologna (D7).
D. FirenzeBande soprattutto nella zona montagnosa a nord di Firenze e precisamente in prossimità di tutte le strade dei passi che portano ai monti e delle linee ferroviarie. Ma anche, oltre a ciò, bande a est, sud e ovest di Firenze. La maggior parte dei seguenti rapporti sono senza data.
8 settembre. Firenze. Il giorno dell’armistizio una colonna di automezzi con apparecchiature (anche radio) e armi ha lasciato le caserme fiorentine, seguendo la strada maestra per Bologna in direzione nord. Il materiale potrebbe essere adoperato per l’addestramento delle bande (D5).
25 settembre. Campi. (Fra Firenze e Prato, vicino all’aereoporto di Peretola, immediatamente a nord dell’autostrada Firenze-Viareggio). Là circa cento militari italiani con armi, fuggiti, provenienti dalla caserma fiorentina del 127 reggimento di fanteria e dall’aereoporto militare di Pereto- la. È da supporre che questa banda si sia unita con la grossa banda situata su monte Morello (vedi sotto) a nord, vicinissimo a Campi (B2).
Fine settembre. Borgo S. Lorenzo (nella valle del Mugello, a nord di Firenze, non lontano dalla strada statale per Bologna). Là circa duecento soldati italiani fuggiti, la maggior parte armati (B2).
Senza data. Londa (30 km. da Firenze, situazione ancora non ben definita). La famiglia Pan- zani ha alloggiato un ufficiale inglese (D2).
27 settembre. Cerreto Guidi (a ovest di Firenze, a nord di Empoli). Banda, secondo quanto si dice, di oltre cento soldati italiani con armi, appoggiata dal segretario politico Torzini (B2).
Senza data. Impruneta (a sud di Firenze). Là si trova una banda (D9).
Inizi ottobre. Monte Busoni (presso S. Donato in Collina, a sud-est di Firenze). Là attività di bande (D5).
Inizi ottobre. Figline (nel Valdarno, a sud-est di Firenze, sulla linea ferroviaria Arezzo-Roma). Bande hanno estorto viveri ecc. alla tenuta della famiglia Brunetti, posta nelle vicinanze (D5).
Inizi ottobre. Monte Senario (fra Firenze e Borgo S. Lorenzo, a est della strada statale per Bologna). Là attività di bande. Forse collegata con la riferita attività di bande a Borgo S. Lorenzo? (vedi sopra) (D5).
13 ottobre. Monte Morello (a nord-ovest di Firenze, vicinissimo alla città). Presso Cercina e
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Pratolino una banda ben armata di soldati italiani fuggiti. I dati sulla consistenza oscillano tra i duecento e i tremila uomini. Comandante, a quanto si dice, il generale italiano Pozzolini. Pare che questa banda aspiri a unificarsi con la banda che si trova presso S. Crispino (vedi sotto). Il tredici ottobre la banda di monte Morello ha respinto trenta soldati della milizia che muovevano da Pratolino contro di essa! In questa occasione essa ha usato delle mitragliatrici. Reazione in corso da parte di DI (DI, D2, D6, D7).
13 ottobre. Passo della Futa (sulla strada statale per Bologna). Là attività di bande (D7).
13 ottobre. Crispino-Fantino-Marradi (sulla ferrovia e la strada per Faenza). Là una banda italiana sotto la direzione di un ufficiale inglese; secondo quanto si dice, essa è rifornita quotidianamente per via aerea e mantiene rapporti con la banda su monte Morello (D2).
13 ottobre. S. Benedetto in Alpi (sulla strada Firenze-Forlì, vicinissimo al passo del Muragliene). Una banda ha attaccato con fucili e bombe a mano la locale caserma dei carabinieri ed ha sopraffatto la guarnigione (D7).
13 ottobre. Monte Falterona (un po’ a est della strada Firenze-Forlì, vicinissimo al passo del Muragliene). Là si trova una banda attiva. Forse è la stessa precedente o con essa in collegamento (D7).
13 ottobre. Bibbiena-Camaldoli (nella valle del Casentino, a est-sud-est di Firenze). In questa zona attività di bande (D8). L’informatore si offre per indicare la strada che porta al nascondiglio della banda.
E. Livorno
Nella provincia di Livorno finora non è stata accertata attività di bande e anche non è probabile, poiché la provincia è pianeggiante, aperta e assai popolata. Della banda che inizialmente si diceva dovesse trovarsi nei monti sopra Cecina attualmente non si hanno più notizie.
F. Pisa
Secondo i rapporti finora raccolti le bande si trovano solo sui monti Pisani, che sono posti a nord-est di Pisa, fra Pisa e Lucca. Si tratta probabilmente dei prigionieri inglesi fuggiti dal lager
di Altopascio, dove di novemila prigionieri ne sono rimasti solo ottocento.
13 ottobre. Monti Pisani. In questi giorni è in corso un’azione contro la banda che si trova là (FI). Lo stesso giorno l’Ic di Viareggio, tenente Fahrenholz, ha veduto una gigantesca O, che le bande hanno incendiato nei boschi sul versante dei monti prospiciente il mare.
G. Deduzioni finaliNelle bande, che è stato possibile individuare nell’area oggetto del rapporto, si trovano riuniti prigionieri di guerra angloamericani fuggiti e soldati italiani disertori. Secondo il rapporto del capitano Kristomanus, il compito assegnato a queste bande dall’esercito angloamericano d’invasione nel caso di una ritirata tedesca sugli Appennini è di far saltare strade e ponti e di ostacolare la ritirata stessa. Come termine di un imminente sbarco angloamericano in Toscana secondo le bande è ritenuta valida la fine di ottobre (circa il 30 ottobre), secondo i carabinieri della Garfagnana, a quanto pare, il 20 ottobre, secondo la popolazione di Firenze il 28 ottobre.
Difficilmente i suddetti compiti saranno estesi a tutte le bande. Nell’area di Lucca, con ogni evidenza, si tratta soltanto di un relativamente piccolo numero di prigionieri di guerra angloamericani fuggiti, i quali vogliono evitare un arresto da parte nostra fino all’atteso sbarco angloamericano; ad essi sembrano essersi uniti anche alcuni soldati e ufficiali italiani disertori. Lo stesso vale per la banda sul monte Albano, nella zona di Pistoia, e per la banda presso Montale, nella zona di Prato. Le cose sembrano andare diversamente nell’area a nord di Pistoia e Prato e soprattutto nella zona a nord ed est di Firenze. Là le bande sono in maggior numero, dispongono di un buon armamento e di ufficiali comandanti (italiani o inglesi), sono in collegamento reciproco e, si suppone, anche con le truppe d’invasione angloamericane per attacchi contro le ferrovie, contro la milizia e contro i carabinieri. Esse sono appostate nelle immediate vicinanze delle poche strade e linee ferroviarie, che dalla Toscana vanno verso nord attraverso l’Appennino: sono dislocate sulla linea ferroviaria Firenze-Prato-Bologna, sulla strada Firenze-Bologna (passo della Futa), sulla linea ferroviaria e la strada Firenze-Faenza, sulla strada Firenze-Forlì (passo del Muraglione) e sul-
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la strada e linea ferroviaria Firenze-Arezzo. È da presupporre che vi siano bande anche sulla linea ferroviaria e sulla strada Pistoia-Bologna (passo di Porretta). Nella zona di Pisa il rapporto su un importante segnalazione — le bande hanno appiccato il fuoco sul versante verso il mare dei monti Pisani — induce a ritenere che queste bande siano collegate con l’esercito di invasione angloamericano, oppure che quantomeno cerchino questo collegamento.
III. Elementi antitedeschi e antifascisti
A. Zona intorno a Lucca
LuccaIl federale Morseo16, il quale era già in carica prima del 25 luglio 1943, deve avere persone infide nella sua cerchia. Egli deve essere odiato dalla popolazione (A3).
I carabinieri di Lucca sabotano l’ordine di presentazione alle armi per gli appartenenti all’ex esercito italiano, invitando quest’ultimi a presentarsi per il servizio con essi. Perciò la già numerosa forza dei carabinieri sarebbe notevolmente accresciuta (A3).
Viene riferita la vendita di contrabbando in Lucca di materiali di cuoio da parte delle fabbriche e dei magazzini di cuoio (A3).
I carabinieri e la pubblica sicurezza di Lucca su richiesta di un comando tedesco di Viareggio (probabilmente il le della 371 Inf. Div.) hanno consegnato a questo un elenco di comunisti della città. Di conseguenza i comunisti devono essere stati messi in guardia dai predetti uffici italiani (A3).
Un dipendente della pizzicheria di Boveglio, Masetto, abitante a Lucca, piazza S. Michele, aiuta le bande (cfr. “Situazione delle bande”, p. 3 [quip. 551]) (A3).
II maggiore Bonelli, di Lucca, ed il maggiore Pesci, di Lucca (via Filunga) fanno propaganda sobillatrice tra l’altro a Barga. Essi vanno dicendo che i tedeschi, nell’eventualità di una ritirata da Lucca, avrebbero minato tutta la città. Così, ad esempio, sotto l’acquedotto si troverebbero
cinquecento bombe. Inoltre che i tedeschi hanno bastonato della gente sulle strade e l’hanno cacciata dalle sue case (A3).
Bardocchi Alberto, via Molinetto 4, ufficio via S. Croce 62, fa propaganda antitedesca. Egli deve venire arrestato immediatamente per la sua pericolosità (A3).
I due funzionari della Prefettura Pardini e Ragghianti si vantano entrambi di essersi sottratti al richiamo e affermano di conoscere la data dello sbarco inglese in Toscana.
MarliaL’amministratore della tenuta della Villa Reale in Marlia aiuta le bande (cfr. “Situazione delle bande”, p. 3 [qui p. 551]) (AIO).
Ponte a MorianoQuesto paese dovrebbe essere un nido di comunisti. Il maresciallo dei carabinieri del luogo aiuta le bande. Per controllare la sua lealtà gli si dovrebbe chiedere un elenco nominativo di comunisti che si trovano nella zona di sua competenza (A3). Cfr. anchep. 3 [quip. 551] (15 ottobreMatraia).
BoveglioIn Boveglio dovrebbe trovarsi una grande quantità di casse dal contenuto ignoto, probabilmente da consegnare alle bande.
Bagni di LuccaI carabinieri là di presidio si rifiutano di procedere alla repressione delle bande, dicendo che essi non hanno ricevuto nessun ordine in tal senso fino al 20 ottobre 1983. In questo paese dovrebbe essersi fermato un colonnello dei carabinieri collaboratore delle bande. Egli deve aver già lavorato a Livorno contro i tedeschi (E2).
GallicanoUna fabbrica si esplosivi di Gallicano (Sipe), che ha anche personale tedesco, sarebbe in procinto di licenziare i suoi operai e chiudere l’impresa (A4).
Valentini Italo di Gallicano, via S. Giovanni, presso la Casa del fascio, dovrebbe essere un dirigente comunista ed essere in collegamento con gli inglesi, ai quali dà notizie sulle truppe tedesche (A2).
Recte Michele Morsero, cfr. Mario Missori, Gerarchie e statuti del Pnf, Roma, Bonacci, 1986, pp. 117 e 245.16
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Fornaci di Bagno (recte di Barga, ndt)
I direttori delle locali fabbriche di munizioni e metalli leggeri hanno ridotto i loro operai (seimila) fino a duecento uomini e affermano che ciò è dovuto a disposizioni dei tedeschi. La maggior parte degli operai deve aver vagato per i monti oppure deve essersi unita alle bande (A4).
BargaAnalogamente una fabbrica di esplosivi di qui, che aveva anche personale tedesco, sarebbe in procinto di licenziare i suoi operai (A4).
Il maresciallo dei carabinieri di Barga, Merlini, ha esortato i locali carabinieri alla fuga e ha dato loro modo di predisporla. Questa deve essere già avvenuta, essendosi i carabinieri procurati abiti civili e trovate abitazioni private (A3).
Castelnuovo GarfagnanaUna maniera di lignite della società Orlando in questo paese ha licenziato tutti gli operai (quattrocento uomini), i quali in massima parte si trovano ora sui monti (A4).
I carabinieri di stanza in questo paese lasciano indisturbati i prigionieri di guerra inglesi fuggiti e dicono loro che in verità i prigionieri non sono gli inglesi, ma gli stessi carabinieri.
B. Zona intorno a Pistoia
PistoiaNella fabbrica S. Giorgio si è costituita una “Commissione rossa”, i cui componenti sono conosciuti nominativamente (B2).
Da un treno occupato da trecento operai dipendenti dalla fabbrica S. Giorgio l’otto ottobre 1943 sono stati sparati dei colpi sulla milizia ferroviaria (B2).
Talini Adolfo aiuta i prigionieri (B2).Baldini, piazza d’Arme, e Marcello, via Erbosa
5, sono informati sul luogo dove si trovano le armi portate via dall’ebreo Philippson (cfr. sotto Empoli). Le armi sarebbero state nascoste lungo la via Erbosa (B2).
L’ex caporalmaggiore Ventavoli aiuta le bande (B2).
Il tenente d’aviazione Gusmano17 aiuta le bande (B2).
Fagioli aiuterebbe le bande (B2).Fangoni aiuta ugualmente le bande (B2).Lottini Renato, proprietario del negozio di ar
ticoli fotografici di via Curtatone e Montanara, e Maganelli, via Bengasi 19 o 21, aiutano ugualmente le bande (B2).
Magrini Franco, corso Vittorio Emanuele 26, fa propaganda antitedesca. Egli soggiorna spesso in un piccolo albergo in Lizzano Pistoiese, nel comune di S. Marcello Pistoiese, presso suo zio Carradori Cesto (DIO).
LamporecchioIl soldato fuggiasco Pacini fa propaganda in Lamporecchio contro il richiamo nell’esercito italiano e nella milizia (B2).
I civili inglesi internati negli alberghi e nelle ville di Lamporecchio devono potersi muovere piuttosto liberamente e indisturbati. Essi fanno propaganda e aiutano i prigionieri di guerra inglesi fuggiti (B2).
Un dottore polacco, che abita a Lamporecchio ma si ritiene debba essere di nascita siriana o greca, proprietario di due negozi di radio a Firenze, aiuterebbe le bande. Egli possiede un lasciapassare tedesco (B2).
II podestà di Lamporecchio, un sostenitore di Badoglio, aiuta gli internati. Il 25 luglio 1943 egli ha tenuto un discorso su Badoglio dalla finestra del municipio.
Masiano - CasenuoveUn marchese C.E. aiuta i prigionieri inglesi fuggiti da là. Egli li rifornisce, tra l’altro, con biancheria che porta ancora la sua corona di marchese (B2).
Cecina di Larciano
Dami Pietro, via del Popolino, svolge propaganda antitedesca insieme a Andreini Ugo e Bandelli Vittorio (B2).
17 Recte Giuseppe Cusmano; per la sua attività sulla montagna pistoiese al momento dell’armistizio e nei mesi dell’autunno del 1943 mi sia consentito di rinviare a Giovanni Verni, La brigata “Bozzi”, Milano, La Pietra, 1975, pp. 40, 52, 57.
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Acerbi Ada aiuta prigionieri inglesi fuggiti (B2).
MarescaL’ostetrica locale fa propaganda comunista. Altrettanto tre ebrei nella pensione “Cordella” (B2).
C. Prato
Lombardi Renato, via S. Fabiano 28, proprietario di due fabbriche di tessuti, dovrebbe aver nascosto con la sua amante Lina Bussotti Martini delle armi sotto delle balle di stoffa (DI). Frattanto il Lombardi, secondo le informazioni di Cl, si è trasferito, ma abita ancora a Prato. Ci seguirà la questione.
Le fabbriche di Prato e dintorni hanno avuto l’ordine di comunicare entro una data stabilita le loro giacenze al Manufakturen-Trust di Milano. I direttori di fabbrica di Biella nella zona di Prato dovevano far spedire la corrispondenza al riguardo a Prato. Il direttore delle Poste di Prato, Alfio Bonelli, si è rifiutato di spedire la posta e l’ha lasciata in giacenza fino ad oggi. Secondo l’opinione degli informatori si tratta di un evidente sabotaggio per compromettere le consegne dei tessuti (Cl). La questione è stata riferita al Servizio di Sicurezza di Firenze.
Nelle fabbriche di Prato hanno luogo raccolte in favore delle bande. In Prato si trova una stamperia clandestina di volantini. L’informatore è sulle sue tracce (C2).
D. Zona intorno a Firenze
FirenzeD2 ha riferito il seguente fatto verificatosi in Firenze, che caratterizza il comportamento dei carabinieri: il comandante dei carabinieri di Roma
aveva richiesto ai suoi sottoposti di prestar giuramento al partito fascista repubblicano. In conseguenza di ciò sono avvenuti scontri sanguinosi anche con truppe tedesche. La gran parte dei carabinieri è stata arrestata e deportata. Mentre il treno con gli arrestati era in sosta alla stazione di Firenze, i carabinieri hanno gettato dal treno dei volantini coi quali invitavano i carabinieri posti di sentinella a lasciare il loro posto e a fuggire. Altrimenti sarebbe loro accaduto quanto ad essi. In conseguenza di ciò circa ottanta carabinieri sono scomparsi da Firenze e probabilmente sono andati sui monti.
In occasione di un raduno della gioventù fascista repubblicana il 12 ottobre 194318 in Firenze è avvenuto uno scontro fra i vecchi squadristi e i nuovi fascisti, poiché, a quanto si dice, questi evitavano di mettere in risalto il nome di Mussolini al fine di guadagnare al partito fascista repubblicano anche quella parte della popolazione, che biasimava Mussolini (D5).
Nella notte dal 13 al 14 ottobre 1943 si sono avute a Firenze piccole sparatorie, che potrebbero esser messe in relazione all’avvenimento riportato sopra. Nelle strade sono stati affissi ritratti di Mussolini.
L’attuale federale di Firenze, generale Onori19, dovrebbe essere stato proposto per l’incarico di comandante della milizia fiorentina. Egli viene indicato come una persona infida (D2).
Il prefetto di Firenze, Manganiello20, si è reso odioso alla popolazione di Firenze con una selvaggia opera di arresti. Egli ha fatto arrestare tutte le persone che in passato hanno ricoperto un ruolo secondario, anche se questo è avvenuto oltre trenta anni fa. Tra questi c’erano un generale ottantenne malato e la settantaseienne duchessa di Spoleto, degente. Entrambi sono scagionati da ogni accusa da colui che ha fornito questa informazione (D2).
18 Cfr. Carlo Francovich, La Resistenza a Firenze cit., pp. 53-54 e Marcello Coppetti, La “fronda” fascista cit.,p. 20.19 Si tratta di Onorio Onori, uno dei primi aderenti al movimento fascista ed esponente di rilievo dell’ala intransigente del fascismo fiorentino. Alcune notizie sulla sua attività dopo l’otto settembre si trovano in Giuseppe Rossi, Romano Bilenchi, Firenze: settembre 1943, “La Resistenza in Toscana-Atti e studi dell’Istituto Storico della Resistenza in Toscana”, 1974, nn. 9-10, p. 14.20 Raffaele Manganiello era stato nominato dalla Rsi prefetto di Firenze in data 1° ottobre 1943, v. Mario Missori, Governi, alte cariche cit., p. 474; circa la sua attività come capo della provincia di Firenze V. Carlo Francovich, La Resistenza a Firenze” cit.
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L’officina Fiat (seimila uomini) e l’officina Galileo (duemila uomini) di Firenze sono in crisi; secondo quanto si dice, esse si accingono a licenziare i loro operai a causa della mancanza di materiali. Da Milano vengono riferite situazioni analoghe (D4).
Presso la famiglia Roselli, via C. Nigra 2 o 4, si tengono riunioni sotto la direzione di un maggiore italiano, che abita in via G. Mariani, 108 (D2).
Leati, figlio dell’avvocato Leati, è in relazione con il polacco di cui sopra si è parlato a Lamporecchio.
Il droghiere Dei Gerardo, in piazza dei Cerchi 1, dovrebbe avere nascosta nel suo negozio una radio trasmittente, mediante la quale egli è in col- legamento con il nemico (DII).
Nel quartiere di S. Spirito dovrebbero effettuarsi raccolte in favore delle bande (D5).
EmpoliL’ebreo Dino Philipson21, dirigente comunista, abitante a villa Fibbiani presso Empoli, è stato il caporione del saccheggio effettuato a suo tempo nella caserma dell’83° reggimento di fanteria a Pistoia. È pronto un elenco delle sue malefatte. Il Philipson è fuggiasco. È ricercato (B2).
E. Livorno
Nella casa del colonnello Odero22, via di Montenero, villa Carina, Quattro Palle, devono esserci armi nascoste. Là hanno regolarmente luogo riunioni di dieci-dodici persone. Come accertato, essi fanno propaganda antitedesca e si impegnano anche attivamente. Il fiduciario ha collocato un informatore presso di lui (E3).
Ardenza (sobborgo di Livorno)In Ardenza dovrebbero trovarsi dei comunisti. A suo tempo là fu sparato su soldati della 24 Panzer Grenadiere Division. Sono stati presi cento
ostaggi, però sono stati rimessi in libertà dopo alcuni giorni passati senza nuovi avvenimenti (El).
PiombinoIn Piombino si trovano due fabbriche metallurgiche, che lavorano il ferro dell’Elba. Là lavorano ottomila operai, che in prevalenza dovrebbero essere orientati verso il comuniSmo. Il fiduciario, già prima del 25 luglio 1943 aveva fra questi operai delle persone di fiducia e vuole infiltrarne di nuovo qualche altra. Secondo quanto si dice i direttori farebbero chiudere le fabbriche per mancanza di carbone (E4).
Vedi aggiunta al paragrafo E, p. 19 [qui p. 560]23
IV. La situazione politica attuale in Toscana
La presente situazione del popolo italiano è caratterizzata dalla straordinaria discordia politica interna. I vecchi squadristi fedeli a Mussolini si contrappongono ai neofascisti, i quali si allontanano da Mussolini poiché egli, a loro avviso, non è più idoneo a governare dopo gli avvenimenti del 25 luglio (si veda il già riportato incidente all’adunata della gioventù fascista repubblicana in Firenze). Mussolini ha perduto molti dei suoi ex sostenitori, poiché ha gettato il popolo in una dura guerra senza riconoscere sufficientemente la debolezza interna dell’Italia e si è lasciato ingannare dalla più ristretta cerchia del suo ambiente. Anche nei circoli italiani filotedeschi si sostiene che per dare nuovo impulso al movimento fascista si dovrebbe far cadere Mussolini. Il nome di Graziani è considerato di gran lunga più prestigioso e, a mo’ d’esempio, viene criticato che il richiamo degli ex appartenenti all’esercito italiano, al fine di ricostruire un’armata italiana, non sia stato emanato a suo nome, bensì dalle autorità
21 Philipson, uno dei primi sostenitori dello squadrismo fiorentino, dopo le leggi razziali venne inviato al confino; dopo l ’armistizio fu sottosegretario di Stato per la presidenza del Consiglio dei ministri nel gabinetto Badoglio a partire dal 1° febbraio 1944; v. Renzo Cantagalli, Storia del fascismo fiorentino 1919-1925, Firenze, Vallecchi, 1972; Id., Cronache fiorentine del ventennio fascista, Roma, Cadmo, 1981, p. 260; Mario Missori, Governi, alte cariche cit., p. 174.22 Recte tenente colonnello Domenico Odeilo, attivo nell’organizzazione antifascista livornese già durante il periodo del governo Badoglio, cfr. Ivano Tognarini, Là dove impera il ribellismo, Napoli, Esi, 1988, 2 voli.23 II riferimento è all’ultima pagina del testo originale paragrafo “Aggiunte al capitolo III” .
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locali (a Pistoia, per esempio, la chiamata in questione è stata firmata dal prefetto di Pistoia e dal comandante tedesco della piazza).
Nei circoli monarchici si contano particolarmente i carabinieri, i quali si sentono ancora profondamente legati al loro giuramento al re e lo considerano ancora adesso non responsabile degli avvenimenti del 25 luglio. I rapporti al riguardo riportati nel capitolo terzo illustrano a sufficienza il contrastante comportamento dei carabinieri. Altrettanto contrastante è il giudizio che si dà di loro da parte italiana e tedesca. Il console generale di Firenze ha dichiarato che essi sono ancora gli unici elementi efficienti per l’ordine italiano, di cui è assolutamente necessaria la conservazione. Le Kommandanturen di Firenze e di Lucca, come il Servizio e la polizia di sicurezza talvolta collaborano con essi. Il prefetto di Livorno ha una buona opinione dei carabinieri; il federale di Livorno, anch’egli un vecchio fascista, chiede quando verranno disarmati i carabinieri. I fascisti e la milizia di Lucca Pistoia e Prato mettono nel modo più assoluto in guardia dai carabinieri, i quali fanno il doppio gioco politico e difatti di casi del genere vi sono sicure testimonianze, particolarmente nella zona di Lucca.
D’altra parte i sostenitori di Badoglio non sempre appoggiano nello stesso tempo il re. Il recente comportamento del conte Sforza ha confuso ancora di più la situazione. La via d’uscita più radicale da questa situazione è stata presa dal battaglione paracadutisti “Nembo”, che è stato riportato sulla terraferma dalla Sardegna con la 90 1 Panzer Grenadiere Division e che non ha riconosciuto nessun governo italiano, ma ha prestato giuramento al Führer e combatte per un’Europa sotto la direzione tedesca. Il pericolo di una diffusione del comuniSmo è provocato dagli operai dell’industria licenziati e disoccupati, i quali di
vengono facile preda della propaganda comunista a causa dell’inadeguata assistenza ai disoccupati. Sarebbe necessario inviare celermente a lavorare in Germania tutta questa componente, se non sarà possibile darle lavoro in Italia.
I circoli ecclesiastici si comportano con riservatezza a prescindere da alcuni episodi di aiuto a fuggiaschi inglesi da parte di ecclesiastici. Il cardinale arcivescovo di Firenze, Della Costa24, è considerato dal console generale Wolf25 come persona di sicura affidabilità.
La comunità russa in Firenze, della forza di circa trecento persone, sotto la guida del principe Kousak si comporta altrettanto tranquillamente. Si tratta esclusivamente di emigrati antibolscevichi. Non è stato possibile trovare tracce di Nd sovietico.
La generale aspirazione del popolo italiano alla pace lo sospinge verso quella propaganda che gli promette questa pace. Su questo aspetto gioca la propaganda nemica. Essa si accorda alla situazione e alla mentalità italiana, orientata alla resistenza passiva: nessun aiuto ai tedeschi, riduzione della produzione ecc. Nell’area finora controllata non si sono verificati veri e propri atti di sabotaggio, fino alle due esplosioni al tunnel a nord di Prato, sebbene, ad esempio, la sorveglianza della stazione sia assai insufficiente. Casi più lievi di scomparsa di armi e furti di benzina e altro vengono riferiti, ad esempio, da Firenze. Le bande italiane sono più il risultato delle confuse condizioni italiane, che il prodotto di un pianificato sostegno del nemico e di una collaborazione coordinata della quale, comunque, cominciano a profilarsi gli inizi.
È fuori dubbio dunque che nelle mani di un capo attivo la formazione delle bande possa divenire un crescente pericolo per la sicurezza delle truppe tedesche e ciò potrebbe essere confermato
24 Si tratta del Cardinale Elia Dalla Costa, sulla cui attività nel periodo in questione si vedano: Carlo Francovich, La Resistenza a Firenze, cit.; Bruna Bocchini Camaiani, Il cardinale Dalla Costa, in Francesco Margiotta Broglio (a cura di) La Chiesa del Concordato, Bologna, Il Mulino, 1977; Id., Ricostruzione concordataria e processi di secolarizzazione. L ’azione pastorale di Elia Dalla Costa, Bologna, Il Mulino, 1983; Id., Per un profilo storico del cardinale Elia Dalla Costa, in II clero toscano nella Resistenza, Firenze, La Nuova Europa, 1975; Giulio Villani, Il Vescovo Elia Dalla Costa. Per una storia da fare, Firenze, Vallecchi, 1974.25 L’estensore della relazione si riferisce a Gerhardt Wolf, console germanico a Firenze, che cercò di contemperare i suoi doveri d’ufficio con l’amore per la città; su di lui e la sua attività nel 1943-1944 si veda quanto scrivono Carlo Francovich, La Resistenza a Firenze, cit., e, in chiave apologetica, David Tutaev, Il console di Firenze, Torino, Aeda, 1972.
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anche dalla situazione delle bande descritta nel II capitolo.
V. Le relazioni delle truppe tedesche con la popolazione italiana, particolarmente in vista dell’impiego degli ambienti disposti alla collaborazione
Data la caotica situazione italiana, è solo con molta difficoltà che il rapporto delle truppe tedesche con la popolazione italiana può seguire una linea chiara e inequivocabile. Per poter attirare a sé gli elementi attivi, disposti alla collaborazione, gli uffici tedeschi devono trattare questi articoli in modo abile e corrispondente al carattere del popolo.
Gli elementi relativamente più sicuri si trovano nelle fila dei fascisti convinti e degli appartenenti alla milizia. Essi devono venire portati alla collaborazione nella maniera opportuna. Il personale della milizia e del fascio, con il quale si è preso contatto, si è mostrato sempre lieto di agire, ma finora non è stato impiegato. Non si deve rinunciare alla sua collaborazione per le sue specifiche conoscenze locali, particolarmente per il ridotto margine di fiducia su cui per il momento poggia in Italia la causa tedesca. Per un’efficace collabo- razione con questi italiani pronti all’azione sono però necessarie tre cose:
1) Si deve loro lasciare una sicura libertà di movimento e di autorità. Non appare ammissibile che il federale di Livorno, il quale è un fascista entusiasta, non disponga di una macchina per recarsi nella provincia da lui dipendente. La milizia né a Pistoia, né a Lucca ha avuto a disposizione un automezzo, sebbene abbia dato prova di essere pronta a collaborare. Con un automezzo essi possono lavorare diversamente e con pieno successo. Questa richiesta è stata presentata alle rispettive Kommandanturen. Agli appartenenti alla milizia di Lucca (A3-A9) sono stati rilasciati dei documenti a tempo limitato, che li sollevano dal- l’obbligo del servizio e danno loro la possibilità di circolare liberamente in abito civile per le strade di Lucca e dintorni.
Un ulteriore problema è la forza o meglio la debolezza numerica della milizia. Il generale della milizia Marino dispone solo di trenta uomini in Firenze. Marino propone di selezionare dalle file dei soldati della milizia fiorentini dislocati dalle
Ss a Imola gli elementi sicuri e di riportarli a Firenze. Questi soldati a suo tempo erano stati fatti prigionieri in Corsica, poiché alcune unità italiane si erano mosse contro quelle tedesche. Anche a Pistoia e Lucca dovrebbero essere mandati in numero sufficiente soldati della milizia addestrati, ai quali affidare da parte tedesca i compiti che devono essere assolti. Anche la questione dell’armamento dei soldati della milizia può venire rapidamente chiarito e coerentemente risolto; in alcune città, ad esempio Lucca, essi sono disarmati.
2) Per una prevedibile collaborazione tedesca con gli italiani, è necessario tener conto della loro mentalità. Così il prefetto e il federale di Livorno attendono che il comandante della città renda loro la visita, dopo che essi gli avevano fatto una visita di presentazione. Neanche corrisponde alla dignità di un altro funzionario politico, quale il federale di Livorno, il dover svolgere la sua attività ed effettuare le sua visite a piedi. È altrettanto insostenibile che il tenente della milizia e il vicefederale di Pistoia per ogni contatto, che essi hanno nell’interesse della causa tedesca, con il comando della piazza debbano attendere per ore e ore. Qui deve essere trovato un altro sistema.
3) Ma prima di tutto è necessario che le truppe tedesche in Italia non si presentino come un esercito di occupazione fino a quando da parte tedesca viene riconosciuto un governo italiano.
A questo proposito purtroppo diversi rapporti riferiscono di eccessi e violenze compiuti da soldati tedeschi, i quali inaspriscono la popolazione e contro i quali non è si è sempre proceduto con sufficiente energia. Anche se è comprensibile che lo stato d’animo dei soldati tedeschi nei confronti degli italiani non è sempre il migliore, a questo atteggiamento devono essere anteposti gli interessi superiori.
Dai carabinieri di Firenze vengono riferiti eccessi di soldati tedeschi a Pelago e Tosi, presso Vallombrosa. Là essi hanno preso ottocentocin- quanta fucili e sono penetrati in abitazioni private. A S. Leonardo Treponzio, presso Lucca, due soldati tedeschi hanno minacciato la gente per la strada ed hanno portato via le loro cose (rapporto di A3).
Inoltre il federale di Livorno ha riferito, tra l’altro, che soldati tedeschi hanno requisito da un hotel venti materassi e li hanno venduti per strada a prezzi da usuaraio. La stessa cosa è avvenuta con sigarette che erano state rubate, le quali
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sono state vendute a cinquanta lire il pacchetto. Sono numerosi i civili investiti dai motociclisti e le motociclette portate via (in altre città sono state requisite tutte le motociclette, anche a persone che dimostravano che queste occorrevano loro per recarsi al lavoro). A un vecchio fascista e amico dei tedeschi di Livorno è stato portato via sulla strada il suo camion da un ufficiale tedesco, senza che egli ricevesse anche soltanto una ricevuta.
Il comandante della città di Pisa ha riferito un episodio analogo. Dei soldati sorpresi sulla strada a vendere sigarette hanno dichiarato di aver agito per ordine del comandante del loro reparto, poiché occorreva denaro per l’acquisto di materiale d’ufficio. Sulla strada sarebbero stati fermati e derubati camions di ortaggi, requisite motociclette ecc.
Analogamente dal comandante della città di Pisa, maggiore Giinther, è stato riferito il seguente grave episodio: dei soldati della contraerea, ubriachi, una sera sono penetrati in una abitazione italiana dopo aver forzato la porta. Uno di essi ha sospinto una donna, che si trovava nella casa, contro una parete e ha tentato di violentarla. I familiari maschi presenti sono intervenuti per difenderla. Nel corso della colluttazione uno dei soldati è stato ferito con una coltellata ad una spalla.
Gli italiani hanno denunciato l’accaduto. Nella conseguente udienza del tribunale di guerra i soldati sono stati condannati solo a sei settimane di arresti di rigore per violenza e gravi molestie. La violazione di domicilio e il tentativo di stupro sono rimasti impuniti. Con questo il presidente del tribunale di guerra, venuto da Firenze, ha sanzio
nato che adesso i soldati tedeschi devono solo stabilire in quale abitazione italiana essi vogliano entrare.
Un simile atteggiamento è insopportabile e ci toglie il terreno sotto i piedi. Che questo atteggiamento possa portare cattive conseguenze lo dimostra l’affermazione del federale di Livorno, il quale ha dichiarato che talvolta ha avuto l’impressione che i soldati tedeschi si considerino truppe d’occupazione. Se egli avesse questa certezza, deporrebbe immediatamente il suo incarico e non collaborerebbe più in nessuna maniera con noi.
Aggiunte al capitolo III:
ap. 11 [quip. 555]Castelnuovo GarfagnanaIn questo paese da alcuni giorni vengono segnate con una croce milleottocento casse portate sulla strada, di cui si ignora il contenuto. Da là esse vengono caricate su un automezzo da alcuni civili. Il fiduciario riceverà entro alcuni giorni informazioni più precise su questa questione (A4).
a p. 14 [qui p. 556]D. Zona intorno a FirenzeCerreto Guidi (a ovest di Firenze, a nord di Empoli). Il segretario politico Torrini aiuta le bande (cfr. “Situazione delle bande”, p. 6 [qui p. 556]) (B2).Londa (30 Km a nord di Firenze). La famiglia Panzani ha ospitato un ufficiale inglese (cfr. “Situazione delle bande”, p. 6 [qui p. 552]) (D2).
Gruenhagen
“Centro” e “periferia”Un rapporto da ricostruire
Roberto Botta
I l d ib a ttito sugli Is titu ti della R esistenza
Il dibattito sulle prospettive future degli Istituti storici della Resistenza si è arricchito di un nuovo, inquietante interrogativo: esiste un “futuro” per gli Istituti? Sopravviverà la rete nel suo complesso alla prossima scadenza del Cinquantesimo? È inutile nascondercelo, la sensazione di una assenza di futuro ha trovato spazio da qualche tempo tra gli operatori degli Istituti, è richieggiata, tra il serio e il faceto, in discussioni ufficiali o semiufficiali, ha fatto capolino anche nei primi interventi di questo dibattito. Vorrei essere più drastico di Stefano Maga- gnoli (cfr. Dagli Istituti “militanti” agli Istituti “scientifici”, “Italia contemporanea”, n. 195, giugno 1994), e dire esplicitamente che questo modo di affrontare la discussione a me pare davvero “un’impropria trasposizione di termini dello scontro politico nelle questioni degli Istituti”, la spia di una tendenza da respingere con decisione. Non perché non veda le difficoltà aggiuntive per il nostro futuro inscritte nel deterioramento del quadro politico (ma non siamo forse abituati ad operare tra mille difficoltà finanziarie e financo di spazi fisici?), e ancor più neirimpoverimento del senso comune collettivo e nella facilità con cui gli italiani — non tutti, fortunatamente — sembrano disposti a dismettere la memoria del proprio passato, ma perché temo che, se per ventura il nostro dibattito finirà con il farsi condizionare dalle preoccupazioni e dal disagio politico comune a molti di noi, non
potrà evitare di arenarsi su secche pericolose.
Il tema dell’intreccio tra impegno politico e ricerca scientifica ha sempre costituito, nel bene e nel male, uno dei cardini centrali dell’attività e della filosofia stessa degli Istituti, e non è per nulla casuale se Luca Baldissara (Gli Istituti della Resistenza e la ‘fine del dopoguerra’. Contributo al dibattito, “Italia contemporanea”, n. 194, marzo 1994) e dopo di lui Stefano Battilossi (Oltre la normalizzazione. Per una storiografia critica (e un nuovo senso comune democratico), “Italia contemporanea”, n. 195, giugno 1994) e Magagnoli hanno insistito con forza su questo punto, sottolineando la necessità di continuare a operare ispirandosi a questo nesso, e anzi rafforzandolo. Difficile non condividere le considerazioni sull’impulso propulsivo che l’intrecio tra ispirazione etica e lavoro scientifico ha saputo dare all’attività della rete degli Istituti, e tuttavia anche in tempi recenti l’impegno storiografico non di rado è stato inteso e praticato come se fosse un prolungamento dell’impegno politico anziché come tentativo di offrire strumenti critici e problematici alla sfera della politica. Vizio antico, il quale, per dirla con le “Annales”, rimanda a strutture mentali profonde e radicate nella storia e negli uomini degli Istituti, e destinato perciò a condizionare inevitabilmente le forme e la sostanza di queste nostre riflessioni. La corretta declinazione del binomio impegno storiografico-impegno politico
‘Italia contemporanea”, settembre 1994, n. 196
562 Roberto Botta
resta dunque un nodo ancora in gran parte irrisolto della nostra storia; un prerequisito indispensabile per riflettere su noi stessi con qualche produttività risiede dunque nella capacità di emanciparci da uno schema di pensiero ormai incapace di offrire soluzioni per il futuro: dobbiamo riuscire, collettivamente, a superare una impostazione mentale da cui ancora stentiamo a liberarci — forse a parole, ma non sempre nei fatti — e sperimentare percorsi nuovi dell’intreccio tra lavoro scientifico e engagement.
Chi mi ha preceduto ha dedicato molte e condivisibili pagine alla riflessione sul legame tra il nostro dibattito e lo stato della con- temporaneistica in Italia ed una rivisitazione della quarantennale storia della federazione degli Istituti, indicandone alcune scansioni (in particolare la successione delle “generazioni” di ricercatori e dei temi e metodi di ricerca) assai utili per comprendere la nostra realtà attuale e le sue radici. Qui non vorrei spendere molte altre parole sull’argomento, se non per sottoscriverne il senso: in questa direzione deve senz’altro orientarsi la nostra discussione, non solo per analizzare le ragioni di una crisi di orientamenti che sembra investire l’intero settore della contemporanei- stica, o per rileggere con rigore critico il ruolo giocato dagli Istituti nel dibattito storiografico di questi decenni, ma soprattutto per misurare quale posto, in termini di autorevolezza e di visibilità, gli Istituti possono rivendicare nel rinnovamento della contempo- raneistica italiana. Sotto questo aspetto il bilancio per noi è alquanto deficitario, complice anche quel riduttivo modo di intendere il rapporto tra ricerca e impegno politico cui ho già accennato: spesso il volontarismo e la militanza — doti generose ma non sempre destinate a passare all’incasso — hanno prevalso sulla ricerca di riconoscimenti istituzionale e, appunto, sulla conquista di un visibilità per il nostro lavoro. Penso ad esempio al rapporto con l’Università, caratterizzato sempre più spesso, e non credo di sba
gliare nonostante la perifericità del mio punto di osservazione, da una sorta di scambio ineguale. Molto abbiamo dato all’Università organizzando seminari, caricandoci di compiti di supplenza, stimolando gli stessi orientamenti didattici e di ricerca, ospitando e “allevando” ricercatori, e poco abbiamo ricevuto in termini di riconoscimento scientifico e istituzionale. Alla mole di lavoro non ha spesso corrisposto un adeguato riconoscimento: ed è questo proprio uno dei terreni su cui si misura concretamente la necessità di ritessere il nostro rapporto con le istituzioni culturali, con il mondo della scuola e con la politica.
Tuttavia, questo mi pare solo uno degli orizzonti della discussione: altrettanta attenzione occorre destinare a un aspetto rimasto sinora un po’ in ombra nei primi interventi di questa discussione, e cioè il terreno, per dirla ancora una volta in termini “militanti”, del che fare. O meglio, di come dare maggiore autorevolezza e visibilità al nostro fare. Perché quanto è avvenuto nel rapporto con l’Università è a ben guardare uno schema ricorrente della nostra attività: molto lavoro ma pochi — od effimeri — riconoscimenti. Una situazione che impone una maggiore incisività nel ripensare le modalità stesse della nostra presenza nel panorama della contemporaniestica italiana.
Volendo esemplificare, il banco di prova è imminentissimo. Nel prossimo autunno si svolgerà il seminario sugli archivi sonori, a coronamento di quell’impegno sul terreno della ricerca e della raccolta di fonti orali al quale moltissimi Istituti hanno dedicato tante energie in lunghi anni, e di cui fornisce una efficace sintesi un’articolo di Franco Castelli {Dal censimento alla conservazione attiva. Problemi e prospettive degli archivi sonori, “Quaderno di storia contemporanea”, n. 14, 1993). Quella scadenza io la immagino non solo come l’occasione per fare il punto sul nostro lavoro di ricerca e di raccolta delle testimonianze e sul nostro patri
Il dibattito sugli Istituti della Resistenza 563
monio archivistico, o per confrontare le nostre con altre esperienze, ma anche come la sede in cui porre con forza il tema di una definizione giuridica degli archivi di fonti orali, provando a proporre la questione della conservazione oltre l’orizzonte del volontariato o della rassegnata convinzione che nulla sul piano istituzionale potrà mutare. Insomnia, si tratta di passare dal giusto orgoglio di essere stati tra i pionieri della storia orale italiana, alla volontà di diventare il soggetto capace di porre con forza il tema della conservazione sollecitando soprintendenze archivistiche, amministrazioni regionali e locali, ministero dei Beni Culturali ad un dibattito serrato e ad una efficace operatività. Il seminario sugli archivi sonori dovrà allora diventare la sede in cui porre il problema di una legislazione adeguata, che sappia ridisegnare i compiti degli Archivi di Stato in relazione alle nuove fonti per la storia contemporanea ma anche riconoscere agli Istituiti lo stato di istituzioni che rappresentano, nel loro complesso, il maggior centro archivistico italiano di storia orale. In termini generali, si tratta di declinare con un atto concreto la produttività dell’intreccio impegno scientifico-impegno civile che ci caratterizza.
La riflessione sulla nostra capacità di lavoro — e di sopravvivenza — per il futuro deve obbligatoriamente assumere questo orizzonte, l’unico in grado di valorizzare pienamente le peculiarità della rete. Il tratto più caratteristico dell’esperienza degli Istituti storici della Resistenza credo debba essere individuato nella sua capillare presenza sul territorio, che ha contribuito a rendere meno drammatica la nostra situazione in un quadro di difficoltà al quale nulla sembra riuscire a sottrarsi. In effetti la tendenza a guardare con grande pessimismo al futuro trova buoni argomenti nella crisi generalizzata degli enti e delle istituzioni storico-culturali. La Fondazione Feltrinelli, l’Istituto Gramsci, il De Martino, ossia tutte quelle
istituzioni culturali nate e vissute all’incrocio tra ricerca e impegno politico, versano in situazioni difficili e spesso drammatiche. Se i nostri Istituti stanno (relativamente) meglio ciò è dovuto proprio alla loro diffusa territorialità, che ha permesso di accedere a fonti diversificate di finanziamento, ma soprattutto di articolare meglio il dibattito, la ricerca e le iniziative pubbliche, e ha consentito di rispondere con efficacia alla domanda di storia che continua ad arrivarci, soprattutto dal mondo della scuola. Su questa nostra peculiarità converrà dunque continuare a puntare molto, naturalmente dopo aver saputo compiere un lavoro critico, che per alcuni aspetti dovrà essere anche impietoso, sull’esperienza complessiva degli Istituti. La loro proliferazione negli anni più recenti non ha infatti contribuito a un maggior coordinamento, sia nelle attività di ricerca che nella prassi istitutizionale, nonostante gli auspici di quanti vedevano in un aumentato peso della “periferia” l’antidoto contro una tendenza alla sclerotizzazione. Anzi, alle volte sono prevalse le ragioni particolari e la refrattarietà ad ogni forma di coordinamento programmatico (la vicenda dell’ultimo numero del bollettino di “Notizie e documenti” , rinviato per assoluta mancanza di contributi da parte degli Istituti, è un indizio piccolo ma significativo di questa situazione). La presenza radicata sul territorio contiene quindi in sé i germi di una possibile crescita ma anche del suo contrario. È dunque necessario, naturalmente salvaguardando le sacrosante autonomie, recuperare una capacità di coordinamento che non può essere lasciata solo alla buona volontà o agli interessi del momento dei singoli Istituti.
Il tema del coordinamento si pone sia sul terreno della ricerca, sia su quello delle strutture. Per quanto riguarda le strutture, la risorsa fondamentale resta il nostro patrimonio archivistico. Dieci anni or sono, presentando la seconda edizione della Guida agli archivi della Resistenza (corposo aggior
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namento dell’edizione 1974), Guido Quazza sottolineava con giusto orgoglio l’importanza di un patrimonio costituito da “tre milioni di documenti e oltre 550 fondi” senza “eguali, in Italia, al di fuori degli Archivi di Stato”. A dieci anni da quella importante iniziativa la situazione è decisamente cambiata. La Guida del 1985 era ancora interamente dedicata al patrimonio archivistico resistenziale, mentre nel giro di dieci anni gli archivi degli Istituti si sono arricchiti per consistenza ma soprattutto per gli assi temporali e tematici dei fondi conservati. I nostri archivi, restando centrale la documentazione resistenziale e ciellenistica, spaziano ormai ben dentro gli anni della costituzione dell’Italia repubblicana, ospitando archivi sindacali e di partiti politici, fondi personali, archivi sonori e audiovisivi. Essi sono quindi diventati lo specchio dell’attività e delle prospettive di lavoro degli Istituti, la prova tangibile della loro « nuova » fisionomia di veri e propri Istituti di storia contemporanea, forse i primi a poter vantare un consistente ed accessibile patrimonio archivistico sulla storia politica e sociale dell’Italia repubblicana, intrecciando fondi pubblici e privati, documentazione cartacea e fonti sonore, fotografiche e visive.
Credo perciò sia giunto il tempo di porre il problema di una nuova guida che sappia dare ragione, partendo proprio dalla descrizione del patrimonio archivistico, della nuova prospettiva di lavoro degli Istituti. Si tratta dunque non solo di rivendicare una nuova edizione resa imprescindibile dalla dilatazione degli interessi della federazione della rete, ma di mettere in luce, attraverso la presentazione dei nostri archivi, la nuova veste assunta dalla rete: non solo qualcosa di molto diverso dalla consorteria veterore- sistenziale, ma anche di assai lontano dalla catena di Istituti votati in sempiterno allo studio settoriale e cronologicamente limitato di un periodo e di un problema storiografi- co. Al contrario, Istituti di storia contempo
ranea a pieno titolo, come la stessa strumentazione archivistica acquisita (e quasi sempre sottratta alla distruzione, colpevole o gioiosamente irresponsabile) è in grado di mostrare. Anche in questo caso occorre coniugare la necessità imposta dalla nuova situazione con l’esigenza di acquistare visibilità: il problema deve dunque essere posto al ministero dei Beni culturali, in primo luogo, che già aveva promosso la riedizione della precedente guida, e poi alle Sovraintendenze archivistiche. Sottolineando contemporaneamente anche il problema della conservazione, delle condizioni spesso precarie e anguste in cui gli Istituti sono costretti stipare fondi non di rado preziosi. Non sono così ingenuo da ritenere che tutto questo generi grande commozione tra ministri, sovrintendenti e funzionari: ma la questione va posta, investendo dei problemi degli Istituti, a questo livello e in questo modo, anche le forze politiche e culturali che ancora si richiamano a quei valori cui noi ispiriamo la nostra attività.
Un discorso per molti aspetti analogo deve essere fatto per le biblioteche. Sfogliando la guida Quarantanni di vita dell’Istituto nazionale e degli Istituti associati curata da Gaetano Grassi l’impressione è enorme: centinaia di migliaia di volumi, e soprattutto migliaia di testate giornalistiche spesso ormai introvabili, centinaia e centinaia di tesi di laurea, una mole sterminata di opuscoli ed altre pubblicazioni. L’obiettivo da perseguire mi pare mettere in comunicazione questo grande patrimonio depositato in decine di sedi. La realizzazione risulta, però, piuttosto problematica, per mancanza di risorse, per la diversa caratterizzazione delle singole biblioteche, per le oggettive difficoltà ad avviare un lavoro di questo genere. Tuttavia la possibilità di rendere fruibile questo patrimonio per tutta la rete (penso soprattutto alle pubblicazioni di carattere locale) è un passaggio indispensabile per rompere una tendenza a sviluppare ricerche costrette en-
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tro confini territoriali determinati a priori (in genere, quelli della singola provincia o di una porzione di essa) che già da altri è stata individuata come un limite “tipico” delle ricerche sviluppate dagli Istituti. Non avanzo dunque proposte, mi limito a segnalare il problema.
Accanto alle strutture, lo sviluppo delle ricerche rimane un altro tassello determinante della nostra attività. Per provare ad indicarne possibili prospettive future converrà partire da alcune linee interpretative sulla vicenda degli Istituti nell’ultimo decennio.
Gli anni ottanta registrano un’altra singolarità nella storia degli Istituti. Condivido solo in parte il giudizio di Baldissara secondo il quale dopo “il momento alto vissuto negli anni settanta” , caratterizzati da un dinamismo sul piano della ricerca e del rinnovamento metodologico, l’attività degli Istituti “sembra appannarsi” all’ingresso nel decennio successivo, perché ritrovo in questa lettura la tendenza ad adattare alla storia degli Istituti scansioni mutuate dall’analisi politica. Non che la considerazione sia priva di fondamento, ma credo si debba riflettere sulla storia degli Istituti in quel decennio da una prospettiva più complessa e differenziata, analizzando in parallelo quanto accade su scala nazionale e le tendenze riscontrabili sul piano locale. Su scala nazionale, con gli anni ottanta si interrompe la tradizione dei “grandi progetti” nati e cresciuti intorno a gruppi di lavoro coordinati dall’Istituto nazionale e capaci di dare un segno anche di immagine alla nostra attività di ricerca, con quelle conseguenze su cui Baldissara e Ma- gagnoli si sono soffermati; ma leggendo le cose dall’angolazione della periferia l’ultimo decennio si caratterizza per una notevole crescita numerica degli Istituti, i quali sono in qualche misura proprio il prodotto dell’“onda lunga” di quelle iniziative; e proprio perché si collegano, non solo idealmente, ma spesso anche negli uomini che li animano, a quella felice stagione di studi, quel
lo della crescita numerica è da considerare solo uno dei tratti significativi di quanto è accaduto in periferia in questi ultimi anni: sono proprio gli anni ottanta, pur con le loro contraddizioni alle quali anche la rete degli Istituti non può sottrarsi, il periodo del più fecondo rinnovamento nel campo della ricerca che porta, come dimostra la recente pubblicazione curata da Gaetano Grassi, alla produzione di contributi significativi da parte di molti Istituti (anche se non per tutti è stato così, e su questo dirò ancora qualche cosa in conclusione): non solo ricerche ma mostre, convegni, iniziative didattiche. Questo dinamismo della periferia ha un riscontro anche sul piano istituzionale: non è certamente casuale se diversi Istituti, a partire dalla seconda metà degli anni ottanta, sentono la necessità di aggiornare la loro denominazione aggiungendo con varie ma non molto differenti declinazioni la dichiarazione di “Istituto di storia contemporanea” a quella tradizionale di richiamo resistenziale.
Tra le diverse tendenze che distinguono la periferia del centro una mi pare particolarmente significativa: il cambio generazionale, così importante nei decenni precedenti, e che a livello nazionale sembra interrompersi, o segnare una battuta d’arresto nell’ultimo decennio, continua invece in periferia, dove trovano spazio giovani — allora! — ricercatori i quali contribuiscono, magari un po’ caoticamente, a sollecitare nuovi temi e nuovi motivi di interesse e di dibattito (la vicenda legata alla storia orale può, anche in questo caso, essere un buon punto di osservazione per capire quanto accade in molti Istituti e nel loro rapporto con l’esterno).
Gli anni ottanta sono dunque il decennio in cui si determina una sfasatura — in termini positivi possiamo chiamarla “diversificazione” — tra le diverse istanze della rete, i cui effetti oggi appaiono in tutta la loro rilevanza e il cui segno è, ancora una volta, duplice. Il ponderoso Quarant’anni di vita degli Istituti ne richiama gli aspetti positivi e
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alla lettura di quelle pagine rimando; per gli intenti di questo dibattito conviene invece puntare l’attenzione sugli aspetti di difficoltà nel rapporto tra gli Istituti e nello sviluppo delle richerche. Il centro: l’Istituto nazionale non sempre appare in grado di comprendere quanto sta avvenendo su scala periferica, e mostra più di una difficoltà a svolgere quel ruolo insieme di collante e di stimolo nei confronti dei nuovi Istituti che iniziano proprio in quegli anni ad operare nelle realtà provinciali. La periferia: rallentarsi del rapporto con l’Istituto nazionale finisce con l’alimentare la tendenza, magari involontaria o addirittura opposta alla volontà dichiarata, a rinchiudersi nel localismo, rompendo quella tensione propulsiva tra storia locale e nazionale alla quale gli Istituti dovrebbero invece costantemente richiamarsi, poiché rappresenta uno dei percorsi più suggestivi su cui lavorare e sperimentare. Il “lavoro culturale” degli Istituti provinciali continua così ad oscillare tra una ancora pericolosa somiglianza con i paradigmi sapientemente descritti da Luciano Bianciardi e la capacità di proporre iniziative originali e innovative.
Lo so, è detto schematicamente. Ma utilizzando questo schema diventa forse comprensibile lo scarso riscontro al nuovo programma generale, o l’andamento altalenante delle diverse sessioni del Seminario permanente sul Novecento, vuoi per la partecipazione attiva dei diversi Istituti, vuoi per la “mobilitazione” intorno ad esse.
Dalla consapevolezza di questa situazione occorre ripartire. I programmi generali, troppo calati dall’alto su una realtà ormai abituata ad elaborare per proprio conto vasti programmi su cui concentrare le energie, e quindi in difficoltà anche oggettive se chiamati a partecipare ad iniziatie troppo esterne alla propria elaborazione e ai propri interessi, hanno mostrato di essere una via poco praticabile, almeno nell’immediato. D’altra parte l’assoluta mancanza di relazioni, se non casuali, tra le attività dei singoli Istituti,
non porta solo verso i rischi di erudito localismo accennati, ma, tendenza altrettanto pericolosa, contribuisce fortemente alla perdita di visibilità del nostro lavoro. Occorrerà allora ripensare al problema inventando nuove forme di coordinamento, magari limitate territorialmente o, come è avvenuto per il Seminario permanente sul Novecento sulla “Partecipazione dell’Italia alla seconda guerra mondiale” , e come è forse più produttivo per superare l’ottica localista, intrecciando collaborazioni e percorsi di lavoro in grado di coinvolgere Istituti di regioni diverse per avviare progetti di ricerca condotti su territori socialmente, politicamente ed economicamente differenziati.
Nell’autunno 1994 ci sarà un’importante occasione di confronto proprio sulla nostra attività futura. Abbiamo chiamato quella scadenza, forse un po’ impropriamente e chiedendo a prestito, ancora una volta, il lessico al linguaggio della politica, “Conferenza di produzione”. Sarà quella la sede per individuare quali percorsi sono possibili, ma qui vorrei segnalare almeno due esigenze che a me paiono imprescindibili. La prima è la necessità di entrare decisamente con le nostre ricerche nei primi anni dell’Italia repubblicana, assumendo i nodi storici legati agli anni post liberazione come uno degli assi portanti della nostra elaborazione storiografica: sia per valorizzare il nostro patrimonio documentario e di riflessioni, sia per non lasciare questo terreno di lavoro alle strumentalizzazioni cui giornalmente dobbiamo assistere. Gli Istituti, per la loro storia e le loro competenze, possono ambire a diventare il fulcro attorno a cui avviare, con grande spirito critico, una stagione di studi sulle origini dell’Italia repubblicana, nei suoi diversi aspetti politici e sociali, in un costante richiamo tra locale e nazionale.
La seconda questione attiene alla sfera metodologica. Ritengo estremamente importante riuscire a praticare metodi di lavoro che sappiano intrecciare lo sviluppo della ri-
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cerca con la costruzione di repertori archivistici e strumenti di lavoro. Negli ultimi due anni gli Istituti piemontesi hanno realizzato una importante ricerca dal titolo “Partigiano piemontese e società civile”. La ricerca si è proposta obiettivi tra loro complementari: attraverso lo spoglio delle schede personali di tutti i riconosciuti dalla Commissione regionale per l’attribuzione delle qualifiche partigiane (partigiani, ma anche patrioti e benemeriti) abbiamo la possibilità, per la prima volta, di rispondere con una documentazione rigorosa e omogenea alla domanda quanti e chi erano i partigiani, che rappresenta indubbiamente una novità di rilievo nella storiografia sul movimento partigiano italiano. Ma la ricerca ci ha anche consentito di acquisire una enorme mole di documentazione (le circa 100.000 schede personali, i verbali della Commissione di riconoscimento, i diari storici delle formazioni piemontesi, ed altro ancora) duplicate e rese disponibili per la consultazione; l’immissione in computer delle informazioni ha infine portato alla creazione di banche dati (accanto alle schede biografiche dei partigiani sono stati immessi in computer, per le indispensabili operazioni di analisi e confronto, anche i dati relativi alla popolazione e alle attività produttive di tutti i comuni e di tutte le frazioni del Piemonte relativamente ai censimenti 1936 e 1951) che saranno assai utili (indispensabili?) per qualsiasi altra ricerca non solo sul movimento partigiano, ma, ad esempio, sulle vicende dei primi decenni dell’Italia repubblicana. Al di là del merito della ricerca, mi pare un percorso operativo esemplare perché consente di realizzare una ricerca dai tratti sicuramente innovativi e, contemporaneamente, di approntare repertori che restano come strumenti per ricerche future. Una linea di lavoro in grado di dare visibilità alla nostra attività e di affermare il ruolo non effimero degli Istituti.
Mi ero ripromesso di non abusare dello spazio e intendo mantenere fede all’impe
gno. Tralascio quindi di affrontare altre tematiche estremamente importanti nel disegno di un futuro possibile per gli Istituti: penso ad esempio alla didattica, tema a mio avviso di primaria importanza accanto alle strutture e alla ricerca, con la quale la didattica dovrebbe rapportarsi più di quanto sia sino ad ora accaduto; sulla didattica e sui problemi della scuola mi aspetto dal Landis e dalle sezioni didattiche attive in molti Istituti più di un contributo al nostro dibattito. Vorrei limitarmi, solo per accenni e rischiando quindi ancora una volta la schematicità, ad alcune note conclusive su tre questioni.
La prima riguarda le riviste. Baldissara notava nel suo intervento la magmaticità del panorama editoriale degli Istituti e, in particolare, delle loro riviste. Anche queste sono considerazioni senz’altro condivisibili, a patto di avere presenti alcune peculiarità delle nostre pubblicazioni periodiche. Le riviste sono quasi sempre lo specchio della produzione dei singoli Istituti, servono cioè a restituire, magari con una particolare attenzione al piano locale, il senso dell’attività di ricerca, di sistemazione archivistica e di dibattito delle singole realtà; con queste ca- ratteritiche si ritrovano inevitabilmente a scontare qualche problema di ripetitività, non sempre mantengono un sufficiente rigore analitico, senza dubbio non di rado con- fliggono con criteri di economicità. Ma questi problemi devono essere affrontati senza perdere di vista la funzione fondamentale delle riviste, che spesso le rende uno strumento indispensabile per l’attività degli istituti, quella cioè di strumenti privilegiati per la socializzazione delle attività. Sono quindi un po’ scettico riguardo a soluzioni o ipotesi drastiche, che privilegiano solo l’efficienza editoriale e i principi dell’economicità; ritengo invece utile e necessaria una discussione che, salvaguardando le singole testate, individui forme di collaborazione o, almeno, alcuni criteri editoriali omogenei.
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L’esito delle giornate di studio sul lavoro editoriale svolte a Modena nel settembre 1992 non è stato certamente dei più felici, è bene non dimenticarlo; credo tuttavia sia praticabile, nei prossimi mesi, almeno una riunione dei responsabili delle singole testate, per rintracciare i possibili spunti di un lavoro comune.
La seconda questione riguarda la divulgazione. il vero limite delle nostre pubblicazioni, ma anche di molte altre attività pubbliche, a me pare l’eccessivo specialismo. Non voglio riproporre l’idea — già sufficiente- mente stigmatizzata — di qualche “Mille lire” sulla Resistenza o altro argomento più o meno affine, ma ritengo che il problema della divulgazione della nostra produzione al di fuori della stretta cerchia degli specialisti, o meglio, di una produzione espressamente pensata per la larga diffusione, debba essere prima o poi affrontato. Se, come altri hanno già sottolineato, questa è la fase dell’uso — abuso — pubblico della storia realizzato soprattutto attraverso l’utilizzo spregiudicato dei mass-media, gli Istituti, sia per la loro ambizione di essere soggetti insieme della cultura e della politica, sia per la loro predisposizione a operare con soggetti di “massa”, a partire dal mondo della scuola, non possono evitare di confrontarsi anche con questo problema. Iniziando magari proprio con la storia della Resistenza. Nel loro complesso, gli Istituti sono senza alcun dubbio in grado di porre mano ad una pubblicazione agile, di larga diffusione, con una particolare attenzione al mondo della scuola, capace di sintetizzare le più recenti acquisizioni storiografiche sui venti mesi in Italia. Una operazione certamente non facile, che non si può realizzare attraverso scorciatoie o atti improvvisati, ma alla quale varrebbe la pena pensare. In fondo, cosa ci sarebbe di più adatto per coniugare rigore scientifico, ambizione di offrire strumenti critici rigorosi, capacità di confrontarsi con le forme mo
derne del comunicare, visibilità del nostro lavoro?
La terza questione investe un aspetto per così dire istituzionale. Mentre stavo redigendo queste pagine mi è capitato tra le mani il materiale promozionale di una iniziativa di un Istituto della rete. La manifestazione è il Cinquantesimo anniversario di una battaglia partigiana e il programma è così concepito: “Santa Messa - Benedizione impartita da Sua Eccellenza il Vescovo. [...] Orazione Ufficiale. [...] Saranno in funzione ristorante e bar ed attrazioni varie” . Null’altro.
L’autonomia degli Istituti è un bene prezioso e va salvaguardato. Ma se esiste un problema di adeguamento ad una realtà in rapido mutamento, allora è forse il caso di ripensare all’ambito entro cui è giusto ed opportuno si dispieghino le attività degli Istituti. Senza vincoli troppo ferrei, naturalmente, ma senza neppure lasciare tutto alla fantasia di ciascuno. Anche perché episodi come quello citato, che a mio avviso travalicano le competenze degli istituti o una corretta concezione del rapporto tra fare storia e impegno politico, non sono isolati. Tre o quattro anni fa, ad esempio, un altro Istituto dava alle stampe un volume con questa “dedica” : “Ai compagni di Lotta dell’Esercito di Liberazione Nazionale Albanese, guidati dal loro comandante supremo, il compagno ENVER HOXHA [scritto proprio così, tutto maiuscolo!], che, fraternamente, ci accolsero nelle loro fila [...]” .
Mi chiedo dunque, semplicemente, se non sia il caso — magari per evitare che Norberto Bobbio ponga anche a noi qualche domanda imbarazzante in proposito — di cominciare a pensare ad un nuovo statuto della rete, capace di definirne compiti e impostazione di lavoro in una fase non facile ma, se affrontata con la giusta padronanza del nostro ruolo, foriera di prospettive suggestive.
Roberto Botta
N o te a convegni
Pratiche e culture della violenza tra guerra e dopoguerra
Massimo Legnani
Anche in rapporto alla realtà italiana, violenza e seconda guerra mondiale costituiscono un binomio che non abbisogna certo di verifiche dimostrative. L’indissociabilità dei due termini contiene tuttavia, proprio per la sua forza condizionante, qualche insidia, quantomeno nel senso di far passare in secondo piano — di fronte alla intensità e per- vasività del fenomeno — l’opportunità di una analisi più ravvicinata, capace di cogliere nella varietà delle manifestazioni e delle situazioni la diversità degli impulsi e delle motivazioni. Partendo da questa considerazione, l’Istituto di storia della Resistenza di Vercelli ha promosso (con la collaborazione dell’Istituto nazionale e della Fondazione Micheletti) un seminario su “Pratiche e culture della violenza tra guerra e dopoguerra. 1939-1946”, che si è svolto a Santhià il 12 e 13 maggio 1994. Chi scrive, oltre che ai lavori, ha partecipato, insieme con Piero Ambrosio e Pier Paolo Poggio, alla preparazione dell’incontro, donde il carattere particolare di queste note.
La prima parte del seminario è stata dedicata a fissare alcune coordinate generali. Luigi Bonanate (La violenza nelle guerre del Novecento) ha particolarmente insistito sulla eccezionalità del caso italiano, ovvero di un paese che ha conosciuto tutti e tre i tipi di guerra (tra gli stati, partigiana, civile) che si sono succeduti e intersecati, ma ha rilevato anche quanto la riflessione storiografica si sia mostrata sinora inadeguata a restituire lo
spessore del fenomeno (forse anche per la renitenza di molti studiosi a porre un collegamento stretto tra tipologia delle guerre e tipologia dei regimi politici che le conducono). Alberto Burgio (La cultura della violenza) ha analizzato in profondità i codici linguistici della propaganda nazista (il ‘tedesco dei tedeschi’ doveva risultare intraducibile per quanti cadevano sotto la servitù del Reich) nell’ambito del più generale processo di “naturalizzazione” delle differenze culturali come momento fondativo del razzismo. Antonio Gibelli (Guerra, violenza e morte: un paradigma del nostro secolo) ha posto in stretta relazione le pratiche della violenza quali si sviluppano lungo l’arco della prima metà del secolo (“da Verdun ad Auschiwtz”) con la modernità in quanto processo di massificazione, esaltazione dell’efficienza, messa a punto di sempre più incisivi apparati tecnico-scientifici; ed ha, sotto questo profilo, sottolineato la consecutività della seconda guerra mondiale rispetto alla prima (laddove i bombardamenti sulle città costituiscono, ad esempio, l’equivalente dell’esperienza del fronte per i soldati della grande guerra e le guerre civili si presentano in varia misura come prodotto e corollario della “guerra totale”). Ha chiuso questa prima parte la neuropsichiatra Marcella Balconi (Gli effetti psicologici della guerra) che, anche sulla scorta dell’esperienza personale, ha tracciato un quadro degli effetti bellici sulla psiche infantile.
‘Italia contemporanea”, settembre 1994, n. 196
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II secondo tempo del seminario, prevalentemente centrato sul biennio 1943-1945, ha posto a confronto la violenza di “occupanti” e “occupati” . Claudio Dellavalle (Violenza fascista, violenza tedesca, violenza partigiano) ha sì rilevato la necessità di costruire più puntuali categorie di analisi, ma anche di effettuare una ricognizione più attenta ai dati quantitativi (ad esempio al fatto che nel Cuneese i civili caduti nei venti mesi della lotta armata superino quelli partigiani). Circa le culture e gli impulsi sottostanti alle forme della violenza, Dellavalle ha invitato a cogliere quella tedesca soprattutto nella sua fase genetica, a collegare quella fascista al disperato recupero di una identità minata dal mancato consenso, ad esaminare quella partigiana in stretta relazione al tema dei rapporti intercorrenti tra le bande e le popolazioni. Brunello Mantelli (Le deportazioni) ha esaminato il problema in dimensione europea, assumendo lo spostamento coatto di popolazione come tratto specifico della seconda guerra mondiale, funzionale alla instaurazione dell’ordine nuovo nazista, e chiedendosi se da questo punto di vista i piani tedeschi non si debbono considerare largamente realizzati. Paolo Ceda (7 bombardamenti) ha affacciato, quale definizione delle incursioni a tappeto sulle città (e del bombardiere strategico come primo esempio di “arma totale”), quella di ‘sterminio di massa circoscritto’, rilevando tuttavia come essa si differenzi qualitativamente sia dalla pratica dello sterminio condotto dai nazisti contro un nemico ritenuto inferiore sia dall’impiego dell’arma atomica. Mario Giova- na (La repressione nelle città) ha soprattutto approfondito il ricorso alla violenza sistematica come modalità costitutiva del potere fascista nelle città, laddove la principale preoccupazione tedesca era quella di evitare che le proprie unità restassero ingabbiate nelle strutture dei grandi centri. Claudio Si- lingardi (Guerriglia, popolazione e territorio nella pianura emiliana) ha in parte accolto la
tesi che vede nel radicalizzarsi della violenza il riemergere di lontane lacerazioni (ultima nel tempo quella determinata dallo squadrismo fascista), ma ha sottolineato anche come il suo esplodere sia legato anzitutto alla parabola della resistenza emiliana, dai ritardi iniziali (connessi al difficile rapporto tra Partito comunista e mondo contadino) alla intensificazione dello scontro nel settembre- ottobre 1944 (quando tedeschi e fascisti controllano le città ed i partigiani dominano nelle campagne), alle dure condizioni di sopravvivenza dell’inverno 1944-1945. Gloria Chianese (Rappresaglie naziste, saccheggi e violenza alleata: alcuni esempi al Sud) ha inteso correggere alcuni luoghi comuni correnti (quale quello che i tedeschi si sarebbero per regola astenuti dagli stupri) e soprattutto proporre una articolazione più ricca del tema, differenziando i contesti socioeconomici (la già largamente nota area napoletana, ma anche la zona agricola del Casertano), le fasi (la caduta dell’immagine degli angloamericani come liberatori in rapporto al loro ricorso alle organizzazioni mafiose e camorristiche), ed i soggetti (la pratica del saccheggio messa in atto dai civili lungo l’intero corso della guerra). Roberto Botta e Gabriella Solaro (L’amministrazione della giustizia nelle formazioni partigiane) hanno rilevato da un lato come centrale nella costruzione del sistema disciplinare delle bande il ruolo e l’esempio dei commissari politici e dall’altro il peso esercitato dai rapporti dei partigiani con le comunità locali nel determinare una diversa valutazione, anche in termini di violenza da esercitare, a seconda che il nemico fosse “esterno” o “interno”. Adolfo Mignemi (L’uso del tema della violenza nella propaganda) si è soffermato principalmente sulla visualizzazione degli atti e degli effetti della violenza come approdo di un processo di addestramento alla aggressività tendente alla militarizzazione permanente. Paola Olivetti (La violenza nel cinema di Salò) ha sottolineato il carattere larga
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mente velleitario del progetto della Rsi di rilanciare una propria cinematografia intimamente connessa alle tematiche della guerra in corso. Gianni Sciola {Il tema della violenza nella pubblicistica della Rsi) ha approfondito soprattutto l’ideologia funebre che caratterizza la pubblicistica dell’ultimo fascismo attraverso l’esibizione della morte. A queste relazioni hanno fatto da contorno quelle, dedicate alla guerra fascista 1940-1943, di Rino Sala {La codificazione della violenza. Italiani e tedeschi nell’area balcanica, 1941-1943), che ha rilevato la politica di rapina più che di lungimirante sfruttamento messa in pratica dalla presenza italiana e della violenza sistematica ad essa connessa (rinviando in particolare alla repressione guidata dal generale Robotti nella provincia di Lubiana nel secondo semestre del 1941) e di Mimmo Franzinel- li {La religione tra armonizzazione e legittimazione della violenza bellica) che, utilizzando largamente fonti ecclesiastiche dirette, ha delineato una tipologia dei cappellàni militari (fascisti, nazionalisti, politicamente neutri) e operato interessanti sondaggi nella loro cultura (ad esempio, la costante accusa, guidata anche da pregiudizi sessuali, alle donne dei territori occupati di tramare contro i militari italiani).
La terza e conclusiva parte del seminario ha raccolto una serie di relazioni concernenti l’insurrezione e l’immediato dopoguerra. Gianni Perona {L’insurrezione e la violenza: il punto di vista degli Alleati) ha illustrato i diversi atteggiamenti e posizioni presenti tra inglesi e americani, anche in rapporto allo stallo delle operazioni nell’inverno 1944- 1945 e al problema del contenimento della violenza. Raul Pupo {Le foibe giuliane) ha ripercorso l’ininterrotto dibattito sulle responsabilità degli eccidi al confine orientale ed auspicato una maggiore strutturazone delle indagini moltiplicando gli approcci interdisciplinari. Mirco Dondi {Le denunce anonime nell’immediato dopoguerra) ha rilevato come la maggior parte delle denunce
riguardino il tema degli illeciti arricchimenti e come esse si rifacciamo alla diffusione delle delazioni durante la Resistenza. Guido Pisi e Marco Minardi {Fenomeni di illegalità diffusa nell’immediato dopoguerra: il caso parmense) hanno affrontato, attraverso la ricostruzione di alcuni episodi, le connessioni tra reati comuni e quadro politico postinsurrezionale. Angela Politi {La persecuzione antipartigiana in Emilia) ha esposto i risultati di una sua ampia ricerca, condotta su fonti in gran parte originali, sulla istruzione di processi contro partigiani per fatti diretta- mente attinenti alla guerra di liberazione. Laurana Lajolo {Agosto 1946, i partigiani di Santa Libera) ha ricostruito il più noto e rilevante tra gli episodi di “ritorno in montagna” dopo il voto del 2 giugno 1946 e 1’“amnistia Togliatti”.
Anche dalla semplice elencazione delle numerose relazioni e dei temi via via trattati credo emerga la ricchezza del seminario e, prima ancora, l’opportunità di far convergere in una sede comune spunti, analisi parziali, ricostruzioni fattuali che, pur affrontando problematiche affini, erano rimasti per lo più chiusi in ambiti di interesse locale o di approfondimento specialistico. La creazione di un circuito più ampio, e quindi di un più ravvicinato contatto tra i singoli studiosi, dovrebbe consentire l’ampliamento degli orizzonti interpretativi. In questa direzione il seminario ha tracciato un profilo attendibile degli attuali limiti delle conoscenze e delle elaborazioni. Una prima constatazione riguarda la guerra fascista, tuttora latitante come entità complessiva. Non si tratta soltanto di rimuovere tabù politici e pretesti di falso patriottismo e portare finalmente alla luce il quadro dei crimini fascisti sinora soverchiato dallo stereotipo dell’“italiano buono”; si tratta anche di misurare in profondità, al di là delle rievocazioni di costume spesso limitate agli aspetti buffoneschi, che pure ci furono, gli effetti del militarismo fascista, della cultura della guerra e della mor
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te che permeano l’intera vita del regime, premessa e condizione perché, secondo le parole di Mussolini, i “legionari di Cesare” riapparissero sulla scena del mondo. Il tema investe anche la popolazione civile e si intreccia con il procedere, sempre più aspro, del vissuto collettivo della guerra, antefatto indispensabile per comprendere molti degli atteggiamenti, di singoli e di gruppi, dinanzi alle prove del 1943-1945.
Quest’ultima osservazione pone in evidenza un’altra zona poco esplorata. Mentre l’analisi di singole pratiche di violenza, soprattutto se istituzionalizzate, ha potuto appoggiarsi ai dati della storia generale e di quella politica, le culture che a quelle pratiche im- troducono sono rimaste per lo più in ombra, anche per le evidenti difficoltà metodologiche che la loro ricostruzione comporta. Que
sto dato, insieme con evidenti renitenze di origine politica, pesano anche su quella che, molto genericamente e inadeguatamente, si può definire come violenza postinsurrezionale. Problema che ancora una volta non riguarda solo il partigianato o il contesto politico in cui esso si muove (da protagonista non marginale della liberazione a corpo reso estraneo dalla incombente normalizzazione), ma l’insieme del tessuto sociale, la diffusa assuefazione alla violenza, la perdita di prestigio di ogni autorità ordinaria, l’eredità dei lutti disseminati dall’eversione fascista. Il recupero di queste diverse dimensioni sembra dunque indispensabile per riproporre organicamente il tema del seminario e sospingerlo verso obiettivi di ricerca più ambiziosi.
Massimo Legnani
ITALIA CONTEMPORANEA
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