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OLTRE LO SVILUPPO: le prospettive dell’antropologia Fine dello sviluppo: emergenza o decrescita Antropologia della modernità Gli approcci antropologici analizzano le cause del sottosviluppo e i fallimenti dello sviluppo come il risultate delle relazioni di dipendenza con le società occidentali. In particolare mostrano come la configurazione dello sviluppo faccia parte del processo di espansione del sistema capitalistico mondiale e analizzano la società civile della cooperazione, un’arena eterogenea composta da organizzazioni no profit locali, associazioni internazionali e milioni di lavoratori. Questa antropologia del rapporto fra Noi e gli Altri, può tracciare una linea di continuità tra le pratiche occidentalizzanti di cambiamento pianificato del periodo coloniale e le attuali iniziative per lo sviluppo dei paesi ex coloniali. Da un lato Malinowski stesso già nel 1930 diresse l’attenzione non solo sulle realtà locale, ma anche sul sistema dei bianchi, analizzando il progetto mondiale di penetrazione economica europea e l’economia coloniale e il caos di una cattiva amministrazione e di una politica predatoria. Considerando l’elemento tragico del cambiamento indotto dalla presenza europea descrisse molto negativamente il colonialismo come un sistema che produce inevitabilmente impoverimento, malnutrizione, disorganizzazione, demoralizzazione e graduale decadimento demografico nonché massacri di massa dei nativi. Nel testo pubblicato postumo, The Dynamics of Cultural Change (1945), si spinse a sostenere l’impegno politico dello scienziato sociale nella difesa dei nativi, ridotti in schiavitù, sterminati e spogliati del loro patrimonio. Sicuramente la critica di Maloniwski mise in discussione il processo di occidentalizzazione che fu realizzato non considerando gli elementi strutturali del dominio coloniale, né analizzando i meccanismi di sfruttamento economico, discriminazione razziale e oppressione militare e politica. Egli accettò di fatto la modernizzazione del mondo, intesa sostanzialmente in una prospettiva evoluzionistica. D’altro canto anche gli antropologi contemporanei impegnati nella cooperazione internazionale, come i loro predecessori coloniali, raramente criticano il sistema. Il numero sempre maggiore di antropologi coinvolti nei processi di cambiamento pianificato hanno assunto un compito simile a quello che aveva l’antropologia

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OLTRE LO SVILUPPO:

le prospettive dell’antropologia

Fine dello sviluppo: emergenza o decrescita

Antropologia della modernitàGli approcci antropologici analizzano le cause del sottosviluppo e i fallimenti dello sviluppo come il risultate delle relazioni di dipendenza con le società occidentali. In particolare mostrano come la configurazione dello sviluppo faccia parte del processo di espansione del sistema capitalistico mondiale e analizzano la società civile della cooperazione, un’arena eterogenea composta da organizzazioni no profit locali, associazioni internazionali e milioni di lavoratori. Questa antropologia del rapporto fra Noi e gli Altri, può tracciare una linea di continuità tra le pratiche occidentalizzanti di cambiamento pianificato del periodo coloniale e le attuali iniziative per lo sviluppo dei paesi ex coloniali.Da un lato Malinowski stesso già nel 1930 diresse l’attenzione non solo sulle realtà locale, ma anche sul sistema dei bianchi, analizzando il progetto mondiale di penetrazione economica europea e l’economia coloniale e il caos di una cattiva amministrazione e di una politica predatoria. Considerando l’elemento tragico del cambiamento indotto dalla presenza europea descrisse molto negativamente il colonialismo come un sistema che produce inevitabilmente impoverimento, malnutrizione, disorganizzazione, demoralizzazione e graduale decadimento demografico nonché massacri di massa dei nativi. Nel testo pubblicato postumo, The Dynamics of Cultural Change (1945), si spinse a sostenere l’impegno politico dello scienziato sociale nella difesa dei nativi, ridotti in schiavitù, sterminati e spogliati del loro patrimonio. Sicuramente la critica di Maloniwski mise in discussione il processo di occidentalizzazione che fu realizzato non considerando gli elementi strutturali del dominio coloniale, né analizzando i meccanismi di sfruttamento economico, discriminazione razziale e oppressione militare e politica. Egli accettò di fatto la modernizzazione del mondo, intesa sostanzialmente in una prospettiva evoluzionistica. D’altro canto anche gli antropologi contemporanei impegnati nella cooperazione internazionale, come i loro predecessori coloniali, raramente criticano il sistema. Il numero sempre maggiore di antropologi coinvolti nei processi di cambiamento pianificato hanno assunto un compito simile a quello che aveva l’antropologia applicata in epoca coloniale, quello cioè di aiutar i tecnici e i pianificatori a rendere più efficaci quegli interventi che non partecipano a definire. Anche oggi l’antropologia è parte di un sistema globale di relazioni economiche, politiche e sociali fortemente asimmetriche. Le importanti analogie fra il contesto strutturale dell’odierna antropologia dello sviluppo e quello dell’antropologia coloniale consistono, fondamentalmente, nel fatto che è sempre l’interesse del committente a dominare il campo degli interventi. I principali attori della cooperazione internazionale sono pesantemente condizionati dalle priorità dei finanziamenti che decidono della destinazione dei fondi in vista dei propri orientamenti non solo ideologici e politici ma anche, e soprattutto, economici. Spesso i programmi di aiuto sono vincolati all’obbligo da parte dei paesi che li ricevono di usare tecnologie o aziende dei cosiddetti donors, ostacolando le capacità di sviluppo locali, compromessa dalla immissione sul mercato di merci esterne. Questo ha portato differenti autori a considerare le pratiche dello sviluppo come forme di neo colonialismo e imperialismo.

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Il/la fine dello sviluppo I fallimenti delle iniziative, la resistenza imprevista di popoli e dei sistemi culturali alla pressione sviluppista, hanno prodotto un generale ripensamento del concetto di sviluppo. Differenti lavori, come quello di Apthorpe, Ferguson ed Escobar, hanno decostruito il discorso dello sviluppo nei suoi elementi costitutivi, presentandolo come una narrativa dell’egemonia occidentale. Lo sviluppo cessa di essere semplicemente uno strumento di controllo economico, diventando soprattutto una strategia prodotta dal primo mondo per marginalizzare e precludere possibilità alternative di organizzare il futuro. In generale, le prospettive postmoderne e foucaultiane hanno chiarito come il discorso sullo sviluppo, costituitosi all’indomani del secondo conflitto mondiale nel momento in cui il potere statunitense è subentrato al colonialismo britannico e francese, sia rimasto il principale strumento di legittimazione dell’interventismo civilizzatore. In piena guerra fredda funzionò per prevenire l’adesione al capo sovietico, privando nel contempo i popoli dell’opportunità di definire autonomamente le proprie forme di vita economica politica e sociale. Successivamente si è coniugato con nuove categorie come quella di globalizzazione e di emergenza. Lo sviluppo è stato così considerato come un’impresa ancorata alla categoria illuministica di progresso. Le dinamiche evolutive sarebbero innescate sulla base dell’ipotesi che il trasferimento di beni, la fornitura di servizi e di assistenza tecnica nella costruzione di infrastrutture determinerebbero automaticamente lo sviluppo, indipendentemente dalla considerazione del contesto globale e della realtà socio-culturale dell’area di progetto. L’evidenza scientifica ha chiarito come nel corso delle decadi dello sviluppo, inaugurate negli anni 60 dalle Nazioni Unite, gli unici paesi a svilupparsi siano stati quelli dei benefattori. Gli altri, al contrario, sono stati sottosviluppati. Analizzando le prove empiriche, in effetti, si può facilmente notare che gli approcci al cambiamento pianificato non solo si sono dimostrati empiricamente insostenibili e incapaci di stimolare un reale processo di sviluppo nel terzo mondo. Soprattutto hanno partecipato all’ampliamento del gap tra i paesi dell’Occidente industrializzato e paesi del terzo mondo. Diverse prospettive, comprese quelle di Stiglitz e Soros, concordano nel sostenere che sono sempre stati i cosiddetti poveri ad aiutare i cosiddetti ricchi. La maggior parte delle somme date o prestate sono spese nei paesi donatori o vi fanno ritorno: rimborso del debito, fuoriuscita di capitali, trasferimenti illeciti di profitti, fuga di cervelli, acquisti di beni e materiali. Già il Primo Rapporto Mondiale sullo Sviluppo Umano pubblicato dall’United Nation Development Program (UNDP 1990) aveva eloquentemente rilevato come nella situazione iniqua che domina le relazioni internazionali, il trasferimento netto di 49 miliardi di dollari dai paesi ricchi verso i paesi poveri, attuato nel 1980-82 avesse prodotto, negli anni seguenti, un corrispondente indebitamento da parte dei secondi di 242 miliardi di dollari.Negli ultimi anni, malgrado la crescita considerevole della ricchezza prodotta nel mondo, le ineguaglianze sono esplose. Recentemente la Banca Mondiale ha dovuto ammettere che l’obiettivo di dimezzare il numero di persone che vivono nella povertà assoluta entro il 2015 non potrà essere raggiunto. In generale il dumping praticato dall’Occidente a vantaggio dei propri prodotti ha annullato il sostegno offerto alla produzioni locali nel quadro dei programmi di aiuto: Banca Mondiale ha calcolato che la fine del protezionismo UE e USA salverebbe 144 milioni di persone dalla povertà.La crisi delle teorie dello sviluppo si è ormai diffusa anche negli ambienti internazionali come il Fondo monetario internazionale (FMI), la Banca Mondiale, l’Organizzazione mondiale del commercio (WTO). Come sostiene Latouche, lo sviluppo è vittima del suo successo nei paesi del Nord piuttosto che del suo fallimento nei paesi del Sud, a dimostrazione della sua non universalizzabilità.

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Emergenza come inveramento dello sviluppo Nonostante i tentativi di riformulazione, le pratiche di cooperazione internazionale continuano a fondarsi su una visione unilaterale dell’evoluzione del tutto analoga a quella che in passato aveva legittimato le pratiche coloniali. L’ultima formulazione divenuta dottrina ufficiale delle Nazioni Unite, lo sviluppo sostenibile, insiste nel sostenere che la ricerca di un’improbabile crescita economica infinita sia compatibile con il mantenimento degli equilibri naturali e la soluzione dei problemi sociali. L’apparato dello sviluppo si iscrive così in un sistema caratteristico della modernità occidentale che permette di legittimare azioni ingiustificabili richiamandosi a valori universali indiscutibili. Negli ultimi venticinque anni, i meccanismi dell’aiuto internazionale hanno contribuito a indebolire le sovranità statali e a delegittimare i poteri pubblici e la nozione stessa di politiche pubbliche. Hanno occupato progressivamente posizioni e ruoli lasciati vacanti dalle singole istituzioni governative grazie alla loro agilità nell’utilizzare i canali di intervento e di informazione in contrapposizione a istituzioni lente, burocratiche e paralizzate da strategie di controllo obsolete. Sostituendosi ad esse producono una gestione fortemente privata dell’umanitario. Le mutazioni del capitalismo, determinate dalla crisi del welfare state keynesiano e dall’apertura dei mercati al neoliberismo, hanno portato le ONG a entrare a far parte di un sistema di relazioni con le istituzioni politiche, economiche e gli attori privati. Dal crollo del sistema westfaliano delle relazioni internazionali fondato sulla sovranità degli Stati e dal definitivo affossamento dell’Onu dopo l’11 settembre, le ONG hanno assunto un ruolo crescente di rappresentanza, partecipando a importanti processi decisionali. In tal modo hanno agito come una rete autonoma dagli Stati, creando forme di diplomazie non governative parallele, consolidate attraverso il riconoscimento delle Nazioni Unite. Sempre più i donatori si rivolgono a società private, organizzazioni non governative o strutture costruite ad hoc. D’altro canto le autorità nazionali rispondono ai donatori più che ai cittadini. Uno degli esiti dell’aiuto internazionale è un rilevante deficit democratico a sostegno del potere economico e politico. Recentemente la categoria è emergenza ha modificato la pratica sviluppista, risolvendo le contraddizioni e i paradossi. Le azioni emergenziali, stanno assorbendo gran parte delle già scarsissime risorse destinate alla cooperazione internazionale. In una sorta di pronto soccorso mondiale, le organizzazioni non governative e umanitarie si trovano a doversi appoggiare operativamente alle stesse forze armate che hanno invaso un territorio straniero, spesso contro la volontà dello Stato in questione. Sovente sono costrette a svolgere un ruolo ausiliario alle azioni di occupazione dei militari, dovendo ripulire le macerie e avviare i programmi di ricostruzione. La filosofia e le pratiche degli interventi di emergenza rappresentano la definitiva standardizzazione delle procedure trasferibili immediatamente dove le strategie politiche lo richiedano. La configurazione che ne risulta, elimina tutte le altre possibili modalità di intervento, estendendo operazioni militari giustificate come operazioni umanitarie in cui gli attori civili e tradizionali hanno sempre meno margini di autonomia e libertà. L’urgenza maschera le contraddizioni, erigendo una barriera di protezione che legittima le pratiche di occupazione. La fine dell’emergenza produce la sospensione dell’attenzione dei media, l’immediata interruzione dell’intervento, il trasferimento della macchina organizzativa in altri scenari emergenti dello scacchiere geopolitico. L’apparato dell’emergenza si costituisce all’interno di un campo politico che si legittima attraverso la retorica della compassione e della necessità dell’azione. Tale palcoscenico mediatico che Boltanski (1997) definisce sofferenza a distanza, ha legittimato progressivamente la categoria intervento eliminando ogni possibilità di critica e di controllo. La diffusione dell’informazione, determinata dalle regole di mercato, costringe a manipolare, a fini di lucro, le azioni umanitarie e a produrre eventi mediatici a colpi di dichiarazioni e di

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immagini dal forte carattere emotivo per evocare l’indignazione, la compassione e la necessità morale dell’azione. Gli organismi internazionali e transnazionali agiscono sul territorio come ciò che Pandolfi, utilizzando un concetto di Appadurai (1996), chiama sovranità mobili, realtà che si spostano nel mondo imponendo regole e imperativi, legittimati sotto la bandiera di valori proclamati etnocentricamente come universali.Agamben ha mostrato come le sovranità mobili si fondino su un concetto di sovranità simile a quello che Schmidt definisce in opposizione alla democrazia liberale come il potere di proclamare lo stato di eccezione, di sospendere legalmente la validità della legge esercitando una sovranità arbitraria senza alcuna mediazione. Il modello della eccezione permanente dell’amministrazione Bush, legittimato da un’opinione pubblica sagacemente promossa e manipolata, si fonda sulla sospensione del diritto, nazionale e internazionale. Mentre la legge classica pensa in termini di individui e di società, cittadini e Stato, l’apparato umanitario che diversi autori definiscono foucaultianamente come biopotere, ragiona in termini di corpi indistinti e de-localizzati, da curare secondo le strategie e le dell’amministrazione umanitaria esportabili in tutti i contesti. In nome della sicurezza, dell’accoglienza, del soccorso o dei diritti umani, i cittadini sono trasformati in semplici corpi.

Le voci degli esclusi: il lavoro dei favelados a Manguinhos In un panorama che la cultura egemonica cerca di imporre, con molte evidenti difficoltà, le voci degli esclusi riescono tuttavia a farsi sentire. La scommessa politica dei gruppi subalterni consiste nella capacità di contrapporsi agli assiomi del capitalismo e della modernità. Si fonda sulla difesa del locale come prerequisito per impegnarsi nel globale e la valorizzazione dei bisogni e delle opportunità economiche in termini diversi da quelli del profitto e dello sviluppo modernizzante. Differenti prospettive hanno considerato le rielaborazioni locali della modernità. Arce e Long, ad esempio, analizzano come le idee e le pratiche della modernità vengano appropriate e re-inserite nelle pratiche locali, stimolando la frammentazione e la dispersione della modernità in più modernità costruite dal basso e in costante proliferazione. Queste modernità multiple generano potenti controtendenze rispetto alle strategie della modernizzazione occidentale. In questo contesto si può collocare l’esperienza del Centro de Cooperação e Atividades Populares (CCAP) di Rio de Janeiro, un’organizzazione composta esclusivamente da favelados e opera dall’inizio degli anni 80 nella realtà dimenticata e incredibilmente violenta delle favelas. La situazione è caratterizzata da conflitti con armi da guerra fra gruppi di narcotrafficanti che controllano il territorio e fra trafficanti e forze di polizia. Queste ultime, particolarmente corrotte, adottano pratiche di esecuzioni sommarie e aggressioni alla popolazione civile, promuovendo un clima di terrore. In generale, i numeri delle vittime della violenza in favela sono comparabili con quelli dei conflitti più conclamati e televisti che hanno mobilitato l’apparato dell’emergenza. All’interno di questa drammatica realtà il CCAP dall’inizio degli anni 80 cerca di stimolare un processo endogeno di cambiamento, sforzandosi di far interagire la popolazione della favela con differenti istituzioni della società civile nazionale e internazionale e a mobilitare gli organismi politici. Le attività sono iniziate nel 1983 con la costituzione di un sistema di commercializzazione di prodotti di base che ha integrato i consumatori delle favelas con i produttori rurali. Le attività economiche si coniugano con attività educative finalizzate alla realizzazione di un mercato locale solidale, indirizzate sia ai consumatori (educazione alimentare, diritti del lavoro, diritti dei consumatori…) sia ai piccoli agricoltori ( amministrazione, commercializzazione, vendita). Il CCAP cerca di rendere gli attori sociali soggetti attivi e promotori autorevoli di processi di cambiamento. A partire dal 1990 il CCAP ha integrato tali attività come nella realizzazione e l’esibizione the film e documentari, a cui si è successivamente affiancata la creazione di una televisione

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comunitaria via cavo e di un sistema semiclandestino che sfrutta abusivamente un segnale dal satellite per trasmettere un telegiornale comunitario. Tali operazioni si collocano nel contesto delle attività informative, miranti a stimolare la coscienza critica della comunità, sensibilizzare la società sulla realtà delle favelas, facilitare il dialogo della popolazione con i poteri pubblici. In collaborazione con varie organizzazioni giuridiche di Rio de Janeiro, il CCAP ha elaborato una banca dati sugli omicidi dolosi a Rio de Janeiro e istituito un servizio di assistenza giuridica gratuita. Tale servizio, operativo dal 1996, è diretto principalmente alle donne e ai bambini e in generale alle persone che non riescono ad accedere al potere giudiziario per cultura ( il diritto consuetudinario è determinato dal narcotraffico) e per mancanza di danaro.Compimento di tutte le attività economiche ed educative è stata l’istituzione di un fondo di solidarietà che articola, dal 2000, attività di microcredito e di auto-aiuto finanziario con il progetto di una carta di credito popolare. L’iniziativa rappresenta un’esperienza di economia fondata sulla cooperazione e sulla solidarietà. Queste forme di marginalità determinano la quotidianità di tutti i cittadini della metropoli, soprattutto ne mettono a rischio la sicurezza. Come sostiene Latouche, l’incremento delle spese per acquistare beni e servizi mercantili, va di pari passo con l’aumento degli effetti collaterali dello sviluppo, legati al degrado della qualità della vita in termini di sicurezza, ambiente e salute. A tale proposito Daly ha compilato un indice sintetico, il Genuine Progress Indicator (GPI), che rettifica il prodotto interno lordo tenendo conto dei costi dovuti all’inquinamento e al degrado ambientale. Secondo tali indicatori, per esempio, l’indice degli Stati Uniti del progresso genuino sarebbe stagnante, o addirittura in regresso dagli anni 70, nonostante il prodotto interno lordo continui a registrare aumenti. Come sostiene Escobar, le pratiche popolari e l’azione dei movimenti sociali sono in grado di produrre creazioni originali ed escogitare i mezzi per liberare le società del terzo mondo dell’immaginario dello sviluppo, diminuirne la dipendenza dall’episteme della modernità e inaugurare nuove possibilità di elaborare un dopo- sviluppo. A partire da queste esperienze un crescente numero di studiosi, invece che cercare di sviluppi alternativi, è passato ad analizzare le alternative allo sviluppo. Le loro valutazioni si fondano su comuni caratteristica: una posizione critica sul sapere scientifico; un interesse per l’autonomia e la cultura locale; la difesa dei movimenti di base. Secondo Arce e Long la nozione di contro- sviluppo offre un utile prospettiva sulla formazione di nuove modernità dal basso e sul modo in cui i programmi di intervento su piccola scala possano giocare un importante ruolo nel modellare i processi alternativi.

Oltre lo sviluppo: cooperazione e decrescita La contemporanea riflessione etnografica ha evidenziato che lo sforzo conoscitivo non può trascurare di riprodurre la processualità dell’apprendimento e della costruzione del sapere antropologico. Invita a fondare il sapere scientifico sul contesto pragmatico della comprensione. La circolarità ermeneutica è un meccanismo che costringe a prendere in esame e a risolvere i problemi che sorgono progressivamente nel quadro dell’interazione dinamica e del dialogo con i propri interlocutori (Malighetti 1991). L’idea che la comprensione si fondi sull’esame esplicito dei pregiudizi e delle precomprensioni invita a rappresentare la realtà sociale degli altri attraverso l’analisi della propria esperienza nel loro mondo. Da queste prospettive si può rilanciare la professionalità dell’antropologia nella cooperazione internazionale. Il metodo actor-oriented promosso da Arce e Long colloca gli attori al centro della scena, riconoscendo le realtà multiple e le diverse pratiche sociali degli differenti protagonisti. Un tale approccio, realizzata una ricerca sociale interessata alle controtendenze nei confronti della modernità; cerca di seguire la vita reale e risolvere i problemi senza fare appello al potere di un apparato concettuale o di una forma di intervento prestabilita.

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Tenendo conto dei limiti planetari, e dell’incapacità a risolvere la crisi con nuove tecnologia, diventa necessario superare le politiche della crescita, per preservare l’ambiente e per creare quella giustizia economica e sociale senza la quale il pianeta è destinato a esplodere.

Riconfigurare modernità e sviluppo da un prospettiva antropologica Fin dai suoi esordi l’antropologia si è confrontata con il problema di come affrontare e rappresentare le altre culture. È necessario fare una differenziazione tra modernità e modernizzazione: la prima è intesa come metafora per nuovi o emergenti materialità, significati e stili culturali “qui e ora”, visti in riferimento alla nozione di un passato stato di cose; la seconda è pensata come pacchetto di misure tecniche e istituzionali volte ha un’ampia trasformazione della società e sostenuto da narrative teoretiche neoevoluzioniste. Mentre la modernità implica autoorganizzazione e pratiche presso normative in differenti strati e settori della società, la modernizzazione è normalmente un’iniziativa politica intrapresa è implementata da elite amministrative e tecnologiche cosmopolite (nazionali o internazionali). Una delle questioni più probanti con cui i ricercatori che si occupano di sviluppo devono confrontarsi riguarda il significato e la potenza dei discorsi ufficiali sullo sviluppo in relazione alle strategie e ai giochi linguistici della popolazione locale che affronta relazioni sociali nuove e sempre più globali. Ciò pone le seguenti questioni interrelate. Di chi sono le narrative e le visioni del mondo che possono essere considerate più valide? È come si può fare in modo che i decisori politici ed i professionisti della pianificazione e dell’implementazione delle politiche prendano in seria considerazione le narrative del ricercatore e le sue implicite o esplicite raccomandazioni politiche?

Modernità e sviluppo: modelli e miti Come ha suggerito Habermas (1983) il termine linguistico moderno, dal latino modernus, è apparso e riapparso in Europa fin dall’ultima parte del 15º secolo, riemergendo ogni volta che gli europei di affrontavano un processo di rappresentazione di una nuova epoca attraverso una restaurazione della loro relazione con gli antichi. Gli studi sullo sviluppo sorsero come specifico campo di studi solo dopo il 1945, quando gli esperti occidentali iniziarono a occuparsi della modernizzazione dei territori coloniali e dei nuovi paesi indipendenti. Al tempo stesso, l’idea strategica di modernità veniva organizzata attorno ad attitudini e politiche basate sul senso di superiorità di quelle nazioni che si erano modernizzate con successo. In questo modo, l’emulazione della modernità, incaricò la costruzione di una nozione di tempo (moderno) che assumeva che i paesi cosiddetti arretrati o sottosviluppati fossero rappresentanti di un precedente stadio di inferiorità tecnologica e di ignoranza. Ciò implicava che il progetto di modernizzazione potesse offrire loro l’aiuto di cui avevano bisogno per recuperare. Venne negata qualsiasi possibilità che in questi paesi fossero esistiti specifici tipi di modernità collegati al passato, prima dell’arrivo del governo coloniale e dell’aiuto allo sviluppo. Da questa prospettiva, i prerequisiti dello sviluppo sociale potevano essere raggiunti soltanto attraverso la replica delle esperienze e dei modelli europei e americani di successo. La teoria che meglio coglierlo spirito di questi tempi è quella di Rostow (1960) che propose una tassonomia evoluzionista di cinque stadi attraverso cui i paesi dovevano passare al fine di raggiungere la condizione moderna. Quest’ultima segna il punto di svolta in cui i nuovi valori e istituzioni sociali, alla fine, iniettano motivazioni economiche nelle vite delle persone, infettando la tradizione con il modernismo e imponendo la crescita economica come normale condizione di progresso. Lewis (1954), uno dei fondatori dell’economia dello sviluppo, sostenne che per ottenere la crescita economica fosse necessario trasferire risorse(capitale e lavoro) dal settore tradizionale a quello moderno. Secondo lui, il progresso si riferisce non

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solo alla trascendenza della tradizione, ma anche all’uso dell’organizzazione del settore moderno dell’economia come guida al successo della modernizzazione. Nella teoria della modernizzazione, le condizioni economiche, tecnologica e demografiche, nonché l’organizzazione di appropriate istituzioni sociali e sistemi di valori, erano posti come ordini funzionalmente segmentati, trattati dagli esperti come separati. Una tale visione segmentata della vita sociale non poteva tener conto di come potesse esistere un’effettiva organizzazione sociale nella forma di molteplici relazioni, come gli studi antropologici avevano chiaramente dimostrato. Con un modello teoretico di cambiamento sociale, la teoria della modernizzazione è ora ampiamente riconosciuta come decisamente erronea. Nonostante le suddette rilevazioni è improbabile che nel prossimo futuro la problematica della modernità scompaia interamente dal campo di studi sullo sviluppo.

Un riposizionamento etnografico della modernitàLatour (1993) sostiene che le concezioni della modernità dipendono dalla dicotomizzazione fra natura e cultura, persone e cose. Latour attribuisce questo al principio di purificazione della scienza convenzionale, che depura certe attività e processi critici composti di elementi umani, culturali, materiali e non umani. In questo modo, specifici ambiti di attività sono artificialmente tenuti separati l’uno dall’altro, una procedura affine al modello segmentato della teoria della modernizzazione, con la conseguenza che ci viene impedito di comprendere i vari modi in cui la modernità di fatto riproduce a se stessa come una complessa serie di idee e pratiche. Come spiega coerentemente Parkin, il punto di partenza per l’inchiesta antropologica dovrebbero essere le ambiguità etnografiche e l’iniziale intraducibilità di differenti culture. Questa rinuncia a teorizzare da ipotesi non contestualizzate elimina la sicurezza iniziale, ma offre maggiori sfide. Una buona etnografia, quindi, deve ripudiare l’idea dell’osservatore distaccato e oggettivo o neutrale, la ricerca di ordini socioculturali onnicomprensivi. A questo punto, acquista significato il concetto di contro- lavoro introdotto da Parkin, concepito come l’effetto di ritorno della conoscenza nelle sue differenze. Dovremmo, dunque, guardare all’etnografia per trovare l’ispirazione a realizzare un’antropologia dello sviluppo dalle parti più solide e più riflessive. Il contro- lavoro, ostile alla modernità e interno ad essa, si inserisce in situazioni che sono parte del più ampio processo di espansione occidentale. In altre parole, ci aiuta a capire i processi organizzativi che si presentano con l’espansione dell’Occidente e il significato delle controtendenze per coloro che fanno esperienza di queste nuove realtà.

I flussi e riflussi della modernità A questo punto è utile richiamare l’analisi di Elias (1939) sull’emergenza del mondo occidentale, moderno e borghese. Il cambiamento sociale ha luogo in una lunga sequenza di flussi e riflussi, senza seguire una linea retta, generando ripetutamente maggiori o minori contro-movimenti nei quali aumentano nuovamente i contrasti nella società e le fluttuazioni nel comportamento degli individui. Questa è la forma in cui la civilizzazione occidentale si è diffusa e le sue istituzioni si sono sviluppate. Il risultato del cambiamento sociale viene qui visto come qualcosa che riduce e, al tempo stesso, amplifica i contrasti tra l’Occidente e quei luoghi che sono al di là dell’Occidente. Contemporaneamente, però, la modernità (o civilizzazione, come la definisce Elias) accresce la varietà di sfumature al suo interno. La colonizzazione costituisce un perfetto esempio della diffusione di standard civilizzati della modernità e del modo in cui la popolazione locale mescola l’influenza della modernità con i propri idiomi tradizionali. La caratteristica chiave si può individuare nel fatto che le persone riposizionano questi elementi all’interno dei loro contesti familiari. Nel fare ciò, li de-essenzializzano del loro potere superiore.

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Simultaneamente a questa capacità locale di inglobare la società occidentale esiste un’attitudine critica contro ciò che è visto come occidentale. Si genera un dinamismo che viene rappresentato attraverso i contro- movimenti nei confronti della modernità, i quali implicano la de-contestualizzazione degli standard civilizzati dell’Occidente e la loro ricontestualizzazione all’interno delle varie rappresentazioni locali della modernità. In questo modo, l’Occidente è stato costretto a confrontarsi con questioni che sfidano l’esistenza di una modernità o di una civilizzazione unica e totalizzante.

Eterogeneità come contrappunto di valori Consideriamo ora il modo in cui l’eterogeneità si collega al conflitto sociale e alle divergenze valoriali. Wertheim (1965) analizza il trattamento del conflitto sociale in certi lavori antropologici classici sulle società tribali. Da qui arriva alla conclusione che, in generale, questi sostenevano un punto di vista fortemente integrazionista sul piano sociale, considerando l’antagonismo tra categorie e gruppi sociali come funzionale o strutturalmente necessario alla società nel suo complesso. Così Radcliffe-Brown non permette mai che l’aggressività arrivi a degenerare in un’effettiva contesa che sconvolge o distrugge in maniera permanente gli arrangiamenti sociali esistenti. Analogamente, Evans-Pritchard, Gluckman e Turner alla fine non riuscirono a sottrarsi alla seduzione del modello dell’equilibrio. Secondo Wertheim fu solamente con lo studio di Leach sulla società kachin negli altopiani birmani che si ebbe una chiara inversione di tendenza. Leach concepiva il cambiamento sociale come una conseguenza dell’intreccio tra i sistemi di valori conflittuali presenti nella società kachin, e non come qualcosa di controllato da forze esterne.Wertheim si fonda sul contributo di Leach per offrire la propria teorizzazione della società e del cambiamento sociale. Esordisce osservando che la società non è mai stata una entità completamente integrata dal momento che, in qualsiasi comunità, esistono forme di opposizione in conflitto con le effettive strutture gerarchiche. Queste opposizioni sono basate su serie di valori che funzionano come una sorta di contrappunto, che si caratterizza per il fatto di essere composto da valori devianti che, in un modo o nell’altro, sono tenuti a freno istituzionalmente. Non minacciano, quindi, direttamente l’integrità della società, sebbene rimangano potenzialmente il locus per lo sviluppo di nuove serie di pratiche che possono seriamente sconvolgere le gerarchie sociali esistenti. Ciò che, da un punto di vista sociologico, si richiede per la comprensione di questi processi, è una attenta analisi delle circostanze in base alle quali l’amplificazione dei valori di contrappunto conduce a sfidare gli arrangiamenti istituzionali esistenti.Wertheim in primo luogo, critica i ricercatori per la tendenza ad assumere che i valori nella società convergano sempre in qualche sistema gerarchico unitario e dominante. Un tale assunto sovrastima l’omogeneità dei valori sociali. Questi temi dell’eterogeneità e della divergenza valoriale vengono meglio esplorati attraverso lo studio delle specifiche situazioni di vita o degli eventi critici in cui certe forme di autorità sono costruite, contestate e/o ricostruite. Un utile approccio metodologico per far fronte a questi differenti e intricati mondi della vita consiste nell’identificazione di campi di interfaccia. Ciò genera differenti modelli che sono variamente descritti nella letteratura come sincretismo, ibridazione, creolizzazione e cyborg. Ciascuno di questi rappresenta uno specifico modo di sintetizzare le combinazioni materiali, culturali, organizzative e umane.

Sincretismo, ibridismo e spazio transnazionale Il libro di Geschiere (1997) affronta il significato centrale della stregoneria nell’economia politica locale e nazionale del Camerun. Afferma il potere delle credenze nella stregoneria di appropriarsi di elementi della modernità e di ascrivere loro nuovi significati. Questa linea di analisi, ci stimola a prestare la dovuta attenzione all’intensità e al coinvolgimento emozionale delle esperienze quotidiane vissute e immaginate, spesso associate a ciocche le persone

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percepiscono come eventi critici. Tali esperienze innescano una rapida trasposizione di immagini derivanti da mondi culturali e sociali differenti e apparentemente contraddittori. Le persone, dunque, non sperimentano l’arrivo della modernità come disintegrazione dei loro vecchi mondi. Piuttosto, visualizzano la realtà come fatta di insiemi viventi che mettono in relazione reciproca differenti materialità e tipi di capacità d’azione che comprendono nozioni associate ad aspetti sia della modernità sia della tradizione. Le azioni sociali che dissolvono i confini e permettono agli attori di trattare con mondi differenti, spesso scuotono le fondamenta della logica occidentale universale e delle sue modalità di rappresentazione e comunicazione. Di contro, le persone non hanno difficoltà nel adattarsi a questi mondi disparati; e in questo senso nemmeno le pratiche omogenei davanti della globalità potranno mai cancellare la località intesa come significativo punto di riferimento organizzativo ed esperienziale. Alcune di queste tematiche possono essere ulteriormente esplorate riesaminando l’argomentazione di Kearney (1996). Centrale in questa interpretazione è il concetto di iperspazio, che egli usa per registrare il punto in cui le attività si distaccano cognitivamente, del tutto o parzialmente, dallo spazio geografico e vengono ricostruite in un iperspazio. Sono esempi di questo tipo di spazio gli aeroporti internazionali, i grandi centri commerciali, gli hotel internazionali e le catene di fast-food. Questo è uno spazio socialmente costruito le cui caratteristiche principali sono che non è ancorato permanentemente a un luogo specifico che è abitato prevalentemente da stranieri e tuttavia ha una certa qualità universale indipendentemente da qualsiasi luogo specifico in cui potrebbe trovarsi. È in tale iperspazio, distaccato da un luogo geografico delimitato, che si situano le comunità transnazionali. Dipendendo dalla metafora dell’iperspazio, Kearney tratteggia una forma di spazio che è priva delle esperienze soggettive degli attori. Nella monotonia dell’iperspazio non troviamo le varietà e le sfumature di Elias, né possiamo tener conto della varietà di divergenze valoriali e di conflitti sociali fondati sullo status, sul genere e sulle divisioni etnica. Questo concetto di iperspazio non si permette neppure di raccogliere il suggerimento di Wertheim di studiare i valori di contrappunto. In questo iperspazio, se le persone, le grandi società e le agenzie si articolano l’una con l’altra, totalmente distaccate dallo spazio geografico, come possiamo comprendere le complesse interazioni strategiche che possono aver luogo? Per concludere, sembra che di per sé né il sincretismo, né l’ibridismo, né le uniformità globali dell’ordinamento iperspaziale, offrano una comprensione completamente soddisfacente dei modi in cui la modernità e tradizioni diverse sono intrecciate nelle società contemporanee.

Ibridi e mutanti Secondo una definizione comune, gli ibridi sono entità di origine mista, cioè risultano dall’incrocio tra forme differenti e richiedono una costante infusione di nuova materia prima o di nuovi elementi da qualche fonte esterna se si vuole evitare che arrivino a indebolirsi e, alla fine, a degenerare al punto di estinguersi sotto il profilo produttivo. Come lo sviluppo di nuove varietà di mais ibrido, alcuni ibridi estetici o culturali sono deliberatamente progettati da artisti e intellettuali; altri, invece, possono fare la loro comparsa in modo abbastanza accidentale. In ogni caso, l’uso della nozione di ibridi(e di conseguenza quella di sincretismo) per caratterizzare la comparsa di certi stili di vita di recente emersione e di certi adattamenti socioculturali, non si porta molto lontano. Ciò che stiamo trattando, infatti, sono cambiamenti che coinvolgono nuove forme sociali emergenti da quelle esistenti. Le risultanti forme non sono mai pienamente controllabili e possono essere messe in moto, in certe circostanze, da interventi esterni, sebbene i riadattamenti interni abbiano la precedenza sulle esternalità. Questo immaginario mutante, tuttavia, si aiuta nello sviluppare un’etnografia delle modernità multiple che abbracci simultaneamente le pratiche e i processi che potremmo definire sia civilizzazione, sia decivilizzazione.

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Al fine di comprendere e analizzare questi tipi di trasformazioni, esploriamo le idee sul controsviluppo, proposte per la prima volta da Galjart.

Controtendenze e controsviluppo È necessario rappresentare il cambiamento sociale e lo sviluppo come realtà multidimensionali e contestate. Questo vale sia che l’attenzione si focalizzi sulle contrastanti interpretazioni della modernità, sulle trasformazioni nelle politiche e nelle pratiche dello sviluppo; sia che ci si interessi agli spazi di produzione, distribuzione e consumo locale e regionale. Sebbene si assuma spesso che, nella società, lo Stato sia più forte degli interessi di parte, di solito mostra i muscoli nel momento in cui la protesta minaccia di minarne le attività o quando è in gioco l’integrità territoriale dello Stato- nazione. Per ripristinare il controllo politico, lo Stato applica misure volte a neutralizzare gli avversari politici. D’altro canto tali mosse politiche frequentemente producono l’effetto contrario di avviare il decentramento delle decisioni politiche, creando così spazio per la promozione di politiche alternative o oppositive. È a questo punto che Galjart suggerisce che il ruolo principale dei donatori dovrebbe essere quello di sostenere queste controtendenze attraverso l’esercizio della pressione politica sul governo. Il controsviluppo è, quindi, un’opera di mediazione tra le procedure burocratiche che vengono introdotte e le pratiche locali. La nozione di controsviluppo è orientata, dunque, a comprendere e ad agire su quei processi grazie ai quali vengono stabilite molteplici modernità. La cooperazione deve essere compresa in relazione all’interazione delle differenti sfere della vita e nei termini in cui gli attori collaborano e competono all’interno di comuni spazi sociali dove si verificano i contrasti sul modo in cui le persone dovrebbero lavorare insieme. Soltanto comprendendo come differenti attori affrontano i loro vari doveri e le preoccupazioni per la sopravvivenza, possiamo evitare di delineare un’immagine omogenea della solidarietà di comunità. Visto dall’alto, ciò può risolversi nella perdita del potere di implementazione e nella minimizzazione del ruolo della conoscenza esperta. Dal basso, rappresenta una serie di opportunità per organizzare progetti specifici che, di contro, possono aiutare a promuovere e finanziare ulteriori progetti. Per fare in modo che le persone abbiano una voce e un peso nell’organizzazione di tali modernità localizzate, è necessario che i progetti siano portati avanti da coloro che sono consapevoli sia nelle implicazioni del controsviluppo sia delle modalità con cui sostenerlo. Galjart concettualizza questo elemento del controsviluppo come solidarietà.

Nuove agende di ricerca solo sviluppo: il contributo dell’antropologia La distruzione creativa, o decostruzione, dell’idea di una singola modernità occidentale a opera di persone con valori e saperi differenti e localizzati, sottolinea il fatto che la diffusione della modernità si è tradotta in una pletora di modernità. Ciò ha trasformato la rappresentazione geopolitica e sociale del globo. Cinquant’anni fa il mondo fu trasformato da una realtà costituita dei poteri coloniali e dalle loro colonie, a una realtà composta da ricche nazioni industrializzate e povere nazioni emergenti, o da quelli che alla fine vennero etichettati come paesi sviluppati e paesi meno sviluppati o terzo mondo. Quest’anno l’immagine globale ha finito per essere associata alla crescita delle tecnologie basate sull’informazione e su rapidi mezzi di trasporto e comunicazione; ai dinamici e al tempo stesso perversi flussi di capitale e di beni attraverso i mercati globali; a ordinamenti politici fragili e complessi; e a una variegata vita culturale e simbolica transnazionale composta di processi sia omogeneizzanti sia diversificanti. Questa mutata scena globale ha portato alla ribalta molte preoccupazioni sociali e morali nuove che coinvolgono sempre di più l’azione degli organismi internazionali. In ciascuno scenario, vengono reclutati esperti di vario tipo per fornire studi diagnostici e per pianificare

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e implementare i corsi d’azione riparatori. Molto di questo lavoro è ancora condotto all’interno di un sistema di pensiero basato sulle teorie e pratiche dello sviluppo dominanti. Secondo Lynn (1996) ciò corrisponde a una produzione di conoscenza e di entità basata sulle pratiche rappresentazionali del primo mondo. Di conseguenza, le cause di cerchi cosiddetti problemi nel sud – come la produzione e commercializzazione di droga o la cattiva gestione delle risorse naturali – rimangono fuori dai parametri della conoscenza degli esperti o sono politicamente escluse dall’azienda delle discussioni e, quindi, sembrano non avere alcuna influenza sulle azioni intraprese. Secondo Cooper e Packard (1997), a partire dagli anni 80 sono emerse due distinte serie di critica al sistema sviluppista. La prima è quella ultramodernista che mantiene la posizione secondo la quale le leggi economiche sono universalmente valide, e quindi sarebbe il libero mercato, piuttosto che le politiche statali, ad offrire la soluzione migliore per stimolare gli investimenti e una efficiente allocazione delle risorse. La seconda è quella postmodernista, che afferma che lo sviluppo non è altro che un discorso che giustifica il controllo e la sorveglianza delle pratiche delle persone da parte di istituzioni potenti. Entrambe le posizioni condividono l’attenzione al potere. Per gli ultramodernisti il potere rappresenta una distorsione nell’autoregolazione dei mercati; per i postmoderni, il potere è associato a un regime di potere- conoscenza di marca occidentale che ha la capacità di manipolare ovunque la vita e le condizioni sociali. Sebbene di tanto in tanto gli antropologi abbiano partecipato a questo dibattito, il più delle volte hanno cercato di evitare di fare affermazioni di tipo così generalizzato. Al contrario, hanno prestato particolare attenzione all’analisi della formulazione e dell’implementazione di programmi e progetti di politica nazionale, alle differenti risorse e alle loro trasformazioni locali. All’interno di queste arene di lotta due temi hanno assunto un significato particolare: l’importanza strategica della pratica burocratica, e l’attivo coinvolgimento dei beneficiari locali non come soggetti passivi ma come agenti conoscenti nel pieno dei propri diritti. Questo approccio actor-oriented presenta l’antropologia dello sviluppo come interessata a un campo di realtà contestate in cui gli scontri sui valori, sulle risorse, sulla conoscenza e sulle indagini costituiscono il campo di battaglia tra differenti attori e i loro mondi. Un’altra tendenza da riscontrare negli studi sullo sviluppo è stata l’enfasi posta sul discorso sullo sviluppo. Sia alla ricerca actor-oriented che gli studi sul discorso dimostrano l’importanza di analizzare le configurazioni del potere e le relazioni di conoscenza localizzate. Mentre, però, gli studiosi del discorso (Escobar, Ferguson, Crush e Hobart) danno priorità alla comprensione di come la scienza occidentale e i modelli di sviluppo trasformino le forme di conoscenza radicate in altre tradizioni culturali, l’approccio actor-oriented si focalizza sulle diverse e discontinue configurazioni della conoscenza (Long e Long) che incontriamo in specifiche arene di sviluppo. Quest’ultima prospettiva sull’ attore è congruente con l’argomentazione di Aphtorpe secondo cui i discorsi sullo sviluppo non soltanto rappresentano spesso in maniera distorta le realtà affrontate da coloro per i quali lo sviluppo è pianificato, ma differiscono anche notevolmente tra di loro. Le problematiche legate alla conoscenza hanno altresì offerto una base per un’analisi dei modi contrastanti di percepire e gestire l’ambiente, un campo di crescente interesse, dati gli sforzi profusi dei governi nazionali e dagli organismi internazionali per includere i problemi dell’ecologia e della conservazione nel lavoro sullo sviluppo. Gli autori dimostrano come la saggezza ricevuta degli esperti su problematiche come la degradazione della terra e la deforestazione è attivamente sfidata dall’esperienza storica ed ecologica degli attori locali, che escogitano contronarrative e si impegnano in un contro lavoro che si oppone alla conoscenza dello specialista ambientale. Un’osservazione fatta da Pottier sostiene che colorano che lavorano per le politiche dello sviluppo debbono ascoltare e imparare dagli attori locali ed essere guidati, non da metodi inflessibili, ma da una pratica etnografica ben informata che si relazioni con sensibilità alle

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problematiche quotidiane dei beneficiari del progetto e del personale in prima linea dello sviluppo. Un simile approccio necessariamente richiede anche una certa sensibilità verso gli incontri che avvengono tra chi è sottoposto alla ricerca e il ricercatore, oltre alla necessità di porre all’attenzione sulle controtendenze e sul controlavoro del cambiamento sociale. È importante, inoltre, riconoscere che i ricercatori europei, in generale, hanno risposto a questa sfida per certi aspetti in modo differente dai loro colleghi americani. Da un lato, le principali figure dell’analisi americana del discorso cercano un’antropologia politicamente corretta che implichi un ripensamento della natura della disciplina a partire dalle fondamenta. Dall’altro, i ricercatori europei, sono invece stati più inclini a continuare con inchieste etnografiche sulle esperienze differenziali della modernità e della pratica dello sviluppo, enfatizzando la politica sociale dello sviluppo stesso. Una appropriata antropologia dello sviluppo, allora, ha bisogno di costruire un approccio etnografico più riflessivo, che permetterà di analizzare le dinamiche di ricomposizione delle pratiche e delle esperienze da parte degli attori sociali, e non soltanto le loro reazioni ai cosiddetti cambiamenti indotti e agli esperimenti di ingegneria sociale identificati con la teoria o le strategie della modernizzazione.

Il discorso delle politiche dello sviluppo

Introduzione Il presente lavoro intende iniziare a identificare e discutere aspetti ed effetti dello stile del discorso utilizzato nelle pratiche delle politiche dello sviluppo. L’analisi delle politiche potrebbe essere migliorata prestando maggior attenzione ai discorsi delle politiche. È strano che questa area analisi sia stata così trascurata. È, dopotutto, una delle parti più visibili e quindi accessibili dell’intera impresa politica.

Alcuni esempi Il modello nei piani nazionali quinquennali per lo sviluppo e simili, nelle proposte di programmi, è, aldilà delle differenze contingenti, molto simile. Ciò che è in gioco sembra essere una forma di espressione completamente neutrale e puramente strumentale. La preoccupazione principale verte su un aspetto delle politiche dello sviluppo: i fatti non parlano mai da soli, devono essere fatti parlare o bisogna parlare per loro. Ci sono sempre alternative, alcune delle quali rimangono da essere considerate nuovamente, anche quelle che sono state rifiutate per altri motivi. Decostruire i discorsi sulle politiche serve, dunque, a uno scopo costruttivo. Ad esempio le parti in gioco possono o non possono avere inteso o compreso in modo simile gli effetti e i risultati della struttura discorsiva della pianificazione dello sviluppo.

Linguaggio e politica Le azioni discorsive nelle politiche fanno ricorso a un linguaggio per ricostruire e legittimare particolari insiemi di codici, regole e ruoli. Così, per esempio, Orwell (1957) afferma che i discorsi e gli scritti politici sono ampiamente in difesa dell’indifendibile. Cose come la continuazione del governo britannico in India, le deportazioni russe, il lancio della bomba atomica sul Giappone, possono in realtà essere difese, ma solo con argomenti che per la maggior parte delle persone sono troppo brutali da essere affrontati. Perciò il linguaggio politico deve consistere in gran parte di eufemismi, tautologie, e vere e proprie oscure vaghezze. Villaggi indifesi sono bombardati dall’aria: questa è chiamata pacificazione. Milioni di contadini sono deprivati delle loro fattorie: questo è chiamato trasferimento della popolazione. Gente imprigionata per anni senza processo: questo è chiamato eliminazione di elementi inaffidabili. Questa fraseologia è necessaria se si vuole nominare cose senza risvegliare le loro immagini mentali.

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Politiche ed enunciati Il ruolo dell’enunciazione nel discorso dell’elaborazione delle politiche è indicato da alcune delle sue peculiari abitudini. Alcune di queste abitudini hanno a che fare con una dicotomizzazione fra politiche ed elaborazione delle politiche. Alcune di esse sono connesse con il senso aristotelico secondo cui la politica verte chiaramente sulle intenzioni. Queste intenzioni sono presentate come se affrontassero particolari tipologie di problemi che sono comunque dati, naturali, ovvi, che parlano da soli, inevitabili e indiscutibili. Ne consegue che i problemi saranno dunque trattati secondo strategie o forme di azione che sono terapeutiche nel senso che sono risolutive del problema nel settore in cui il programma è ritenuto esistere. Inoltre, le strategie sono allo stesso tempo incontrovertibili ( perché si basano sulla scienza, il sapere, la ricerca…). Dunque, sono anche non di parte perché devono essere condotte per mezzo di strumenti neutrali e secondo le regole della correttezza procedurale. Sono così selezionate come i migliori mezzi per quei fini. Niente allora è evitabile, discutibile.

I discorsi dello sviluppo: premesse e referenti Ci sono certi aspetti cruciali nelle abitudini discorsive delle pratiche politiche dello sviluppo. Uno di questi è la dissimulazione di ciò che sta accadendo. Un altro è un assortimento di vie di fuga interne al discorso, l’esistenza di capri espiatori è un tipo di fuga. Problematizzare è un altro aspetto. Inoltre, parlare di implementazione come qualcosa d’altro o di successivo alle politiche stesse e un quarto aspetto. I discorsi delle politiche dello sviluppo hanno costruito interi vocabolari che hanno questi effetti di naturalizzare e oggettivare, per così dire, tutto ciò che è fatto è considerato. In breve le politiche dello sviluppo promettono di dare e dichiarano di rispettare le consegne. La difficile verifica della diagnosi, dalla reale patologia e dei reali legami fra patologia, rimedio e prognosi sono assenti.

Sviluppo e potere burocratico nel Lesotho Negli ultimi due decenni il Lesotho – un piccolo paese senza sbocchi sul mare che conta circa 1 milione e 800.000 abitanti, circondato da Sudafrica, e che attualmente ha un prodotto nazionale lordo di 816 milioni di dollari americani – ha ricevuto aiuti allo sviluppo da 26 paesi diversi. 72 agenzie internazionali e organizzazioni non governative e quasi- governative si sono attivamente impegnate nella promozione di una serie di programmi di sviluppo. Consulenti ed esperti provenienti dall’estero brulicano nella capitale, Maseru, e sfornano piani, programmi e soprattutto incartamenti in quantità impressionanti.

Costruire un Lesotho degli sviluppatori Per muovere il denaro che sono state incaricate di spendere, le agenzie di sviluppo preferiscono optare per pacchetti di sviluppo standardizzati. Nel 1975 la Banca mondiale ha pubblicato un rapporto sul Lesotho che venne poi usato per giustificare una serie di grossi prestiti al paese. Un brano del rapporto – in cui sono descritte le condizioni del Lesotho ai tempi dell’indipendenza dall’Inghilterra nel 1966- racchiude un’immagine del paese che si adatta particolarmente bene alle esigenze delle agenzie dello sviluppo: virtualmente non toccato dal moderno sviluppo economico il Lesotho era, ed è tuttora, una società contadina tradizionale con un’economia di sussistenza. Ma il rapido aumento della popolazione ha prodotto un’estrema pressione sulla terra, danneggiando il suolo e causando un calo della produzione agricola. Molti uomini abili e forti sono stati costretti ad abbandonare la terra alla ricerca di altri mezzi per mantenere le proprie famiglie. Al momento dell’indipendenza non vi era alcuna infrastruttura economica.

L’invenzione dell’isolamento In realtà, da un lato il paese non è più una società di sussistenza per lo meno dalla metà del 1800. Lungi dal non essere stato toccato dallo sviluppo moderno, al momento

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dell’indipendenza la dominazione coloniale aveva istituito una moderna amministrazione, aeroporti, strade, scuole, ospedali e mercati per le merci occidentali. Il calo della produzione di surplus agricolo, inoltre, non è recente e non è come suggerisce la Banca, dovuto all’isolamento dall’economia monetaria. Più significativa è invece la perdita da parte dei basotho della maggior parte delle terre più fertili a causa dell’arrivo dei coloni olandesi tra il 1840 e il 1869. Di fatto poi, per tutto il periodo coloniale sino ai giorni nostri, il Lesotho ha svolto la funzione di riserva di forza lavoro, da cui provenivano i lavoratori salariati occupati nelle miniere, nelle fattorie e nell’industria del Sudafrica. Le migrazioni su larga scala in cerca di lavoro, inoltre, precedettero di molti anni il declino dell’agricoltura.

La realtà del Lesotho È falsa anche l’immagine del Lesotho, prodotta dalla letteratura sullo sviluppo, come un’entità geografica autonoma le cui relazioni con il Sudafrica si limiterebbero a una giustapposizione geografica casuale e la cui povertà potrebbe essere spiegata soprattutto dalla scarsità di risorse naturali all’interno dei propri confini insieme all’incompiutezza con cui sono state sviluppate.

Riordinare la realtà Una rappresentazione del Lesotho Kennedy descrivesse l’antico coinvolgimento nella moderna economia capitalistica del Sudafrica, tuttavia, non sarebbe in grado di fornire una giustificazione convincente per le agenzie di sviluppo per introdurre strade, mercati e crediti. Riconoscere che il paese è una riserva di manodopera per le miniere e le industrie del Sudafrica, invece che descriverlo come una economia nazionale autonoma, inoltre, significherebbe sottolineare l’importanza di qualcosa che non è accessibile ai pianificatori dello sviluppo nel Lesotho. Nel contempo, semplicemente scompaiono questioni quali la disoccupazione strutturale, i controlli sulle migrazioni, i salari bassi, l’asservimento politico al Sudafrica, le elite burocratiche parassitarie e così via.

L’estromissione della politica dallo sviluppo Lo sviluppo, inoltre, è visto come qualcosa che può aver luogo solo grazie all’azione del governo; e la mancanza di sviluppo è, per definizione, l’effetto di una negligenza governativa. Pertanto, dal punto di vista della Banca mondiale, che è il prodotto nazionale lordo del Lesotho cresca o diminuisca dipende semplicemente dalla buona o cattiva implementazione dell’attuale piano di sviluppo quinquennale. Allo stesso modo si ritiene che la produzione agricola sia scarsa a causa dell’assenza di schemi di sviluppo agricoli e, di conseguenza, dell’ignoranza locale. In questo modo viene riservato uno spazio straordinariamente importante alle politiche e alla pianificazione dello sviluppo. Escluse dall’analisi della Banca mondiale sono il carattere politico dello Stato. Lo Stato rappresenta il popolo e ogni accenno alla natura non democratica del governo o all’opposizione politica è accuratamente evitato. Si ritiene che lo Stato non abbia alcun interesse oltre lo sviluppo: anche quando la burocrazia viene considerata come un problema, si ritiene che la questione non sia di tipo politico, bensì il risultato sfortunato di una povera organizzazione o della mancanza di formazione. La popolazione tende ad apparire come una massa indifferenziata, un insieme di singoli contadini. Secondo questa prospettiva, il mutamento strutturale è semplicemente una questione di educare le persone o anche semplicemente convincerle a cambiare mentalità. Quando viene inviata una missione per sviluppare i contadini e scopre che i contadini non sono interessati all’agricoltura, ma che, al contrario, non si considerano neppure contadini, arriva facilmente alla conclusione che la popolazione sbaglia, che in realtà sono contadini e che devono solo venir convinti che non può essere altrimenti.

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L’inevitabile fallimento Di fronte a questa immagine del Lesotho così poco somigliante alla realtà, costruita dalla Banca mondiale e da altre agenzie dello sviluppo, non sorprende che la maggior parte dei progetti di sviluppo siano falliti. Dopo anni di accuse alla popolazione locale di essere disfattista o non seria per quanto riguarda l’agricoltura, gli esperti dovettero mettere che la popolazione locale aveva ragione a ritenere che nei minuscoli campi sulle montagne era possibile produrre solo poco mais al di là di quello necessario al consumo locale e che un maggiore investimento nell’agricoltura non avrebbe portato a risultati soddisfacenti.

Un diverso tipo di proprietà Lo sviluppo dell’allevamento è un altro esempio di fallimento che dipende dall’errata rappresentazione del Lesotho operata dai discorsi dello sviluppo. I pianificatori dello sviluppo hanno a lungo considerato i pascoli del Lesotho come una delle poche risorse naturali potenzialmente sfruttabili e pronti per essere trasformati dalla moderna e dinamica economia monetaria. Lungi dall’essere il prodotto dell’inerzia tradizionale, tuttavia, la riluttanza dei basotho a trattare commercialmente il proprio bestiame è profondamente radicata nella moderna economia capitalistica fondata sulla riserva di manodopera. Nell’economia delle Lesotho, altamente moneta realizzata, mentre il denaro può essere sempre convertito senza problemi in bestiame, c’è invece una certa riluttanza a convertire con la vendita gli animali da pascolo in denaro, tranne nei casi in cui vi sia un bisogno urgente di cibo, abiti o soldi per pagare le tasse scolastiche. Questa pratica è radicata e sostenuta da un sistema sociale in cui i giovani lavoratori vanno in Sudafrica per mantenere le proprie famiglie per dieci, undici mesi l’anno. Se un uomo torna a casa dal lavoro nelle miniere con denaro contante in tasca, sua moglie potrebbe chiedergli di comprare un vestito nuovo, mobili per la casa o coperte per i bambini. Se invece arriva a casa con un bue acquistato con i propri guadagni, sarà più difficile che gli vengano fatte analoghe richieste. Uno dei motivi per cui gli uomini vogliono possedere un grande numero di animali è incrementano il loro prestigio e le loro relazioni personali all’interno della comunità, anche perché possono essere prestati ad amici o parenti come ausilio nel loro lavoro. Gli animali da pascolo rappresentano quindi una specie di fondo pensione speciale per gli uomini, che funziona proprio perché, anche se rimane all’interno del gruppo domestico, non vi si può accedere come si può fare con il denaro contante. Investire nel bestiame non è quindi un’alternativa al lavoro migratorio, bensì una sua conseguenza. Inoltre, per quanto possa essere utile e necessario l’allevamento del bestiame nel Lesotho non è tanto un’industria a un settore, quanto un titolo di beni di consumo, acquistato con i soldi guadagnati in Sudafrica quando il periodo è buono, e venduto in tempi difficili. Una diminuzione delle esportazioni di bestiame dal Lesotho non è quindi, come vorrebbe il discorso dello sviluppo, un segno di industria depressa, bensì il segnale di un aumento delle entrate. Ad esempio, quando negli anni 70 i salari delle miniere del Sudafrica aumentarono, i minatori basotho colsero l’opportunità per investire nell’acquisto di bestiame in quantità senza precedenti, portando a un aumento delle importazioni. Non sorprende, quindi, che i tentativi di modernizzare il settore del bestiame del Lesotho abbiano incontrato delle resistenze.

Gli effetti collaterali del fallimento Si può fermare che quello che è più importante in un progetto di sviluppo non è tanto ciò che non riesce a fare, quanto quello che riesci a fare attraverso i suoi effetti collaterali. Gli esiti possono essere ottenuti indipendentemente dalle intenzioni dei protagonisti più sinceri. Potrebbe essere semplicemente il modo in cui le cose funzionano.

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Sovranità mobile e derive umanitarie: emergenza, urgenza, ingerenza

Lo scenario globale Con il proliferare di procedure umanitarie, che sulle multiple e complesse zone di crisi si presentano o si intrecciano con operazioni militari, è necessario soffermarsi a riflettere sugli imperativi teorici e sulle conseguenze pratiche di questi interventi. L’aggettivo umanitario è diventato, infatti un passepartout che autorizza e giustifica operazioni dalle cause ambigue e dagli effetti difficilmente prevedibili. Osservando le diverse interpretazioni dell’intervento umanitario si può scoprire facilmente come il discorso convenzionale nasconda un primo paradosso: da un lato l’azione di aiuto è percepita come un insieme di procedure definite governance. Questa tendono a consolidare la sovranità degli Stati attraverso pratiche standardizzate, considerate le più idonee per far crescere una nuova società civile locale. Dall’altro, l’intervento umanitario diventa un angolo privilegiato per monitorare la progressiva erosione della sovranità, un laboratorio in cui testare una possibile cittadinanza universale e il necessario processo verso un diritto cosmopolitico in nome dell’uguaglianza dei diritti umani. Danilo Zolo (1998), cerca di raffreddare l’euforia delle teorie giusglobaliste. Egli ricorda che in tal modo si rischia di riattivare quel modello secolare della Santa Alleanza che affida il destino del mondo ad alcuni signori della pace che siedono ai vertici della gerarchia mondiale del potere e della ricchezza. Su questo scenario la dimensione biopolitica si impone come riflessione che evidenzia le nuove condizioni giuridico-politiche dei rapporti tra Stato e individui, valutando gli effetti concreti che ne derivano.Agamben e Appadurai mettono al centro delle loro riflessioni il modo in cui la mobilità o gli spostamenti, imposti o liberi, di popolazioni in uno spazio transnazionale espongano la delimitazione politica dei territori e di quelli che li occupano a degli sconfinamenti e delle trasformazioni. Una stessa figura preoccupa le opere dei due autori, ovviamente trattata differentemente: quella degli senza patria, dell’apolide e dell’esiliato. I costi e benefici sono in realtà oggi le nuove logiche che perimetrano la politica dell’umanitario: l’azione umanitaria, infatti, non è preventiva. L’emergenza ( la catastrofe umanitaria), l’urgenza ( la temporalità di azione) e l’ingerenza ( il diritto/ dovere all’azione senza vincoli normativi dei singoli Stati) compongono il triangolo dove si consuma una nuova modalità dell’azione politica.

La zona grigiaRaich, vent’anni dedicati all’aiuto umanitario, scrivere che se gli assassini possono decidere chi deve morire, gli attori umanitari decidono chi deve vivere e dunque in ultima analisi si assumono la responsabilità della morte degli altri. Oggi, all’interno delle ONG o degli organismi internazionali, si maturano nuovi dibattiti sul pericolo delle derive umanitarie. L’urgenza/ ingerenza spesso occulta all’origine delle cause polarizzando invece l’attenzione esclusivamente sugli effetti. E questo rischio esiste non solo a livello giornalistico, ma anche per studiosi che operano su questo palcoscenico della contemporaneità: quello di un’ambigua postura fra l’universalità dei diritti e l’universalità degli interventi armati per la protezione di questi diritti. Attualmente, come scrive Danilo Zolo, rivolgendosi criticamente alle posizioni assunte da alcuni politologi, esiste anche il rischio di un fondamentalismo umanitario. Infatti, l’attenzione mediatica di tutta la comunità planetaria, che Boltanski definisce la sofferenza a distanza, ha legittimato progressivamente la categoria intervento e la necessità politica di una attenta critica o di un continuo monitoraggio e controllo ha ceduto il passo, almeno per tutti gli anni 90, alle immagini della sofferenza che hanno attraversato il mondo. Le immagini, creando un consenso globale all’intervento di emergenza, rendono omogenee tutte le procedure utilizzate e favoriscono una legittimazione acritica dell’umanitario- militarizzato.

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Inoltre, la zona grigia della naturalizzazione delle guerre, sia locali che umanitarie o preventive, ha reso pian piano logica e razionale la presenza militare e i media hanno contribuito a confondere strategie, obiettivi e ruoli. Per zona grigia intendiamo la progressiva naturalizzazione del mélange dei generi militare e umanitario e la perdita da parte di gruppi locali, in un tempo relativamente breve, di uno stile identitario autonomo.

Sovranità mobile Porre sullo stesso piano tutte le componenti identificate nella categoria di cosmopoli comunitaria può di certo apparire azzardato; tuttavia, se all’umanitario aggiungiamo la categoria di intervento, l’ipotesi che proponiamo appare più logica. Nella nozione di intervento ( militare, umanitario, politico…) si configura un dispiegamento di forze e un dispiegamento di attori sociali che, operando su un territorio in un tempo determinato politicamente e su un mandato internazionale, evocano la riflessione sullo stato di eccezione proposta da Agamben. L’intervento nel suo insieme determina nel gruppo che lo compone una progressiva omogeneizzazione, anche se rimangono profonde le differenze di negoziazione e di relazioni di potere all’interno della stessa comunità. Ecco perché la categoria di sovranità mobile sembra particolarmente pregnante nel descrivere la peculiarità del fenomeno nel suo insieme. La sovranità mobile non vuole essere una metafora, ma sta a indicare una rete procedurale di azioni e discorsi che legittimano la propria presenza in nome di una regola etico- temporale definibile come la cultura dell’emergenza. Una sovranità mobile che trasformano esseri umani/ cittadini in corpi di rifugiati o di vittime. Infatti è attraverso il corpo sofferente che è l’azione umanitaria trova espressione. La comunità mobile e de territorializzata dell’apparato umanitario agisce attraverso le pratiche di attori sociali che si riconoscono in essa pur essendo cittadini di altre nazioni. È una comunità internazionale che arrivando in un territorio lo occupa logisticamente, sospendere le norme esistenti e ne impone altre. Le relazioni asimmetriche di potere tra la sovranità mobile e la società civile locale sono evidenti; più complessi e ambigui sono invece gli effetti a lungo termine su questo gruppo locale selezionato e comunque sempre monitorato da una pressante implicita domanda ad adeguarsi ai parametri di efficienza, di democrazia, di rispetto dei diritti umani che la sovranità mobile importa e impone. La catalogazione della sofferenza umana ci rimanda al regime di governa mentalità descritto da Foucault e all’intersezione dei diritti e del biopotere sviluppato da Agamben.

L’avventura umanitaria Molti sono i protagonisti che negli ultimi anni hanno fatto emergere posizioni sempre più palesemente critiche sulla fiducia incondizionata verso le tecnologie di intervento e progressivamente hanno preso le distanze dalla retorica dell’assoluta apoliticità dell’azione umanitaria. Per comprendere le ragioni che hanno reso l’intervento umanitario una delle preoccupazioni prioritarie nel mondo contemporaneo bisogna forse soffermarci sull’esponenziale visibilità e autorità acquisita da numerose ONG internazionali. L’influenza delle ONG, sia a livello locale che transnazionale, appare un fenomeno dinamico che si è consolidato in modo esponenziale dalla fine degli anni 60, occupando progressivamente posizioni e ruoli lasciati vacanti dalle singole istituzioni governative. A volte esse hanno agito in contrapposizione ai diversi attori istituzionali, essendo molto più agili nell’utilizzare i canali di intervento e di informazione. In tal modo hanno progressivamente creato forme di diplomazie non governative dirette o indirette, agendo come una rete autonoma dagli Stati e sviluppando a volte una vera diplomazia parallela. Questa rete si è consolidata tuttavia anche attraverso il riconoscimento

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che le Nazioni Unite hanno dato alle ONG con l’articolo 71, ma il loro peso politico si è rinsaldato soprattutto nel 1993 con la conferenza di Vienna sui diritti umani. Ma evidentemente questa accresciuta autorità non è senza prezzo e questa diplomazia parallela spesso si scontra all’interno delle stesse ONG con quel mandato, forse un po’ ingenuo, di neutralità e di denuncia che ne ha caratterizzato l’origine. Diventa davvero ambigua la posizione nei confronti degli Stati donatori: poter cercare fondi dovunque e restare critici e neutrali. E inoltre, è la stessa logica dell’emergenza a impostare dibattiti o i temi su cui si costruisce il consenso transnazionale.Molti studiosi hanno paragonato questo nuovo atto e sociale, la comunità internazionale, ai missionari del passato. Altri ancora hanno piuttosto trovato somiglianze con i funzionari e militari degli imperi coloniali. Ma in realtà vi è una profonda differenza con il passato missionario o coloniale e la presenza oggi di una comunità internazionale civile e militare sui terreni delle guerre e delle catastrofi umanitarie: la tecnologia, l’expertise producono una rete di informazioni e di azioni che essi sottraggono a burocrazie penalizzanti e parimenti tendono a originare una patologia del poter fare senza controllo.

Neutralità e ingerenza: la diplomazia parallela Dove sono le ideologie che, dominando la cosmopoli umanitaria negli ultimi decenni, hanno contribuito ad alimentare nelle critiche. La prima è quella della neutralità politica dell’azione umanitaria. La seconda è quella della dottrina del diritto/ dovere di ingerenza. A parte l’organizzazione Medici Senza Frontiere, che ha rifatto le valigie più volte ritornando a casa e ha scelto di denunciare le condizioni di impossibilità ad agire, trasformando questa rinuncia in una denuncia politica, quante sono le organizzazioni che hanno abbandonato il loro mandato, nel momento in cui era evidente che le regole fondamentali dell’assistenza alle vittime non erano rispettate o venivano manipolate? È necessario sottolineare come l’euforia del nuovo ordine mondiale abbia, in un primo tempo, occultato i rischi che la circolazione a forte impronta ideologica di questa dottrina ha progressivamente prodotto. Una teoria tanto seducente da occultare i molti abusi che in suo nome si sono prodotti. Il problema centrale è quello di comprendere se è possibile, in un mondo dove i poteri degli Stati sovrani sono fortemente asimmetrici, sostenere l’ipotesi che vi sia un reale spazio democratico per un diritto/ dovere all’ingerenza. Alcuni giuristi si sono resi conto che la formula ha un potenziale ideologico facilmente manipolabile. Quindi meglio sostituire al diritto di ingerenza quello di diritto di assistenza umanitaria. Appare dunque chiaro che bisogna ripensare a tutto l’edificio della cosmopoli umanitaria e riflettere sui dispositivi che progressivamente ne hanno corrotto l’utopia. L’inclinazione a definire società civile il solo universo delle ONG costituisce uno dei punti deboli degli attori umanitari. Se infatti essi vengono riconosciuti e progressivamente legittimati come partner politici di tavoli con ampi poteri decisionali, ci si pone il problema di chi rappresenta chi, e perché e come è stato autorizzato. Questo non per entrare nel complesso dibattito della democrazia partecipativa nelle democrazie avanzate, ma solo per sottolineare come, di fronte al dispiegamento dell’apparato umanitario e militare, il terzo attore della negoziazione politica, sfuggito alle reti democratiche del controllo elettivo, produce all’interno e all’esterno singolari forme lobbistiche.

La scena politica e il ruolo dell’antropologo Molti sono gli interrogativi sul ruolo dell’antropologo e la legittimità del suo lavoro nei territori della guerra e dell’ingerenza umanitaria o militare- umanitaria. La logica della neutralità, nei territori delle guerre e degli interventi umanitari- militarizzati, non è più convincente, né è possibile coltivare l’utopia consolatoria di esperto dello sviluppo. A questo punto è forse necessario riepilogare quelle conseguenze che impongono una diversa posizione politica dell’antropologo.

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La prima conseguenza è uno spostamento del luogo politico verso una mobilia comunità internazionale di esperti civili e militari, che agisce come un terzo attore sociale con la confusa utopia di costruire la pace, di mantenere la pace e di soccorrere le vittime. La seconda conseguenza è che questa procedura, agendo dall’alto verso il basso (top/down) ponendosi in uno spazio che non è né locale né nazionale, alimenta un discorso standardizzato e universale, che elimina progressivamente le specificità storiche, culturali e identitarie di un territorio, una comunità, uno stato. La terza conseguenza è una marginalizzazione progressiva della riflessione antropologica a vantaggio di schemi precostituiti. La quarta conseguenza è un atteggiamento consolatorio da parte degli antropologi: nel rinunciare a una riflessione teorica generale, o a porsi come interlocutori di fenomeni che tradizionalmente erano attribuiti a campi disciplinari diversi.

Immaginando un’era di postsviluppo

Introduzione Da qualche tempo a questa parte, è emerso un nuovo discorso: quello della crisi dello sviluppo da un lato e quello dei nuovi attori sociali e dei nuovi movimenti sociali dall’altro. Fino a poco tempo fa, lo sviluppo era soprattutto una questione di capitale, tecnologia ed educazione, e di politiche appropriate e meccanismi pianificatori per combinare questi elementi con successo. Mentre molti considerano lo sviluppo come miserabilmente morto ho fallito, poche eventuali concezioni alternative e pochi progetti di cambiamento sociale sono proposti al suo posto. In questo modo l’immaginario dello sviluppo continua a dominare.

L’egemonia dello sviluppo Inutile dire che le popolazioni dell’Asia, Africa e America latina non si siano sempre viste in termini di sviluppo. Questa visione unificante risale solo al dopoguerra, quando gli apparati della produzione del sapere e dell’intervento occidentali ( come la Banca mondiale, alle Nazioni Unite e le agenzie di sviluppo bilaterale) stabilirono la nuova economia politica. Come l’Orientalismo di Said, nello stesso modo lo sviluppo ha funzionato come meccanismo di assoluto potere per la produzione e la gestione del terzo mondo nel periodo dopo il 1945. Il precedente sistema di produzione del sapere fu rimpiazzato da uno nuovo, modellato secondo le istituzioni e gli stili nordamericani. I paesi del terzo mondo diventarono così il bersaglio di nuovi meccanismi di potere incorporati in infiniti programmi e strategie. Le loro economie, società e cultura furono offerte come nuovi oggetti di sapere. La creazione di una vasta rete istituzionale ( dalle organizzazioni internazionali alle università fino alle agenzie di sviluppo locale) assicurava l’efficiente funzionamento di questo ha parlato. Una volta consolidato determinò cosa poteva essere detto: in breve definì lo spazio dello sviluppo. Tutti infatti ripetono la stessa abilità di base, vale a dire che lo sviluppo consiste nell’aprire la strada alla realizzazione di quelle condizioni che caratterizzano le società ricche: industrializzazione, modernizzazione agricola e urbanizzazione. Il pensiero critico può contribuire alla trasformazione e allo smantellamento del discorso sullo sviluppo? Innanzitutto bisogna chiedersi se un tale dominio possa essere immaginato. I filosofi siano resi consapevoli che non possiamo descrivere esaustivamente il periodo in cui si capita di vivere, dato che è dall’interno delle sue regole che parliamo e pensiamo e che questo ci fornisce una base per le nostre descrizioni e la nostra stessa storia. Possiamo essere consapevoli di regioni o di frammenti della nostra era, ma solo una certa distanza da essa ci permetterà di tentare una descrizione critica della sua totalità. Il pensiero critico può risvegliare la consapevolezza sociale circa il potere dello sviluppo ha ancora nel presente. Potrà anche aiutare a visualizzare alcuni possibili percorsi lungo i quali le comunità possono allontanarsi dallo sviluppo verso un dominio differente, ancora

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sconosciuto, nel quale il bisogno naturale di sviluppo sia finalmente sospeso e in cui si possano sperimentare modalità diverse di organizzare società ed economia e di rapportarsi con la devastazione di quattro decadi di sviluppo. Il numero di studiosi del terzo mondo che sono d’accordo con questa prescrizione è in crescita. Invece che cercare sviluppi alternativi, questi parlano di alternative allo sviluppo e cioè di un rifiuto dell’intero paradigma. Ciò che è in gioco è la trasformazione del regime politico, economico e istituzionale della produzione della verità che ha definito l’era dello sviluppo. Se questo porti o meno a trasformazioni significative nel regime predominante, è tutto da vedere. È nei termini del discorso del movimento sociale che lo sviluppo e il suo ruolo fondativo nella costituzione del terzo mondo e dell’ordine economico internazionale del dopoguerra può essere messo alla prova.

I movimenti sociali e la trasformazione dell’ordine dello sviluppo A lungo andare, saranno questi movimenti che determineranno in larga misura lo scopo e il carattere di ogni possibile trasformazione. Nonostante si sia disaccordo sulla natura e sulle dimensioni degli odierni movimenti sociali, è chiaro alla maggior parte degli analisti che è iniziato un cambiamento nella struttura dell’azione collettiva, un nuovo spazio per la teoria e l’azione sociale. Questioni sulla vita quotidiana, la democrazia, lo Stato, la pratica politica e la ridefinizione dello sviluppo possono essere portate avanti più efficacemente nel contesto dei movimenti sociali. La maggior parte della recente letteratura dà per scontato che un’importante trasformazione sociale abbia già avuto luogo, forse, in senso generale, l’avvento di una nuova fase. Il discorso sul movimento sociale identifica così due ordini – il vecchio e il nuovo – caratterizzati da specifiche caratteristiche storiche. Riconoscere tuttavia le continuità che esistono fra i due periodi – sia a livello di teorie politiche, dello sviluppo ed economiche, sia a quello delle pratiche popolari – è importante. Il declino dei vecchi modelli è verosimilmente la conseguenza del fallimento dello Stato sviluppista nel produrre miglioramenti stabili e dei meccanismi politici, sia di sinistra che di destra, per affrontare questo fallimento. Inoltre, l’insostenibilità dei vecchi modelli si riflette nell’attuale crisi. Questa doppia crisi né i paradigmi e delle economie sta provocando una nuova situazione, una riconfigurazione sociale. All’oggi, lo studio più completo è l’indagine su dieci paesi portata avanti dal Latin America Social Science Council (CLACSO) sotto la direzione Generale di Fernando Calderòn (1986). Lo studio esamina le relazioni fra crisi, movimenti e democrazia e il possibile contributo dei movimenti a costruire nuovi ordini sociali, a favorire nuovi modelli di sviluppo e a promuovere l’emergere di nuove utopie. In sintesi, lo studio si propone di cercare nei movimenti la prova di una nuova forma di mettere in relazione il politico e il sociale, il pubblico e il privato, in modo che le pratiche quotidiane possono essere incluse fianco a fianco con il politico- istituzionale. Le nuove forme di fare politica non comprendono una nuova concezione della politica, ma un’espansione del campo politico a includere le pratiche quotidiane.

Temi di ricerca su cui i movimenti sociali Sebbene i movimenti sociali siano solitamente pensati nei termini del loro legame con lo Stato, essi sono qualcosa che va altresì ben oltre. In primo luogo, le relazioni di potere esistono al di fuori dello Stato, in una grande rete di altre relazioni (al livello del sapere, della famiglia e così via). I movimenti sociali possono anche ostacolare il consolidamento di corpi extrasociali come lo Stato. Possono anche essere considerati nomadi. Una situazione simile si trova nel campo del sapere. La scienza dello Stato e la scienza nomade coesistono, sebbene la prima cerchi sempre di appropriarsi di quest’ultima. L’ascesa statale procede territorializzando, creando confini e gerarchie, producendo certezze, teoremi

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e identità. La conoscenza nomade (o popolare) ha una forma molto diversa di operare. Essa rimane più vicina alla quotidianità, cercando non di ricavarne costanti ma di seguire la vita e i problemi secondo mutevoli variabili. Queste caratteristiche dei nuovi movimenti sociali – una certa indipendenza dallo Stato e l’esistenza di un ambito di conoscenza popolare – sono assennate in gran parte della letteratura.

La politica dei bisogni La questione dei bisogni è centrale nell’analisi dei movimenti sociali. I discorsi sui bisogni, per come vengono elaborati dagli esperti dello sviluppo, dalle università e da tutti i tipi di professionisti, possono essere visti come discorsi che mediano le relazioni fra i movimenti sociali e lo Stato, traducendo i bisogni politicizzati, rivendicati dai movimenti di opposizione, in potenziali oggetti dell’amministrazione statale. I movimenti sociali necessariamente operano entro il sistema dell’interpretazione e del soddisfacimento dei bisogni. Ma tendono effettivamente a politicizzare queste interpretazioni rifiutando di vedere i bisogni come meramente economici o domestici. Questo processo contribuisce al consolidamento di identità sociali alternative, specialmente se riescono a inventare nuove forme di discorso per interpretare i bisogni. Mentre i discorsi degli esperti ( come quelli degli agenti dello sviluppo) riposizionano i gruppi come casi per lo Stato e per l’apparato dello sviluppo, depoliticizzano così i bisogni, gli attori popolari sfidano le interpretazioni degli esperti. La sfida per i movimenti sociali è di elaborare nuovi modi di parlare dei bisogni e di rivendicare il loro soddisfacimento in forme che scavalchino la razionalità dello sviluppo con il suo discorso sui bisogni di base.

Conclusioni Possiamo postulare l’esistenza di tre principali discorsi in America Latina in grado di articolare forme di lotta. Innanzitutto, c’è il discorso dell’immaginario democratico (compresa la realizzazione dei bisogni, la giustizia economica e sociale, i diritti umani, l’uguaglianza di classe, di genere, di etnia). Sebbene sia nato all’interno dei discorsi egualitari dell’Occidente, non deve seguire necessariamente l’esperienza dell’Occidente. Secondariamente, c’è il discorso sulla differenza che include la differenza culturale, l’alterità, l’autonomia e il diritto di ciascuna società all’autodeterminazione. In terzo luogo, ci sono i discorsi anche di sviluppo veri e propri che originano dall’attuale crisi dello sviluppo ed al lavoro dei gruppi di pace. Qui il potenziale è per la ricerca di modi alternativi di organizzare le società e le economie, di soddisfare i bisogni, di curare e di vivere.

La decrescita come condizione di una società conviviale La posizione pro- crescita è largamente condivisa e vede nella crescita anche la soluzione dei problemi sociali, in quanto crea posti di lavoro e favorisce una ripartizione più equa. L’annuncio trionfale sui giornali della ripresa americana e dei piani di rilancio europei, si basa sui grandi lavori (infrastrutture per i trasporti) che non possono che deteriorare la situazione ( in particolare climatica). Le sregolatezze climatiche accompagnano le guerre del petrolio che saranno seguite dalle guerre dell’acqua, ma anche a pandemie e prevedibili catastrofi biogenetiche. Sembra che stiamo vivendo la sesta estinzione delle specie ma, a differenza delle precedenti, l’uomo ne è il diretto responsabile e potrebbe anche essere la vittima. In queste condizioni la società della crescita non è sostenibile né auspicabile. È dunque urgente pensare a una società della decrescita.

La società della crescita non è né sostenibile né auspicabile Per delimitare ciò che una società della decrescita potrebbe essere, conviene iniziare col definire quello che è la società della crescita. La società della crescita può essere definita come una società dominata da un’economia di crescita e che tende ad esserne assorbita. La crescita

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per la crescita diventa quindi l’obiettivo primario, se non l’unico, della vita. Una tale società non è sostenibile, fin d’ora il pianeta non basta più. Per conciliare i due imperativi contraddittori della crescita e del rispetto dell’ambiente e confutare la necessità della decrescita, gli esperti e gli industriali hanno messo a punto un’argomentazione in quattro punti:

1. l’ecoefficienza2. l’immateriale3. i progressi futuri della scienza4. la sostituibilità dei fattori

Con ecoefficienza, base dello sviluppo sostenibile, intendiamo la riduzione progressiva dell’impatto ecologico e l’intensità del prelievo delle risorse naturali per arrivare a un livello compatibile con la riconosciuta capacità rigenerativa del pianeta. Certo, ed è il secondo argomento, la nuova economia a base di servizi e di virtuale è relativamente immateriale. Tuttavia, rimpiazza la vecchia meno di quanto non la completi. Inoltre, è spesso più avida in input materiali e immateriali di quanto sembri. Se i programmi incorporano soprattutto materia grigia, la sola fabbricazione di un computer consuma, per esempio, 1,8 t di materiali. Alla fine, tutti indici mostrano che i prelievi continuano ad aumentare. Il terzo argomento, quello della soluzione scientifica, promette il benessere materiale e spirituale universale, la pace mondiale, l’interazione pacifica e reciprocamente vantaggiosa dagli umani e le macchine intelligenti, la completa scomparsa degli ostacoli a una comunicazione generalizzata ( in particolare quelli che risultano dalla diversità delle lingue), l’accesso a fonti inesauribili di energia, la fine delle preoccupazioni legate al degrado ambientale. E tutto questo mettendo insieme la nanotecnologia, la biotecnologia, le tecnologie dell’informazione e le scienze cognitive. Avere una fede cieca nella scienza e nel futuro per risolvere i problemi del presente e non solo contrario al principio di precauzione ma anche al semplice buon senso. Infine, la sostituibilità illimitata della natura con l’artificio. Entro certi limiti si può benissimo pensare di sostituire l’uomo con la macchina ( ovvero il fattore lavoro con il fattore capitale), ma non i flussi di materie prime ( input) con un aumento delle riserve.

Organizzare una società della decrescita serena e conviviale Da più di quarant’anni vengono denunciate le malefatte dello sviluppo, soprattutto nel senso dell’impresa del Nord verso il sud. Questa critica è sfociata nell’alternativa storica, ovvero l’auto organizzazione delle società/ economie vernacolari. La crescita è una necessità. In prima approssimazione, possiamo concepire una politica della decrescita che si pone l’obiettivo di rovesciare la forbice tra la produzione del benessere e il PIL. Si tratta di sconnettere il miglioramento della situazione dei singoli dall’aumento statistico della produzione materiale. La parola d’ordine della ricrescita ha per oggetto l’abbandono dell’obiettivo insensato della crescita per la crescita, obiettivo il cui motore altro non è che la ricerca sfrenata del profitto da parte di coloro che detengono il capitale. Chiaramente, la decrescita non è la crescita negativa. Sappiamo che il semplice rallentamento della crescita fa sprofondare le nostre società nella disperazione a causa della disoccupazione e dell’abbandono dei programmi sociali, culturali e ambientali che garantiscono un minimo di qualità della vita. La decrescita è dunque pensabile solo in una società della decrescita. Il progetto di costruzione di società conviviali autonome ed econome implica, rigorosamente parlando, più una a-crescita che una de-crescita. D’altra parte, si tratta precisamente dell’abbandono di una fede e di una religione: quella dell’economia. Una politica di crescita potrebbe consistere inizialmente nel ridurre o sopprimere le esternalità negative della crescita, che vanno dagli incidenti stradali alle spese per i medicinali contro lo stress; la rimessa in discussione degli

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spostamenti di uomini e merci sul pianeta con il relativo impatto negativo sull’ambiente ( dunque una rilocalizzazione dell’economia); qua e là non meno importante della pubblicità chiassosa e spesso nefasta. Pensiamo al fatto che la spesa mondiale per la pubblicità, oltrepassata solo di poco da quella militare, rappresenta più di 500 miliardi di dollari di inquinamento visivo, uditivo, materiale, ma soprattutto mentale. Per quanto riguarda i rifiuti con i quali la crescita minaccia puramente e semplicemente di sommergerci, è urgente farli decrescere. Visti i costi e l’inquinamento residuale causati dall’eliminazione e il riciclo, il problema diventa irrisolvibile se non cambiamo i parametri. Possiamo sintetizzare tutto ciò in un programma di otto R, ovvero degli obiettivi interdipendenti che possono mettere in moto un circolo virtuoso di decrescita serena, conviviale e sostenibile.

1. Rivalutare significa rivedere i valori nei quali crediamo, sui quali organizziamo la nostra vita, e cambiare quelli necessari. L’altruismo dovrebbe prendere il posto dell’egoismo, il piacere dello svago sull’ossessione per il lavoro, la cooperazione sulla competizione sfrenata, il locale sul globale… Il problema è che i valori attuali sono sistemici. Ciò significa che sono suscitati e stimolati dal sistema e che, a loro volta, contribuiscono a rinforzarlo. Naturalmente la scelta di un’etica personale diversa non è da trascurare. Dovrebbe anzi essere incoraggiata nella misura in cui contribuisce a minare le basi immaginarie del sistema. Tuttavia senza una rimessa in discussione radicale di quest’ultimo, la rivalutazione rischia di essere limitata.

2. Riconcettualizzare o ridimensionare significa modificare il contesto concettuale e/o emotivo di una situazione o il punto di vista dal quale è vissuta. Si impone per esempio per i concetti di ricchezza e di povertà.

3. Ristrutturare significa adattare la macchina della produzione e i rapporti sociali in funzione del cambio di valori. Questa ristrutturazione sarà tanto più radicale quanto più il carattere sistemico dei valori sarà smantellato. Questo può implicare la riconversione delle fabbriche automobilistiche per fare apparecchi di recupero energetico…

4. Rilocalizzare significa naturalmente produrre localmente i prodotti essenziali al fabbisogno della popolazione, partendo da imprese locali finanziate dai risparmi raccolti localmente. Ciò comporta che ogni decisione economica che può essere presa su scala locale deve essere presa localmente. Un tale principio si fonda sul buon senso e non sulla razionalità economica.

5. Ridistribuzione nel senso di ripartizione delle ricchezze e l’accesso al patrimonio naturale tra il Nord e il sud come all’interno di ogni società.

6. Ridurre vuol dire prima di tutto per ridurre l’orario di lavoro. Con un po’ di tempo libero e la possibilità di espressioni multiple, l’uomo troverà la sua forma di espressione e la concretizzazione dei suoi desideri.

7. Riutilizzare invece di buttare gli apparecchi e i beni d’uso.8. Riciclare i rifiuti incomprimibili della nostra attività.

Questa marcia verso una società della ricrescita dovrebbe essere organizzata non solo per preservare l’ambiente ma anche, e forse soprattutto, per ripristinare un minimo di giustizia sociale senza la quale il pianeta è destinato a esplodere.