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Opere 38

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Area 1 / Architettura, pae-saggio, design, tecnologia_Acustica ambientale_Acustica architettonica_Acustica edilizia_Acustica nei luoghi di lavoro_Agg. Coordinatori sicurezza cantieri _Agg. Prevenzione incendi_Città e quartieri in trasformazione_Coordinatore sicurezza cantieri_Costruire in legno_Habitare il progetto_Introduzione al calcolo strutturale degli edifici in legno_L’illuminazione urbana_Lighting design_Luce e apparecchi, architettura e ambiente_Luce e beni culturali_Luce e spazi commerciali_Luce per il lavoro e l’educazione_Luce, architettura e scenografia_Luce, colore e architettura_Master Smart City_Paesaggi e giardini aperti_Paesaggi, palinsesti, ecosistemi_Prevenzione incendi_Progettare abitazioni integrate (Domotica)_Progettazione urbana e residenziale. Take care territory

_Relazione paesaggistica_Retail, arredamento, contract_Scenari di ricostruzione e prevenzione emergenza_Temporary design_Teoria e critica dell’architettura contemporaneaArea 2 / Gestione della professione_Corso per membri di commissioni tecniche consultiveArea 3 / Norme professio-nali e deontologiche_Aggiornamento codice deontologico_Il compenso professionale_Il Consiglio di disciplinaArea 4 / Sostenibilità_Certificazione energetica degli edifici_Corso avanzato certificatore _Ca-saclima_Corso base certificatore _Casaclima_Dire, fare, progettare architettura sostenibile_Esperto Protocollo ITACA per professionisti_Fonti rinnovabili per la produzione di energia elettrica_Fonti rinnovabili per la produzione di energia termica_Il modello energetico dell’edifico per il progetto consapevole

_L’Acustica nella progettazione dell’edificio sostenibile_La progettazione bioclimatica e l’edificio “quasi” passivo_Protocollo LEED_Riqualificazione energetica_Risanamento energetico degli edifici (Casaclima)Area 5 / Storia, restauro, conservazione_Botanica applicata al giardino storico_Conservazione e restauro del giardino storico_Storia del giardino storico_Progetto architettonico - progetto impiantistico_Interventi di restauro e manutenzione sulle facciate dei centri storici_Conoscenza, valutazione e rilievo del giardino storico_Interventi su edifici storici/vincolati – prevenzione sismica_Storia dell’architettura e tecniche costruttive del cantiere storico – età medievaleArea 6 / Strumenti, cono-scenza e comunicazione_(Re)thinking BIM (Revit Bim: livello base)_{Food&Diet} computation (Python: livello base + intermedio)

_Blender avanzato_Blender base_Build(able) surface Rhinoceros avanzato_Building Stories_Contest CAD_Design and Digital Craft (confe-renza)_Droni per la documentazione e il rilievo architettonico e ambientale_Energy (Revit Energy + Vasari: livello base)_Fotografare gli spazi progettati_Fotogrammetria digitale_GIS avanzato_GIS base_Grafica, fotoritocco e impaginazione base con strumenti open source_Grasshopper 101 livello base_Infografica e sistemi di sintesi visiva_Moderne tecniche topografiche per il rilievo architettonico_Parametric organism (Grasshop-per e fabbricazione digitale: livello avanzato)_Photoshop base_Progetto e realizzazione di un servi-zio fotografico di architettura_Radiosity 101 livello base_Revit Architecture (Revit Bim: livello avanzato)

_Revit Dynamo 101 (Programmazio-ne visuale con Revit Dynamo: livello base + intermedio)_Rhino avanzato_Rhino base_Rhino.Python 101 livello base_Rhinoceros 101 Livello Base_Shaping space (Physical simulation: livello base)_Sistemi a scansione 3D per i beni culturali_Sketchup_Skin facade development livello base + intermedio_Wayfinding per il progetto ambientale e sistemi di orientamento spazialeArea 7 / Urbanistica, am-biente e pianificazione nel governo del territorio_Disciplina urbanistica in Toscana_L’attività edilizia in Toscana_L’attività edilizia in zona soggetta a vincolo paesaggistico_Pianificazione urbana e mobilità ciclistica nell’area metropolitana fiorentina_Pianificazione urbana e mobilità ciclistica nell’area metropolitana fiorentina (seminario)_Gli spazi della mobilità: sostenibilità e progetto urbano

A partire dal 1° gennaio 2014 è entrato in vigore l’obbligo di aggiornamento professionale per gli architetti introdotto dal D.P.R. 137/2012 e normato dal Consiglio Nazionale degli Architetti (CNA). Di seguito riportiamo l’elenco dell’offerta formativa dell’Ordine degli Architetti PPC di Firenze per il 2014, in attesa di approvazione e attribuzione crediti da parte del Consiglio Nazionale degli Architetti.

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3°Calssificato Fashion Valley di Chiarastella Borgia

L’immagine deL VaLdarno Nel numero 37 di “Opere”, nel resoconto dei risultati del workshop-concorso indetto dal Commissione territoriale degli Architetti del Valdarno Fiorentino, con il patrocinio del Comune di Figline e in collaborazione con la Fondazione Centro Studi e Ricerche Professione Architetto e il Circolo Fotografico Arno, è stato erroneamente pubblicata lʼimmagine del terzo premio classificato che, a titolo di errata corrige, riportiamo correttamente in questa pagina.

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CONTRIBUTORSCOLOPHON

OPEREpiazza Stazione 150123 Firenzetel. 055 2608671fax 055 290525email [email protected] toscana di architetturaISBN 978-88-6315-718-5ISSN 1723-1906Pubblicazione trimestraleSpedizione in abbonamento postale45% - art. 1, comma 1, CB Firenze.D.L. 353/2003 (conv. L. 27/02/04 n. 46)- • -Registrazione tribunale Firenzen. 5266 del 15 aprile 2003- • -ProprietàFondazione Professione Architettodell’Ordine degli Architetti PianificatoriPaesaggisti e Conservatori della Provinciadi Firenze e dell’Ordine degli ArchitettiPianificatori Paesaggisti e Corservatoridella Provincia di Prato.- • -Prezzo di copertinanumero singolo € 10,00numero monografico € 10,00arretrati € 10,00

Abbonamento annuale (Italia)(4+1 numero monografico) € 40,00Abbonamento annuale (estero) € 70,00- • -Garanzia di riservatezza per gli abbonati.L’editore garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e la possibilità di richiederne gratuitamente la rettifica o la cancellazione.

OPERE

- • -Realizzazione editoriale e stampa

Pacini Editorevia A. Gherardesca56121 Ospedaletto (Pisa)www.pacinieditore.it- • -Spazi pubblicitari [email protected] • -Copyright ©2013Fondazione Professione Architetto- • -Tutti i diritti di proprietà letteraria e artistica riservati.Manoscritti e foto, anche se non pubblicati, non vengono restituiti.

Rivista trimestraleanno XII — n.38marzo 2014chiuso in redazione — maggio 2014finito di stampare — giugno 2014

direttoreGuido Incerti

redazioneFabio FabbrizziGinevra GrassoMichele LondinoCristiano LucchiMarcello MarchesiniTommaso Rossi FioravantiAntonella SerraGraziella Sini (segreteria)Davide Virdis

direzione artisticaD’Apostrophe, Firenze

Elisabetta Bianchessi ☛Architetto. Ha studiato presso la Faculdade de Arquitectura Li-sboa, la Escuela Tecnica Superior de Arquitectura de Madrid e la Facoltà di Architettura Politecnico di Milano. Dottore di Ricerca in Progettazione del Pa-esaggio. Professore in Architettura Ambientale e Pro-gettazione del Paesaggio nel Politecnico di Milano. Visiting Professor Master World Natural Heritage Management, Unesco Trento. Ideatore e Direttore del Master in Landscape Design e Public Art del Politecnico di Milano e NABA nuova accademia belle arti Milano, da cui nascono progetti sperimen-tali, esposizioni, conferenze, convegni, laboratori e pubblicazioni. Ideatore di Transit in via dei Transiti 12 Milano, spazio multidisciplinare di ricerca e pro-getto sull’ambiente e il paesaggio. Antonio Ca-pestro ☛Si laurea in Architettura nel 1990 presso l’Università degli Studi di Firenze (Facoltà di Architettura), con il massimo dei voti. Nel 1998 consegue il titolo di Dottore di ricerca in Progettazio-ne Architettonica e Urbana presso l’Unversità degli Studi di Napoli Federico II (Facoltà di Architettura). Nel biennio 2001-02 è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Architettura di Firenze per lo svol-gimento del programma di ricerca “Ecosistema-città: verso un nuovo linguaggio per la riqualificazione ambientale”. Nel 2002 è Ricercatore in Progetta-zione Architettonica e Urbana presso il Dipartimen-to di Architettura di Firenze. Nel 2005 Professore Aggregato presso il Dipartimento di Architettura di Firenze. Dal 2003 insegna Progettazione Architet-tonica e Urbana nei Corsi di Laurea Magistrale in Architettura, Scienza dell’Architettura e Magistrale Specialistica della Facoltà di Architettura di Firenze. Maurizio Carraresi ☛Diplomato alla Scuola Internazionale di Fotografia a Firenze, ha collaborato con fotografi come Pietro Savorelli e Leo-nardo Ferri. Nel 2011 ha fondato Bwedding. Svolge un’intensa attività, indagando le trasformazioni del paesaggio contemporaneo e il rapporto storico cultu-rale che in esso vi abita. Davide Tommaso Ferrando ☛Architetto, dopo la laurea nel 2005 in Architettura presso il Politecnico di Torino, tra il 2005 e il 2008 svolge attività professionale in studi di architettura a Rotterdam (Group A), Genova (Archea Genova) e Torino (Camerana & Partners). Nel 2007 e nel 2008 è assistente alla didattica (progettazione) e dal 2009 è titolare di una borsa di dottorato presso il Dipartimento di Architettura e Progettazione Edilizia del Politecnico di Torino. Ha curato varie pubblicazioni. Alessio Guarino ☛Nato a Napoli, studia scultura all’Accademia di Belle Arti. Si trasferisce poi a Milano dove si iscrive alla scuola di fotografia Bauer della Società Umanitaria, storico centro sperimentale di iniziati-ve sociali. Dal 2011 si occupa prevalentemente di

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documentazione architettonica paesaggistica. Nel 2012 crea con Elisabetta Bianchessi e Alessandro Mason, Verdi Acque associazione a salvaguardia e tutela dei paesaggi fluviali, nei territori attraversati da vie d’acqua. Lavori recenti riguardano la docu-mentazione fotografica sistematica dell’architettura voluta da Adriano Olivetti (Biennale di Architettura di Venezia 2012). La documentazione paesag-gista del fiume Piave e una vasta documentazione delle opere del paesaggista Pietro Porcinai tutt’ora in corso. Nel tempo i suoi servizi di architettura e i reportage socio-antropologici, che documentano le trasformazioni di diverse aree urbane dell’Europa e dell’Asia, si sono conquistati le pagine di prestigiose riviste, italiane e internazionali, e la considerazione di istituzioni pubbliche e private. Vive e lavora tra Tokyo e Firenze, due città che ama e i cui opposti in lui forse si incontrano. Michele Manzella ☛Nasce a Bologna il 17 Luglio 1988. Dopo il diploma presso il Liceo Artistico F. Arcangeli, si iscrive alla Facoltà di Architettura di Ferrara e con-temporaneamente frequenta studi di architettura di Bologna. Nel 2012 si laurea con lode presentando una tesi di riqualificazione urbana. Nello stesso anno vince il concorso per il dottorato di ricerca in Tecno-logia dell’Architettura del Dipartimento di Architet-tura di Ferrara. Attualmente è visiting researcher al Royal College of Art di Londra, presso il quale sta

studiando metodi di pianificazione strategica conte-stualmente alle esondazioni del Tamigi. Eugenio Pandolfini ☛Architetto, si occupa della rela-zione tra architettura, nuove tecnologie e percezione. Dal 2003 collabora con l’Università di Firenze come cultore della materia e professore a contratto (Facoltà di Architettura e di Scienze della Formazio-ne). Nel 2007 lavora con il professor Gonçalo Byrne sul tema del recupero urbano presso la Facoltà di Ar-chitettura di Alghero. Nel 2010 consegue il Master in Progettazione Architettonica Avanzata presso la Scuola Tecnica Superiore di Architettura di Madrid (ETSAM), dove dal 2011 frequenta la scuola di dottorato lavorando sul tema della percezione distrat-ta come strumento di analisi privilegiato nell’ambito del progetto di architettura contemporanea. Paolo Rumiz ☛è un giornalista e scrittore italiano. Inviato speciale de “Il Piccolo” di Trieste e in seguito editorialista di “la Repubblica”, segue dal 1986 gli eventi dell’area balcanica e danubiana; durante la dissoluzione della Jugoslavia segue in prima linea il conflitto prima in Croazia e successivamente in Bosnia ed Erzegovina. Nel novembre 2001 è stato inviato ad Islamabad e successivamente a Kabul, per documentare l’attacco statunitense all’Afghanistan. Anna Stradella ☛Dottore di ricerca con curriculum Design Navale Nautico presso la Scuola di Dottorato di Architettura e Design della Facoltà di

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Architettura di Genova. Ha investigato sul tema del-la modularità e, in ambito nautico, sullo studio di ti-pologie di imbarcazione maggiormente portate ad un possibile utilizzo della stessa. Attualmente assegnista di ricerca con la Facoltà di Architettura di Genova e Fincantieri Mega Yacht di La Spezia. Si occupa dell’allestimento di esterni su Mega Yacht, indagan-do il processo dalla progettazione all’installazione. In copertina Giuseppe di Carlo ☛Laureato alla Facoltà di Architettura di Firenze in Disegno Industriale. Dopo la laurea ha seguito il corso in edi-toria digitale presso la casa editrice Scala Grup. Dopo queste esperienze formative, ha lavorato nel campo della stampa digitale e serigrafica su tessuti. Dal 2002, con sede a Firenze, si occupa di illustrazione, pittura e grafica. Cerca durante il processo lavorativo di intrecciare queste tre discipline per dare un forte carattere personale al prodotto finale. Il suo obiettivo è quello di testare se stesso costantemente con nuovi modi di progettare, sempre con il desiderio di appren-dere e sviluppare nuove competenze per ampliare il suo bagaglio e metterlo a disposizione del cliente. Sempre motivato da nuove sfide, il suo lavoro si adat-ta: identità, logo, tipografia, character design, pattern, editoria e stampa. Un ringraziamento spe-ciale va agli Eredi Ghirri per la con-cessione a titolo gratuito della foto di Luigi Ghirri in chiusura del numero.

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14La Piave

Laboratorio di ricerca – azione Elisabetta Bianchessi

22Casadellarno

Progetto di informazione-promozione-educazione per una nuova cultura

del fiume come significativa risorsa ambientale del territorio

Antonio Capestro

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Paesaggi dʼacquadi Massimo Carraresi

62Domestic City

Davide Tommaso Ferrando

63PONT JeaN-Jacques bOscOma /// Bordeaux, Franciatesto di Davide Tommaso Ferrando

69MaDRID RIOBurgos & Garrido Arquitectos Associados /// Madrid, Spagnatesto di Eugenio Pandolfini 75scuOla galleggIaNTeNLÉ Architects /// Makako, Nigeriatesto di Davide Tommaso Ferrando

82Il fiume che vediamo morirà

Marcello Marchesini

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5 ALTRE ARCHITETTURE

PROJECTS

EPICENTRIRICERCHE

11Beyond water

Prevenzione infra-strutturale dalle inondazioni

Michele Manzella

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95Morimondo

Paolo Rumiz94

Compendio letterario

33Case dʼacqua

Ginevra Grasso

34PONTIlI Del PPBarreca & La Varra, YellowOffice, Nature Mood /// Piacenza-Reggio Emiliatesto di Ginevra Grasso

41RIqualIFIcaZIONe aRee PaesaggIsTIcHe cONTIgue al ceNTRO sTORIcOMade associati /// Quinto di Treviso, Trevisotesto di Ginevra Grasso

46MeDIaTecaDAP Studio /// Castellanza, Varesetesto di Ginevra Grasso

52Storie di ponti

Fabio Fabbrizzi

57Over the river

Avvertimenti contro l’arte effimeraMichele Londino

89Imbarcazioni

Tra architettura e designAnna Stradella

93Type Berlin

Mathias RedmannAnna Stradella

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7 8 APPUNTIDI VIAGGIO

PROGETTI

MISCELLANEADESIGN

FOCUS

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Nessun uomo entra mai due volte nello stesso fiume perché il fiume non è mai lo stesso, ed egli non è lo stesso uomo. (Eraclito)

Chi non sa qual sia la via che conduce al mare, deve prendere per compagno il fiume. (Plauto)

Perché un numero dedicato ai fiumi?Semplice, perché conseguentemente agli spazi condivisi, alle domestic city che abbiamo trattato nei precedenti numeri, spazi condivisi e domestici tra le persone, abbiamo pensato in questo di trattare gli spazi condivisi e domestici, in quanto urbani, che abbiamo natura e città dei quali ritengo elemento cardine “il Fiume”.

Il fiume infatti è uno spazio “altro” rispetto la città. È un luogo sospeso, che spesso è stato l’elemento generatore della città stessa. Come ben sappiamo molte delle metropoli della terra sono attraversate da un fiume. Un fiume che pur avendo fatto nascere, così come distrutto, l’economia della città resta sempre — rispetto ad essa — un universo a sé stante. Così se si pensa a New York abbiamo l’Hudson, Parigi val bene una Senna, il Tamigi per Londra, l’Arno a Firenze, il Tevere a quella grande bellezza che è Roma.Ognuno di questi fiumi è l’anima stessa della città e allo stesso tempo altro da lei, nonché parte di una rete “in movimento” che attraversa tutto il globo.Una cosa si intuisce immediatamente se ci si cala al livello delle sue acque e si prova, per quanto possibile a percorrerne le rive, o direttamente le correnti, se si ha la fortuna di avere una barca con cui avventurarsi su di esso. Ho scritto avventurarsi proprio perché stare “sul fiume” ci rende consapevoli di essere in uno spazio imprecisato. La città è lì, ma scompare. Scompare lo skyline così come lo conosciamo, scompaiono

certi rumori, altri si palesano. È un luogo che pur guidandoci e dandoci delle direzioni, valle e monte, nella realtà delle cose muta costantemente morfologia e spazi. Seppur costretto dentro un mondo che la precisione oggi raggiunta dalle scienze geografiche e la geo-referenza dei nostri smartphone pare aver bloccato1.Il fiume e le sue costanti “incertezze” possono essere paragonate ad una antica ma allo stesso tempo nuova frontiera. Per secoli le genti si sono mosse seguendo i fiumi (da qui anche la localizzazione delle nostre città) e non necessariamente le strade che oggi percorriamo quotidianamente. E seguendo i fiumi quelle stesse genti avanzavano entro territori inesplorati. Poi necessità di “ridimensionamento temporale” hanno portato alle forme di controllo del territorio e delle genti che oggi chiamiamo anche strade. Ma chi di voi ha avuto, o avrà, la possibilità di percorrere la “sala delle mappe” dei Musei Vaticani potrà comprendere com’era il paesaggio, il territorio e lo spazio quando erano i fiumi a “dettare le regole”, anche del tempo, e non le vie

EDITORIALE

Guido Incerti

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di comunicazione diretta. Poi l’uomo li ha schiavizzati, più che debolmente lasciati a nutrire la terra, deviandoli e rendendoli generatori di energia. I fiumi hanno così visto restringersi i loro letti, sempre più guidati dal cemento armato degli ingegneri idraulici piuttosto che dall’opera di paesaggisti ed architetti. Ma non si possono comunque dimenticare opere ingegneristiche importanti, di preservazione, come fu lo spostamento del Brenta e del Piave effettuato dai Veneziani o il cavo napoleonico che, a Bondeno, fa passare uno sotto l’altro il Canale di Burana con il cavo appunto che dal Po porta le acque ad irrigare le terre della piana. O l’architettura derivata dall’uso del fiume, con Piero Portaluppi su tutti.Oggi i fiumi tornano ad essere territori di conquista più che territori conquistati. Molte delle amministrazioni delle città sopracitate — e decine di ricerche — stanno tornando ad occuparsene attivamente riscoprendo nuovamente le loro potenzialità in termini di disegno urbano, di paesaggistica, di sostenibilità, di aerodinamica urbana e

di architettura dello svago tanto quanto in termini di futuro sviluppo delle città. E qui l’architettura deve e può tornare protagonista. L’architettura dei luoghi come l’architettura degli spazi. Le stesse amministrazioni, devono comprendere come, il fiume, magari liberato per quanto reso possibile dalla sua relazione con gli spazi dell’uomo, sia una potenzialità e non sempre un pericolo. Oggi. Perché se invece programmiamo quello che accadrà non possiamo non immaginare come quegli stessi fiumi saranno nel futuro prossimo, complici anche la strategia “dell’adattamento” deciso dalle Nazioni circa il riscaldamento globale, gli sfoghi naturali per l’innalzamento del livello marino, e sommergeranno piccole o grandi porzioni — a seconda della topografia — di quelle città che sulle loro traiettorie si affacciano. È un processo che è già ricerca. E per quanto sarà possibile la stessa ricerca urbanistica ed architettonica, se avranno come compagno il fiume stesso per riprendere Plauto, ci aiuteranno nel diminuire ove possibile le difficoltà che questo passaggio comporterà. In tutti i termini.

✒1 Carl Ritter, padre della geografia moderna, nel 1852 si ribellava contro quella che chiamava la “dittatura cartografica”, colpevole a suo dire di aver soppiantato la descrizione geografica. A partire dal sedicesimo secolo infatti la geografia ridusse definitivamente il mondo a immagine spaziale, e mappe sempre più precise e affidabili si sostituirono a quest’ultimo.

p.s.Con questo editoriale si chiude la mia direzione di “Opere”. Colgo brevemente l’occasione di ringraziare tutti i nostri lettori, quelli che hanno creduto in me all’inizio di questa avventura e tutti coloro che in questi 4 anni e mezzo, 12 numeri, mi e ci hanno supportato dando — sempre entusiasticamente — il loro apporto per portare a quello che è, oggi, il livello della rivista. Un livello che è stato riconosciuto non solo a livello locale, visto che “Opere” è uno degli organi di comunicazione della Fondazione Architetti Firenze e Prato, ma in tutta Italia. Un livello di cui sono orgoglioso. Un grande in bocca al lupo al mio successore!

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La parola “catastrofe”, che eti-mologicamente significa “ri-volgimento”, indica — secon-do Polibio e Luciano di Sa-mosata — il momento di ri-soluzione della tragedia, l’at-to della catarsi. Il cambiamen-to è un evento radicale, meta-foricamente una caduta verso il basso (κατάστροφή, dal Gre-co κατά [katà, “giù”] +στροφή [strophē, “volgere”]) e quindi un’indicazione spazio-tempo-rale. L’accezione negativa del termine deriva dalla connota-zione che il prefisso κατά assu-me in riferimento alle divinità ctonie ed al mondo degli infe-ri, per cui la caduta verso il bas-so diviene caduta verso l’abisso. Comunemente essa è usata co-me sinonimo di “disastro”; ma questa accezione è da ritenere distorta se consideriamo una valanga in una valle disabita-ta come fenomeno geofisico, in quanto questa è solamente un evento catastrofico che non ha conseguenze disastrose su un si-stema. Il disastro si concretizza quindi nel momento in cui l’es-sere umano ed il territorio an-tropizzato vengono coinvolti ed un evento potenzialmente di-struttivo impatta su una società caratterizzata da una condizio-ne di vulnerabilità più o meno elevata. Esso riguarda la popo-lazione come gruppo e non il singolo, per cui l’intero sistema sociale (od una parte di esso) non possiede il controllo della gestione di un evento.Nella conoscenza dei fenome-

ni, la consapevolezza e la com-prensione del rischio al qua-le una comunità è esposta svol-gono un ruolo centrale. Benché non sia possibile misurare il li-vello di rischio in senso assolu-to, poiché non esiste come real-tà oggettiva o caratteristica fisi-ca, è però sempre possibile rife-rirlo ad una condizione specifi-ca, per la quale devono essere operate scelte altrettanto deter-minate nella gestione e piani-ficazione strategica delle città. Posto in relazione ad un evento catastrofico, il rischio determi-na l’amplificazione degli effetti fisici di un agente che impatta sulla comunità, i.e. la magnitu-do di un disastro. I livelli di ri-schio dei più svariati fenomeni geofisici sono mappati per una moltitudine di luoghi, ma non sono mai direttamente collega-ti agli strumenti di pianificazio-ne e gestione del territorio. La potenzialità di uno strumento telematico univoco, che sia in grado di sovrapporre le map-pature tradizionali alle simula-zioni e conseguenti definizioni del livello di rischio, è palese so-prattutto per gli eventi catastro-fici la cui ciclicità rispetta tem-pi decisamente ridotti e preve-dibili, come nel caso delle inon-dazioni.Le preoccupanti previsioni cir-ca cambiamenti climatici estre-mi e recenti avvenimenti im-pongono di focalizzare l’atten-zione sull’innalzamento del li-vello delle acque. Questo fe-nomeno è dovuto a due fatto-

ri concomitanti: lo scioglimen-to dei ghiacci polari e monta-ni e la dilatazione del volume dell’acqua per via dell’eccita-zione molecolare. Inoltre, ma-ree e temporali influiscono a loro volta localmente sulla con-dizione delle acque. Le stime dell’Ipcc (Intergovernmental Pa-nel on Climate Change) ipotizza-no il superamento di tre piedi di innalzamento (circa un me-tro) entro la fine del xxi Secolo. Diverse grandi città si sono do-tate nel tempo di sistemi di con-trollo o difesa rispetto a questa problematica, come le Maeslan-tkering di Rotterdam, il Progetto Mose di Venezia, il Flood Preven-tion Facility Complex di San Pie-troburgo, i Zuiderzeewerken fra IJsselmeer ed il Mare del Nord, e le Thames Barrier di Londra.Queste ultime sono state azio-nate totalmente centosettanta-quattro volte dal 1982, anno in cui furono rese operative: quat-tro negli anni Ottanta, trenta-cinque negli anni Novanta, e centotrentacinque dal 2000 ad oggi, secondo i dati dell’Envi-ronment Agency. Come il livello del mare si alza, le barriere do-vranno essere chiuse più spes-so per evitare esondazioni, ma è previsto che la loro efficien-za venga meno attorno al 2070, con una probabilità di esonda-zione pari ad uno a dieci (Vau-ghan). L’attuale ipotesi è di cre-are delle nuove barriere verso la foce del Tamigi, come una sorta di seconda cerchia mura-ria in una città medievale. Così

facendo, il delicato rappor-to fra l’organismo urbano e le sue parti verrebbe nuovamente meno, in quanto si realizzereb-be unicamente un’infrastruttu-ra senza pensare alla struttura della città. Prova evidente della negatività di questa frattura so-no le forzate alluvioni delle zo-ne periferiche di Londra, deter-minate dalla chiusura delle bar-riere, al fine di preservare le zo-ne economicamente più pro-duttive della capitale. L’archi-tettura della città dipende dal-la relazione di due fattori in-scindibili, ovvero l’organismo urbano (considerato come ele-mento unitario) e le sue cellule elementari. Reciprocamente, la struttura planimetrica della cit-tà ed il progetto dei suoi organi-smi si autodeterminano.Solo l’essere umano, tra tutte le specie viventi, ha raggiunto un grado di intelligenza che gli ha consentito di modificare radi-calmente l’ambiente, in manie-ra tale da garantirgli o facilitar-gli la sopravvivenza. Grazie a ciò, egli ha sempre mediamen-te mantenuto un tasso di nasci-ta maggiore di quello di mor-te ed attualmente il numero de-gli abitanti del pianeta sta con-tinuando a crescere in maniera esponenziale. La maggior parte dell’umanità vive in prossimità della costa e circa cinquecento milioni di persone sul delta di un fiume. L’aumento di popo-lazione determina necessaria-mente una richiesta crescente di alloggi, servizi, infrastruttu-

Michele Manzella 1 1

B E Y O N D W AT E R p r e v e n z i o n e i n f r a - s t r u t t u r a l e d a l l e i n o n d a z i o n i

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✺1 Mappa del rischioper la pianificazione urbana strategica

re, etc. Tendendo a concentrar-si nelle grandi città, l’alterazio-ne di una condizione esistente è il fulcro delle dinamiche urba-ne; la pianificazione del territo-rio ricopre, quindi, un aspetto fondamentale nella prevenzio-ne da eventi disastrosi.Non sempre alla pianificazione viene attribuito il giusto valore e questo è un deficit notevole in un sistema sociale estrema-mente complesso. La varietà e la quantità delle componen-ti che formano la città sono sta-te ad oggi proporzionali all’au-mento della popolazione, por-tando spesso gli apparati istitu-zionali, burocratici ed ammi-nistrativi alla paralisi se non al collasso. È necessario, oggi, ri-durre il grado di complessità delle nostre città non tanto per quanto riguarda le loro intrin-seche varietà, quanto piuttosto per le infrastrutture che la go-vernano. Comunemente, l’in-frastruttura è un impianto che collega condizioni qualitativa-mente differenti o che si tro-vano su livelli differenti o a di-stanze considerevoli. Nell’ulti-mo decennio la disponibilità di tecnologie cosiddette “immate-riali” ha agevolato i contatti fra utenti (e fra utenti e sistemi) ed accelerato le dinamiche socia-li, gli scambi e la democratici-tà del possesso di informazioni. Così, si parla di accelerazione circa l’aumento demografico, lo sviluppo urbano e lo scam-bio di dati. Come legare questi fattori esponenzialmente cre-

scenti nella gestione della cit-tà, affinché tutta la società pos-sa giovarsene?La mappa telematica del ri-schio è uno strumento unitario di raccolta ed estrazione di da-ti provenienti da mappe, simu-lazioni, Enti Locali e vari sta-keholder, che intende raggrup-pare informazioni con diverse caratteristiche di output, al fine di fornire un’infrastruttura uni-ca per la gestione dello svilup-po urbano. I dati vengono rac-colti su una piattaforma gis (ge-ographic information system) dal-la quale è possibile estrapolare i dati relativi ad ogni area nel-la quale si intende sviluppare nuovi interventi urbani e para-gonarli ad aree con caratteristi-che similari entro un livello di rischio determinato. Questo è identificato tramite le caratteri-stiche fisiche degli ambienti na-turale ed antropizzato, ai quali vengono applicate simulazioni. In questo modo è possibile uni-formare e semplificare strate-gie operative per la difesa dalle esondazioni a partire da casi pi-lota che fungano da manifesto di una relazione ritrovata fra la struttura della città e la reale in-frastruttura, ovvero il fiume.Nel caso di Londra, il Tami-gi non è più sfruttato come in-frastruttura: le attività di com-mercio, gli scambi portuali, la pesca, i centri di attività spor-tive e piacere, che storicamen-te sono state legate al fiume, non hanno più la stessa inten-sità e centralità ricoperte pre-

cedentemente. Di conseguen-za, il tessuto urbano si è adatta-to a questo cambiamento cre-ando un circolo vizioso che ha depotenziato progressivamente l’uso del fiume. L’utilizzo della mappa del rischio come stru-mento operativo può diventa-re un motore che facilita le scel-te progettuali a larga e ridot-ta scala. Le soluzioni tecnolo-giche messe in campo sono le-gate sia alla morfologia dei per-corsi d’acqua e del terreno, co-me la creazione di nuovi cana-li e bacini o l’abbassamento del letto del fiume, sia alla struttu-ra degli edifici, ad esempio cre-ando zone allagabili o tetti pia-ni collegati a taniche ipogee. Queste strategie impiegate pro-ducono una modificazione dei livelli di rischio locali (per le so-luzioni architettoniche) e glo-bali (per le soluzioni infrastrut-turali), che produrranno nuovi dati da inserire all’interno del-la mappa telematica del rischio.Con questa metodologia ope-rativa si crea un sistema conti-nuamente aggiornabile e mo-dificabile, per cui i casi pilota diventano, con l’estensione del sistema, progetti diffusi che ri-strutturino la forma della città. Il ruolo svolto da infrastrutture flessibili per affrontare le sfide del nostro secolo non può es-sere sottovalutato: sono un ser-vizio più conveniente, più resi-stente e più in grado di soddi-sfare obiettivi sociali, ambien-tali ed economici rispetto alle infrastrutture tradizionali.

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A che cosa stai lavorando adesso ?Al Libro dei fiumi più lunghi del mondo, che dovrebbe esse-re pubblicato prima dell’estate 1973. “…” È un lavoro lingui-stico nato dall’idea delle classi-fiche e fatto sulla misurazione “…” I fiumi sono difficilissimi da misurare; ci sono tanti meto-di di lettura sulla lunghezza dei fiumi. Ci sono fiumi tempora-nei, stagionali, e ciò pone il pro-blema della loro classificazione; altri che si allungano si accor-ciano; inoltre bisogna decide-re dove si misura un fiume, se in centro, ai lati, a seconda del-le curve a destra o sinistra; e se vi è un’isola il problema diviene drammatico. Parafrasando la parola clas-sificazione, nell’eccezione di un’enciclopedia fluviale im-possibile descritta da Alighie-ro Boetti (Alighiero Boetti, a cura di Achille Bonito Oliva, Electa 2009, p. 178), passiamo per ana-logia al racconto, all’immagine in diretta del fiume, dove la sua sostanza si svela davanti a noi e appare nel fiume Piave: orga-nismo vivo e imprendibile, in-classificabile, incalcolabile, che si trasforma assumendo costan-temente nuovi territori e nuo-ve specie abbandonandone al-tre, in una evoluzione perpetua delle acque-terre che definisco-no la sua sostanza fisica, i suoi limiti biologici. Eppure lo spiri-to, la liquidità dei fiumi, è stata più volte oltraggiata negli ulti-mi decenni dalla nostra neces-

sità di controllo del territorio, di usurpazione e ricavo, di bar-riere fisiche costruite cementi-ficando senza fine il paesaggio italiano contro qualsiasi natura-le osservazione delle leggi del-la natura, sino a trasformare, a questo punto della storia del nostro paese, l’espressione es-sere fiume (citando l’altra ope-ra miliare dell’artista Giusep-pe Penone) in un miraggio, lon-tano e inavvicinabile, che og-gi vogliamo riconquistare, per-ché abbiamo bisogno del fluire dell’acqua.220 km (così dicono i geografi, ma forse un po’ di più o un po’ di meno)Siamo partiti da +2.037 m per arrivare allo zero altimetrico. Da Sappada, sorgente del fiu-me Piave, proseguendo lungo il torrente e passando per i laghi di Calalzo di Cadore e gli anti-chi manufatti a Perarolo di Ca-dore, per poi procedere tra i bo-schi di Castellavazzo raggiun-gendo Ponte nelle Alpi e arriva-re all’area pedemontana di Fel-tre, in cui il paesaggio collina-re si apre ed il torrente diven-ta fiume sino a scorgere, al di là degli argini, i vigneti, la campa-gna veneta che da Valdobbia-dene si estende per chilometri, per poi tornare a costeggiare il Montello, di formazione carsi-ca nelle sue caratteristiche doli-ne, arrivando al paesaggio dila-tato, ampio che contraddistin-gue il medio Piave, composto da un letto ghiaioso in continuo movimento, sino a Ponte di Pia-

ve, luogo in cui iniziano i terri-tori di pesca e navigazione, rag-giungendo San Donà di Piave e i paesaggi della bonifica, per ritrovarsi alla foce del fiume, a Jesolo — Eraclea, in un delta composto da lagune inconta-minate ed attività turistiche ca-pillari.La Piave è un laboratorio di ricerca-azione, dove abbiamo messo al centro il tema della ri-conquista del fiume, della sua vivibilità, in un’ottica di dialogo costante con le comunità che lo vivono per diventare linfa vita-le dei territori percorsi, nel ten-tativo di dare una restituzio-ne pubblica ad uno sguardo soggettivo-oggettivo del fiume, senza preconcetti storicistici o culturali, senza barriere ideo-logiche previe a qualsiasi azio-ne site-specific realizzata lungo il suo corso.La Piave è un processo di co-noscenza, esplorazione, di ri-cerca-azione fatta con i piedi e con gli occhi, attraverso le ma-ni: 220 km di viaggio in un ter-ritorio acquatico imprendibile, cangiante, in cui micro e macro si fondono, dialogano tra scien-za e natura, rappresentazione e racconto. La Piave è il deside-rio di fiume, delle sue sponde, di poterlo vivere come luogo di aggregazione e d’incontro: è la necessità di ritornare a navi-garlo, di starci dentro, come un ventre materno. La Piave è la ricerca di un’identità, dell’esse-re fiume che vuole ritrovare il suo spazio fisico di movimento,

riaffermando una dimensione unitaria, una giacitura, in cui far convivere molteplici azioni umane, in equilibrio. La Piave è una comunità, in dialogo con il fiume, attraverso il flusso di racconti, culture, eventi, tradi-zioni, economie che gli appar-tengono sino a creare un con-temporaneo archivio multime-diale e popolare che si muove nel tempo, tra passato presente e futuro. La Piave è uno stru-mento aperto, multidisciplina-re, per parlare di acqua come bene di tutti.In questo processo (in atto), il laboratorio di ricerca-azione La Piave vuole esprimere la necessità di riscoprire l’interez-za del fiume, dalla sorgente al-la foce, coinvolgendo la cittadi-nanza, gli amministratori, le as-sociazioni, gli enti, le università, i consorzi, in un processo di af-fermazione dell’identità fluvia-le, superando la visione minuta, eccessivamente locale, che dei corsi d’acqua oggi si offre. La Piave è la necessità di esse-re un tassello pubblico, espres-sione di questo desiderio di uni-tà e condivisione, che muoven-dosi nella volontà di restituire quella complessa varietà cultu-rale e geografica che da sempre forma questo paesaggio acqua-tico non esclude nessuna delle sue molteplici anime. È la par-tecipazione attiva ad un pro-cesso che propone una visione contemporanea del fiume, con una serie di azioni (laboratori didattici-mostre-eventi artistici

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L APIAVEl a b o r a t o r i o d i r i c e r c a – a z i o n eElisabetta Bianchessi

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e culturali-attività sportive-turi-smo a km 0) da realizzare lungo il suo corso per ricreare la con-sapevolezza di tempi altri, lo-giche altre, di primaria impor-tanza rispetto al nostro rappor-to con la natura, con l’acqua, elemento irriducibile, uguale e diverso, mobile e improvvi-so, duttile e ostinato, necessario alla nostra vita, sino a restitui-re visibilità alle molteplici espe-rienze fisiche che ancora og-gi il fiume concede a chi lo vi-ve spontaneamente, rendendo-lo nuovamente ludico, primige-nio, collettivo.Secondo questi intenti, il pro-getto La Piave si svilupperà nel tempo, attraverso differen-ti linee tematiche, dove la di-mensione locale del progetto si mescolerà alla dimensione na-zionale ed internazionale della sua rappresentazione, della sua visione (La Piave sarà presen-te alla Biennale di Venezia, nel-la Serra dei Giardini, dal 5 giu-gno al 7 settembre con una mo-stra multimediale), in un pro-cesso continuo di passaggi d’in-formazioni e ricerche, a diffe-renti scale e con diverse forme espressive, secondo metodolo-gie d’indagine-progetto sempre specifiche ai temi trattati e che appartengono alla cultura con-temporanea, in cui i territori coinvolti dialogheranno natu-ralmente tra loro, come tra va-si comunicanti di un unico or-ganismo fluido, acquoso, sem-pre in movimento, in evoluzio-ne, come il fiume Piave.

La Piave laboratorio di ri-cerca-azione a cura di Elisa-betta Bianchessi, Alessio Gua-rino, Alessandro Mason in col-laborazione con: Susanna Ravelli.

Con il patrocinio di: Regione Ve-neto, Politecnico di Milano Design, NABA Nuova Acca-demia Belle Arti Milano, Pa-esagire, GAL Venezia Orien-tale, GAL Prealpi e Dolomiti Bellunesi, GAL Terre di Mar-ca, GAL Alta Marca, Centro Internazionale Civiltà dell’Ac-qua, Museo di Storia Natura-le e Archeologia Montebellu-na, Legambiente Veneto, Cir-colo Legambiente Piavenire, Arte Sella incontri internazio-nali arte natura, Osservatorio per il Paesaggio delle Colline dell’Alta Marca, CIRF Cen-tro Internazionale Riqualifica-zione Fluviale, Dolomiti Con-temporanee laboratorio d’arti visive in ambiente, Consorzio BIM Piave Treviso.

Con la partecipazione dei comuni di: Sappada, Calalzo di Cadore, Perarolo di Cadore, Castella-vazzo, Ponte nelle Alpi, Feltre, Montebelluna, Pieve di Soli-go, Sernaglia della Battaglia, Susegana, Ponte di Piave, San Dona di Piave, Eraclea, Jesolo, Noventa di Piave.

La Piave è un progetto a cura dell’associazione Verdiacque

http://lapiave.orghttp://www.verdiacque.com

✺In questa e nelle pagine a seguire La Piave Flora/Fauna e Reportage Fotografico del laboratorio con foto di Elisabetta Bianchessi e Alessio Guarino

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Nel Parco storico delle Casci-ne di Firenze, all’interno del Centro Visite presso il Piaz-zale del Re, è stato inaugurato di recente la Casadellarno il progetto di uno spazio esposi-tivo permanente (museo inte-rattivo dell’Arno), per ospita-re racconti, progetti, ricerche ed eventi sull’Arno con l’o-biettivo di stimolare una nuo-va ritualità di fruizione e co-noscenza del fiume. L’iniziativa, attivata dal Co-mune di Firenze, da Publiac-qua, Autorità Idrica Toscana e sviluppata da DidA-Diparti-mento di Architettura dell’U-niversità degli Studi di Firen-ze, nasce per predisporre uno scenario analitico e proposi-tivo a supporto di una nuova cultura dell’Arno memore del passato, attenta al presente e proiettata nel futuro. Ogni Istituzione, nell’ambi-to dei propri ruoli e delle pro-prie competenze, si è adope-rata per formulare un contri-buto da offrire come servizio ai cittadini, alla città e all’am-biente.La scelta dell’ubicazione all’interno del Centro visite del Parco sottolinea la volon-tà di amplificare il Centro co-me punto di informazione-e-ducazione, accoglienza e ri-mando al territorio coordi-nando le diverse attività ed at-trattività culturali, naturalisti-che e sportive secondo un ap-proccio integrato per valoriz-zare sia il parco che il fiume come eccezionali risorse am-bientali, storiche e funzionali.Cascine ed Arno diventano in questa lettura sede di nuo-

ve forme di esperienza e di approfondimento culturale e naturalistico attraverso servi-zi funzionali e spazi per eventi tematici di animazione e pro-mozione territoriale.L’iniziativa sviluppa una ri-cerca che indaga sul fiume Arno come “risorsa” con di-verse declinazioni: il fiume co-me risorsa urbana, ambienta-le, sociale, idrica, culturale.L’obiettivo comune, che rile-ga le diverse accezioni, è quel-lo di predisporre uno scena-rio propositivo, implementa-bile nel tempo, a supporto di una nuova cultura dell’Arno in relazione alla città e al ter-ritorio. Da questi presupposti deriva l’organizzazione dell’allesti-mento in quattro aree temati-che in cui è possibile esplorare un proprio racconto del fiume come risorsa culturale, idrica e ambientale.La comunicazione dei conte-nuti offre differenti modalità di percezione e di approfondi-mento attraverso elaborati te-stuali, grafici e video insieme a prodotti multimediali di in-formazione e promozione.

1. Il fiume e la cittàè la sezione che inizia il per-corso conoscitivo dell’Arno in rapporto al sistema insedia-vo di Firenze nelle sue molte-plici connotazioni. Nel tempo può contenere informazioni di carattere storico, ambienta-le, scientifico, artistico e cultu-rale configurandosi come in-stallazione sia emozionale che tecnica. L’intento è quello di promuo-

vere l’immagine del fiume Ar-no, valorizzare nuove forme di fruizione del fiume stesso e una rinnovata cultura dei te-mi convergenti sul corretto uso delle sue risorse: dai suoi sistemi costitutivi (rivitalizza-zione delle sponde, parchi, pi-ste pedonali e ciclabili, altro) alla conoscenza del ruolo del fiume, nel passato e nel pre-sente, come “luogo urbano” e come servizio idrico.In quest’ottica la promozione continua dei diversi tematismi del fiume, tenendo conto della sua storia e delle diverse sca-le d’intervento, tenta di rico-struire “in progress” un ritrat-to dell’Arno tra memoria e in-novazioneda offrire a tutti i cittadini che “abitano” la città in maniera permanente o temporanea.

2. Il fiume e il territorioè la sezione che focalizza l’Arno contestualizzato nella Toscana. Organizzata come un percorso lineare consente una mappatura d’insieme dei contenuti visualizzati geogra-ficamente. L’Arno è il principale cor-so d’acqua della Toscana e il maggior fiume dell’Italia pe-ninsulare dopo il Tevere. Ha un’estensione di 241 km e un bacino di 8247 km2.Nasce nell’Appennino to-sco-romagnolo dal Monte Falterona e sfocia presso Ma-rina di Pisa, nel Mar Ligure, dopo aver attraversato le pro-vince di Arezzo, Firenze e Pi-sa.Per le sue caratteristiche geo-grafiche il fiume diventa “pre-

ziosa risorsa” nel territorio re-gionale permettendo di ana-lizzare i rapporti di identità e complementarietà del fiume con il territorio che attraversa per evidenziare potenzialità e risorse presenti e future. Casadellarno, allo scopo di favorire una cultura dell’ac-qua come preziosa risorsa, de-dica questa prima esperienza espositiva alla conoscenza del servizio idrico integrato che garantisce acqua di qualità ai cittadini e acqua sicura da re-stituire all’ambiente.Il corso del fiume costituisce la colonna vertebrale su cui si snodano le principali infra-strutture acquedottistiche esi-stenti che si sviluppano sul territorio per assicurare que-sto servizio essenziale.

3. I racconti dell’Arnoè la sezione che permette un approfondimento di tipo im-mersivo nell’esplorazione dei tematismi sull’Arno nel ten-tativo di utilizzare l’interazio-ne con i nuovi media, in que-sto caso attraverso video, per costruire suggestioni legate al fiume che, rileggendone il ge-nius loci, lo riproiettino nei desiderata dei cittadini.

4. Acqua preziosa risorsaè la sezione dell’interattivi-tà: un touch screen permette di personalizzare le informa-zioni.Attualmente è dedicata alla conoscenza del Servizio Idri-co Integrato in base alle pro-prie aspettative, curiosità ed interessi con livelli differen-ziati di approfondimento.

P r o g e t t o d i i n f o r m a z i o n e - P r o m o z i o n e - e d u c a z i o n e P e r u n a n u o v a c u l t u r a d e l f i u m e c o m e

s i g n i f i c a t i v a r i s o r s a a m b i e n t a l e d e l t e r r i t o r i oAntonio Capestro

CASADELL ARNO

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CREDITI

curatore e responsabile scientifico del progettoAntonio Capestro

cura testi e contenutiCinzia Palumbo

progetto grafica e installazioneNicola Marmugi

Riccardo Monducci

modellazione e renderFederica Monfardini

collaborazione alla graficaHadish Ansari

Lorenzo GentiliLodovica Pizzetti

Allegra SantiniMirko Tilli

sistemi interattvi collaborativiNicola Torpei

regia videoGiancarlo Torri

montaggio videoClaudia Usai

progetto illuminotecnicoPatrizio Travagli

montaggio istallazioneRafael Taboada Plasencia

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C A S E d ’ A C Q U A .

testo diGinevra Grasso- - -

E a cidade,chamam-lhe Lisboamas é só um rioque é verdade,só um rio,é a casa de água... (Madredeus, O Tejo)

Una poetica canzone dei Madredeus celebra il fascino di Lisbona invocando l’aurora affinché possa svelare con il suo chiarore la parte più autentica della città: il suo fiume. Il Tejo, casa d’acqua, che scorre da millenni in quel luogo in cui solo da pochi anni la voce cantante ha scelto di nascere. In effetti i fiumi scorrono da sempre,

da quando scorre il tempo. I fiumi sono l’origine, prima ancora delle città, delle civiltà. In quanto case d’acqua, i fiumi sono vita e insieme morte, risorsa e al contempo minaccia, limite e possibilità. L’uomo li ha sfruttati, navigati, subiti e cantati. L’architetto li ha valicati, arginati, incanalati, spesso sottovalutati. La città li ha celebrati lungo alcuni tratti attraverso nobili monumenti, imponenti waterfront e suggestivi lungofiume, per poi dimenticarli lungo altri, celandoli dietro uno scolorito ventaglio di retri urbani: siti industriali, depuratori, discariche abusive, degradate periferie.Fuori dalla città, quando non sono ricercati in virtù di una loro valenza utilitaristica, i fiumi sono raramente protetti e valorizzati per la loro importanza paesaggistica, più spesso vengono dimenticati, nei casi più fortunati restano “solo” acqua che

scorre, semplice natura. Più di ogni altra cosa però, sia fuori che dentro la città, si trascura (oggi più che mai) la più banale delle possibilità: quella di viverli. Considerare gli spazi fluviali come un luogo alternativo in cui far scorrere il proprio tempo, mentre l’acqua scorre.I progetti presentati di seguito sono solo un parziale campionario di possibilità. Volutamente sono state selezionate proposte a piccola e vasta scala, realizzate o solo pensate, al riparo e all’aria aperta. Progetti semplici e di certo non esaustivi dell’argomento trattato ma che invitano a mantenere viva l’attenzione sul tema e a considerare la possibilità di fermarsi, almeno per un po’, sulla riva di un fiume. Respirando la natura, passeggiando, meditando, leggendo o canticchiando su un sottofondo d’acqua.

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Il progetto presentato in queste pagine è risultato vincitore al concorso di idee bandito nel 2008 dalla provincia di Reggio Emilia, allo scopo di riqualificare un tratto del paesaggio fluviale lungo il Po e favorirne lo sviluppo della fruizione ricreativa, turistica e didattica.Il team vincente, costituito da Barreca & La Varra, YellowOffice e Nature Mood1, ha condotto, propedeuticamente al progetto, uno studio sul paesaggio. Il territorio padano è stato considerato come un unico sistema metropolitano segnato essenzialmente da due infrastrutture: l’arteria autostradale A4 e la via d’acqua del fiume Po. Sulla prima

scorrono ogni giorno pendolari, merci e viaggiatori alla velocità richiesta dagli affari e dall’asfalto; la seconda scorre invece al ritmo incessante dell’acqua, lambendo parchi, intersecando affluenti, pavesando oasi e segnando, ora silenziosamente ora più energicamente, il paesaggio emiliano.Considerando quindi il fiume come un autostrada, il gruppo ha pensato di tracciare dei segni lungo il suo corso attraverso dei pontili, idea cardine del progetto. Secondo questo criterio, così come gli svincoli, i caselli e gli autogrill costituiscono i nodi di riferimento dell’autostrada, i pontili andranno invece

testo diGinevra Grasso

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B A r r E C A

& L A V A r r A ,

Y E L L o w o f f I C E ,

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P I A C E N Z A

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a marcare (in apposite e ben individuate aree) il corso del Po.Il modello base di questi approdi, la cui progettazione si è fermata al livello embrionale del concorso di idee, è pensato per una fruizione esclusivamente pedonale e si sviluppa in lunghezza, perpendicolarmente all’argine del fiume. Le strutture immaginate sono semplici e a basso costo, realizzate in tubi Innocenti, giunti in acciaio, assi e pannelli in legno prefabbricato. Su queste piattaforme troveranno spazio servizi diversi: ricettivi, commerciali, ludici e culturali. Tutte queste attività però non sono immaginate come preconfezionate, ma come delle possibilità messe a libera disposizione dei fruitori che si troveranno a sostare presso questi autogrill del fiume2. I pontili sono infatti, secondo l’idea del gruppo, dei luoghi da completare. Si potrà infatti decidere di volta in volta, per quanto tempo rimanervi, se campeggiare o pescare, se meditare in solitudine sulle sponde o semplicemente impigrirsi nelle delle vasche riscaldate, dormire nelle camere comuni o lavorare all’interno dell’officina del riciclo, magari dopo aver passeggiato sulle rive e raccolto quanto scovato fra il fango.Sebbene la proposta sia accompagnata da un accorto piano organizzativo ed economico, lo stadio preliminare richiesto dal concorso, lascia comunque delle perplessità sulla gestione degli spazi.Tuttavia il progetto costituisce una risposta ideale ma possibile al crescente bisogno di punti riferimento più autentici, ad una vita alternativa a quella delle vetrine dei centri commerciali, ad una necessità di benessere che non deriva da beni materiali, ma da sensazioni primigenie e reali come sentire il vento fra i capelli o immergere i piedi nella corrente3.

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Tubi in acciaio modello Innocenti

Giunti girevoli in acciaio

Assi in legno

Pannelli di legno prefabbricato

MATERIALI

ASSEMBLAGGIO

PROGRAMMA FUNZIONALE

Stanze private con servizi

Casa del colono

Shop

Servizi comuni

Serra

Stanze ‘dormitorio’

Gruppo energetico

Officina del riciclo

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inverno

acquaboscocostruito esistentepontile esistente

OSCILLAZIONI DEL CORSO FLUVIALE E DIMENSIONE DEL PONTILE

VARIAZIONI E ADATTAMENTIINFRASTRUTTURAZIONE E ENERGIA

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✒1 Progettazione urbanistica e architettonica:

Barreca & La Varra (Gianandrea Barreca, Giovanni La Varra),

YellowOffice (Francesca Benedetto, Dong Sub Bertin,

Anna Comi), Nature Mood (Stefano Franco, Cristina Serra).

Collaboratori:

A. Ferratini, L. Imbriani, D. Kim, F. Feraco2 Paesaggi liquidi, I pontili del Po, Barreca & La varra,

YellowOffice, Nature Mood, aprile 2009, p. 16.3 Ibidem, pag. 14. ↑

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Il tracciato pedonale, progettato dai Made associati1 e attualmente in fase di completamento nel trevigiano, è un progetto semplice ma, al contempo, straordinariamente sensibile e rispettoso.Lo studio si è più volte misurato con la tematica del fiume in generale e del Sile nello specifico2.In questo caso il percorso progettato consente, da un lato il recupero di un’area parzialmente degradata e vicina all’abbandono nonostante la prossimità al centro storico, dall’altro la fruizione piacevole ed educativa di un ambiente naturale autentico

e dimenticato. Il tracciato è stato individuato dopo un’accurata fase di studio e di valutazione del sito e prevede tratti diversi: a terra, a contatto con il canneto, sui ponti (per l’attraversamento del fiume e dei canali minori) e tratti immersi nel bosco. In ogni caso si è mirato a garantire il massimo rispetto dell’ambiente. La passerella ha, infatti, un impatto visivo minimo ed è stata realizzata con resistenti materiali naturali che necessitano di scarsi interventi di manutenzione. Grazie alla canalizzazione del flusso pedonale sulle passerelle si è esclusa,

testo diGinevra Grasso

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inoltre, la fruizione dell’area al di fuori dai percorsi stabiliti, in modo da garantire un maggior controllo e limitare il potenziale disturbo alla fauna esistente.Il tracciato costituisce un invito a vivere il “luogo Sile”, camminandovi intorno, affianco, al di sopra. Una passeggiata vicino al centro, lungo il corso, ma non quello dello struscio dei giorni di festa.

1 Progetto:

Made associati (Michela de Poli, Adriano Marangon)

con T.e.r.r.a. srl

Collaboratori:

F. Faggian.2 Si vedano a tal proposito gli interventi a Cendon di Silea (Tv)

e gli altri a Quinto di Treviso ed in generale all’interno del Parco

del Sile. (www.madeassociati.it)

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Il terzo progetto proposto, quasi sorprendentemente, non ha la scala del paesaggio ma quella dell’edificio.Si tratta del recupero, eseguito da Dap Studio, di un ex-apprettificio sorto, durante gli anni dello sfruttamento industriale del fiume Olona, a Castellanza, nel varesotto.Qui l’amministrazione locale ha avviato da tempo un programma di recupero dell’ex-area industriale e, più in generale, un piano di riqualificazione di tutto il lungofiume.In questa zona, su entrambe le sponde dell’Olona, sorgono già edifici significativi per la vita cittadina:

l’università Liuc (progettata da Aldo Rossi), il centro anziani e la sala comunale delle feste. L’intento promotore è quello di riconvertire l’intera area fluviale (recuperando le industrie dismesse e gli spazi adiacenti all’aperto) in un polo attrezzato per attività ludiche e culturali che sia di riferimento per la città.In particolare, data la sua ubicazione, l’ex-apprettificio Tosi, avrebbe l’importante ruolo di cerniera di connessione fra la zona fluviale e il centro di Castellanza.La vecchia fabbrica è stata trasformata in mediateca e spazio espositivo.

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Si è intervenuti non solo sull’edificio, ma anche sul terreno circostante che, minacciando segni di cedimento data la vicinanza del fiume, è stato consolidato con iniezioni di resina. Inoltre, si sono rimodellati gli spazi esterni in prossimità della riva, attraverso l’utilizzo di tre materiali: cemento, erba e corten.Il nuovo edificio, non nasconde la sua

vecchia funzione. Si è infatti deciso di conservare in facciata i rivestimenti esistenti e di sottolineare le bucature presenti attraverso dei bowindows. Questi ultimi, oltre ad essere utilizzati come bacheche e schermi per la proiezione di immagini, garantiscono e rafforzano il rapporto visivo fra interno ed esterno. Di notte i bowindows

diventano, infatti, delle lanterne colorate che sembrano galleggiare sul fiume, mentre di giorno, chi siede nelle sale della biblioteca può sentire la presenza confortante dell’acqua che scorre appena fuori.In questo modo c’è un continuo scambio fra il fiume e l’edificio e l’uno si arricchisce della presenza dell’altro.

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Nel 1945, mentre Firenze ormai libera per proprio merito, “taceva assorta nelle sue rovine”, come Umberto Saba scrive nella poesia Teatro degli Artigianelli, attraverso i bandi per la ricostruzione dei ponti e delle aree attorno a Ponte Vecchio, si inizia a profilare un vero e proprio dibattito su come affrontare il progetto della nuova architettura in relazione alle preesistenze storiche e ambientali.Ai sostenitori del dov’era e com’era, si opponeva chi credeva in una rinnovata visione dell’architettura, sempre debitrice nei confronti della storia di molta della propria progettualità attuale, ma dalla stessa storia, volutamente lontana in quanto non capace di esprimere la complessità della condizione contemporanea.Tra queste due polarità, si consuma la vicenda della ricostruzione fiorentina dei ponti, la cui distruzione era iniziata la notte del 4 agosto 1944 con l’abbattimento del Ponte alla Vittoria, il più giovane dei ponti fiorentini, progettato dal genovese Bruno Ferrati nel 1925 in sostituzione del precedente ponte sospeso ottocentesco S. Leopoldo. Le distruzioni del Ponte alla Vittoria, lasciano però in eredità le vecchie pile e gli attacchi delle sue spalle ai lungarni e il concorso indetto dal Comune di Firenze il 15 gennaio 1945, impone come clausola da rispettare il riutilizzo delle parti superstiti.Dei quarantatré progetti partecipanti, solo otto superano il primo grado, ridotti a due nell’ultima fase, tra i quali, infine, si sceglie il progetto contrassegnato dal motto “Il ponte” di Italo Gamberini, Nello Baroni, Lando Bartoli, Carlo Maggiora e Mario Focacci. Naturalmente le polemiche per questa scelta non tardarono a farsi sentire, tanto che alcuni componenti della commissione

giudicatrice si dissociarono attraverso la stampa locale, dichiarando apertamente la netta superiorità del progetto scartato, individuato dal motto “L’uomo sul ponte” di Giuseppe Giorgio Gori, Leonardo Ricci, Leonardo Savioli, Riccardo Gizdulich e l’ingegner Neumann come strutturista. Un progetto incredibilmente innovativo, se si escludono alcune ingenuità linguistiche orientate ad un’adesione banalmente neoclassicheggiante, grazie al quale si arrivava a comprendere come un ponte potesse essere anche qualcosa di più di un semplice elemento per collegare due sponde. Accanto alla quota dedicata al passaggio dei mezzi meccanizzati, veniva concepita una quota ribassata destinata al pedone. Un percorso che si alzava e si abbassava sull’acqua, seguendo il disegno delle arcate e che permetteva di raggiungere il pelo del fiume direttamente dalla base delle pile.Pochi mesi prima, Giovanni Michelucci, macerie ancora fumanti e taccuino alla mano, fermava in schizzi e visioni, la sua idea di ricostruzione. Un’idea nella quale il fiume aveva un ruolo prioritario, non più ferita nel tessuto urbano, ma occasione di vita all’interno della città. Visioni che poi verranno da lui meglio precisate nel dicembre del 1945 nel primo numero della rivista “La nuova città”, nella quale si getteranno le basi di quel costruire l’architettura sulle infinite, variabili e mutevoli relazioni che stanno al suo contorno e che costituirà uno dei nodi principali della progettualità recente di matrice fiorentina.In particolare, questo progetto del gruppo Gori riusciva a tradurre molte di quelle posizioni nascenti su una nuova idea urbanistica e architettonica della città, cercando di aderire anche ad un altro cavallo di battaglia di Michelucci, ovvero,

quello cioè sulla cosiddetta sincerità costruttiva che come ricordiamo, fu proprio uno dei motivi della sua scissione con il Gruppo Toscano per le vicende della Stazione di Santa Maria Novella.Per evitare il senso di rivestimento posticcio che le lastre di pietra applicate a staffa avrebbero avuto, il progetto di Gori propone che il rivestimento in pietra forte funzioni come cassaforma alla struttura in cemento armato del ponte.Ogni dubbio e ogni disquisizione sulla disciplinarietà di certi atteggiamenti, viene troncato dall’urgenza di ricostruire il ponte e i lavori secondo il progetto del gruppo Gamberini vengono iniziati dal luglio del ’45. Man mano che la plasticità della struttura veniva resa evidente dalle fasi avanzate della realizzazione, si riaccese anche per questo progetto, il dibattito sulla necessità di rivestirlo di lastre di pietra forte, ma la polemica fu ben presto anche in questo caso messa a tacere dal Comando Militare Alleato che per ragioni economiche stralciò tutte le opere di completamento, lasciando così il ponte con quel senso di incompiuto che ancora oggi possiamo constatare.Il secondo concorso bandito per la ricostruzione dei ponti fiorentini fu quello per il Ponte alla Carraia. In esso, si richiedeva la formulazione di proposte dotate di disegni comprensibili in modo da effettuarne l’esposizione a Palazzo Vecchio, prima del verdetto della giuria.Tra le ventitré proposte presentate si mettono subito in evidenza “La chiusa” di Michelucci, Santi e Gizdulich e “Ponte di città” di Gori, Savioli, Ricci e Neumann.L’idea di Michelucci era quella che il Ponte alla Carraia segnasse la fine della città murata, e quindi le pile, allungate fino all’altezza delle spallette, dovessero ricordare delle torri. Fin da una prima

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osservazione, il progetto michelucciano, presenta anche ad un occhio poco attento, una smaccata adesione storicista, rassomigliando vistosamente a detta di alcuni giornalisti e commentatori, ad un antico ponte bavarese. Passi quindi il fatto che il progettista da un punto di vista teorico professasse una filosofia del tutto opposta a quella invece dimostrata nelle forme neomedievali del suo progetto, ma che dovesse rassomigliare ad un ponte tedesco, visto che proprio i tedeschi avevano distrutto quello precedente, non fu proprio digerito da nessuno.Vinse quindi una delle quattro proposte presentate del gruppo Gori, al quale l’Amministrazione Comunale affidò la redazione di un progetto esecutivo che una volta inviato a Roma al Ministero dei Lavori Pubblici, non ottenne, però, nessuna approvazione. In risposta a ciò, Roma emanò un nuovo bando di concorso con la formula dell’appalto, dal quale però, Firenze viene di fatto praticamente esclusa, rimanendo presente solo come osservatore senza capacità di voto.Tra molte polemiche, il nuovo Ponte alla Carraia, inutilmente “gobbo” nei suoi cinque archi rivestiti di pietra forte e costruito secondo il progetto del nuovo vincitore, il veronese Ettore Fagioli con un’impresa di Torino, verrà inaugurato nel giugno del 1952 tra le innumerevoli polemiche, prime fra tutti quelle di Gori, usurpato vincitore del precedente concorso.Nell’esperienza della realizzazione dei ponti fiorentini, il gruppo Gori si dimostra sostanzialmente stabile e in grado di rispondere con un approccio unitario, caratterizzato dalle opportune variazioni che la diversità di ogni collocazione richiede.Anche nel caso del concorso per il Ponte

alle Grazie, bandito nell’agosto del 1945, il progetto denominato “Le piazze”, porta avanti come per il Ponte alla Carraia, l’idea di una struttura a cinque archi con un sistema di scalinate e collegamenti per accedere direttamente all’acqua. Lo stesso gruppo, si presenta però anche con una soluzione alternativa denominata “Le casette”, nella quale l’approccio maggiormente espressionista, porta ad immaginare una flessione delle pile che fuoriescono dal piano di attraversamento stradale, con dei volumetti che avrebbero dovuto interpretare la memoria dei vecchi romitori demoliti già nell’Ottocento.La competizione in questa esperienza, si gioca tutta tra questo progetto del gruppo Gori e quello del gruppo Michelucci. Quest’ultimo raggruppamento, vede inserirsi rispetto alla composizione del gruppo per il concorso del Ponte alla Carraia, la presenza di Edoardo Detti. Tra i ventiquattro progetti presentati a questo concorso, la commissione sceglie quello del gruppo coordinato da Michelucci, contraddistinto dall’allusiva denominazione “L’incontro”, giocando sul doppio significato di un’architettura che sarebbe dovuta essere intesa quale luogo di relazione, ma anche sul fatto che in quel punto la città mette in atto l’incontro tra il suo centro e la sua parte periferica.Notevoli difficoltà burocratiche ed economiche allungarono a dismisura il processo della realizzazione. Bisognerà aspettare il 1957 perché il Cardinale Elia Della Costa, inauguri la struttura a cinque arcate contraddistinta da un elegante bilico tra massa e leggerezza, del nuovo Ponte alle Grazie.Il vecchio Ponte di S. Niccolò era una malandata struttura leopoldina in ferro che il Comando Militare Alleato, alla fine del 1944, decide di ricostruire

provvisoriamente e in tutta fretta in cemento armato su palafitte. Dopo i primi accertamenti, questa possibilità risulta inapplicabile da realizzare e il Comune decide di bandire un concorso pubblico per ricostruire il nuovo ponte con caratteristiche definitive, utilizzando la tecnologia del cemento armato, ma prevedendo una struttura ad un solo arco.Fu questo, un concorso un po’ snobbato dalla compagine dei progettisti fiorentini, impegnata in maniera robusta sul fronte degli altri concorsi dei ponti cittadini — quattro in un anno — che istituivano un rapporto più diretto con la città storica. L’area allora molto periferica sulla quale si sarebbe dovuto progettare il nuovo Ponte S. Niccolò non scoraggiò, tuttavia, il prolifico e collaudato gruppo Gori che produsse due diverse soluzioni. La prima, prevedeva un ponte ad una sola arcata per non andare fuori bando, mentre la seconda alternativa si basava su un ponte a tre arcate, definito dai progettisti come opera moderna inserita con misura nell’ambiente fiorentino. Quest’ultima soluzione si basava sulla compenetrazione del tema del piano del passaggio stradale con quello della struttura che lo sostiene. Tre arcate sintatticamente autonome, si elevavano dall’acqua a sostenere il nastro della trave del piano stradale in modo che questa giustapposizione ne forava completamente le pigne. Alla motivazione idraulica di una minore resistenza, si sommava una motivazione visiva, data dall’alleggerimento della massa che non appariva più concepita in chiave plastica, ma tramite la discretizzazione di tutti i propri singoli componenti.Il concorso appalto fu vinto però da un’impresa romana con il progetto degli ingegneri Giuntoli e Morandi, ma naturalmente, anche questa architettura,

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inaugurata nel maggio del 1949, subì le critiche più disparate dei fiorentini che criticavano la pesantezza visiva della struttura in relazione alla tecnologia impiegata.A sfatare la regola non scritta che i concorsi quasi sempre non vengono vinti dai progetti migliori, fu l’esperienza del 1954 del concorso per il Ponte Amerigo Vespucci, creato per un migliore collegamento tra il centro e il quartiere di San Frediano. Vincitore di questo concorso, fu Giuseppe Giorgio Gori, risarcito finalmente dell’impegno speso fino ad allora nella progettazione dei ponti fiorentini. Gori, abbandona però in questo caso, le visioni classicheggianti di Ricci e Savioli e alleato in gruppo con Enzo Gori, Ernesto Nelli e Riccardo Morandi per la parte strutturale, idea un’architettura capace di coniugare l’intuizione della vera

continuità tra il contemporaneo e la storia.L’immagine moderna, quasi autostradale del nuovo ponte, riesce a dialogare con la presenza interpretativa di elementi della Firenze storica. Il leggerissimo piano di passaggio del ponte, poggia su due sole pile cuspidate che nell’alludere a quelle di Ponte Vecchio, attuano con la loro presenza, il gioco tra sforzo e tensione e tra massa e vibrazione. La tecnica impiegata svolge un ruolo fondamentale nella definizione delle misure e dei rapporti tra le parti. Tale leggerezza, infatti, è possibile solo grazie all’invenzione di un telaio con elementi di cemento armato precompresso montati sfalsati che rendono possibile la sgusciatura laterale delle sue sezioni in modo da alleggerire visivamente il bordo esterno del nastro della strada, teso a catenaria rovesciata, sopra le pile.

Il 28 giugno del 1957 il Ponte Vespucci fu inaugurato ed ebbe subito una risonanza internazionale, dovuta oltre che dalla calibrata e riuscita forza dell’idea strutturale — impossibile da separare da quella compositiva — anche ad una raffinatezza del dettaglio costruttivo che a distanza di molti anni, ancora colpisce. La pavimentazione in blocchetti quadrati di porfido, libera allusione a quella comune presente in San Frediano, i parapetti in metallo bronzato, le opere a bassorilievo poste sulle teste, così come l’aiuola verde spartitraffico che lo divide in due corsie di scorrimento, sottolineata dal nastro illuminante che di notte ribadisce con la luce la sagoma del ponte, ne fanno un esempio di grande respiro, inserendolo in quella modernità di interpretazione che in Italia, soprattutto negli anni Cinquanta ha lasciato i suoi esempi migliori.

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o V E r t h E r I V E ravvertimenti contro l’arte effimera

5 7Michele Londino

Ogni città, o paese o villaggio del mondo, ha la sua rive gauche — fosse anche un muretto oltre l’ultima casa: è un posto dove tutti, almeno una volta, siamo tenuti a passare e se dico tutti per dire di me, mi perdoni. È la che si vendono e si rappresentano arte e illusioni, e memorie, però a giusto prezzo, e tra queste io conto i ritratti del Che, canzoni. Poemi, L’elogio del nemico di J.L. Borges, e molte altre avventurose attrazioni. (tratto da: Athos Bigongiali, Avvertimenti contro il mal di terra, Sellerio Editore, Palermo 1990)

Le opere di Christo e Jeanne-Claude hanno una vita breve. Per loro stessa intenzione le installazioni sono distrutte dopo due settimane, anche quando queste richiedono molti anni di lavoro e ingenti investimenti economici1. La stessa sorte è prevista per due progetti, ancora non realizzati. Uno è il progetto “Over the River”, sul fiume Arkansas tra Cañon City e Salida nel sud del Colorado e oggetto di quest’articolo. L’altro è il progetto “The Mastaba”2, pensato per l’ambiente arido degli impianti petroliferi di Abu Dhabi. Forse anche per merito dei luoghi in cui sono stati pensati, questi due progetti, meglio di altri, comunicano il significato della transitorietà e aggiungerei dell’impermanenza e il senso della temporaneità della loro arte. Il progetto Over The River nasce nel 1992 e come molti progetti di

Christo e di Jeanne-Claude, anche questo, dedicato al fiume Arkansas, ha avuto una lunga preparazione, non senza intoppi e sorprese3. L’idea di Over The River consiste nel coprire otto aree del fiume Arkansas per una lunghezza complessiva di quasi sei miglia in un’area estesa per 67 km, con pannelli in tessuto traslucido che hanno il compito di ridefinire i contorni delle rive del fiume. L’impianto è composto di una struttura di cavi d’acciaio tesi a sostenere i teli e disposti in modo tale da seguire l’andamento topografico e il percorso del fiume stesso. I tratti del fiume, opportunamente scelti per l’allestimento, permetteranno ai visitatori di osservare l’opera da differenti punti di vista come il ciglio della strada che corre parallelamente al fiume o dal treno in corsa, oppure, dall’interno dell’opera

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stessa. Questo particolare punto di osservazione è dedicato ai tantissimi sportivi che praticano il rafting, sport molto popolare nella zona. Il gesto artistico, apparentemente semplice, di coprire il fiume denota una grande sensibilità degli artisti verso il fiume stesso. Si capisce immediatamente che l’elemento con cui hanno lavorato non è stato un soggetto passivo, ed è proprio la natura mutevole del fiume che ha dettato le regole del progetto. Lo dimostrano i moltissimi disegni preparatori, i quali sembrano presi da una forza che li trattiene all’interno di quel paesaggio che il fiume ha costruito nel tempo. Una gabbia, dunque? No; al contrario, il luogo ricorda la cavea di un teatro naturale in cui ci si sente parte di una rappresentazione scenica che ripete se stessa e quindi difficilmente

si è tentati di uscire. I punti di vista, delle rappresentazioni e degli schizzi, rintracciano continuamente l’azione del fiume e riassumono la drammaticità della forza erosiva e spesso violenta, ancora visibile nelle stratificazioni e accumuli nel paesaggio. I teli ricalcano il fiume, si sovrappongono a esso e a tratti riemerge come da una cavità carsica. I fiumi si muovono seguendo regole immutabili. Sono un concentrato di fenomeni naturali che li descrivono come gli elementi più instabili della natura. L’azione erosiva impone, chi li osserva, chi li monitora, a produrre continuamente nuove cartografie, differenti mappe in rapporto alle mutevoli topografie. Disorienta chi prova a imbrigliare il fiume in regole scritte di tutela. Il suo ambiente geografico, cioè il suo bacino idrografico, è il risultato di

simultanee azioni dinamiche. Anche il paesaggio, intorno, fa fatica a resistere al dinamismo e alla precarietà della sua natura e fa dell’instabilità del fiume e della forma non conclusa, una sua regola compositiva. Il progetto Over The River, interpreta tali aspetti e li traduce in arte con un gesto di sovrapposizione e ricalco e aggiunge come nuovo elemento della rappresentazione la materia fragile e leggera del tessuto che è resa instabile dall’azione continua del vento. È difficile racchiudere il lavoro di Christo e Jeanne-Claude all’interno della categoria della Land Art. Un luogo spesso molto affollato di mode e tendenze. I due artisti, invece, somigliano più a esploratori solitari e nomadi e come tali trasportano la loro arte, anch’essa transitoria, da un luogo all’altro. Nella definizione di Land Art o

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ancora in quella di Wrapping, cui spesso si fa appartenere l’arte di Christo e Jeanne-Claude, è nascosto il rischio di una semplificazione che tradisce il loro lavoro artistico rispetto a significati forse più complessi. Ancora più insidioso è il rischio nell’uso del termine effimero se non si presta particolare attenzione al suo vero significato. Ecco perché c’è bisogno, come dichiara il sottotitolo di quest’articolo, di avvertimenti contro l’arte effimera. L’aggettivo effimero assume un senso contraddittorio se lo contestualizziamo nel tempo contemporaneo e se riflettiamo sul fatto che oggi la produzione, la trasmissione e la condivisione di opere d’arte, di immagini e idee, avviene nello stesso tempo in cui l’evento si compie. Attraverso i social media, altro strumento evanescente, gli

eventi temporanei diventano duraturi “rimbalzando” continuamente nelle diverse piattaforme digitali come un eco all’infinito. Partendo da queste considerazioni possiamo notare una contraddizione ancora più evidente se il significato del termine effimero inteso come fugace è applicato al lavoro dei due artisti statunitensi e alla loro produzione artistica. Come potremmo allora definire, se mai questo fosse necessario, le loro opere? Credo che la definizione più giusta l’abbiano data loro stessi quando definiscono i loro progetti “opere di un’arte pubblica e transitoria” con l’accortezza però di percepire nel significato del termine transitorio la forza del passaggio e meno la levità dello scorrere. Il transito, infatti, lascia sempre il segno: la traccia del passaggio. Il transito può anche

non essere lieve, anzi spesso non lo è. Pensiamo per esempio alle carovane dei nomadi che attraversano da sempre le piste nel deserto. La permanenza fisica dei nomadi in un luogo è misurata dal sovrapporsi dei passaggi sui segni di altri passaggi. Segni transitori, dunque, non oggetti o manufatti, che ricordano il loro permanere breve in un luogo. La loro permanenza/esistenza si compie attraverso un atto che non prevede alcuna costruzione durevole, ma attraverso la volontà di ricalcare le tracce che continuamente sono cancellate. Il tema della transitorietà nelle opere di Christo e Jeanne-Claude si fonda a mio avviso su questo principio che mette insieme l’esistere senza permanere e si realizza con l’atto di sovrascrivere e sovrapporre l’arte alla natura e ripetere questo gesto. Le loro opere oppongono

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1. Christo, The River (project), drawing 1992, 14 x 11” (35.5 x 28 cm), pencil, charcoal, wax crayon, ballpoint pen and cardboard. (Annely Juda Fine Art, © 1992 Christo)2. Christo, The River (project), collage 1992, 26 1/4 x 30 1/2” (66.7 x 77.5 cm), pencil, fabric, wax crayon and charcoal. (André Grossmann, © 1992 Christo)3. Christo, The River (project for Arkansas River, State of Colorado), drawing 2010, 13 7/8 x 15 1/4” (35.2 x 38.7 cm), pencil, pastel, charcoal and wax crayon.

(André Grossmann, © 2010 Christo)4-5. Christo, Over the River (project for Arkansas River, State of Colorado), collage 2010, 17 x 22” (43.2 x 55.9 cm), pencil, enamel paint, wax crayon, photograph by Wolfgang Volz, topographic map, fabric sample and tape National Gallery of Art, Washington, D.C., USA (Gift of the artist). (André Grossmann, © 2010 Christo)6. Christo, Over the River (project for Arkansas River, State of Colorado), drawing 2010, in two parts 96 x 42” and 96 x

15” (244 x 106.6 cm and 244 x 28 cm), pencil, wax crayon, charcoal, pastel, enamel paint, fabric sample, hand-drawn topographic map, technical data and tape. (André Grossmann, © 2010 Christo)

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al termine precario o effimero il significato di transitorio. Ed è proprio nel transito e quindi nel ricalcare segni già esistenti e nel non permanere che si perpetua la narrazione della loro opera artistica. La pratica di avvolgere edifici e territori con teli va allora letta con il significato di azioni ripetute di ricalchi e di svelamenti. Fasciare un oggetto o un edificio o un fiume, non significa nascondere, al contrario, manifesta la presenza e risalta i contorni e riporta in evidenza ciò che è nascosto, attraverso il principio del ricalco. L’involucro, dunque, non esclude l’edificio, non copre il fiume e non nasconde neppure il paesaggio, invece, esalta quelle parti che altrimenti sono nascoste proprio perché sempre visibili. L’oggetto, il fiume in questo caso, ridefinito in una nuova matrice e ricomposto da un nuovo involucro,

prende nuova vita anche attraverso una somigliante forma del suo originale. Tutte le somiglianze sono del resto approssimative, incerte, talvolta lontane dal vero, decisamente arbitrarie4 e questa, forse, è una buona definizione dell’arte di Christo e Jeanne-claude.

✒1 Obiettivo degli artisti è sempre stato quello di creare opere d’arte senza alcuna sovvenzione pubblica e privata e senza alcuna sponsorizzazione. Allo stesso modo, gli artisti non sponsorizzano aziende, prodotti o movimenti politici. I costi delle loro installazioni sono coperti dal guadagno derivato dalla vendita di opere d’arte originali a collezionisti privati, gallerie e

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musei. Christo e Jeanne-Claude hanno sempre mantenuto una posizione di totale libertà artistica, senza vincoli imposti. Il contenuto è tratto dal sito ufficiale: http://www.christojeanneclaude.net/press/over-the-river - - -2 “The Mastaba”, un progetto per Abu Dhabi, è stato concepito nel 1977. Sarà la più grande scultura al mondo, fatto da 410.000 barili multi-colorati per formare un mosaico di colori scintillanti brillanti, riecheggiando architettura islamica.- - -3 Fra le sorprese, si può citare un aspetto positivo derivato dalla lunga discussione sulla fattibilità del progetto anche riguardo a moltissime tesi contrarie alla realizzazione dell’opera. Molte osservazioni rivolte al (BLM) Bureau of Land Management, puntavano il dito contro una scarsa considerazione del valore intrinseco dell’opera d’arte e del significato culturale di Over The River. In virtù di tali osservazioni, l’ufficio del governo del territorio (BLM) ha ritenuto importante inserire tali analisi nella relazione finale di impatto ambientale, Environmental Impact Statement (EIS). Questa è la prima volta, scrive Christo, che un’opera d’arte ha subito una (EIS), quindi questa è una pietra miliare significativa per gli artisti di tutto il mondo. Per una lettura completa delle procedure e dell’iter burocratico del progetto (ancora in corso) si rimanda al sito: http://www.overtheriverinfo.com/index.php/about-over-the-river/permitting-process/environmental-impact-statement-process/- - -4 Tratto da: Caillois R., La scrittura delle pietre, Collana di Saggistica, Casa Editrice Marietti, Genova 1986.

7. Christo, Over the River (project for Arkansas River, State of Colorado), collage 2013, 17 x 22” (43.2 x 55.9 cm), pencil, enamel paint, wax crayon, photograph by Wolfgang Volz, topographic map, fabric sample and tape. (André Grossmann, © 2013 Christo)

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Q U A N d o L ’ A C Q U A

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testo diDavide Tommaso Ferrando- - -

Un’illustrazione in un manuale medico della seconda meta del Seicento, che serviva a chiarire il funzionamento dell’occhio umano, ritrae due signori in una camera oscura intenti a osservare l’immagine capovolta dell’ambiente esterno, proiettata dal fascio di luce che attraversa il piccolo foro dotato di lente dello strumento ottico. Sullo schermo teso sorretto dalle due figure è ben distinguibile una scena tipicamente olandese: dietro a due personaggi apparentemente indaffarati, si scorgono due snelli alberi elevantisi sulla riva di un fiume solcato da una piccola imbarcazione a vela. L’immagine non presenta alcuna storia, monumento o personaggio degni di nota, e la composizione degli elementi sulla superficie proiettata risulta, necessariamente, casuale: eppure le due figure osservano l’immagine capovolta con interesse, per il solo piacere della vista. Accanto all’illustrazione si trova una nota dell’autore, Johan van Beverwyck, che spiega come l’apparecchio raffigurato nel manuale, installato sulla torre della sua casa a Dordrecht, gli servisse per proiettare su una parete o su un foglio

di carta l’immagine dei passanti lungo le rive del fiume Waal, e dei battelli che lo attraversavano con le loro bandiere colorate. Se questo aneddoto non ci stupisce, è perché siamo abituati ad attribuire a fiumi e canali un valore estetico quasi archetipico, tale da posizionarli naturalmente nel nostro immaginario tra gli elementi più qualificanti di un paesaggio urbano. Eppure non è sempre stato così. Con l’esclusione di alcune opere anticipatrici — penso ad esempio al Miracolo della Croce di Vittore Carpaccio (1494), al Porto di Anversa di Albrecht Dürer (1520) o alla Vista di Zierikzee di Isaia van de Velde (1618) —, è infatti necessario aspettare proprio fino alla seconda metà del Seicento, perché in Europa comincino a diffondersi rappresentazioni artistiche volte a mettere in luce la particolare bellezza che si produce dall’incontro di uno spazio urbano e un corso d’acqua. Fino alla seconda metà del Xvii Secolo, in altri termini, la cultura occidentale ha quasi sempre pensato (e dunque rappresentato e utilizzato) i fiumi nei loro tratti urbani principalmente come mezzo di trasporto, e solo in seguito come fonte di godimento estetico. Trecentocinquant’anni più tardi, la situazione è ben diversa. Eliminato dai centri urbani il trasporto fluviale

a fini commerciali, la riqualificazione del waterfront è diventata una delle operazioni urbanistiche più comuni tra le città che intendono dotarsi di spazi pubblici all’avanguardia — nonché speculare sull’incremento di valore immobiliare delle aree più prossime all’acqua —, come nel caso delle operazioni Hafencity ad Amburgo, Confluence a Lione e Spina 3 a Torino. In questi e altri casi, al valore paesaggistico legato alla “riscoperta” delle rive del fiume si aggiungono funzioni strategiche dal punto di vista urbanistico, come la pedonalizzazione di ampie fasce di suolo urbano, il potenziamento del network degli spazi pubblici, il collegamento di parti di città in precedenza separate e la creazione di nuovi luoghi per lo sport e il tempo libero.I progetti presentati in questa sezione, seppur in maniera diversa, sono esemplari di tre tipi di strategie progettuali che possono nascere da un confronto critico tra dinamiche urbane (non sempre virtuose) e corsi d’acqua. Semplificando, possiamo parlare di “riappropriazione”, nel caso della scuola galleggiante di Makoko; di “colonizzazione”, nel caso del ponte Jean-Jacques Bosc a Bordeaux; e infine di “accostamento”, nel caso del progetto Madrid Rio.

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Bordeaux-Euratlantique è il nome di un’operazione urbanistica di dimensioni uniche nel panorama francese, nonché di valore strategico per la città di Bordeaux: 738 ettari di terreno prevalentemente industriale situato a poca distanza dal centro storico del capoluogo aquitano, destinato dal 2009 ad attrarre un mix classico di investimenti immobiliari (tra cui un grande business district) gravitanti attorno a una nuova stazione del Tgv, che trasformerà Bordeaux in un importante nodo ferroviario, velocizzandone il collegamento con metropoli quali

Lisbona, Madrid, Parigi e Amsterdam. Uno degli elementi cruciali per il futuro assetto urbanistico dell’area, il nuovo ponte Jean-Jacques Bosc — il cui progetto è stato affidato a Oma nel dicembre del 2013 a seguito della vittoria di un concorso internazionale — supererà la barriera naturale costituita dal fiume Garonna, che attraversa e separa diagonalmente l’intero comprensorio, ricollegando così i limitrofi comuni di Bordeaux, Bègles e Floriac. Come in alcune delle sue proposte più convincenti (si pensi, ad esempio, alle due biblioteche di Jussieu, al Centro

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Congressi di Cordoba o all’ambasciata dei Paesi Bassi di Berlino), anche in questo caso lo schema progettuale di Oma mette in discussione le premesse del bando di concorso, riconfigurandone il programma fino a produrre una configurazione spaziale inattesa. In un’efficace critica ai virtuosismi formali che caratterizzano buona parte dei ponti progettati e costruiti negli ultimi anni, la proposta di Oma evita di occuparsi dell’apparato figurativo del progetto — il ponte come evento — per concentrarsi sul potenziamento delle attività insediabili al suo interno — il

ponte come contenitore di eventi. Il risultato di tale processo è una grande piattaforma urbana di 545 x 44 metri estendentesi ben oltre le due rive del fiume, la cui (insolitamente ampia) superficie orizzontale è in grado di ospitare, all’occorrenza, eventi tradizionalmente svolti in strade e piazze — quali ad esempio maratone, concerti, festival, mercati etc.Più che un sistema di collegamento tra due parti della città, il Pont Jean-Jacques progettato da Oma è dunque un generoso spazio urbano: un intervento all’incrocio tra ingegneria, architettura e urbanistica.

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S P A G N A

B U r G o S & G A r r I d o

A r Q U I t E C t o S

A S S o C I A d o S

testo diEugenio Pandolfini

Il progetto Madrid Rio, lanciato nel novembre 2005 dalla municipalità della capitale, ha visto in brevissimo tempo una consistente parte di Madrid cambiare radicalmente. I punti cardine del progetto sono stati l’interramento di circa sei chilometri della storica autostrada M30, il recupero e la bonifica del fiume Manzanarre e la riqualificazione delle aree liberate in superficie dal traffico carrabile.Molte sono le città che negli ultimi decenni hanno investito nella mobilità automobilistica sotterranea. In Europa si possono citare Oslo e Dublino, che si sono dotate di strade in galleria

per alleggerire il traffico cittadino, liberando allo stesso tempo spazio in superficie per realizzare parchi e aree attrezzate che attualmente sono fruibili da pedoni, ciclisti e mezzi pubblici. Negli Stati Uniti la città di Boston ha realizzato un tunnel urbano lungo circa dodici chilometri, riqualificando la zona superiore e aprendola alla cittadinanza.A Madrid, la presenza del Manzanarre costituisce il valore aggiunto di questo particolare progetto, sia in termini ambientali che in termini di relazione con il paesaggio urbano e naturale. Una volta interrata l’autostrada — che

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dagli anni Settanta correva parallela al fiume rendendone praticamente impossibile la fruizione — si sono rese disponibili una serie di ampie aree collegate tra loro in una zona centrale della città. L’amministrazione comunale, intuendo la possibilità di realizzare un corridoio ambientale a ridosso del centro storico, ha deciso di indire un concorso di idee per la riqualificazione delle aree sovrastanti i tunnel autostradali, e per il recupero della relazione con il fiume, a lungo dimenticato dalla città. Il concorso è stato vinto da un pool di studi di architettura madrileni

(Burgos & Garrido; Porras & La Casta; Rubio & Álvarez-Sala) raggruppatosi per l’occasione con il nome di mrio arquitectos asociados: il progetto, presentato in collaborazione con lo studio di architettura del paesaggio olandese West 8, ha previsto la realizzazione di un parco urbano di oltre centoventi ettari. Al posto del tratto dell’autostrada M30, che tagliava in due la città, è stata realizzata una striscia verde lunga circa dieci chilometri con viali alberati, giardini, pinete, frutteti, piste ciclabili, varie attrezzature ed impianti sportivi, bar e ristoranti, aree gioco per

bambini, vasche e perfino una spiaggia urbana con giochi d’acqua.Grande cura è stata riposta nella selezione delle alberature e delle essenze: il Salòn de Pinos è un nuovo viale pedonale in cui sono stati piantati 8.000 pini, i ciliegi sono i protagonisti dell’Avenida de Portugal, l’Huerta de la Partida reinterpreta il tema mediterraneo del frutteto con alberi di fico, mandorlo, melograno. In totale sono stati piantati più di 30.000 nuovi alberi e quasi 500.000 arbusti, per un assorbimento stimato di circa 60.000 tonnellate di CO

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Anche i ponti sul Manzanarre sono stati oggetto di riflessione: i Ponti de Segovia, de Toledo e de La Reina sono stati ristrutturati, mentre sono stati realizzati alcuni nuovi collegamenti, come per esempio il Ponte ad Y (progettato da West 8) e l’Arganzuela Bridge, il ponte elicoidale in acciaio progettato da Dominique Perrault. Il tema del collegamento — o meglio: della ricucitura — è una delle chiavi per comprendere a fondo l’importanza di questo progetto: il Madrid Rio unisce tra loro zone verdi della città, rende più fruibili strutture esistenti (come per esempio il Centro creativo

contemporaneo Matadero), ricollega le piste ciclabili rispettivamente a nord a sud della città, rendendo di fatto possibile arrivare in bici dalla municipalità di Getafe fino alla Sierra, ma soprattutto ricuce la parte settentrionale di Madrid con quella sud-orientale che la M30 aveva separato, rendendo più fruibile e interconnessa un’ampia zona della città e restituendo allo stesso tempo il Manzanarre ai cittadini.Il progetto è stato concepito dai progettisti come un’approssimazione progressiva al fiume e al waterfront, procedendo dalla scala territoriale

alla scala locale: l’acqua è l’elemento fondamentale nel ridisegno di tutta l’area ed il Manzanarre acquista in quest’ottica la centralità e l’importanza che da tempo gli erano state negate.Alla scala territoriale, sono già stati fissati i parametri per il recupero di tutto il fiume, che scorre dai monti del Guadarrama (a 2.258 m slm) fino al fiume Jarama (a 527 m slm), attraversando paesaggi e biotopi diversissimi tra loro. Sarà quindi presto possibile procedere con la bonifica ed il recupero delle sponde su tutto il corso del Manzanarre, ed alla loro ridefinizione come aree di integrazione

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tra natura e attività umana. Alla scala metropolitana, grazie alla concezione del progetto come se si trattasse di un’enorme infrastruttura, il parco lungo il fiume è collegato alla Rete sentieristica europea e alla Senda Real (GR 124), una pista ciclabile che collega Madrid con le montagne della Sierra (a circa cinquanta chilometri a nord) e che — grazie ai nuovi collegamenti realizzati nell’ambito del progetto Madrid Rio — può essere percorsa in tutta la sua lunghezza a partire dal centro della città.Alla scala urbana, il progetto integra il fiume e configura una serie di

spazi verdi che ricollegano zone prima separate della città. Il parco definisce nuovi sistemi di mobilità e di accessibilità, e aumenta l’integrazione e la qualità urbana dei quartieri adiacenti, i cui cittadini fino al 2005 si trovavano a vivere a meno di cinque metri da un’autostrada a quattro corsie. Il progetto identifica anche aree potenziali in una zona centrale e strategica per la città, che saranno utilizzate per trasformare ulteriormente Madrid nel lungo periodo.A livello di dettaglio, la proposta progettuale si configura come

un’operazione assolutamente artificiale, ma realizzata a partire esclusivamente da elementi naturali: il progetto è stato realizzato sulla sommità di un tunnel, con tutte le strutture, gli impianti e le tubazioni che vengono realizzate a servizio di tali costruzioni, e che rispondono esclusivamente alla logica sotterranea della galleria. La soluzione adottata ha previsto la creazione di una nuova topografia basata sulla vegetazione come unico elemento costruttivo, che si adagiasse sulla strada sotterranea definendo un nuovo paesaggio urbano e naturale di riconnessione.

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M A K A K o N I G E r I A N L É A r C h I t E C t S

testo diDavide Tommaso Ferrando

La precarietà delle condizioni igieniche, gli effetti del cambio climatico e la rapida urbanizzazione di Lagos non sono le uniche minacce che la comunità di Makoko, slum di centomila abitanti interamente costruito sulle acque lagunari della capitale nigeriana, è costretta ad affrontare. Nel luglio del 2012, un manipolo di uomini del governo prese possesso di una zona della baraccopoli e ne distrusse a colpi di machete e sega elettrica le fragili palafitte, costringendo circa tremila persone, da sempre abituate a vivere a stretto contatto con l’acqua, ad abbandonare la propria casa

e trasferirsi sulla terraferma. Giustificate con l’improbabile miglioramento delle condizioni di vita delle comunità sfrattate, operazioni di questo genere sono ricorrenti in nazioni segnate da un alto tasso di povertà urbana come la Nigeria (basti pensare all’attuale fenomeno di demolizione delle favelas brasiliane in vista dei prossimi Mondiali di calcio), e nascondono il più delle volte fitte trame di interessi privati legati alla speculazione immobiliare. Nel caso di Makoko, già presa d’assalto dai bulldozer governativi nel 1990 e nel 2005, principale obiettivo era — ed è ancora — la riqualificazione del

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waterfront di Lagos a fini commerciali, rispetto alla quale la presenza della baraccopoli acquatica costituisce (come scritto in un documento emesso dallo stesso governo nigeriano) un “disturbo ambientale”.Letta in questo contesto, la proposta di costruire con materiali e tecniche locali un prototipo replicabile di architettura galleggiante, i cui spazi siano sufficientemente flessibili da ospitare differenti funzioni tra cui quella abitativa, assume un inaspettato valore politico, dato che offre agli abitanti di Makoko la possibilità di dotarsi autonomamente di un’alternativa allo sfratto non solo dignitosa, ma anche rispettosa delle loro tradizioni. Autore di tale proposta è Kunlé

Adeyemi, architetto di origini nigeriane e fondatore dello studio Nlé Architects, che nel 2011 cominciò a sviluppare un progetto (inizialmente autofinanziato, poi sponsorizzato dalla fondazione Heinrich Boll Stiftung e dall’Africa Adaptation Programme) finalizzato alla realizzazione di una scuola galleggiante per i bambini di Makoko. Il nuovo edificio avrebbe finalmente preso il posto dell’unica scuola elementare in lingua inglese dello slum, strutturalmente precaria e costantemente minacciata dalle frequenti piogge e inondazioni del luogo. L’edificio si imposta su una piattaforma di 10x10 metri, assemblata a partire da sedici sotto-moduli di 2,5x2,5 metri, ciascuno dei quali si appoggia su sedici

barili di plastica che formano, nel loro insieme, il sistema di galleggiamento della struttura lignea. La forma ad “A” del telaio verticale, che raggiunge un’altezza di dieci metri, garantisce stabilità ed equilibrio anche in caso di forti venti, dato che mantiene il baricentro dell’edificio relativamente basso.Il progetto si sviluppa su tre livelli. Al primo piano si trova uno spazio libero per giochi e assemblee, aperto al resto della comunità negli orari extra scolastici. Il secondo piano ospita da due a quattro classi, la cui capienza totale può variare da sessanta a cento studenti. Al terzo piano si trova un’area dedicata ad attività di laboratorio. La maggior parte dei materiali utilizzati per la costruzione della scuola — dai

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barili del sistema di galleggiamento ai tamponamenti in bambù — sono riciclati e/o ottenuti localmente. L’edificio, inoltre, conta con una serie di sistemi per il trattamento delle acque, la produzione di energia rinnovabile e la riduzione dei rifiuti, che fanno di questo progetto un esempio in termini di sostenibilità ambientale, oltre che sociale.Seppur esito di riflessioni pragmatiche, riscontrabili nelle ragioni prettamente strutturali e funzionali della sua forma costruita, la scuola galleggiante di Makoko possiede una straordinaria carica visionaria, esemplificata dal nuovo tipo di paesaggio urbano che avrebbe origine il giorno in cui il prototipo si trasformasse, come

proposto, in modello ripetibile. Da un paio d’anni a questa parte, si parla molto delle architetture costruite nelle realtà più marginali dei paesi in via di sviluppo, e in particolare in Africa, come di un fenomeno da cui imparare. Tale rinnovato interesse per il mondo non (ancora) occidentalizzato deriva, probabilmente, dall’incrocio di due fattori complementari. Da un lato, è facilmente riscontrabile una certa “saturazione” nei confronti di un’architettura (quella prodotta dai diversi movimenti del capitalismo globalizzato) sempre più superficiale, costosa, formalista e slegata dalla società — rispetto alla quale, scelte progettuali dettate da immediate necessità sociali, economiche e materiali

assumono un valore etico che, dalle nostre parti, sembra essersi perso da tempo. D’altro canto, la freschezza di certe opere di Francis Keré, Tyin, Anupama Kundoo, Anna Heringer o Tamassociati, tanto per citare qualche esempio, suggeriscono la presenza di un maggior grado di libertà in termini di regole del costruire, che in un mondo stritolato dalla normativa e dalle soprintendenze non può che risultare affascinante. È dunque possibile che questa nuova “architettura della scarsità” (di cui la scuola galleggiante di Makoko è senza dubbio uno degli esempi più felici) ci offra una delle ultime riserve di senso a partire dalle quali tornare a produrre un’architettura realmente moderna.

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Era il 1943 e Luchino Visconti stava girando il film Ossessione sulle rive del Po e sempre sul Po, a pochi chilometri di distanza, Michelangelo Antonioni stava girando il suo primo documentario. Al film di Visconti la storia del cinema italiano attribuisce la nascita del Neorealismo. Il documentario di Antonioni, un cortometraggio di soli dieci minuti, segna invece l’esordio cinematografico del regista e critico ferrarese. Nell’aprile del 1939, sul numero 68 della rivista “Cinema” appare un articolo: Per un film sul fiume Po firmato Michelangelo Antonioni. L’articolo è corredato da nove immagini, scattate dallo stesso autore. «Il Po di Volano appartiene al paesaggio della mia infanzia, il Po a quello della mia giovinezza. “…” Erano immagini di un mondo del quale prendevo coscienza a poco a poco. Accadeva questo: quel paesaggio che fino ad allora era stato un paesaggio di cose, fermo, solitario, l’acqua fangosa e piena di gorghi, i filari di pioppi che si perdevano nella nebbia, l’Isola Bianca in mezzo a Pontelagoscuro che rompeva la corrente in due, quel paesaggio si muoveva, si popolava di persone e si rinvigoriva. Le stesse cose reclamavano un attenzione diversa, una suggestione diversa. Guardandole in modo nuovo, me ne impadronivo. Cominciando a capire il mondo attraverso l’immagine, capivo l’immagine. La sua forza, il suo mistero. Appena mi fu possibile, tornai in quei luoghi con una macchina da presa. Così è nato Gente del Po. Tutto quello che ho fatto, buono o cattivo che sia, parte da lì». Nelle immagini di Antonioni, il rapporto dell’uomo con il fiume, non è facile, non è un rapporto di amore. È un rapporto di grande conflittualità dove l’uomo non si abbandona poeticamente al fiume, ma anzi cerca sempre di contrastarlo e dominarlo, per non soccombere lui stesso. Gente del Po è un documento che testimonia la reciproca influenza che l’uomo e il fiume subiscono. Entrambi sono organismi viventi capaci di muoversi e spostarsi liberamente nello spazio. Certo l’uomo si sposta più rapidamente e le sue traiettorie sono più facili da seguire mentre il fiume, intendo il suo letto, gestisce il proprio percorso con maggior parsimonia. È però indubbio che entrambi risultano essere influenzati dal contesto in cui vivono. Al di là degli approfondimenti filosofici che potrebbero essere fatti sul fiume inteso come metafora della vita, del suo scorrere, del suo essere fiume, del suo significato come essenza dell’esistenza dell’uomo1, a noi interessa di più il fiume come presenza geografica nel territorio, a noi interessa il suo peso.Non a caso anche il cinema, la letteratura ed i fumetti si interessano da sempre al rapporto tra il fiume e l’uomo. Rapporto spesso morboso e non come in architettura dove l’approccio è essenzialmente di tipo funzionale. E infatti l’uomo costruisce le sue città sul fiume. Ma il fiume ha una vita propria, indipendente dall’uomo e dalle sue azioni. La storia ci ricorda che l’uomo cambia il fiume, ma la vita ci dimostra che il fiume cambia gli uomini.Sottovalutando il carattere impetuoso del fiume, l’uomo ha lavorato nei secoli, credendo di poter addomesticare il fiume, sia attraverso l’esperienza della città che attraverso quella dell’attività agricola.I fiumi legittimano la loro natura autentica, in quei casi in cui si muovono in piena libertà, là dove ancora sia evidente il complesso disegno dei loro meandri abbandonati. Nel nostro territorio non esistono più fiumi in libertà, ma solo fiumi incanalati, frutto di un secolare lavoro di regimazione idraulica, che ha interessato non solo i tratti interni alle città, ma anche il territorio agricolo, ricorrendo spesso ad opere di difesa spondale che, oltre a distruggerne il paesaggio e a limitarne fortemente la valenza di corridoio ecologico, si sono dimostrate dannose proprio dal punto di vista della sicurezza idraulica. Ma è addentrandosi

8 2 Marcello Marchesini

I L f I U M EC h E V E d I A M oM o r I r à

1 Eraclito afferma che tutto scorre... panta rei, che tutto è in perenne movimento, e che la staticità è morte. In questa concezione il divenire è la condizione necessaria dell’Essere, è la condizione della vita stessa. Eraclito afferma che è impossibile bagnarsi due volte nello stesso fiume, perché dopo la prima volta, sia il fiume (nel suo perenne scorrere) sia l’uomo (nel suo perenne divenire) non sono più gli stessi.Gli eleati, al contrario di Eraclito non hanno fiducia nei sensi che mostrano il movimento: a chi discende nello stesso fiume sopraggiungono acque sempre nuove. La sensibilità genera l’opinione dei mortali che vivono nell’illusione per cui si crede vera l’esistenza del divenire come una mescolanza di essere e non essere. Ma il non essere non esiste e non può essere pensato. È la stessa cosa pensare, e pensare che è: perché senza l’essere, in ciò che è detto, non troverai il pensare. Pensare ed essere sono dunque la stessa cosa per cui l’essere è, e non può non essere, mentre il non essere non è, e non può essere.

nella pagina seguente / locandina di Ossessione / film drammatico di Luchino Visconti / con Clara Calamai, Massimo Girotti, Juan De Landa, Elio Marcuzzo, Vittorio Duse / bianco e nero / durata 112 minuti / Italia 1943.

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nella città, che il fiume subisce il più drastico dei processi di addomesticamento. Eppure chi subisce il maggior cambiamento, è sempre l’uomo. Come il sole del Mediterraneo che, con la sua temperatura, segna e orienta il ritmo di vita delle persone, così il fiume costringe la gente a doversi adattare alla sua natura. Più che una risorsa il fiume sembra essere una possibilità. Quella legata alla propria sopravvivenza, alla propria conservazione e protezione. E l’uomo, si sa, si distingue dagli animali per la sua capacità di pensare e dimostra quanto è realmente evoluto, in base al suo spirito di adattamento. Ma il fiume riesce anche a sorprendere. In una terra estremamente fredda e ghiacciata, due donne, una bianca e l’altra mohawk vivono entrambe la condizione di madri single in un momento di forte difficoltà economica. Nonostante le loro diversità caratteriali, si ritrovano a pochi giorni da Natale, ad unire le proprie disperazioni nella speranza di trovare un modo per dare un futuro dignitoso ai propri figli. Entrambe decidono di aiutare i clandestini che vogliono entrare illegalmente dal Canada, negli Stati Uniti, e lo fanno attraverso il fiume congelato di St. Lawrence, nel film Frozen River. Il fiume, ghiacciandosi, diventa una strada percorribile... chi può quindi più dire che il fiume divide? Il fiume, toccandole, unisce due sponde.Ma il fiume non è mai uguale a se stesso, il fiume si sposta sempre. I fiumi sono un po’ come le scale di Herry Potter... a loro piace cambiare.«Presso questo fiume voglio restare, pensava Siddharta. “…” Ecco quel che vedeva: quest’acqua correva, correva, sempre correva, eppure era sempre lì, era sempre e in ogni momento la stessa, eppure in ogni istante un’altra!»2.Il fiume pertanto condiziona e, nonostante sia perenne3, si modifica. Partendo da un rilievo montuoso il fiume modella le forme del paesaggio attraverso fasi successive che possono essere raggruppate in tre stadi: giovinezza, maturità e vecchiaia. Terminato questo processo, il rilievo primitivo dovrebbe essere ridotto ad una superficie pressoché pianeggiante, o penepiano. I fiumi che si trovano al terzo stadio sono molto rari, ma sono quelli che si avvicinano inesorabilmente alla morte, non fisica (il fiume che sfocia in mare) ma geografica (il fiume conclude il suo ciclo di erosione).In alcuni casi il fiume può diventare uno stimolatore di immagini e sentimenti. Giuseppe Ungaretti, con la sua poesia I fiumi, ripercorre le fasi più importanti della propria vita, evocando alcune delle immagini a lui più care che associa ad altrettanti fiumi: Isonzo, Serchio, Nilo e Senna. Quattro fiumi, quattro flash back esistenziali della sua vita.Ma il fiume appunto, cambia gli uomini. Cambia il suo modo di vivere, le sue abitudini, i ritmi, le relazioni con gli altri e con il paesaggio intorno. Cambia la percezione delle cose, il senso della realtà, dei fatti, degli avvenimenti. Il fiume cambia la vita e la vita cambia il fiume. In questa reciproca contaminazione, sia l’uomo che il fiume ne escono però entrambi sconfitti a causa della loro incapacità di ascoltarsi veramente. Tutto si articola e tutto succede, in modo apparentemente disordinato e senza un disegno preciso, ma in realtà tutto sottointende ad una logica di tipo deterministico, dove ad ogni azione compiuta, corrisponde una reazione certa che alla fine non potrà che consegnare il fiume alla morte certa. Questa volta né fisica, né geografica, ma assolutamente corporea, reale. La morte vera! È a questo punto che Sanguineti ci viene in aiuto, ricordandoci che c’è qualcosa di più importante della logica: l’immaginazione.

2 Hermann Hesse, Siddharta, Ed. La Biblioteca di Repubblica, Roma 2002, pg. 87.3 Un fiume è un corso d’acqua “perenne” alimentato dalle sorgenti, dalle piogge o dallo scioglimento delle nevi e ghiacci, che si raccoglie e scorre nelle parti depresse del suolo e termina, generalmente, nel mare. Si denomina perenne poiché si definiscono fiumi solo quei corsi dove scorre acqua per tutto l’anno.

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nelle pagine precedenti / screenshot di Gente del Po / cortometraggio documentario di Michelangelo Antonioni / bianco e nero / durata 10 minuti / Italia 1943.

a pagina 86 / locandina di Frozen River (in italiano Fiumi di Ghiaccio) / film drammatico di Courtney Hunt / con Melissa Leo, Misty Upham, Charlie McDermott, Mark Boone Junior, Michael O’Keefe / drammatico / durata 97 minuti / usa 2008 / Archibald Enterprise Film / uscita nelle sale italiane venerdì 13 marzo 2009.

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Fin dai tempi più antichi i fiumi navigabili hanno costituito il mezzo di comunicazione più semplice e pratico che la natura mettesse a disposizione, permettendo di favorire i commerci, sfruttare le risorse del territorio e attrezzare difese.Il fiume rappresenta, infatti, fonte di energia, di acqua e costituisce una via di comunicazione per gli scambi commerciali, oltre ad essere fonte di sviluppo turistico per le città.Storicamente ci sono state delle svolte significative che hanno caratterizzato la navigazione delle acque interne. La prima è avvenuta circa nel Xii Secolo, con la costruzione di molti canali navigabili allo scopo di poter utilizzare barche con una maggiore capacità di carico, e quindi dimensionalmente maggiori (in questo caso le imbarcazioni venivano trainate da cavalli che percorrevano le rive dei fiumi). La seconda svolta, nel Xv Secolo, fu l’invenzione delle chiuse che rese molto meno forte la corrente nei canali e rese possibile alle barche di superare dei dislivelli. La terza svolta fu determinata dallo sviluppo delle ferrovie e questa fu una svolta “negativa” per la navigazione fluviale in quanto le ferrovie tolsero una grossa quota di sfruttamento delle via d’acqua interne.Attualmente l’Europa è il continente con una rete di idrovie interne tra le più estese a livello mondiale ed è soggetta, in materia di navigazione, a leggi stipulate nell’ambito della Comunità Europea. Il Codice europeo delle vie di navigazione interna, contiene le disposizioni circa le modalità per la condotta di barche a motore, chiatte, convogli costituiti da un rimorchiatore che spinge o traina delle barche rimorchi, traghetti e altre imbarcazioni sui fiumi, canali ed altre acque interne. La navigazione nelle acque interne si svolge

con le medesime modalità previste per le acque marittime, ma la regolamentazione varia a seconda delle caratteristiche delle zone geografiche. Il turismo nautico su acque interne rappresenta per le amministrazioni locali di molte città, un rilevante strumento per lo sviluppo del territorio. Questa consapevolezza, maturata soprattutto negli ultimi anni, deve vedere il passaggio dalla fase di studio e progettazione a quella degli interventi, non sono dal punto di vista del prodotto nautico, bensì da quello urbanistico.In questo ambito, sono gli approdi turistici a essere indicati come destinatari di maggiori interventi per la funzione strategica che svolgono nella promozione della nautica su acque interne nelle città.Per ciò che concerne l’Italia, la navigazione interna ha un’importanza assai minore rispetto a quella di altri paesi. Nel tempo infatti, dimensioni, profondità e larghezza delle idrovie, divennero tali da non poter più assicurare il passaggio di nuove imbarcazioni che, invece, assumevano maggiore potenza e capienza, non più compatibili con l’evoluzione dei corsi d’acqua.In paesi come Francia, Olanda o Germania invece, sia dal punto di vista commerciale, sia sotto l’aspetto ricreativo e turistico, fiumi, laghi ed idrovie costituiscono una fonte di reddito alimentata dagli ingenti investimenti che da sempre sono stati destinati alle vie navigabili. Oggi, a livello nazionale, l’utilizzo della navigazione in acque interne da parte di privati diportisti è, in gran parte legata all’attività della pesca sportiva. Ne deriva che la maggior parte delle barche che vengono utilizzate sono di dimensioni modeste (tra i tre e i sei metri), e che la loro propulsione è costituita

prevalentemente da motori fuoribordo a benzina. Le barche da pesca sono barche in alluminio dove leggerezza, poca manutenzione e manovrabilità ne sono i punti forti. In alternativa potrebbe trattarsi di barche in vetroresina a fondo piatto o a fondo a trimarano. Le barche a fondo piatto permettono di solcare velocemente la superficie. Per la stessa caratteristica soffrono invece le onde, limitandone l’uso ad esempio in grandi laghi caratterizzati da lievi moti ondosi. Le barche a fondo trimarano riescono invece a vincere le onde e a mantenere un ottima stabilità, perdendo di contro in velocità.Le tipologie di imbarcazione in uso per il trasporto passeggeri e il turismo nautico, sono navi e battelli potentemente motorizzati, le cui dimensioni variano col variare delle caratteristiche dell’idrovia. Per le crociere plurigiornaliere si utilizzano attualmente navi di un centinaio di metri di lunghezza con poco meno di cinquecento posti letto di categoria paragonabile ad hotel da tre a cinque stelle. Risulta, invece, ancora non sviluppato, come in Francia e Germania, l’uso di peniche hotel, originali chiatte, imbarcazioni in passato utilizzate per la loro struttura principalmente per il trasporto fluviale di merci e materiali pesanti, che sono state trasformate in piccoli alberghi di lusso galleggianti.Per le crociere giornaliere si utilizzano motoscafi di dimensioni più modeste, solitamente in alluminio, quasi interamente vetrate e dotate di numerosi sedili, strutturate su un unico ponte interamente coperto e senza camminamento esterno o motonavi strutturate su due ponti semi aperti con finestre laterali.Un battello fluviale è per definizione un battello che dispone di una carena dislocante. Gli scafi dislocanti sono relativamente lenti. Sono sostenuti

Anna Stradella

I M B A r C A Z I o N Itra architettura e design

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dal peso dell’acqua che essi spostano (pressione statica dell’acqua). Generalmente il disegno della poppa, così come quello della prua, è appuntito o arrotondato. Si muovono lentamente nell’acqua come le grandi navi oceaniche. Possono essere fabbricati principalmente in alluminio, in legno o in stratificato di fibra di vetro. Il motore di questi battelli può essere entrobordo a diesel oppure fuoribordo, tuttavia, la propulsione elettrica è sempre più utilizzata, visto che in questo genere di imbarcazioni la velocità è meno importante del comfort

sonoro.Esistono sia dei battelli turistici ma anche battelli di proprietà di privati, ovvero dei cabinati abitabili. I cabinati sono la soluzione ideale per la navigazione in acque interne e permettono di effettuare crociere di corta, media e lunga durata. In linea generale, si tratta di imbarcazioni di dimensioni modeste e con pescaggio ridotto. Offrono un buon comfort, superiore alle barche marine, in quanto non devono affrontare mari agitati.Queste imbarcazioni sono, in linea generale, dotate di numerosi oblò e di

sorgenti di luce naturali e hanno ampi spazi esterni sia nel pozzetto che sul flybridge. Il motore dei cabinati fluviali, sia esso elettrico o a combustione, è solitamente poco potente per cui l’imbarcazione è facile da pilotare.Inoltre è da citare ancora un’importante utilizzo della navigabilità dei fiumi, ovvero il noleggio nautico con conducente o senza. Il primo è assimilabile alla crociera giornaliera, il secondo alla navigazione da diporto propriamente detta e, accanto a barche convenzionali di limitate

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Una “carena piattaˮ può avere angoli squadrati (chiamati spigoli

quadrati, vivi o rigidi) o angoli arrotondati (detti angoli smussati).

In moto avrà la caratteristica di scivolare sull’acqua in maniera

molto agevole in condizioni di mare piatto o poco mosso, mentre comincerà ad avere problemi di assetto con mare formato.

Carena piatta

Carena a “V”

Scafo trimaranoo ad ala

di gabbiano

La carena a “V” è la più diffusa perché abbina una buona velocità ad una confortevole navigazione.

Volendone aumentarne la velocità massima, a carico del comfort

in navigazione, alcuni scafi hanno la parte terminale e centrale

della carena piatta.

Sono in genere a carena a “V” con qualche grado aggiunto di scafo

esterno, spesso predominante in prossimità della prua.

Il risultato è una barca più stabile, particolarmente da ferma.

Lo svantaggio è una navigazione meno confortevole in acque agitate.

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dimensioni, offre la possibilità di utilizzare per periodi generalmente settimanali le cosiddette house boat. Le house boat sono mezzi galleggianti, con propulsione a motore, impiegati per diverse finalità che consentono la permanenza confortevole a bordo, con il soddisfacimento delle normali esigenze di vita, capaci di ospitare da due a dodici persone. Principalmente utilizzati per finalità diportistiche, legati al turismo nautico in acque interne, le house boat sono anche progettate per utilizzo residenziale.

Le house boat residenziali, sono frutto di un progetto nato ad Oldenburg, e che si è rapidamente diffuso in una grande varietà di forme e di colori. Le caratteristiche alla base del successo di questi “edifici green”, sono appunto l’efficienza energetica e uso di fonti rinnovabili.Dotate di ogni comfort, le house boat, generalmente si sviluppano intorno ad uno spazio centrale adibito a salone con un piccolo angolo cottura, mentre il tetto è sfruttato come solarium. Tutti gli impianti di cui sono dotate sono a voltaggio molto basso, ma sufficienti a favorire il

funzionamento di piccoli elettrodomestici. Per la loro costruzione sono utilizzati legno e bambù, materiali resistenti e soprattutto low cost.Questi edifici permettono un cospicuo risparmio in consumi grazie allo sfruttamento della luce solare per generare energia e ai meccanismi di ventilazione che mitigano l’umidità creata dalla presenza dell’acqua. In molte di queste, è possibile anche trovare dei veri e propri camini di ventilazione, che permettono il passaggio dell’aria anche a finestre chiuse grazie alla presenza di

9 1

Carena a tunnel (catamarani)

“V” a tunnel

Pontoni

Questa forma di carena ha grande successo soprattutto negli ambienti

sportivi. Differisce dalla forma “a catamarano” per il fatto

che gli angoli interni (fra carena e “tunnel”) sono molto acuti.

Questo consente virate ad alta velocità incredibilmente strette

ed una navigazione molto confortevole. Alcune tipologie di

scafi però hanno difficoltà ad essere manovrati alle basse velocità.

Questo tipo di scafo combina una carena a basso “V”

con due tunnel, uno per lato rispetto al “corpo” centrale.

Le massime prestazioni di punta sono generalmente superiori

a quelle di una carena veramente a “V”, mentre le caratteristiche di manovrabilità in acque mosse

sono ridotte.

Sono imbarcazioni che navigano in superficie appoggiandosi su due

o tre galleggianti (rotondi o squadrati) per lo più

in alluminio. Queste forme presentano una grande disponibilità

di spazio. Viaggiano per lo più a moderata velocità ma i galleggianti

possono essere studiati in modo da facilitare la planata.

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velette regolari. Per il riscaldamento, si fa ricorso alle pompe di calore, sia per gli ambienti abitati che per l’acqua di consumo.Lo sviluppo delle house boat residenziali, ha portato anche al riutilizzo e refitting di imbarcazioni esistenti. Ad Amsterdam, per esempio, sono principalmente i battelli ad essere trasformati in “case galleggianti”.Legate a tradizionali modelli architettonici, le house boat costituiscono oggi un modo intelligente di fare turismo a basso impatto e, per i designer, un tema progettuale di grande attualità. Sfruttando il moto lento di queste imbarcazioni, si possono ammirare paesaggi e città da un altro punto di vista, apprezzandone ulteriormente le caratteristiche delle architetture disseminate lungo gli argini.La house boat è il terminale di un sistema di relazioni a partire dallo studio ingegneristico e progettuale tipico di un’imbarcazione con i suoi vincoli imprescindibili (galleggiabilità, stabilità, navigabilità) e dall’itinerario, dai servizi, dalle opportunità che si possono creare durante la navigazione con la città circostante.Oggi sono frequenti i tentativi di applicare alla casa galleggiante i criteri tecnici ed estetici del design contemporaneo. Tra crisi energetiche ed emergenze ecologiche, sono sempre più sviluppati progetti capaci di reinventare modi e stili dell’abitare nelle città conciliando comfort e stile contemporaneo con la diminuzione delle risorse disponibili. Tanto in architettura che nella nautica, spesso la cultura di riferimento è quella del design, con un’attenzione rivolta ai costi e ai materiali e una sensibilità per convogliare i gusti e le mode correnti al passo con le nuove tecnologie.

House boat-2-moveprodotta da Brandt-Møller’s Boatyard, DK (© Brandt-Møller’s Boatyard)

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testo di Anna Stradella ☛Nel maggio del 2004, la prima casa galleggiante ha iniziato a muoversi nel porto di Amburgo. Progettata dall’architetto Mathias Redmann, Type Berlin è una casa galleggiante il cui design richiama l’attenzione con il suo mix di elegante semplicità, combinata con dinamiche di architettura moderna. Una floating home, che può essere trasferita da un quartiere acquatico ad un altro con l’aiuto di un rimorchiatore, differenziandosi dalle tipiche house boat che sono invece capaci di muoversi autonomamente. Una differenza sostanziale nella progettazione sia della parte immersa — a livello di struttura e forma — sia della propulsione e degli spazi interni.

La progettazione strutturale visiva della casa galleggiante è definita attraverso una banda bianca che crea l’effetto di volumi e spazi. Ampie zone di vetro interrompono la facciata per creare il contatto visivo con l’acqua circostante, garantendo una vista panoramica e una grande luminosità al soggiorno e alla zona pranzo. Sul lato verso terra, la casa galleggiante è piuttosto chiusa, limitando le superfici vetrate, per sfuggire allo sguardo dei pedoni ed isolare l’interno dai rumori della strada.La scelta cromatica e dei materiali, la forma dinamica e i dettagli di derivazione navale, come le tavole di legno sul ponte sole, sottolineano il carattere marittimo di

questa house boat. Si viene inoltre a creare un rapporto unico con l’acqua e l’ambiente interno, attraverso due terrazze coperte e un’ampia zona prendisole.Al livello inferiore è posizionato l’ingresso della casa, e da qui si ha l’accesso a tutte le camere ed ai servizi attraverso un corridoio centrale. La grande camera da letto, con accesso alla terrazza inferiore, si trova nella parte posteriore della casa galleggiante. Le attuali case galleggianti hanno ben poco a che vedere con i rifugi improvvisati di una volta, e si differenziano esteticamente dalle case sulla terraferma. Sono inoltre generalmente più economiche, anche quando dotate di molti comfort. Nella maggior parte dei casi si sviluppano su più piani, utilizzano spesso materiali ecologici ed offrono grandi aperture vetrate trasparenti per godersi appieno l’acqua come spazio di libertà. Arredate con mobili semplici ma di grande design, queste case mobili non hanno nulla da invidiare ai consueti edifici di fondamenta e mattoni.L’architettura galleggiante è una chance per riconciliare l’uomo con la natura, lasciando intatto il territorio, ed è una soluzione per il rispetto dell’ambiente, dai pannelli solari, ai sistemi di depurazione delle acque e ai trattamenti dei rifiuti.Uno studio degli spazi tipicamente architettonico con l’attenzione focalizzata al dettaglio del design nautico.Questo genere di case sono ormai entrate a far parte del paesaggio urbano di alcune città, come ad esempio Amburgo. Non solo per la loro singolare bellezza ma anche per la praticità con cui risolvono il problema della massimizzazione degli spazi edificabili.Costruzioni eleganti e intelligenti per nomadi di gran gusto, le case galleggianti sembrano l’abitazione più indicata per tutti coloro che amano mescolare il gusto del sentirsi a casa con un pizzico d’avventura. In vacanza o tutti i giorni, che si tratti di lupi di mare o di pesci d’acqua dolce.

9 3Mathias Redmann

T y P E B E R L I NFloating Boatprodotta da RexWall, D www.rexwall.com(© RexWall)

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C o M P E N d I o L E t t E r A r I o9 4

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www.rivista-architetturadelpaesaggio.

unifi.it

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M o r I M o N d o Paolo Rumiz 9 5

APPUNTI DI VIAGGI0 9Si dice che nel Po ci siano sere in cui i pesci parlano. Lo giurava il nonno di Giovanni Martinotti, un rivierasco di Terranova che ne aveva raccolto le memorie. “Era un favoliere inimitabile”, diceva di lui, “e sapeva di demoni e falò, di spiriti e streghe”. Narrava di storioni parlanti e misteriose regine delle acque capaci di salvare dallʼann-egamento pescatori e battellieri. Ma nella Bassa cʼerano anche le masche, pagane deità che uscivano di notte a spa-ventar bambini. Per non dire che la notte di San Giovan-ni, nelle stalle padane, le mucche dovevano passare sulla cenere per scacciare il male della terra, e che nel Parmense i tappi alle bottiglie si mettevano solo di Venerdì santo, perchè era la Luna più antica del mondo. Anche quella sera, sopra il ponte di Valenza, passò la Luna più antica del mondo e nella corrente i pesci parlarono. Seduti a un tavolino sulla terrazza della trattoria Al Ponte, alta sulla prima campata destra, in bilico fra Piemonte e Lombardia, felicemente esausti, be-vevamo Bonarda fresca e ascoltavamo le mille voci nelle acque. Per pochi minuti lʼultimo sole arrossò i piloni in cotto piantati nelle rapide azzurro acciaio, poi un treno dallʼunico vagone battè il tempo di una polka sulla traver-sine. Quanta storia in quel manufatto. Si meritava un ro-manzo, come il ponte sulla Drina cantato da Ivo Andric. Iniziato da Carlo Alberto nel 1847, fatto saltare dagli austriaci nel 1859, demolito da una piena a fine secolo, aveva visto passare i fanti nei giorni del Piave e i tedeschi in fuga parecchi anni dopo. Anche la trattoria era una di quelle che da sole valevano il viaggio. Incastrata nella muraglia del ponte, lì tra strada, i binari e una garitta di mattoni con la scritta FIUME PO, restava un luogo fuori dal tempo. Banconi, mobili, nulla era cambiato da un secolo. Solo la marca delle bottiglie allineate sul muro denunciava lʼetà

contemporanea. Era giorno di chiusura settimanale, ma Marco il gestore, vedendoci nuotare sotto i piloni e poi ar-rivare a remi con una bella traversata in diagonale, aveva aperto il locale per noi e sʼera messo a spadellare in cucina. Lʼapprodo di Angelo era stato magistrale, aveva tagliato il fiume un poʼ tirando con la fune dagli isolotti di ghiaia, un poʼ grattando col ramp a mò di leva sul bordo della sua scialuppa, un poʼ spingendo con lʼacqua ai polpacci. “Tranquilli”, ci aveva detto, “sono a casa mia”. Ma i suoi denti aggrappati al toscano spento digrignavano lo stesso. Lì Angelo aveva imparato a conoscere il fiume ed era conosciuto da tutti. Raccontò dei vecchi di Valenza, che avevano speso una vita di caccia e pesca sul fiume.”Ce nʼera uno che faceva spingarde, tramagli, carichi continui di pesce, poi andava a Milano, vendeva il pesce, compra-va qualche damigiana di vino, tornava a casa, si ubria-cava per una settimana e poi ricominciava. Tutte le sere traversava in barca il fiume e non diceva mai per andare dove. Era gelosissimo dei suoi luoghi. Una sera con un amico lʼho seguito di nascosto fino al suo canale segreto e poi abbiamo aspettato dietro i cespugli che se ne andasse. Abbiamo preso la sua barca e siamo andati a pescare nel suo territorio. Ma lui stava ancora lì, non sʼera mai mos-so, non si spostava mai più di un chilometro”. Sulla magnifica altana di Valenza pensai a cosa sʼerano persi i canoisti con quella traversata sul barcè. Valentina esagerò con la Bonarda, evocò il risotto con le rane e le carpe di risaia in padella. Angelo giocò con le volute azzurre del suo sigaro e Alex lesse storie di Giovanni Martinotti, un piemontese di Terranova, villag-gio della riva sinistra che ci eravamo lasciati dietro, dopo Casale.”Il nonno favoleggiava di spiriti e di streghe, che per lui erano sempre belle ragazze. Non aveva conosciuto

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Omero ma lo diventava. Era un gran favoliere. Quan-do un pescatore cadde nella corrente da unʼaltra barca, mentre cercava di raggiungerlo, vide che una mano emersa dal fondo lo sollevava. Era la mano di una regina. La intravide nella nebbia. E il pescatore fu trovato vivo sul-lʼargine”. Ascoltavamo in silenzio, soggiogati. Poi, in uno sfrigolio di cannelloni su un letto di pesto e ragù, lʼora volse al desio con grilli, cielo viola e fitte dolceamaro di nostalgia per la bellezza dellʼItalia perduta. Giove era alto sul fiume, emanava una bassa frequenza quasi udi-bile e sopra di noi si fece sentire la rivoluzione dei pianeti. Geometricamente eravamo al centro del mondo.

P.S.Ringrazio pubblicamente Paolo Rumiz per averci ac-consentito di usare alcuni brani di “Morimondo” il li-bro, pubblicato da Feltrinelli, che narra della discesa del Po da lui effettuata assieme ad alcuni compagni nel-lʼestate del 2012. Paolo aveva ascoltato con tranquil-lità quando gli chiesi di scrivere per “Opere” un pezzoinedito, “Morimondo” mi aveva già stregato, comeogni cosa tratti di fiumi, ma poi mi rispose dicendoche si era imbarcato nella sua impresa più arditae che «Non ho il tempo di uscire nemmen di casa». Peròmi disse «Usa pure quello che vuoi di Morimondo, bastache poi mi fai avere una copia». (Guido Incerti)

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