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Da: Pierpaolo Leschiutta, “Palimsesti del carcere” . Cesare Lombroso e la scritture proibite. Napoli, Liguori, 1996. Capitolo terzo. Le pergamene viventi Scrivere sulle pareti e scrivere sulla pelle «Le muraglie, dicono i proverbi, sono le carte dei pazzi: i graffiti di Pompei sono veri tatuaggi delle muraglie». Lombroso, nella sezione «Bibliografte» dell’Archivio di psichiatria, presentando il volume di A. Lacassagne Les tatouages accosta esplicitamente il tatuaggio alle scritte sui muri.1 Tale accostamento non è nuovo per l’antropologo che già in precedenza aveva notato come le scritte tracciate dai carcerati sulle pareti delle celle fossero dei «graffiti analoghi ai tatuaggi». Ambedue usano accostare elementi figurativi ad alfabetici, le parole vengono spesso abbreviate o proposte attraverso la sola lettera iniziale, in entrambe ricorre l’uso di parole vietate e di figure oscene. Tatuare il proprio corpo e tracciare graffiti sui muri, entrambe pratiche comuni ai primordi della civiltà che riaffiorerebbero «per atavismo» nei criminali e, meno spesso, nei pazzi. Appena l’uomo abbandona lo stato puramente selvaggio, abban- dona quella che si volle chiamare l’epoca della pietra rude, segna i primi albori della sua coltura col graffito sui vasi, sui muri, sulle 1 Lombroso, recensione a Les tatouages. Etudes antropologiques et médico- lega1es, di Lacassagne, Paris, 1881; in Archivio di psichiatria, vol. II, 1881.

"Palimsesti del carcere" Cesare Lombroso e le scritture proibite. Di Pierpaolo Leschiutta

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The tattoo as write prohibited and interpretation lombrosina that poses as an indicator of delinquency.Il tatuaggio come scrittura proibita e l'interpretazione lombrosina che la pone come indicatore di delinquenza.

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Da: Pierpaolo Leschiutta, “Palimsesti del carcere”. Cesare Lombroso e la scritture proibite. Napoli, Liguori, 1996. Capitolo terzo. Le pergamene viventi Scrivere sulle pareti e scrivere sulla pelle «Le muraglie, dicono i proverbi, sono le carte dei pazzi: i graffiti di Pompei sono veri tatuaggi delle muraglie». Lombroso, nella sezione «Bibliografte» dell’Archivio di psichiatria, presentando il volume di A. Lacassagne Les tatouages accosta esplicitamente il tatuaggio alle scritte sui muri.1

Tale accostamento non è nuovo per l’antropologo che già in precedenza aveva notato come le scritte tracciate dai carcerati sulle pareti delle celle fossero dei «graffiti analoghi ai tatuaggi». Ambedue usano accostare elementi figurativi ad alfabetici, le parole vengono spesso abbreviate o proposte attraverso la sola lettera iniziale, in entrambe ricorre l’uso di parole vietate e di figure oscene.

Tatuare il proprio corpo e tracciare graffiti sui muri, entrambe pratiche comuni ai primordi della civiltà che riaffiorerebbero «per atavismo» nei criminali e, meno spesso, nei pazzi.

Appena l’uomo abbandona lo stato puramente selvaggio, abban-dona quella che si volle chiamare l’epoca della pietra rude, segna i primi albori della sua coltura col graffito sui vasi, sui muri, sulle

1 Lombroso, recensione a Les tatouages. Etudes antropologiques et médico-lega1es, di Lacassagne, Paris, 1881; in Archivio di psichiatria, vol. II, 1881.

pareti delle grotte, sulle armi di selce e di ossa, sulla propria pelle (Lombroso 1888, p. 294).

All’interno dello schema che pone l’atavismo come matrice unica

di fenomeni differenti, è possibile per Lombroso coniugare insieme le scritte murali dei carcerati e la pratica di tatuarsi il corpo: le prime, le scritte murali, sono presentate come «Palimsesti del carcere», dove il termine ((palimsesto» nel suo significato etimologico definisce una pergamena dalla quale è stata raschiata una prima scrittura per permetterne una successiva, i secondi, i tatuaggi, fanno del carcerato una «pergamena vivente».

Ambedue grafismi impropri e devianti, entrambi gli appaiono come riconducibili ad un passato lontano che riaffiora in soggetti predisposti2. Lombroso e i tatuaggi Una dei primi oggetti di ricerca di Cesare Lombroso come «antro-pologo culturale» fu il tatuaggio. Iniziò infatti ad interessarsi del tatuaggio nel 1863 quando, ufficiale medico non ancora trentenne, osservò che 134 dei «soldati artiglieri», tra i 1147 sottoposti a visita medica, avevano sul corpo uno o più tatuaggi. Nella maggioranza di loro ad essere tatuata era la regione palmare dell’avambraccio, in alcuni le spalle, in altri le dita delle mani o il petto. Pochi avevano sul corpo più di un unico tatuaggio.

I soldati tatuati provenivano «delle più infime classi sociali» di tutte le regioni del Regno e avevano svolto, prima di entrare nel-l’esercito, i mestieri più diversi: erano stati contadini, casari, mura-

2 Il proverbio latino «Parietes papyrus stultorum», presente con

significato simile in tutte le lingue europee, appare modificato a seguito degli studi di Lombroso, in «La muraglia è il libro della canaglia» (Gurrieri e Moragi, «Note sul tatuaggio osceno dei delinquenti>, Archivio di psichiatria, 13, 1892) o in «Chi scrive il suo pensier sulla muraglia è un misto di imbecille e di canaglia» (Giacchi, «Palimsesti delle pubbliche latrine», Archivio di psichiatria 18, 1897) con l’attribuzione di un connotato di criminalità non presente all’origine.

tori, barcaioli, fornai, minatori, falegnami, carrettieri, pescatori e pastori. Solo alcuni, una minoranza, prima del servizio militare era stata condannata e reclusa in carceri.

La pratica del tatuaggio non sembra in quegli anni essere una caratteristica che possa connotare l’appartenenza ad un gruppo par-ticolare della popolazione del Regno.

Lombroso, tornato dopo un decennio ad interessarsi di tatuaggi e di tatuati, scopre che «fra gli uomini non deinquenti, quest’uso tende a decrescere, trovandosene nel ‘73 una quota dieci volte più scarsa che nel 1863. — Invece l’usanza permane non solo, ma prende proporzioni vastissime nella popolazione criminale, sia militare, sia civile, dove su 1432 esaminati trovaronsene 115 tatuati, il 7,9 per cento» (Lombroso 1876, p. 44).

Nell’arco di un solo decennio, sembrerebbe che a tatuarsi siano rimasti in pochi, e questi pochi quasi esclusivamente delinquenti. Tenaci continuatori di una pratica ormai abbandonata dai «normali», i criminali seguitano a tracciare sul proprio corpo segni e scritte, ultimi a mantenere viva una usanza ormai desueta.

Il tatuaggio, fino ad allora considerato al pari di altre «stranezze» ed esotismi di moda, perde ogni altro attributo che non sia quello di indicatore di criminalità, si riduce per Lombroso a «carattere professionale» della delinquenza, segno e prerogativa di individui inferiori, deboli psichicamente, tarati mentalmente.

Stabilita questa connessione tra l’essere tatuato e l’essere crimi-nale, gli studi sul tatuaggio si moltiplicano. Antropologi criminalisti ricercano tatuaggi sui corpi di soldati, carcerati, prostitute, pazzi, camorristi. Soprattutto i medici, facilitati dalla loro posizione pro-fessionale, controllano minuziosamente i corpi di adulti e di mino-renni, vivi e morti, nella ricerca di segni e tatuaggi. Le visite mediche ai soldati di leva forniscono il «campione di controllo della popolazione normale», il lavoro negli ambulatori delle carceri per-mette di determinare la diffusione della pratica tra i criminali.

Frutto di queste ricerche una imponente mole di scritti: sulla sola rivista Archivio di psichiatria tra il 1880 e il 1918 vengono pubblicati oltre 70 tra articoli, saggi, note e recensioni sui tatuaggi;

in Italia e in Europa si stampano oltre 15 volumi che hanno per oggetto il tatuaggio nei criminali (cfr. Bibliografia). I tatuaggi non sono solo descritti e analizzati in saggi e articoli: ritagli di pelle tatuata vengono asportati da cadaveri, posti sotto vetro o puntati con spilli su tavolette e inviati al Museo criminale di Torino. Reclusi tatuati vengono fotografati e i loro tatuaggi riprodotti su carta lucida. Oggi purtroppo questa raccolta unica al mondo nel suo genere appare destinata a perdersi definitivamente. I brandelli di pelle tatuata sono ormai incartapecoriti e i disegni accatastati in un armadio nel più grande disordine e in uno stato di conservazione che ne fa presagire il prossimo disfacimento. I primi ad interessarsi del tatuaggio come possibile mezzo d’i-dentificazione di individui sospetti erano stati in Francia Hutin e Tardieu con degli studi pubblicati nel 1855. Il tatuaggio, indelebile, è un segno certo di identità, un elemento caratterizzante che non si modifica col trascorrere del tempo, che non permette a chi lo porta di nascondere il proprio passato. Un tatuaggio descritto in una scheda di polizia può far scoprire anche a distanza di anni un ricercato, smascherare Milady, come nel romanzo di Dumas del 1844. Cesare Lombroso, come vedremo, farà sua la proposta degli autori francesi, ma estendendone la portata: il tatuaggio non solo indica l’identità del tatuato, ma è una spia, un segno inconfondibile della sua personalità criminale, «un carattere anatomico-legale» che collega il delinquente «all’uomo primitivo o in istato di selvati- chezza». Ovunque le teorie di Lombroso sulla criminalità trovano se- guaci si apre un nuovo interesse per il tatuaggio: in Francia dopo la pubblicazione della prima edizione dell’ Uomo delinquente, Lacas- sagne e Magitot iniziano una raccolta di dati e notizie su tatuaggi e tatuati. Una prima ricerca di Lacassagne su 1333 delinquenti tatuati apparirà già nel primo numero della rivista Archivio di psichiatria fondata da Lombroso nel 1880, presenterà successivamente, alla I Esposizione Internazionale d’Antropologia Criminale di Roma del 1885, oltre 2000 disegni di tatuaggi. Dalla Spagna, dalla Dani-

marca, dal Belgio, dalla Germania giungono alla redazione della rivista saggi e note sull’argomento, statistiche e descrizioni su ta-tuaggi e delinquenti tatuati.

Nel 1896, al momento della pubblicazione della quinta edizione de l’Uomo delinquente, Lombroso dispone di informazioni, dirette o indirette, su un campione di oltre 10.000 individui, dei quali 2257 tatuati. Sulla base di questa mole imponente di dati il tatuaggio, parallelamente alle misure antropometriche, diventerà uno degli assi portanti della sua teoria dell’atavismo nei criminali. Lombroso può dimostrare la maggiore frequenza di questa pratica tra i carcerati, la sua «strana tenacia e diffusione» tra i criminali, le particolarità del messaggio scritto o disegnato che ne disvelano «l’impronta tutta particolare, criminosa» (Lombroso 1896, p. 343).

Una massa documentaria che rimane fino ad oggi il più ricco archivio esistente di immagini e descrizioni di tatuaggi. Tatuaggi raccolti in ogni parte d’Italia e d’Europa, disegnati e fotografati, di uomini e di donne, raccolti su vivi e su morti, in ospedali e nelle carceri, di soldati, di prostitute, di camorristi. Raccolti spesso senza alcun metodo, in modo approssimativo, privi, il più delle volte, di ogni indicazione che possa permettere di risalire alla storia indivi-duale del tatuato e del contesto in cui il tatuaggio è stato eseguito, accompagnati al più dalla sola indicazione del reato per cui il tatuato era stato condannato.

Scarse le interpretazioni, sia delle motivazioni che spingono a tatuarsi che dell’ambiente sociale da cui provengono gli individui tatuati. Essere tatuati è già in sé, per gli antropologi della scuola lombrosiana, emblematico di una predisposizione alla delinquenza. Il corpo significante Il tatuaggio, nel significato attuale del termine, una colorazione indelebile della pelle ottenuta artificialmente attraverso l’introduzione di sostanze coloranti nella pigmentazione sottocutanea, sì diffonde in Occidente come termine e come pratica «moderna» negli anni

immediatamente successivi al ritorno in Inghilterra del capitano Cook dal suo secondo viaggio nelle isole del Sud del Pacifico.

Cook, insieme alle descrizioni di un favoloso arcipelago, «paragonabile in tutto al paradiso terrestre», abitato da esseri liberi e incontaminati, aveva condotto con sé un principe tahitiano corpo splendidamente tatuato, prova vivente del modo di acconciarsi di un’isola in cui «gli uomini vivevano senza vizi, seni pregiudizi, senza discordie interne».

Il principe sarà esibito in molte corti d’Europa, e il suo corpo «istoriato» ottenne un successo talmente immediato e prorompente da decretare la nascita di un «nuovo esotismo»: il tatuaggio. La pratica del tatuarsi, antichissima e mai completamente caduta in disuso anche nell’Occidente «civile»3, si rivitalizza con caratteristiche assolutamente nuove e moderne: non nell’iconografia dei segni tatuati, che recupera motivi figurativi e ornamentali della tradizione popolare, ma nella spregiudicatezza di un uso del corpo irrispettoso della sua sacralità. L’esotismo è nel tatuarsi, non nel cosa o nel come tatuarsi. Il «segno» non viene più imposto da altri per marcarne la proprietà (schiavi), per ricordarne le colpe di un passato criminale, o fatto imprimere deliberatamente sul proprio corpo per afferma l’appartenenza ad un credo religioso (primi cristiani), segno di uno statuto di pellegrino (Terrasanta, Loreto), ma richiesto e volu come forma di abbellimento, di valorizzazione del corpo, «corredo per la propria identità» (Goffman 1961, p. 49). Una delle tesi sviluppate da M. Douglas ne I simboli naturali è che «quanto maggior valore si attribuisce al controllo sociale, tanto 3 Prove tangibili della pratica del tatuaggio e della sua vasta diffusione sono arrivate a noi attraverso il ritrovamento di corpi mummificati, intenzionalmente o accidentalmente, in Egitto, in Perù, in alcune zone artiche e dell’Asia centrale. Punti e linee sono tatuate sulla pelle di una sacerdotessa di Hator dell’XI dinastia dell’antico Egitto, databile torno al 2200 a.C., un corpo sepolto (un capo scita?) a Pazyryk nell’Asia Centrale, circa 2500 anni fa, era diffusamente tatuato con immagini di creature fantastiche. Per le fonti letterarie sulla pratica del tatuarsi nell’antichità, cfr. De Biasio 1905; Cerchiari 1903; L’asina e la zebra 1985.

maggiore è l’importanza dei simboli del controllo del corpo» (Douglas 1970, pp. 8-9). E il coronamento di un percorso di at-tenzione che culminerà, secondo Foucault, con la «scoperta del corpo come oggetto e bersaglio del potere. Si troverebbero facil-mente i segni della grande attenzione dedicata al corpo — al corpo che si manipola, che si allena, che obbedisce, che risponde, che diviene abile o le cui forze si moltiplicano. Il grande libro dell’ Uomo-macchina venne scritto simultaneamente su due registri: quello anatomo-metaftsico, di cui Descartes aveva scritto le prime pagine e che medici e filosofi continuarono; quello tecnico-politico, costituito da tutto un insieme di regolamenti militari, scolastici, ospedalieri e da processi empirici e ponderati per controllare o correggere le operazioni del corpo» (Foucault 1975, p. 148). Nella seconda metà dell’Ottocento, lo sviluppo capitalistico ri-chiede che il corpo, «il primo e più naturale strumento dell’uomo» (Mauss 1936, p. 392), sia controllato, si uniformi alle esigenze della produzione, divenga apparato duttile e malleabile alle esigenze del-l’impresa. Il corpo tatuato sfugge a questo controllo, autonomamente sceglie una sua moralità, afferma una sua storia, la sua individualità. Il tatuaggio genera un disordine nel corpo che la natura vuole ordinato, così come il crimine genera un disordine nel corpo so-ciale. Attraverso il tatuaggio il proletario, anonimo e senza voce, dichiara il suo essere nel mondo, afferma l’unicità della sua persona, si fa soggetto distinto, unico, irripetibile. Lo afferma riprendendo possesso di quel corpo che gli è stato espropriato per farne forza-lavoro. Gli stessi elementi dell’alienazione divengono emblematici: il corpo che è stato carne da cannone nelle battaglie si riscatta espo-nendo come trofeo indelebile il nome del reggimento e la data della battaglia. Il carcerato, che ha vissuto la forma più estrema di estraneazione dal proprio corpo, si tatua le date e il nome delle prigioni in cui ha soggiornato. L’ancient mariner afferma il suo di-ritto a narrare la «ballata» o l’odio di Achab o la sua personale avventura in luoghi lontani attraverso la raffigurazione tatuata del profilo del veliero su cui ha navigato.

Ricordo di una identità smarrita all’interno dell’istituzione totale o

affermazione di una identità che, nella condizione reale d’esistenza, non gli è mai appartenuta?

E possibile che i due elementi convivano ambedue e che, in alcuni casi, si sommino. I carcerati da cui traggono la maggior parte delle loro informazioni gli antropologi criminalisti hanno una grande omogeneità di provenienza: appartengono in larga parte alle frange più misere ed emarginate della società. Sono stati ripetutamente ospiti di carceri diversi, e prima ancora hanno sperimentato altre istituzioni in cui sono stati privati del «sé», il riformatorio, l’esercito, la vita sulle navi (cfr. Goffman 1961).

In queste situazioni, atto estremo e impotente di ribellione, scrivono sul proprio corpo gli elementi rilevanti della loro storia personale. Una storia singolare e irripetibile, una diversità che li rende «persona». Ecco allora i tatuaggi diventare elementi di una storia di vita, biografie scritte sulla pelle per date, simboli ed elementi caratterizzanti. Come i cavalieri descritti da Calvino ne Il castello dei destini incrociati (Calvino 1973) ricostruivano la loro storia attraverso la scelta tra i tarocchi disposti su un tavolo, così i carcerati narrano la loro storia, la loro vita, le loro passioni attraverso i tatuaggi.

M. Emilio, di 27 anni, condannato almeno 50 volte per rivolte, percosse e ferite, ... [ha sul corpo i seguenti tatuaggi]: Un ancora ricorda la nave Speranza, che naufragò sulle coste d’Irlanda, ed a bordo della quale serviva in qualità di mozzo. Una testa di cavallo ricorda il cavallo che uccise, a 12 anni, per capriccio, con un col-tello. Un elmo ricorda gli agenti di polizia che vorrebbe uccidere. Il ritratto del bandito Mottino. Un liuto, ricordo di un amico, abilissimo chitarrista, col quale percorse buona parte dell’Europa. La stella, sotto l’influenza della quale dice di essere nato. Una corona reale, ricordo politico, come egli asserisce, ma forse, pen-siamo, ricordo delle sue nuove occupazioni di mercante. A bordo voleva perpetuare la memoria della sua amica tatuandone sul pro-prio braccio il corpo nudo, ma il capitano vi si era opposto. Per cui, non potendo compiere tutto il disegno, mise un cuore, em-

blema dell’amore, invece della testa (Lombroso 1897, vol. III, Atlante, p. XVI). «Un corpo senza tatuaggio è insignificante, così come un tatuaggio

senza corpo» (L’asino e la zebra, 1985, p. 97). Il tatuaggio in sé, impresso indelebilmente, nobilita tutto l’apparato corporale, non solo la parte investita dal segno. «Un corpo che non è tanto un dato oggettivo, esistente di per sé, quanto una realtà in fieri, che va progressivamente costruita mediante l’applicazione di segni cul-turalmente codificati che traducano lo status politico-sociale, co-stantemente in divenire, dei singoli membri delle comunità» (Mas-senzio 1990, p. 2).

Il tatuaggio diviene, in individui che vivono una condizione di precarietà esistenziale e di emarginazione sociale, una rivendicazione di identità di genere — è una pratica quasi esclusivamente maschile — di status, di una appartenenza di gruppo.

All’isolamento individuale viene contrapposta la solidarietà del microgruppo di cui si è stati o si è membri: il nome della nave, del reggimento, della prigione o del riformatorio divengono significanti di una appartenenza esibita con orgoglio.

Non diversamente dai «vecchi» tatuaggi eseguiti in occasione del pellegrinaggio al santuario della Madonna di Loreto anche i «nuovi» tatuaggi stanno ad indicare un «gruppo di riferimento» a cui si vuole essere ascritti, anche se in questi casi sono gruppi minoritari o devianti4. Produzione e trasmissione di tecniche e di segni Nella seconda metà dell’Ottocento individui tatuati vengono esibiti nelle fiere e nei circhi, i cataloghi dei tatuatori che li accompagnano si fanno sempre più vasti e ricchi. Nel contempo la moda del tatuarsi sembra coinvolgere sempre meno le classi alte della società. A tatuarsi sono in prevalenza gli individui con un tra-

4 Esibire con orgoglio un trascorso carcerario non deve apparire inusuale se un detto popolare di Roma afferma: «non può dirsi ‘romano’ chi non ha salito almeno una volta lo scalino», dove lo scalino è quello che da via della Lungara immette al carcere di Regina Coeli.

scorso carcerario, anche se una frangia di «persone normali», che Lombroso non esiterà a definire «deboli psichicamente», «nevrotici», «eccentrici» e «bislacchi», continuano a perpetrare questa pratica.

I «normali», secondo l’antropologo, disegnano sul proprio corpo il ricordo di una «passione», incidono simboli che ricordino un amore, una guerra, un mestiere o una fede religiosa. Nomi e iniziali della donna amata, la data del primo amore, cuori trafitti da frecce, distici d’amore. Frequenti elementi che ricordino le guerre, come le date delle battaglie memorabili cui si è partecipato, il nome dell’arma o del reggimento d’appartenenza, cannoni e bandiere, fucili e baionette incrociate. Alcuni artigiani si tatuano l’attrezzo del loro mestiere, quasi il simbolo della corporazione d’appartenenza: tenaglie per il maniscalco, il martello per il fabbro, le forbici il sarto, il rasoio il barbiere e così via. Frequenti, anche tra i non criminali, il sacramento con o senza raggi e disegni raffiguranti Madonne e Santi.

Vecchie «tradizioni», devozione alla Madonna miracolosa e scambio simbolico con la divinità portano tanti individui, che per altro conducono una vita normale, a farsi tatuare sul corpo o la data del pellegrinaggio, o l’immagine della Madonna o altri segni che evidenzino il loro consacrarsi ad essa. Riproposizione, secondo l’interpretazione lombrosiana, di una usanza ben precedente la cri-stianità — se, come racconta Erodoto, anche Paride, in fuga dalla Grecia con la rapita Elena, si fece tatuare nel tempio di Ercole il segno della consacrazione al dio per riceverne protezione dalle ire di Menelao —e mai caduta completamente in disuso nella devozione popolare

Eppure la pratica aveva un certo seguito anche tra individui di

5 È soprattutto il Santuario di Loreto a perpetuare in Italia una tradizione che fu dei primi cristiani, si mantenne durante le crociate, quando per indicare la volontà di una sepoltura cristiana, in caso di morte in Terrasanta, i soldati si facevano tatuare l’emblema cristiano. Nei pressi del santuario, infatti si è installato un «divoto mercimonio, come tanti altri, [che] anche questo uso conserva e proroga, perché nelle sue vicinanze trovasi appositi marcatori, che ricevono per ogni tatuato, da 60 a 80 centesimi» (Lombroso 1896, p. 337). La pratica del tatuarsi per devozione alla Madonna di Loreto era talmente diffusa che le autorità dovettero intervenire per vietarla nel 1860, nel tentativo di limitare il pericolo di infezioni. Cfr. Tanoni 1977.

classe elevata. «Cervelli balzani si trovano in tutte le classi sociali, e così, alcuni di questi, per far piacere alla propria dama, per bizzarria o per capriccio si tatuano» Mirabella 1903, p. 9).

Un elemento differenzia il tatuato delinquente dal tatuato «nor-male»: la localizzazione del tatuaggio sul corpo. Nessuno tra gli individui classificati come «normali» nelle ricerche degli antropologi risulta avere tatuaggi sulle parti «pudende» del corpo o sulla schiena. Gli individui tatuati privi di un trascorso criminale si tatuano esclusivamente sulla regione palmare dell’avambraccio, a volte la spalla o il petto, alcuni minatori si fanno disegnare anelli sulle dita delle mani, mai hanno tatuaggi sul pene, le natiche o la schiena. Anche il numero dei tatuaggi è solitamente limitato ad uno o al massimo due disegni o scritte, mentre tra i criminali l’intero corpo è usato come lavagna dove scrivere la propria storia, passata e, a volte, futura.

Il carcere, dove Lombroso e gli altri antropologi criminalisti raccolgono la parte più cospicua della loro documentazione, è un luogo che riceve, trasmette e produce sia tatuaggi che la pratica del tatuarsi, sia una tecnica che uno «stile di vita».

Ospita individui che entrano nel carcere portando sul proprio corpo scritte e disegni tatuati in precedenza, e chi è già stato sottoposto alla pratica del tatuaggio è anche in grado di trasmetterne la semplice tecnica di esecuzione.

Gli strumenti necessari per effettuare un tatuaggio sono semplici e reperibili anche in un carcere: è sufficiente uno spillo o un ago per cucire; le materie coloranti da inserire sotto la pelle sono ricavate dal nero-fumo, dalla rasatura di muro affumicato, dalla polvere di carbone, da carta bruciata, dalla polvere di mattone. 6

Il procedimento inizia col tracciare sulla pelle il disegno che si

6 All’esterno delle carceri si usano anche la polvere da sparo, il cinabro, l’indaco, l’inchiostro di china (cfr. De Blasio, «I geroglifici criminali e i camorristi in carcere» Archivio di psichiatria, 17,1896).

vuole tatuare. Si punge ripetutamente la pelle seguendo la traccia e sulla superficie sanguinante si stropiccia la sostanza colorante; altre volte si dispone sul disegno uno strato di colore e poi si punge inserendolo sotto pelle; un’altra tecnica è quella di intingere l’ago nel colore e poi bucare la pelle.

Dopo circa tre settimane, cessata l’infiammazione, comincia ad apparire il tatuaggio, inizialmente poco delineato e con segni confusi, successivamente, quando la pelle ritorna definitivamente alla normalità, nella sua forma definitiva e indelebile.

Tecnicamente semplice nella sua esecuzione, il tatuarsi nelle carceri costituisce un mezzo estremo per riaffermare la propria identità in un ambiente che tende sistematicamente a privare i reclusi di ogni elemento distintivo. Il tatuaggio, ultima proprietà personale del carcerato, non può essere cancellato o sequestrato, tratto distintivo permanente rende unico e riconoscibile chi lo porta, non ne permette l’omologazione.

Quello che nel carcere si trasmette attraverso il tatuaggio è la possibilità di un uso autonomo e antagonista del proprio corpo, l’idea di poterne disporre per esibire una identità passata e per costruirne una legata al momento, di affermare la condizione di carcerato come status da rivendicare. Scandaloso, qualunque sia la scritta o il disegno, dichiara apertamente — «sono o sono stato un recluso che non accetta di sottomettersi» l’orgoglio di una appartenenza esibita ed ostentata.

Come afferma E. Durkheim ne Le forme elementari della vita religiosa: «Si comprende infatti che, soprattutto dove la tecnica è ancora rudimentale, il tatuaggio costituisca il mezzo più diretto ed espressivo attraverso il quale si afferma la comunione delle coscienze. La maniera migliore di attestare a se stesso e agli altri l’appartenenza ad uno stesso gruppo è quella di imprimersi sul corpo uno stesso segno distintivo» (Durkheim 1912, ed. it. 1963, p. 256).

I segni e le loro motivazioni L’iconografia di tatuaggi che Lombroso ottiene dallo studio di in-dividui carcerati è molto più vasta di quella rilevata su individui «normali»: la sua raccolta, iniziata nel 1863, con il passare degli anni si è molto arricchita grazie sia a ricerche condotte personalmente presso carceri che al contributo di numerosi altri ricercatori. Ai momento della pubblicazione della quinta edizione (1896) de L’uomo delinquente Lombroso ha dati e informazioni su 10234 individui tatuati, 6348 classificati come criminali, prostitute e soldati delinquenti e 3886 come «soldati onesti».

Praticamente sommerso da questa enorme mole di dati, Lombroso appare incerto sul modo di utilizzarli. Il suo interesse per il tatuaggio era inizialmente indirizzato alla sola ricerca delle prove del perdurare, tra i criminali, di elementi caratteristici di popolazioni «selvagge» coeve e di alcune usanze barbare ormai superate nell’Occidente civile. Trovarne una diffusione tanto ampia, e non solo tra i criminali, lo costringe a costruire un sistema di categorie che gli permettano di presentarli in un modo che vuole essere almeno in parte sistematico.

Nella prima edizione de L’uomo delinquente aveva adottato una timida suddivisione in quattro categorie: «E venendo ai vari simboli a cui alludono i tatuaggi, mi è parso doverli distinguere in segni d’amore, di religione e di guerra, e in segni di mestiere» Lombroso 1876, p. 45), ne aumenterà progressivamente il numero, fino ad adottare le undici categorie proposte da De Blasio nell’analisi dei tatuati nei carceri napoletani.

I tatuaggi sono divisi, sulla base del significato attribuito al disegno, in: religioso; d’amore; nomignolo; di vendetta; di gradua-zione (dei camorristi); di disprezzo; di professione; di bellezza; data memorabile; osceno; simbolico7.

Lombroso non entra in merito al segno tatuato, alla sua forma, 7 Classificazioni simili saranno adottate da Lacassagne e Magitot 1886,

Mirabella 1903, Cerchiari 1903, De Creccio 1908, ecc. che aumentano o riducono il numero delle classi, senza apportarvi modifiche sostanziali. Lo stesso De Blasio nel 1903 aggiungerà alle categorie precedenti quelle di tatuaggio etnico (emblemi della contrada di appartenenza dei senesi), ereditario e psichico.

alla dimensione, alle variazioni nella rappresentazione dello stesso tema, al rapporto reciproco tra i diversi tatuaggi dello stesso individuo e sul loro disporsi sul corpo. Nè sarebbe stato pensabile farlo più di cento anni fa e non era Lombroso interessato a farlo.

La polisemanticità dei tatuaggi non lo turba, se un tatuaggio gli appare interpretabile in più modi lo colloca in più categorie, se uno stesso individuo ha sul corpo più tatuaggi ciò che lo interessa è il loro numero e la loro disposizione, non il reciproco rapporto tra i segni.

Beaudoin vetraio, di anni venti, soldato Francese disertore, ha sul petto S. Giorgio. Sulla mammella destra: una donna con un vaso in mano. Sulla mammella sinistra: Croce della Legion d’onore. Sul braccio destro, presso la spalla, la figura di un soldato Francese; poco sotto un busto di donna; a fianco a questo, la viola del pensiero colla parola «elle». Poi una donna che si masturba, ed un gentiluomo con spada sguainata in mano. Sul braccio sinistro: donna vestita da uomo; e sotto, una faccia di donna, a fianco, una donna semi-nuda che beve; e sotto ancora un motto: «Mouillons un peu l’itérier». Una donna vestita in bleu con due lettere (B, A) sul petto, che si tentò di coprire colle sue due mammelle. Sulla schiena ha la libertà a cavallo che calpesta due guerrieri atterrati. Su ambe le spalle un busto di donna. Sul braccio sinistro il motto: «Le passé m’a trompé / Le présent me tourmente / L’avvenir me pouvante [sicl (Lombroso 1896, p. 359).

Trovando un individuo «il cui corpo era un vero tappeto»

Lombroso può con orgoglio affermare: «Benché nulla si sapesse della sua vita anteriore, questo genere di tatuaggio ci diede un indizio che si trattava di un criminale francese e di un soldato, ciò che poi s’appurava ufficialmente» (Lombroso 1896, p. 360). La molteplicità dei tatuaggi lo interessa come dato statistico, nel mito oggettività del dato numerico, le singole icone saranno suddivise nelle categorie dei tatuaggi religiosi, d’amore, osceni, simbolici ecc.

Modalità tanto vaghe e generiche ed estranee all’oggetto «tatuaggio» da non riuscire a fornire una griglia interpretativa di una qualche utilità.

Non il tatuaggio ma il tatuato interessa Lombroso, non l’analisi del segno ma l’individuazione delle «ragioni per cui si mantenne nelle classi basse e più nei criminali un uso sì poco vantaggioso, e alle volte di tanto danno» (Lombroso 1896, p. 367).

Ed ecco Lombroso mettere il fuoco sulle presunte «cause» che indurrebbero al tatuarsi; sono: a) di natura e provenienza religiosa; b) l’imitazione; c) lo spirito di vendetta; d) l’ozio e l’inattività; e) la vanità; f) lo spirito di corpo; g) la funzione mnemotecnica; h) le passioni erotiche8.

Tassonomia che vuole selezionare i comportamenti ascrivendone le cause a motivi di ordine psicologico, ma che appare più che altro un decalogo dei disvalori dominanti nella società italiana di fine secolo. Anche la religione appare agli occhi di un laico come Lombroso un disvalore, soprattutto nelle forme e modi con cui era vissuta nelle classi popolari.

Queste categorie fragili non riescono a contenere la complessità di una pratica culturale come quella del tatuaggio che non è riducibile alla sola dimensione dell’individuale e dello psicologico.

La complessità di alcune forme di religiosità popolare non può essere ridotta a sola superstizione o ipocrita mascheramento di impulsi cattivi e malvagi; un tatuaggio dove è indicata una volontà di vendicarsi di chi ha tradito o ha fatto la spia non è solo il sintomo di un irrefrenabile impulso personale: è un comportamento obbligato dal «codice dell’onore» (cfr. Marmo 1988); l’imitazione è anche processo di circolazione culturale che si attiva solo in determinate condizioni; lo spirito di corpo rimanda alla solidarietà di gruppo e alle norme, valori, credenze e regole che danno senso all’appartenenti.

Ma veniamo ai particolari, ricordando che, nonostante la fragilità interpretativa, Lombroso comunque ci fornisce osservazioni

8 Lombroso 1896, pp. 336-379 e tavv. LXIV-LXIX vol. III, Atlante 1897.

interessanti e le motivazioni che hanno spinto a tatuarsi sono spesso confermate dalle parole dei detenuti stessi intervistati —straordinaria «modernità» di metodo — dall’antropologo. a) Tatuaggio religioso Anche i criminali, prima o durante il periodo trascorso in carcere si tatuano immagini religiose, ma quando l’immagine della Madonna di Loreto o la data del pellegrinaggio al santuario è impressa sul corpo di un carcerato è, secondo Lombroso, non atto di devozione e di fede, ma forma di scongiuro superstizioso, retaggio di pratiche apotropaiche, riproposizione di comportamenti tipici delle popolazioni «selvagge» 9

L’essere carcerato rende criminali, agli occhi di Lombroso, anche gli atti del passato, ogni momento della storia individuale del detenuto, anche di molto precedente la condanna, diviene indiCatrice di una criminalità già esistente ma non ancora espressa.

Tatuaggi religiosi sono: il Sacramento con o senza raggi; Cristo legato alla colonna o in Croce; i simboli della Passione; la Madonna di Loreto; W G.C. (viva Gesù Cristo); Croci con raggi; le parole «Santissimo Sacramento»; l’Arcangelo Gabriele; ecc. Sono in larga parte le immagini raffigurate sulle «marche» dei tatuatori che operavano presso il Santuario di Loreto, le stesse ancora oggi visibili nella collezione del Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari di Roma.

Sono le immagini impresse a Loreto o che le imitano, ma con

9 La pratica di tatuarsi immagini religiose presso i santuari era molto diffusa nella seconda metà del secolo scorso: A. De Blasio, ne Il tatuaggio, è in grado di affermare che: «Il tatuaggio religioso l’ho, fra i contadini del Lazio, riscontrato nella proporzione del 35%, poiché è da sapersi che simile gente, ogni anno, si suol recare al santuario di Loreto, per impetrare grazia alla mamma di Cristo e ne porta per ricordo l’effige sulla propria persona» (p. 32). Ulteriore conferma viene da De Albertis, settore capo dell’ospedale di Pammatone (Genova) che, nel biennio 1888-90, trovò, tra i defunti nell’ospedale una percentuale di tatuati superiore al 7 % (De Albertis 1892, p. 575).

variazioni e personalizzazioni ottenute aggiungendovi ancore, cuori e catene, puntini, piedistalli, ecc.

Lombroso non nota che i simboli religiosi appaiono sempre distanziati dagli altri, isolati in «una zona di rispetto». Al più, in pluritatuati, nella zona del corpo dove è tatuato uno di questi simboli è possibile trovare il disegno di una nave, di un fiore, una data o un cuore trafitto; non mi è capitato di trovare nella pur vasta documentazione trasmessa dai ricercatori lombrosiani simboli religiosi accostati a figure di donne nude, a frasi oscene o di vendetta. Isolando i singoli tatuaggi ed estrapolandoli dal contesto per trattarli come dato statistico, Lombroso non coglie la reciproca relazione tra i segni e la loro disposizione. b) Tatuaggio per imitazione Una seconda causa che induce a tatuarsi è, per Lombroso, l’imita-zione. Il soggetto «imita» i membri del gruppo al quale appartiene, ne subisce il contagio, è quindi ricorrente trovare segni simili e disegni identici riprodotti su reclusi nella stessa prigione o in soldati dello stesso reggimento. Un carcerato, nel rispondere alla provocazione di Lombroso che lo beffeggiava per aver speso una somma considerevole per farsi tatuare una sirena sul petto, reagisce con una frase che appare all’autore ben sintetizzare la sua idea dei caratteri e dei comportamenti degli individui di classe bassa, e pertanto la riporta integralmente nel suo L’uomo delinquente: «Veda lei, noi siamo come le pecore, non possiamo vedere fare una cosa ad uno, che non la imitiamo subito anche noi, anche a rischio di farci del male» (Lombroso 1896, pp. 467-468).

È l’imitazione come principio esplicativo dei fatti sociali, una teoria che circolava largamente nel linguaggio antropologico e sociologico di quegli anni e che Lombroso utilizzerà in modo riduttivo, riducendola a mera riproduzione passiva e individuale di modelli di comportamento. Sarà una delle poche parti dell’Uomo delinquente a non essere modificata nelle successive edizioni del libro, nonostante l’ampio dibattito che seguì la pubblicazione del

volume di Gabriel Tarde Les Lois de l’imitation e i successivi lavori del lombrosiano Scipio Sighele e di Gustave Le Bon sulla folla delinquente e sulla psicologia delle folle. Accettare la tesi di Gabriel Tarde, che individuava l’essenza del sociale nel fatto comunicativo e la riproduzione per imitazione come cinghia di trasmissione dei comportamenti collettivi, avrebbe comportato per Lombroso abbandonare l’elemento cardine del proprio quadro teorico. La genesi della criminalità avrebbe dovuto essere ricercata nel sociale e non nella natura dell’individuo criminale10». c) Tatuaggio per spirito di vendetta Nei delinquenti-nati, secondo Lombroso, l’impulso a vendicarsi di chi ha tradito, delle spie, delle guardie, è talmente forte da superare quella barriera di accortezze che normalmente cela le intenzioni criminali. Il tatuaggio espone chi lo porta, ne facilita il riconoscimento, ma il desiderio di vendetta è in questi delinquenti più forte di ogni calcolo di convenienza. Ci si tatua il nome della persona su cui ci si vuole vendicare per non perdere la memoria dell’atto che si dovrà compiere, ci si tatua il coltello o la pistola per indicare lo strumento della vendetta, ci si tatua una bara con il nome della persona odiata per descrivere anticipatamente l’atto conclusivo della storia. Se a tradire è stata la donna, una volta amata, le immagini tatuate descriveranno quelle particolari forme di vendetta che utilizzano strumenti esclusivamente maschili.

In alcuni casi la volontà di vendicarsi di un tradimento non appare al tatuato sufficientemente espressa attraverso pochi simboli. Un ladro, feritore, di 28 anni, benché privo di istruzione, usa

10 Sighele tenterà una mediazione tra la posizione di Lombroso e quella di Tarde enfatizzando la differenza tra il criminale d’occasione e il delinquente nato, ma di fatto poneva al centro della sua ricerca proprio i crimini sui quali l’antropologia criminale di Lombroso si era dichiarata incapace di indagare: quelli commessi da individui fisicamente e psichicamente «normali» (cfr. Mangoni 1985, p. 130; Gallini 1985; Le Bon 1895).

il suo corpo come un grafomane la carta: «Il n. 22 porta sul braccio un tatuaggio col quale giura la vendetta alla propria moglie, che si è data in braccia altrui, con la seguente terribile iscrizione: Non mi dimenticherò / giammai dell’assassinio / fattomi in questo lurido / carcere, tu subbito di me / — ti dimenticaste e le tue / promesse furono invano. / Ma ti giuro che se re / capiti sotto le mie / mano ti farò fare la / puttana.

Inoltre porta tatuata una cella con il n. 6 con grata a larga rete dalla quale vedesi un galeotto vestito da ergastolano con la barba e capelli completamente rasi, il berretto con numero e la catena di diciotto maglie che dalla cintura va al collo del piede sinistro. Esso si morde per rabbia l’indice destro appoggiandosi alla finestra. Sul braccio destro porta la seguente apostrofe contro le donne e specie contro la propria: Donne / dannatevi disse / Dante Olichieri. / Questa è la vera / poesia, addio / ci rivedremo / frà brevè a / libertà, e giuro / a Dio, che / ne farò la più / aspra vendetta / di vero cuore e da / uomo come sono.

Amanta mia / cara dì una volta / Or che per te le galere / ò provato tù a me non / più ai pensàto, tu per nome / di Giulietta e io mi / chiamo Bartolezzi / Giovanni che fra / le fosse galere / e tombe io non / temo di tutto il / mondo» (Mirabella 1903, pp. 17-18).

La ricchezza dei segni, il loro significato nella storia individuale di chi si tatua, la costruzione di una grammatica simbolica individuale o di gruppo che si esprime attraverso il tatuaggio, il rapporto con il corpo e la sua utilizzazione come mezzo espressivo, non interessano Lombroso. d) Tatuaggio per ozio e inattività Altro fattore individuato da Lombroso come concausa del tatuarsi è l’ozio e l’inattività. Ci si tatua a bordo delle navi nelle lunghe giornate di bonaccia, si tatuano i pastori, ma soprattutto si tatuano i disertori e i carcerati. E un modo per passare il tempo, per distrarsi, in quanto, come afferma Lombroso, (d’inazione è più dolorosa dello stesso dolore» (Lombroso 1896, p. 368), o come un carcerato ebbe a dire a Lacassagne: «Io amo disegnare, e non avendo

carta, adopero la pelle dei miei compagni» (citato in Lombroso 1896, p. 368). e) Tatuaggio per vanità Ci si tatua per vanità, la stessa vanità spingerebbe i selvaggi a ricoprire di disegni vaste porzioni del loro corpo, normalmente privo di vestiti, gli occidentali a tatuarsi di preferenza le parti non coperte da abiti. A volte il soggetto vanitoso si compiacerebbe talmente di sé fino ad autodecorarsi, tatuandosi sul petto medaglie e onorificenze. La vanità richiede uno spettatore, un pubblico da cui farsi ammirare, una visibilità del segno di cui si è fieri. Quindi, per gli occidentali, tatuaggi su mani, braccia, petto, per i selvaggi, abitualmente nudi, su quasi tutto il corpo.

Il tatuarsi è anche prova del coraggio di chi si è sottoposto scientemente ad un dolore fisico e si aspetta, nel mostrarlo, un implicito riconoscimento della sua forza e del suo coraggio: «Chi tene core se fa pure da isse ‘e signe», dichiara un camorrista a De Blasio, mostrando con orgoglio i tatuaggi che si era da solo disegnato sulla parte sinistra del corpo (De Blasio 1905, p. 140). f) Tatuaggio per spirito di corpo La volontà di riconoscersi come appartenenti ad un gruppo porta a tatuarsi un segno comune. Lo stemma o il nome del reggimento tra i soldati, il nome della nave o l’intero profilo di questa tra i marinai, il nome del convitto tra gli studenti, i motti rivoluzionari tra i partecipanti alla rivoluzione francese, ma anche i segni di appartenenza alla camorra tra i delinquenti napoletani.

Il tatuaggio che, secondo Lombroso, li esclude dall’insieme della popolazione «normale», li consacra come appartenenti ad un sottogruppo della società, sia questo di «onesti cittadini», come chi si tatua il segno del proprio mestiere, che di criminali come per i camorristi napoletani.

g) Tatuaggio in funzione mnemotecnica La storia individuale riemerge nei tatuaggi non solo attraverso le date di battaglie e il segno di appartenenza ad un qualche gruppo, o ancora attraverso l’indicazione del torto subito e della vendetta che ci si ripropone per il futuro. A volte i tatuati amano iscrivere sul proprio corpo elementi il cui ricordo è dolce e piacevole. Il volto della donna amata, il nome della mamma, la data di un evento piacevole. Il guardare questi segni riporta il pensiero a momenti piacevoli, la loro funzione è di stimolare la fantasia a tornare a rivivere quegli attimi e riportare alla memoria eventi che altrimenti potrebbero correre il rischio di essere dimenticati, sommersi dalla quotidianità. h) Tatuaggio in funzione erotica Lombroso e gli antropologi della sua scuola ritengono che la passione erotica sarebbe facilitata semplicemente dall’osservazione del proprio tatuaggio. Pornografia rozza e rudimentale di chi, da incolto e spesso analfabeta, non può godere della lettura di uno dei tanti libri di letteratura erotica in circolazione in quel periodo. Per questi antropologi la loro sessualità è talmente prorompente che la sola lettura delle iniziali del nome della compagna di passati piaceri o la visione di una immagine di donna tatuata su un braccio può bastare a far riemergere mai sopite passioni. Non sono in grado di concepire che il tatuaggio è destinato ad essere visto da altri, che è l’insieme del corpo esibito in una condizione insolita, coperto da segni e decorazioni che stimola la fantasia e si presenta come erotico. E nel gioco dello svelarsi e del nascondersi sotto un tatuaggio che il corpo, nudo e vestito nello stesso tempo, diviene eroticamente stimolante. L’atavismo nei tatuaggi L’insieme delle motivazioni che spinge i criminali a tatuarsi si fonda, nelle analisi lombrosiane, sul messaggio esplicito contenuto nel

tatuaggio e sulla coscienza del tatuato. Oltre queste, un altro fattore, secondo Lombroso, esercita una azione determinante, seppure inconscia, sui delinquenti-nati. E l’atavismo, mostruosità fisico-psichica che apre la strada al riemergere nei criminali di pratiche cancellate dal tempo e che li spinge ad imprimere indelebilmente sul proprio corpo segni, disegni, simboli e scritte. «Ma la prima, principalissima causa della diffusione di questo uso fra noi, io credo sia l’atavismo; o quell’altra specie di atavismo storico, che è la tradizione, comechè il tatuaggio sia uno dei caratteri speciali dell’uomo primitivo, e di quello in stato di selvatichezza [..] Nulla è più naturale che un’usanza tanto diffusa tra i selvaggi e fra i popoli preistorici, torni a ripullulare in mezzo a quelle classi umane che, come i bassi fondi marini, mantengono la stessa temperatura, ripetono le usanze, le superstizioni, perfino le canzoni dei popoli primitivi, e che hanno comune con questi la stessa violenza delle passioni, la stessa torpida sensibilità, la stessa puerile vanità, il lungo ozio, e, nelle meretrici, la nudità, che sono nei selvaggi i precipui incentivi a quella strana costumanza» (Lombroso 1906, pp. 373-375).

Lombroso ripropone continuamente gli elementi caratterizzanti il proprio quadro teorico, ma anche il suo stereotipo, sia del criminale che del selvaggio.

Il discorso diviene in questo modo circolare e tautologico, au-toesplicativo, ed appare non consentire una lettura dei fatti alternativa, se non a rischio di porre sotto accusa tutta l’intelaiatura teorica che ne è alla base. Lo sforzo interpretativo diviene tutto interno al discorso, la verifica limitata ad un aumento spropositato del materiale raccolto, una ricerca di compensazione, attraverso la quantità dei dati accumulati, alla sostanziale debolezza teorica dell’analisi.

Il tatuaggio turba, incuriosisce, infastidisce, pone problemi sulla liceità di un uso del corpo irrispettoso della sua sacralità. L’imma-ginario della borghesia ne è affascinato e scandalizzato. Lombroso ne coglie la potenzialità evocativa e ne fa oggetto di studio. Solo valutando questo incontro si possono comprendere le ragioni che hanno portato, nei trenta anni a cavallo della fine del secolo scorso, a scrivere centinaia di pagine sui tatuaggi, travestendo un luogo dell’immaginario in un oggetto di studio che si voleva scientifico.