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1 Pausa e Ritmo. Sull'attacco della 5a di Beethoven Di Manuel E. Saccu Cotton Athene Noctua I nostri saggi Numero IV www.Athenenoctua.it

Pausa e Ritmo. Sull'attacco della 5a di Beethoven - Saggi ... · La conoscenza assume definizione e valori semantici diversi in contesti differenti, e comunque ha il carattere di

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Pausa e Ritmo. Sull'attacco della 5a di Beethoven Di

Manuel E. Saccu Cotton

Athene Noctua I nostri saggi

Numero

IV

www.Athenenoctua.it

2

1

Indice:

Introduzione ...............................................................................................2

Capitolo I – Il Silenzio.................................................................... 6

Capitolo II – Le Tre Crome.............................................................11

Capitolo III – La Minima .........................................................................15

Capitolo IV – Il Punto Coronato.....................................................23

Conclusioni..................................................................................25

Appendice.....................................................................................26

Bibliografia ..............................................................................................29

2

Introduzione

“Se si deve filosofare si deve filosofare, e se non si deve filosofare si deve filosofare. In ogni

caso, dunque, si deve filosofare. Se, infatti, la filosofia esiste, siamo certamente tenuti a

filosofare, poiché essa esiste. Se invece non esiste, anche in questo caso siamo tenuti a cercare

come mai la filosofia non esista. Ma cercando filosofiamo, dal momento che la ricerca è la causa

e l'origine della filosofia.”1

Con serrato argomento logico, tramite la riduzione all'assurdo, Aristotele nel Protreptico ci

dimostra come il non filosofare sia impossibile. Cos'è, dunque, questa 'filosofia' di cui non si

può, apparentemente, fare a meno? Etimologicamente essa vale il greco φιλεῖν (amare) e σοφία

(sapienza), nel senso di 'amore per la sapienza'.

Aristotele ci comunica, dunque, l'impossibilità di non amare la sapienza, dove sapienza indica

nel pensiero antico lo stato di chi già sa prima di conoscere, giacché conoscere il vero si rivela

sotto l’aspetto di ciò che inconsapevolmente ognuno sa. L'impossibilità di non ricercare la

conoscenza è già detto dallo Stagirita in esordio della Metafisica, quando afferma che “Tutti gli

uomini bramano per natura di conoscere” brama che è causa e origine della filosofia. Cos'è,

dunque, la conoscenza? Esiste un metodo per cercarla? Se si, si tratta di un unico ed universale

metodo o sono molteplici e particolari? La conoscenza assume definizione e valori semantici

diversi in contesti differenti, e comunque ha il carattere di un’acquisizione consapevole di

informazioni derivate da (od occasionate da) esperienza. Per Socrate, ad esempio, conoscenza

della verità non è altro che lo svelamento, attraverso un processo pari al parto, di una conoscenza

già compiuta e innata dentro di noi, che occorre lentamente portare alla luce attraverso il dialogo

con un ostetrico-interlocutore. Platone rende ragione di questo socratico contenuto innato della

verità, teorizzandone l’origine nella reminiscenza delle idee contemplate dall’anima, prima di

nascere nel regno iperuranio. Origine che Aristotele attribuiva a un processo di astrazione

dall'esperienza sensibile, depurata dalla materia sino a giungere a configurarne la sua forma

universale e necessaria, cioè il concetto. Innatismo o astrazione sono stati per secoli i due poli

opposti intorno al valore ontologico o epistemico della conoscenza , in cui, nel medioevo, un

ruolo importante giocò la tesi cristiano-platonica della conoscenza come derivazione intuitiva dal

Verbo divino.

Un radicale mutamento si ebbe all'inizio del XVII secolo, con Galilei e Descartes, con

l’identificazione dei fondamenti del conoscere nella matematizzazione del sapere.

Scriveva Galileo nel 1623, nel § 6 de Il Saggiatore:

3

“La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli

occhi, io dico lo universo, ma non si può intendere se prima non s'impara a intender la lingua, e

conoscer i caratteri, ne' quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son

triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne

umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto”.

Kant, successivamente, con un pertinente esame logico, mostrò i confini della capacità umana

nella ricerca della conoscenza. Il termine consapevole, venne in seguito messo in discussione

dalle teorie psicanalitiche nascenti alla fine del XIX° secolo, ipotizzando una possibile

conoscenza inconscia, quindi presente in noi, di cui ignoriamo l'esistenza.

Da queste considerazioni, la teoria della conoscenza si potrebbe riassumere nella maniera

proposta dal fisico e filosofo austriaco H. Von Foerster, nel suo saggio Non sapere di non sapere2

e schematizzata in:

Figura 1. Schema del panorama conoscitivo proposto da H. Von Foester

Il ragionamento di Von Foerster deriva dall’affermazione di Socrate “so di non sapere”,

ritenendo che, in quest’ultima, il filosofo antico abitasse la conoscenza nel giudicare la sua

ignoranza. Poiché, secondo lo scienziato austriaco, ci è data conoscenza a partire dal seme

dell’ignoranza, egli introduce “un’ignoranza di secondo livello”, che nasce dalla consapevolezza

di “non sapere di non sapere”. Grazie a questa radicale consapevolezza di un perenne “punto

cieco” del sapere, si potrà quindi acquisire indefinitamente conoscenza.

In questa tesi, si cercherà di mostrare come la conoscenza nasca da un processo cognitivo di

interazione con la realtà, per poi affermare che i molteplici metodi di pensiero appartenenti a

diverse discipline, creano un'unica rete di conoscenza di fondamentale importanza per lo

sviluppo della ricerca. Questo rappresenterà lo scopo della tesi, ponendo come base gnoseologica

lo schema sopracitato, e analizzando le prime due battute della 5a sinfonia di Beethoven.

Ci si chiederà, in cosa la 5° di Beethoven potrebbe essere utile nella ricerca della conoscenza?

Innanzi tutto bisogna valutare cosa rappresentò Beethoven, e successivamente la sua 5° sinfonia,

1 Elias 1900, p.3, 19-23 2 Von Foerster, H. (1990) “non sapere di non sapere”, in M. Ceruti, L. Preta (a cura di) Che cos’è la conoscenza, Laterza, Roma-Bari

4

per il suo tempo. L’estrema complessità della figura del compositore sembra essere custodita nel

suo ruolo di transizione tra classicismo e romanticismo; egli è confine, terra di nessuno, tra

l’uno e l’altro mondo, senza fare parte, in senso stretto, di alcuno dei due. La sua tecnica è

classica, segue rigorosamente i “dictat” armonici e stutturali della scrittura musicale classica

dell’epoca anteriore; ciò nonostante il risultato delle sue composizioni è strabiliante,

emotivamente dirompente come un fiume in piena, ma soprattutto, diverso dalla musica che lo

precede. Come mai, basandosi sulle stesse regole musicali dei classicisti, il suo risultato appare

così differente dalla musica più “razionale”, controllata e controllabile di questi ultimi? Cosa ha

visto d’altro il compositore di Bonn in quelle stesse regole? Come se non bastasse, egli non ha

neppure quell’ espressività caratteristica dell’avvenire romantico, basata sulla ricerca di ulteriori

regole, sulla modifica o addirittura l’abbandono di una musica tonale3. Qual’è, dunque, la

soluzione all’ “enigma Beethoven”? Numerosi sono gli esempi, con relativi argomenti, che

potrebbero dare una risposta, ma pochi sono così esaustivi ed emblematici come le prime due

battute della 5° sinfonia.

Figura 2. Le prime due battute della 5° sinfonia di Beethoven

Quattro note, quattro colpi. La vox populi racconta che il compositore, per comporre il tema

portante della 5°, si sia ispirato ad un semplice quanto banale evento: il postino che bussò quattro

colpi alla sua porta. Tanto questo fatto lo colpì che qundo il suo primo biografo Anton Schindler

chiese delucidazioni sul significato di un inizio così d’impatto egli rispose “ Sono i colpi del

destino che bussa alla nostra porta” (“So pocht das Schicksal an die Pforte”4). Beethoven non

sapeva, però, che i suoi quattro colpi avrebbero fatto aprire la porta al romanticismo musicale.

3 La musica tonale è quel tipo di musica che stabilisce una gerarchia tra la tonica (la prima nota della scala, che ne decide la tonalità) e tutti gli altri suoni della scala diatonica maggiore o minore. 4 Schindler, Anton. Biographie von Ludwig Van Beethoven, 2° volume, 3a edizione, Ascendorff, Münster, 1860, p. 158

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Egli non aprì la porta, si limitò a bussare. Come un postino. Un messaggero.

Interessante è l’ambiguità del termine “pocht” in tedesco: nel contesto della frase riportata da

Schindler prevale l’accezione di “ battere”, mentre il significato letterale è “pulsare”, quindi, la

pulsazione scarna diventa, nel contesto, un battito. Proprio come nella musica, dove un insieme

di pulsazioni formano una battuta.

Beethoven è il legame continuo tra due mondi, con due modi radicalmente opposti di vedere e

trattare la stessa cosa. Sembrerebbe che Beethoven si fosse accorto, almeno in ambito musicale,

che lo sguardo e la maniera di leggere la realtà, incidono sulla natura dell’osservato, poiché gli

si da un senso. Il materiale non differiva da quello in dotazione dai classicisti, ma differiva nel

senso. Il compositore sordo, sapeva leggere oltre ciò che gli si presentava davanti. Qui si snoda

“l’enigma Beethoven” e qui si vede come egli percorra un processo di scoperta, svelando il

“nuovo” dal “vecchio”. Cercheremo di applicare questo stesso metodo di ampliamento della

conoscenza ponendo come base già data, non le leggi musicali classiciste, bensì le quattro figure

fondamentali delle prime due battute della 5° di Beethoven e spostare il piano di interpretazione

dal sistema musicale a quello conoscitivo.

In primo luogo analizzando il silenzio in musica. Una voce che tace, che genera dualità,

nell’interazione con la voce che suona. La separatezza come base dell’unione. La diade come

base per la conoscenza.

Secondariamente introducendo la triade, generatrice di movimento nella sua costante asimmetria,

scandita dall’unità duale.

Si continuerà nell’auscultazione del ritmo come relazione tra diade e triade, che tesse il rapporto

tra continuo e discreto.

In quarto luogo, introducendo l’emotività come garante armonico della conoscenza.

In fine, si chiuderà con l’apertura del contrappunto, nato dal legame tra armonia e ritmo.

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Capitolo I - Il Silenzio

Figura 3. Pause di croma cerchiate in rosso nelle prima due battute della 5° sinfonia di beethoven.

Così inizia la 5a sinfonia di Beethoven, con un silenzio.

In musica il silenzio o pausa (raffigurato nell'immagine, cerchiato in rosso) è una figura ritmica

di una certa durata in cui non viene emesso alcun suono. In questo caso, il silenzio ha la durata di

1/8, in una battuta (delimitata da segmenti verticali che tagliano l'endecalineo ) del valore ritmico

totale di 2/4 ( = 4/8), ossia, 2 pulsazioni da ¼ cada una. Proprio perché la battuta costituisce una

totalità predefinita, la durata delle figure ritmiche al suo interno (silenzi o suoni che siano) può

essere suddivisa indefinitamente.

L’inizio di una composizione con una pausa, come nel caso della 5a di Beethoven, è detto

acefalo (letteralmente: senza testa). Il silenzio, in realtà, è già presente nel pubblico in sala,

prima dell’attacco. Ciò nonostante, la pausa iniziale della prima battuta, per quanto all’orecchio

indistinguibile dal silenzio del pubblico, è condizione necessaria del ritmo, è intrinsecamente

musica.

La particolare importanza di questo elemento risiede proprio nella sua distinzione col suono,

generando la loro inscindibile unione.

Come nella teoria percettiva della Gestalt, secondo la quale le forme si definiscono per

contrapposizione, ogni frequenza che sussegua la pausa è udibile grazie al contrasto con

quest'ultima. Analogamente, un sordo dalla nascita (che non conosce, quindi, i suoni e le loro

gradualità) non può concepire sequenze foniche, giacché è indispensabile un rapporto silenzio-

rumore internalizzato per il riconoscimento di una qualsiasi sequenza discontinua che voglia

costituire una configurazione ritmica sulla base di pausa e suono. La pausa è, dunque, attiva nel

definire il suono, proprio per la sua natura di voce che si esprime attraverso il suo silenzio. Essa

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è la presenza di un’assenza, caratterizzata dall’assenza di una presenza. Un vuoto pieno della sua

vacuità.

La dualità riscontrata dalla contrapposizione di due segnali opposti (pausa e suono / silenzio e

rumore) conduce naturalmente al linguaggio matematico, come relazione fra diverse unità.

Inizialmente i sistemi matematici avevano in comune la rappresentazione di un numero tramite

un procedimento di tipo additivo (come in quello romano, in cui il valore del numero si ottiene con

un veloce calcolo aritmetico per es. 1 = I ; 2 = II = I+I ; 3 = III = I+I+I ; 5 = V ; 4 = IV ossia uno

prima di cinque, e così via). L’equivalente ritmico di questa rappresentazione è, dunque, una serie di

elementi unitari legati fra loro da un vincolo aritmetico che non prevede discontinuità: come una

musica che non contiene la pausa. Ma può considerarsi musica, senza pausa?

Con l’avvento del sistema posizionale5 (come quello decimale di uso quotidiano), in cui il valore

della cifra è definito rispetto alla sua collocazione all’interno del numero, si introdusse lo zero.

Questa cifra, nei sistemi posizionali, permette di “saltare” una posizione e dare il giusto valore alle

cifre che lo seguono o lo precedono all’interno dello stesso numero. Etimologicamente ‘zero’ deriva

dall’arabo sifr, che vale anche per ‘vuoto’. Curiosamente anche il termine ‘cifra’ deriva dalla stessa

radice. Si potrebbe, dunque, supporre che, così come il silenzio definisce il suono, il vuoto (lo zero)

definisce il pieno (la cifra).

Le basi per la rappresentazione del ritmo hanno, ora, un loro fondamento: lo zero, la pausa.

Ma, nel sistema decimale, lo zero è ancora “una cifra tra dieci”, eclissando il suo ruolo nella dualità.

Sarà un nuovo sistema posizionale a rafforzarne il valore:

il sistema binario.

Tale sistema racchiude l’essenza della dualità come descrizione, ponendo come uniche cifre 0 e 1. Le

potenziali combinazioni di questi due unici elementi possono produrre un’infinita serie di numeri

interi e rappresentare infiniti linguaggi con praticità e velocità di calcolo.

Le sequenze binarie e la loro traduzione in impulsi elettrici, sono le fondamenta delle odierne scienze

dell’informatica e della computazione6.

Tornando alla musica, facendo corrispondere 0 e 1 ai concetti di pausa e suono, l’intrinseca e scarna

elementarità di questo linguaggio combinatorio permette, finalmente, la rappresentazione del ritmo

nella sua essenza.

Se, fin’ora, abbiamo sviluppato un discorso sulla complicità tra pausa e suono per

l’individuazione del ritmo, osserveremo, qui di seguito, la loro distizione in quanto altro da: la

loro alterità.

Questo concetto venne sviluppato da Platone nel Sofista,con l’argomento noto come il

5 Nota n°1 dell’appendice, per approfondimenti. 6 Nota n°2 dell’appendice, per approfodimenti.

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“parricidio di Parmenide”, suo maestro.

Parmenide analizzò il contrasto dualistico tra essere e non-essere, concludendone che nel mondo

non c'era posto per il non-essere, poiché entrava in contraddizione logica con l'essere. Una cosa

non poteva essere se stessa e contemporaneamente non-essere un’altra cosa: sarebbe stata un'

illegittima mescolanza tra essere e non-essere. Il filosofo di Elea sostenne, quindi, l'inesistenza

del non-essere, giacché esso non è, ponendo l'essere come unico lògos. Non dimentichiamo che

nella Grecia antica i piani logico e linguistico erano fusi al discorso ontologico, di conseguenza

per Parmenide dire “non-essere” appariva assolutamente insensato. Ma così facendo, eliminando

il non-essere dal piano ontologico, il lògos da lui teorizzato negava la sua stessa possibilità di

essere in quanto essere, poiché, come abbiamo visto, una dualità è necessaria per poter

distinguere almeno un'entità. Analogamente, se avessimo solo il giorno e non avessimo la notte,

per noi il giorno non esisterebbe e non riusciremmo a concepirlo.

Per Platone, che una cosa non fosse, non significava che non esistesse. Di conseguenza, il non-

essere non significa non esistere, bensì essere altro da.

Se uno dicesse che il violino non essendo un pianoforte, il pianoforte non esiste, non intende che il

pianoforte non esista, poiché quest'asserzione non pregiudica assolutamente l'esistenza del

pianoforte, mi indica soltanto che il violino è altro da (diverso da) un pianoforte.

L'altro, héteron in greco, introduce, dunque, non solo un nuovo concetto di non-essere (non più

come non esistenza ma come alterità), ma pervade l'essere di non-essere dando origine così alla

determinazione dell'essere. Il non-essere non rappresenta quindi più l'ignoto, l'il limitato, meglio

ancora l'indeterminato. Diventa, quindi, ciò che definisce l'essere, ciò che separa un elemento da

un altro, ciò che li distingue, ciò che, appunto, lo determina.

Estendendo questa osservazione sul piano della conoscenza, la distinzione tra un elemento ed

un altro, crea una rete di elementi con somiglianze e differenze relazionali. A seconda, poi, del

livello in cui si voglia posizionare un dato elemento, lo si può confrontare con elementi distinti.

Più punti di confronto nascono, più si moltiplicano i concetti e i livelli di conoscenza.

Tornando al discorso sul silenzio musicale, possiamo concludere che la pausa non sia una mera

assenza di suono, piuttosto la presenza di un’assenza. Poiché, come abbiamo visto, nell’alterità il

non-essere, semplicemente è.

Abbiamo, dunque, tentato di ascoltare il binomio silenzio/rumore e la loro opposizione. Di

consegunza, poiché si definiscono mutuamente, sono imprescindibili l’uno per l’altro, la loro

separatezza garantisce la loro unione. La loro dissonanza garantisce la loro consonanza.

Ma introducendo questi due termini, si effettua uno spostamento di livello. Infatti, poiché la

dissonanza e la consonanza sono rappresentazioni internalizzate, quindi soggettive, della

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relazione fra pausa e suono, entra qui in campo l’osservatore, nel nostro caso l’ascoltatore.

Viene spontaneo tornare qui ad H. Von Foerster, che introdusse la cosiddetta ‘cibernetica di

secondo ordine’, in cui il soggetto non è più un osservatore esterno di un dato sistema, bensì

parte integrante del sistema stesso. Argomenta il filosofo “Gli oggetti e gli eventi non sono

esperienze primitive. Oggetti ed eventi sono rappresentazioni di relazioni. Dato che ‘oggetti’ ed

‘eventi’ non sono esperienze primitive e così non possono rivendicare uno status assoluto

(oggettivo), le loro interrelazioni, l’“ambiente”è un affare meramente personale, i cui vincoli

sono fattori anatomici o culturali” e prosegue asseredo: “Quelle proprietà che si credeva

facessero parte delle cose si sono rivelate essere proprietà dell’osservatore.”7 Sembra essere

necessaria, dunque, la presa in considerazione dell’osservatore come facente parte di un dato

sistema, nell’osservazione del sistema medesimo.

Abbiamo, quindi, nel nostro caso: una pausa, un suono e un ascoltatore.

La nostra diade evolve verso la triade.

Un evento in particolare invitò a riflettere sul rapporto fra ascoltatore e la dualità

silenzio/rumore: l’esecuzione in pubblico il 29 agosto del 1952 della composizione in tre

movimenti del compositore sperimentale John Cage (1912-1992) , 4'33’’.

4'33’’ è dunque una composizione tripartita, di cui il primo movimento ha una durata di 30

secondi; il secondo movimento una durata di 2 minuti e 23 secondi; il terzo movimento una

durata di 1 minuto e 40 secondi, per un tempo complessivo di, appunto, 4 minuti e 33 secondi.

La peculiarità di questa composizione sta nel fatto che siano 4'33’’ di silenzio. Ma di un silenzio

puramente strumentale, poiché nella sua esecuzione, la composizione si riempie dei rumori

casuali provocati dagli orchestrali e dal pubblico (movimenti della sedia, posizionamento degli

spartiti, colpi di tosse, respiri...etc. ).

Ma non abbiamo detto che la musica nasce dal gioco di opposizione tra pausa e suono? Se non

può darsi musica senza pausa, può darsi musica senza suono? In 4’33’’, John Cage, mostra

come, in verità, l’assenza assoluta di suono, non sia possibile.

Curioso è il fatto che il compositore statunitense scelse una durata 4'33, che corrispondono a 273

secondi, probabilmente, si racconta, in riferimento allo Zero assoluto fisico corrispondente a -

273,15 °C, temperatura irraggiungibile, come il silenzio assoluto. Ecco di nuovo lo zero che

torna come vuoto / non vuoto.

Ma non solo, in 4’33’’, il pubblico, che fino a quel momento si considerava spettatore esterno,

entra a far parte del sistema musicale. Questo cambio di livello, invita il pubblico a modificare

“la percezione della propria percezione”, cioè lo spettatore osserva sé stesso nella sua percezione

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del silenzio e del rumore, spostandone il contesto: quello che prima gli appariva come il vuoto

musicale del silenzio strumentale, ora diventa un pieno definito dal ritmo dei rumori di cui lui

stesso fa parte.

La composizione tripartita di Cage mise dunque in dubbio il concetto di musica in primis, e

secondariamente invitò lo spettatore a sentire la relatività di un concetto informativo. Il

contenuto di un’informazione non può, quindi, prescindere dal suo collocamento contestuale.

Cage rivoluzionò così il piano di percezione, e dunque il criterio con cui si concepiva la musica,

esattamente come fece Beethoven con i classicisti.

Di come il processo cognitivo porti a questa collocazione contestuale di un’informazione, tratterà

il secondo capitolo.

7 Von Foerster, H. Sistemi che osservano, Astrolabio, Roma , 1987

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Capitolo II - Tre Crome

Figura 4. tre crome cerchiate in rosso nelle prime due battute della 5° sinfonia di Beethoven.

Al seguito della pausa, si susseguono tre crome (qui cerchiate in rosso) del valore di 1/8 cada

una, completando così la prima battuta della 5a sinfonia di Beethoven, del valore complessivo,

come abbiamo detto, di 2/4.

Le tre crome in questione, hanno un ruolo emblematico nella 5° sinfonia, proprio perché esse

concludono la prima battuta e al contempo, grazie alla natura dispari della figura che crea uno

sbilanciamento, lasciano aperto il discorso musicale.

Come se non bastasse, le tre crome hanno inoltre la peculiarità di essere identiche sia nella durata

che nel suono, poiché rappresentano tutte la nota Sol. Si presenta, dunque, il seguente problema:

se una ripetizione è, per definizione monotona e quindi stazionaria, il tre, dal suo canto, è, per la

sua natura asimmetrica, sbilanciante e quindi mobile. Come possono convivere

contemporaneamente quiete e movimento in un unico stato?

Apparentemente, ciò non potrebe darsi, poiché la condizione necessaria per la presenza di uno

dovrebbe essere l’assenza dell’altro. Le opzioni appaiono dunque due: la ripetizione ternaria o è

quieta o è mobile.

Per aiutarci a sciogliere il nodo, analizziamo come nella ripetizione, in verità, la staticità

(immaginiamo di saltare sempre sullo stesso punto) sia puramente apparente, poiché essa è uno

movimento ripetitivo.

Nella ripetizione, ogni elemento, tranne il primo, presuppone la presenza degli elementi che lo

precedono. È una sommatoria di una medesima unità nel tempo. Nel caso della ripetizione

ternaria della croma nell’attacco della 5° sinfonia di Beethoven, potremmo figurarla, con una

rappresentazione presa in prestito dall’insiemistica, in questo modo:

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Figura 5. Rappresentazione insiemistica della ripetizione ternaria della croma

La ripetizione non sussiste, però, di per sé nella sua sequenzialità, ma emerge nella memoria

dell’uditore delle crome disposte in sequenza nel tempo. Ovvero, al suonare della terza croma,

l’inclusione delle crome precedenti, viene percepita come ripetizione dall’uditore, grazie ad un

processo mnemonico. Anche qui, rifacendoci all’affermazione di Von Foerster8, la proprietà che

si credeva facesse parte della cosa, si è rivelata essere proprietà dell’uditore.

Ma cosa rappresenta dunque la ripetizione terziaria per l’uditore / osservatore?

Per indagare questa questione, inizieremo utilizzando un noto aneddoto di guerra.

Durante la Prima Guerra mondiale, i soldati fumatori che stavano in trincea, erano costretti ad

accendersi una sigaretta con lo stesso cerino (che era preferibile non sprecare), non più di due

alla volta. Questo perché l'accensione del suddetto cerino, indicava la posizione dei soldati al

nemico (accensione della prima sigaretta), che nel frattempo aggiustava la mira (accensione della

seconda sigaretta) e all’accensione della terza sigaretta sentiva di essere pronto per sparare. Per

evitare dunque l'agguato di un possibile tiratore scelto, erano costretti a limitare a due le sigarette

accese dallo stesso cerino. Questo portò alla credenza popolare per la quale accendersi tre

sigarette con lo stesso cerino portasse sfortuna.

Da questo esempio, notiamo come per l’osservatore (qui il tiratore scelto) nella ripetizione

ternaria di uno stesso elemento (l’accensione della sigaretta), ognuno di loro tre rappresenti per

lui un ruolo diverso a seconda della posizione in cui si trovi : la percezione di un evento, la

conferma di tale evento, la reazione emotiva alla conferma dell’evento (che porterà all’azione)

Vedremo però che il primo istante (il momento in cui il tiratore scelto localizza i nemici

all'accensione della prima sigaretta) potrebbe essere anch'esso suddivisibile in tre parti

consequenziali:

8 Vedere nota n°7

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1- i suoi organi sensoriali (in questo caso la vista) gli segnalano un avvenimento (un bagliore

nel buio) : la percezione.

2- il soggetto identifica l'elemento scatenante dell'avvenimento (il bagliore), associandolo ad un

determinato elemento interiorizzato nella sua memoria ( è una fiamma): l’identificazione.

3- l’elemento identificato viene posto in un contesto ( è una fiamma artificiale di un cerino

proveniente dal fronte nemico, nel quale un soldato è intento ad accendersi una sigaretta): il

collocamento contestuale.

In questa terza fase si adopera una scelta consistente nel distinguere l’elemento precedentemente

percepito ed identificato in due modi: o come figura o come sfondo

Mettiamo il caso, ad esempio, di un uomo che attraversi una strada trafficata: quest'ultimo udirà

miriadi di suoni contemporaneamente. Egli sceglierà di identificarli come sfondo, poiché non

potrebbe prestare attenzione ad oguno di loro allo stesso tempo. Se però un clacson suonerà in

relativa vicinanza dell'uomo, quest'ultimo si girerà guardingo porgendo tutta la sua attenzione,

poiché sceglierà di vederlo come figura. Ma lo stesso uomo, in un altro contesto, che potrebbe

essere nel suo appartamento al quinto piano di un edificio, nel caso venisse a sentire rumori di

traffico dall'esterno, compreso il clacson, li definirebbe,sempre internamente, tutti come sfondo.

Tali decisioni, si potrebbe dire, sembrano essere dunque determinate dalle nostre necessità e

desideri in un dato contesto nel quale avviene un evento. Poiché in contesti differenti, diverse

sono le nostre necessità, variabile sarà la scelta di identificazione per uno stesso evento. Ma

siamo ancora nel campo dell’automatismo, delle reazione istintive.

Ci si potrebbe comunque imbattere in casi di indecisione. In questa circostanza, la scelta non è

più automatica. Qui l’intervento della ripetizione, può contribuire a confermare la scelta ad un

livello più cosciente.

Passiamo al secondo ruolo nella ripetizione ternaria, che avevamo prima ipotizzato: il momento

della conferma.

A questo punto, per dare un esempio, riporteremo una barzelletta che fa proprio al caso nostro:

Un uomo, ogni notte, al suo rientro a casa si toglie le scarpe per poi lanciarle a terra una dopo

l’altra, provocando un gran frastuono. Finché una notte, dopo essersi tolto la prima scarpa

lanciandola come suo solito, prima di togliersi la seconda, realizza che la sua maniera poco

delicata di togliersi le calzature avrebbe potuto disturbare i vicini di sotto, e così, decide di

poggiarla dolcemente. Il giorno dopo, quest’uomo incontra il vicino, che lo apostrofa

furiosamente: “le tue dannate scarpe mi svegliano sempre, ma ieri è andata peggio: sono stato

sveglio tutta la notte, in attesa che tu gettassi la seconda!”

Notiamo qui come per il vicino l’evento che disturba quotidianamente il suo sonno, è la sua

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ripetizione giornaliera, a sua volta reiterata dal doppio rumore delle scarpe lanciate. Poiché, per

il vicino, la ripetizione quotidiana di questo evento rappresenta il contesto, egli non prevede

l’assenza del secondo colpo della scarpa, e quindi della ripetizione. Egli vive un contesto

proiettivo.

Questo sfalsamento, mette in evidenza come il vicino, che qui assume il ruolo dell’osservatore,

consideri oggettiva la propria rappresentazione del contesto e reagisca di conseguenza ( invece di

essere contento per essere finalmente in silenzio, si arrabbia proprio per la mancata ripetizione da

lui prevista e tanto attesa).

È la stessa cosa che successe a parte del pubblico presente in sala quando John Cage presentò

4'33. Il contesto proiettato dal pubblico non prevedeva il contesto proposto dal compositore

americano. Le reazioni degli spettatori furono duplici: una parte accolse il nuovo contesto,

l’altra lo rifiutò proprio per la mancanza del contesto che si attendeva.

Siamo arrivati al terzo ruolo della ripetizione ternaria, la reazione emotiva alla conferma.

Come il tiratore avverte che è giunto il momento di sparare, l’ascoltatore dell’attacco della 5° di

Beethoven alla terza croma della prima battuta, avverte, anche lui, che è giunto il momento. La

tensione lo pervade. Da dove viene quindi questa tensione?

Avevamo detto che la ripetizione è conferma, e la conferma, per sua natura, è sicurezza, solidità.

All’opposto, la triade, per la sua natura dispari, è disequilibrante, mobile. Ne consegue che la

loro sovrapposizione generi una ripetizione triadica, che produce tensione, come una corda tirata

da due opposti.

D’altro canto la triade, a differenze della dualità, proprio per il suo essere dispari, e per quello

sbilanciamento che tende a cadere, produce un movimento che cerca la quiete e la decisione ( a

questo proposito è utile notare come in vari contesti sportivi, due “round” possono far

pareggiare i giocatori, mentre il terzo ”round” sarà decisivo per la loro vittoria o sconfitta).

La stabilità della ripetizione, però, non permette alla triade manifestarsi in questo suo aspetto

decisionale. Sarà necessario introdurre un quarto elemento che possa risolvere questa tensione.

Beethoven scioglie il nodo aprendo la nuova battuta, con una nota decisiva, un Mi della durata di

una minima.

Il cecchino, presa la mira, spara.

15

Capitolo III - La Minima

Figura 6. Minime cerchiate in rosso nelle prima due battute della 5° sinfonia di Beethoven.

La seconda battuta della 5a sinfonia di Beethoven è interamente dominata da una minima. La

minima (qui cerchiata in rosso) è una figura ritmica del valore di 2/4 (o ½). In questo caso,

essendo la composizione in 2/4, essa ricopre la totalità della battuta. Il tema portante della 5a

sinfonia è composto, dunque, da un silenzio susseguito da tre note intervallate ed infine un

ultima nota dalla durata continua. Le due battute iniziali costituiscono, nell'insieme, un ritmo

vero e proprio. Cos'è dunque il ritmo? L'enciclopedia Treccani ne dà la seguente definizione:

Ritmo è “Il succedersi ordinato nel tempo di forme di movimento, e la frequenza con cui le varie

fasi del movimento si succedono”.

Il ritmo nasce quindi da una suddivisione misurata del tempo. In musica, ad esempio, esistono

varie figure ritmiche che indicano la durata di un suono o di una pausa nel tempo. Queste figure

ritmiche sono potenzialmente infinite, poiché infinita può essere la suddivisione del tempo

definito.

Nella storia dell’umanità è sempre stato un problema la definizione del concetto di infinito.

Ad esempio Zenone di Elea, elaborò quattro argomenti che sostenevano l'impossibilità di una

misura e di una riduzione logica del tempo, ma anche dello spazio, e quindi del movimento, del

continuo9, criticando principalmente la scuola pitagorica. Quest'ultima, contrariamente a Zenone

di Elea, non concepiva lo spazio ed il tempo come infinitamente divisibili, ed affermava che tutta

la realtà era costituita da numeri e che l'universo potesse essere descritto in termini di rapporti tra

numeri interi. Questa convinzione, però, fu messa in crisi dalla scoperta delle grandezze

9 Nota n°3 dell’appendice per approfondimenti

16

incommensurabili10.

Successivamente, si scoprirono altri numeri con la medesima caratteristica, e vennero

raggruppati nell’ordine dei “numeri irrazionali”. Questi ultimi sono dei numeri reali non

scrivibili sotto forma di frazione11 e la cui numerazione è interminabile, non formando una

sequenza periodica. Il libro decimo degli Elementi di Euclide tratta, difatti, delle grandezze

incommensurabili12. Euclide considerava, però, questo libro come facente parte della geometria,

piuttosto che dell’aritmetica. Probabilmente perché concepiva il problema

dell’incommensurabilità un problema concreto.

La scoperta delle grandezze incomensurabili portò, dunque ad un ampliamento di concetto di

infinito, poiché un numero irrazionale (come può essere π, e o √2) rappresenta una grandezza

finita definita infinitamente e, quindi, indefinitamente.

Prima di proseguire, sarebbe opportuno notare come la stessa scrittura geometrica presenti delle

aporie. Mettiamo il caso, ad esempio, di disegnare un punto. Ci renderemo subito conto che tale

punto, per quanto piccolo esso sia, avrà sempre un’area. Lo stesso accadrà per una retta, la quale,

teoricamente, dovrebbe essere una lunghezza senza larghezza. Purtroppo però, è evidente che

una retta disegnata ha anche una larghezza, smentendo la definizione stessa di ‘retta’.

Avvertiamo subito come l’applicazione fisica di un concetto matematico, tradisca la base

matematica sui cui essa stessa si fonda. Come uscire da questa aporia?

Una sottigliezza lingustica nel “dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo” di Galileo

Galilei, ci indica la via. Essa dice: “E prima noteremo questi due puni A e B (...)”13. Il termine “

noteremo” e, dunque, “notare” è qui di fondamentale importanza. ‘Notare’ deriva da ‘nota’,

ovvero un simbolo od un grafema che sta per qualcosa. Essa ha un ruolo puramente

rappresentativo, rimandando ad un contenuto fisico che non detiene. Parimenti il linguaggio

scritto musicale è composto da note su di un pentagramma, le quali non sono di per sé dei suoni

con le loro rispettive durate, ma li rappresentano. Quando Galileo scrive “noteremo” due punti A

e B, egli sottointende l’impossibilità di trascrivere un punto, se non come rappresentazione di un

qualcosa che ‘sta per’. In ugual modo, per i numeri irrazionali si scelsero grafemi appositi (come

π ed e) o numeri indicanti un operazione aritmetica il cuale risultato sarebbe stato tale irrazionale

(come √2 o √5). Questo permise di gestire comodamente grandezze incommensurabili.

Riprendiamo la celebre citazione di Galileo contenuta nel Saggiatore. Egli afferma che la natura

10 Nota n°4 dell’appendice per approfondimenti 11 con il numeratore e denominatore numeri interi, e il denominatore in questione, diverso da zero. 1212 “Quelle quantità, seranno dette comunicante, ouero comensurabile, alle quale serà una quantità numerante communamente quelle. Et quelle alle quale non serà una quantità numerante comunamente quelle seranno dette incommensurabile” Euclide, Elementi, Libro X, p.1 13 Galileo Galilei, Dialogosopra I due massimisistemi del mondo, Pdf

17

è scritta in linguaggio matematico, i cui caratteri sono triangoli, cerchi, quadrati...etc.

Galileo ha un metodo di scoperta basato sull’esperimento e la sua riproducibilità in un contesto

controllato, grazie al quale misurerà e, conseguentemente, descriverà matematicamente (in

maggior parte geometricamente) , i rapporti tra gli enti di un dato esperimento ( o evento ).

Questa matematizzazione della fisica, e quindi di un mondo dagli effetti apparentemente

continui, influenzò, certamente, l’approccio dei fisici ad un metodo di descrizione matematica.

Ma soprattutto i matematici, i quali resero la loro disciplina molto più applicabile, aumentando

notevolmente la ricerca matematica per una descrizione (e, quindi, anche per la previsione) di un

dato fenomeno. Notare, che prima di questa “rivoluzione galileiana” gran parte degli studiosi, si

occupavano sia di matematica che di fisica ( ma anche di altre discipline come le arti, la musica o

la filosofia). La settorizzazione disciplinare non era marcata come lo può essere ai giorni nostri,

ciò nonostante, mai la matematica fu così affine alla fisica come con Galileo, creando i

fondamenti di una scienza matematica.

La geometria e l’algebra furono messe in connessione grazie al sistema di riferimento

cartesiano, che è anche un metodo per localizzare un punto nello spazio. Come abbiamo visto

precedentemente, il punto “notato” di Galileo, che quindi graficamente rappresentiamo con un

grafema che ‘sta per’, nel caso del piano cartesiano, il punto è perfettamente collocabile; non

solamente lo rappresenta, ma lo definisce nello spazio come rapporto tra due o più dimensioni.

Individuare un punto in uno spazio (o una retta che sia) diventa molto più facile e preciso grazie

ad un metodo di definizione spaziale in cui la sua posizione è detrminata dal rapporto ortogonale

di ascisse e ordinate. Sapendo che, se si dovesse tracciare una retta, gli infiniti punti sarebbero

velocemente localizzabili e la retta stessa sarebbe definibile con una funzione (f) ovvero il

collegamento o relazione esistente fra due o più variabili: l’insieme di punti che ad una x (detta

variabile indipendente) fanno corrispondere una sola y ( detta variabile dipendente) tale che y =

f(x).

Come fare, però, con una curva? Come definire la sua forma se gli infiniti punti che la

costituiscono sono di posizione variabile e graduale? Di questo si occuparono

contemporaneamente, ma indipendentemente, Leibniz e Newton. Essi, grazie a questo metodo,

introdussero il calcolo infinitesimale, base per la misura e la matematizzazione del continuo.

Il calcolo infinitesimale (e quindi l’analisi matematica), rappresentò un punto di svolta nella

storia della matematica, poiché, esso permetteva l’analisi di sistemi fisici continui.

Sfruttando le grandi potenzialità del sistema cartesiano, si provò ad individuare un punto in una

curva (come poteva presentarsi in ambito fisico), ma data la sua gradualità, una misurazione

precisa era pressoché impossibile.

18

Il filosofo, matematico e studioso multidisciplinare tedesco Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-

1716) non si arrese ad un idea di infinito incalcolabile. Egli scriveva14: “ Le vrai infini, à la

rigeur, n’est que dans l’absolu, qui est antérieur à toute composition et n’est point formé par

l’addition des parties”15, d’altra parte “ on se trompe en voulant imaginer un éspace absolu, qui

soit un tout infini, composé de parties. Il n’y a rien de tel”16 ma egli continua asserendo “Prenons

une ligne droite, et prolongeons-là, en sorte qu’elle soit double de la première. Or, il est clair que

la seconde, étant parfaitement semblable à la première, peut être doublée de même pour avoir la

troisième qui est encore semblable aux précedentes; et la même raison ayant toujours lieu, il

n’est jamais possible qu’on soit arrêté; ainsi la ligne peut être prolongée à l’infini; de sorte que la

considération de l’infini vient de celle de la similitude ou de la même raison, et son origine est la

même avec celle des vérités universelles et nécessaires”17 . Indubbiamente l’immagine spaziale è

inadeguata all’idea pura di infinito; non è sull’immagine spaziale che la realtà dell’ infinito

poggia, è un processo dell’intelletto, del quale i cartesiani si erano serviti per provare l’esistenza

di un infinito, trascendente alla potenza propriamente umana.

Da qui l’originalità di Leibniz, che scrive (a proposito di Père Du Tertre) “ L’auteur ajoute que

dans la prétendue connaissance de l’infini, l’ésprit voit seulement que les longuers peuvent être

mises bout à bout et répétées tant que l’on voudra. Fort bien; mais cet auteur pouvait considérer

que c’est déja connaître l’infini que de connaître que cette répétition se peut toujours faire”18.

Leibniz sapeva che il suo argomento era valido per un approccio matematico dell’infinito,

riducendolo alla somma di identità, ma per quanto riguardava la fisica sarebbe stata un altra

cosa; egli scrive così in una corrispondenza con Clarke: “ Ce seul principe suffit pour démontrer

toute l’arithmétique et toute la géometrie, c’est à dire tous les principes mathématiques. Mais

pour passer de la mathématique à la physique, il faut encore un autre principe”19.

A questo punto, soffermiamoci ad analizzare, in concreto, quali problemi crei l’idea di infinito

nel panorama conoscitivo.

14 Brunschvicg, L., Les étapes de la philosophie mathématique, Librairie scientifique et technique, Parigi, 1972, p.213 sgg.

15 “Il vero infinito, rigorosamente, non sussiste che nell’assoluto, anteriore a qualsivoglia composizione e non è affatto formato dalla somma delle parti” 16 “Ci si sbaglia a voler immaginare uno spazio assoluto, infinito, composto per parti. Non esiste nulla di tutto ciò” 17 “prendiamo una linea retta, e prolunghiamola, in maniera tale che misuri il doppio della prima. È, dunque, chiaro che la seconda, essendo perfettamente simile alla prima, può essere duplicata a sua volta, risultandone una terza simile alle precedenti; e se il processo continuasse, sarebbe impossile essere interrotti; così la linea potrà essere prolungata all’infinito; in maniera tale che la considerazione di infinito derivi da quella di similitudine o dalla stessa logica, e la sua origine è la stessa delle verità universali e necessarie” 18 ” L’autore aggiunge che nella pretesa conoscenza dell’infinito, lo spirito vede solamente che le lunghezze possano essere sommate da capo a capo e che l’operazione sia ripetibile ad libitum. Benissimo. Ma questo autore poteva considerare che è già un conoscere l’infinito, il fatto di conoscere che questa ripetibilità si possa sempre fare”. 19 “Basta solo questo principio per dimostrare tutta l’aritmetica e tutta la geometria, ovvero tutti i principi matematici. Ma per passare dalla matematica alla fisica, ci vuole ancora un altro principio”

19

Se prendiamo, ad esempio, la frangia visibile dello spettro elettromagnetico e ne osserviamo le

diverse gradualità che passano da un colore all’altro, con agli estremi il rosso ed il violetto, ci si

renderà subito conto della difficoltà nel definire le miriadi di tonalità che la compongono.

L’unica soluzione sembra dunque contare sulla percezione, ma per la rappresentabilità della

varietà in un sistema contiunuo si rende necessario fare appello ad un sistema discreto, un

sistema graduale. La gradualità (dal latino gradus, grado, scalino) è l’approssiazione maggiore

alla quale l’uomo possa giungere nella rappresentazione dell’infinito.

Leibniz ci indica, difatti, un metodo graduale per concepire l’infinito, un metodo basato sulla

sommatoria infinita di una stessa unità. Come abbiamo detto in precedenza, base della

ripetizione e della definizione è la diade. Per che ci sia questa dualità è necessaria la finitezza,

poiché soltanto il limite ci consente la descrizione e, quindi, il confronto. Difatti, non sembra

affatto casuale l’utilizzo del termine limite in analisi matematica.

Il limite è un concetto che permette la misurazione del continuo, poiché esso sostituisce l’idea di

punto con quella di intervallo. Immaginiamo, in una funzione, un intervallo AB sul piano

dell’ascisse (x) al quale corrisponderà un intervallo A’B’ sul piano dell’ordinata (y). Più piccolo

sarà l’intervallo, più sarà circoscritto un dato punto.

L’utilizzo del limite permise un calcolo e una misurazione di molteplici eventi e fenomeni fisici.

Poiché un intervallo (AB) è costituito da una diade, che è definizione e finitezza, esso sembra

l’unico metodo di orientamento in un sistema continuo. L’approssimazione massima ad un dato

valore.

Ma ci rediamo subito conto che una rappresentazione del continuo tramite intervalli finiti è pur

sempre un metodo graduale (ovvero per scale, “step”).

Come ci insegna Leibniz tramite una tautologia, per poter effettuare un’infinita somma delle

parti, è necessario concepire l’infinito. Ciò nonostante, il filosofo tedesco, asserisce che

un’infinita somma delle parti, non è sufficiente per definire il “vero” infinito che abita l’assoluto.

Sicuramente, ma il “vero infinito” deve essere definibile, come poterlo concepire sennò?

In ugual modo, poiché per definire si necessita la finitezza, limitare l’illimitato per definire

quest’ultimo, non presenterebbe forse un aporia?

Poiché sappiamo che la definizione nasce necessariamente dalla dualità,come possiamo definire

la finitezza se non tramite il confronto con l’infinito? Nel concepire la dualità, distinguiamo le

differenze tra un dato ed un altro, concepiamo quindi l’assenza, e lavorando ad un meta-livello,

possiamo porre l’assenza della diade, ponendo la dualità tra “diade” e “assenza della diade” e

quindi tra finitezza ed infinito. Pensiamo dunque la finitezza tramite la sua assenza, l’infinito, e

l’illimitato come riflesso della finitezza, proprio per il fatto che continuo e discreto costituiscono

20

un sistema nel quale questi due si definiscono mutuamente. L’unica maniera quindi per concepire

l’infinito “assoluto”, sembra essere, non definirlo direttamente, incappando nella precedente

aporia, ma tramite il riflesso della finitezza. Ad esempio la lingua italiana utilizza solo parole in

negativo quali: infinito ; il limitato ; indefinito.

Nella teoria egli insiemi, difatti, non è rappresentabile “l’insieme di tutti gli insiemi” o

“l’insieme universo” se non come il complementare di un insieme vuoto. Analogamente accade

con la teologia negativa, introdotta da Plotino, in cui di Dio (infinito) possiamo dire solo “quello

che egli non è, ma non diciamo quello che Egli è. Diciamo di Lui partendo dalle cose che sono

dopo di Lui”20.

Abbiamo dunque infinito e finito che si definiscono mutuamente, tramite la diade, l’alterità, la

loro interferenza.

Per introdurre questo termine, prendiamo l’esempio di un segnale continuo, che viene interrotto

a intervalli regolari: ne risulterebbero segnali indistinti, udibili solo grazie al silenzio, alla pausa,

che li separa. Ora mettiamo un segnale continuo interrotto ad intervalli irregolari: questa volta,

ne risulterebbero diversi segnali di diversa lunghezza, non solo udibili grazie alla pausa, ma

distinguibili proprio dal rapporto che ognuno intrattiene con il silenzio, generando un segnale

modulato. La modulazione potrebbe, quindi, essere definita come un differente rapporto tra il

continuo ed il discreto, tra segnale ed interferenza.

Le prime due battute della 5° sinfonia di Beethoven cosituiscono anch’esse un segnale modulato:

pausa, tre note corte, una nota lunga; un ritmo. Curioso è il fatto che, proprio l’attacco della 5°

sinfonia, venne utilizzata durante la seconda guerra mondiale da Radio Londra per annunciare la

trasmissione dei messaggi alleati, poiché, tradotto in codice Morse, l’attacco della 5a (– – – — )

rappresenta la “V” di “Victory”. Si può dunque reinterpretare la musica come un insieme di

segnali morse, e viceversa il linguaggio è traducibile in musica tramite il medesimo codice. La

traduzione non è, però, essa stessa una modulazione? La traduzione si effettua tramite un

processo di analogia, di uguaglianza o similitudine tra i termini, in questo caso tra linguaggio

musicale e codice morse. Poiché, a causa della nostra soggettività, la conoscenza è una mera

traduzione del reale, e poiché ogni sistema coerente (come può essere, la matematica, una data

lingua, la musica...etc.) è una diversa modulazione del reale, la traduzione di un dato può essere

effettuata in un qualsiasi linguaggio coerente, a prescindere dall’oggetto osservato. Cosicché uno

stesso problema, a seconda del linguaggio che si adoperi, porterà (avendo ogni sistema logiche

differenti) a conclusioni differenti. Ad esempio, proponiamo un celebre indovinello: Collegare

tutti e nove i punti utilizzando quattro rette senza mai alzare la penna.

21

Figura 7. Indovinello dei nove punti

Mettiamo il caso che un matematico specializzato in geometria ed un pittore puntinista si

cimentino a risolverlo. Entrambi hanno una concezione di spazio, modulata però secondo i propri

linguaggi (geometrico e puntinista).

L’enigma viene così risolto:

Figura 8. Indovinello dei nove punti risolto.

Per quanto all’apparenza impossibile, la soluzione sta nel non concepire i nove punti come un

quadrato entro il quale non possiamo muoverci, rompendo questo vincolo, è dunque possibile

risolvere il problema. Probabilmente, tornando al matematico ed al pittore puntinista, il primo

tarderà di più a trovare la soluzione giacché, essendo abituato a pensare forme geometriche

definite, penserà subito ad un quadrato entro il quale non si potrà muovere. A differenza del

pittore che, considerando lo spazio come un continuum senza confini, non avrà problemi a

rompere il suddetto vincolo, e concludere, così, il compito.

Modulando, quindi, il contesto nel quale si situa il medesimo dato, poiché ogni oggetto definisce

ed è ridefinito da ciò che lo circonda, arriveremo a differenti conseguenze logiche e quindi

20 Plotino, Enneadi, V, 3

22

diverse conclusioni.

La modulazione potendo essere definita come il rapporto tra segnale contiunuo e discreto, può

rappresentare un ritmo, rapporto tra pausa e suono.

Ogni sistema lingustico coerente, quindi, rappresenta un ritmo differente.

Questa sembra essere la chiave all’enigma Beethoven, che con le stesse leggi armoniche dei

classicisti, porta diversi risultati. Beethoven ritma quelle leggi soggettivamente. Questo spiega il

cambio di veduta.

Ma come capire la dirompenza della 5° sinfonia e delle sue composizioni?

Come dare profondità, e quindi tridimensionalità, alla conoscenza?

Grazie all’emotività, accento ritmico e garante armonico della conoscenza.

23

Capitolo IV – Il Punto Coronato

Figura 9. Punti coronati cerchiati in rosso nelle prime due battute della 5° sinfonia di Beethoven.

Il punto coronato (qui cerchiato in rosso) è una figura espressiva musicale che prolunga la

durata della nota su di cui è posta a discrezione dell’esecutore o del direttore d’orchestra. Non si

tratta quindi più di tempi misurabili oggettivamente, prevedibili, razionalizzabili in una certa

durata, bensì di un tempo emotivo, quindi soggettivo ed unico. La profondità di una poesia, ad

esempio, non sta nei possibili virtuosismi linguistici, o nel senso che essa contiene, ma

nell’emozione provata d’innanzi a tale senso, nel “senso del senso”. L’emotività dona la

tridimensionalità.

In musica, ad esempio, la stessa 5° sinfonia diretta da un più “dilatato” e soffice Bruno Walter, o

da un più “ristretto” e dinamico Herbert Von Karajan, presenta emozioni differenti e quindi

modulazioni differenti della stessa cosa.. La musica è l’arte effimera per eccellenza, poiché, non

può essere conchiusa razionalmente. Essa è nel tempo, nel divenire: non si ha il tempo di

percepire una nota che ne arriva un altra, portando con se tutt’altro bagaglio di quella precedente

e a sua volta scomparirà, lasciando il presente alle seguenti. Una composizione è nella sua

totalità. Un solo movimento della 5° sinfonia non costituisce la sua interezza e coerenza, essa

sarà la 5° quando tutti i suoi movimenti la comporrano in ordine. Ciò nonostante, mai udiremo la

sinfonia nella sua interezza, ma solo nota pere nota e, come con la ripetizione, con il ricordo

delle note precedenti. Razionalmente, la potremmo concepire, analizzando armonicamente le sue

strutture. Ma la sua caducità, il suo essere infinitesimale, è percepibile e vivibile solo tramite

l’emozione. l ‘emozione agisce sul presente. Nel rimembrare un dato ricordo, l’evento

mnemonico è passato, ma l’emozione che si prova d’innazi a quel ricordo è presente.

L’emozione permette di dialogare nel qui ed ora, essa ci porta a decisioni, dandoci un

24

impressione di cìo che potrebbe rappresentare per noi un beneficio od un pericolo. Essa permette

il dubbio, ad esempio, nel seguire una data ipotesi piuttosto che un’altra o incuriosirci a tal punto

da cercarne il più possibile. L’emotività è ciò che permette una presa di posizione rispetto agli

eventi, dando loro un senso. È, nel discorso musicale, l’accento ritmico.

L’ accento, in musica, è ciò conferisce una particolare importanza ad una nota rispetto alle altre.

È l’ememento che crea distinzione tra una nota e l’altra, assegnando un ruolo differente.

Ogni soggetto, proprio per la sua soggettività, accentua un dato ritmo in maniera unica. Avendo

supposto, nel capitolo precedente, che ogni sistema

linguistico coerente possa essere rappresentato da un ritmo a sé stante, l’espressività di ogni

soggetto porta, dunque, ad interpretare in maniera unica ogni sistema linguistico coerente,

ponendo l’accento secondo criteri affini al soggetto. Ma da cosa è determinata l’affinità di questi

criteri con il soggetto?

Qui è utile introdurre il concetto di risonanza.

La risonanza può essere definita come l’eco che è prodotto in noi da un dato evento, associando

tale evento all’emozione di una propria esperienza vissuta, facendoci sentire che è legato a noi

stessi, non essendo, tuttavia, riducibile a noi stessi. Ciò che sentiamo è scolpito, amplificato e

creato da noi stessi.

La risonanza rappresenta l’armonia nella conoscenza.

Il termine armonia (dal greco armonìa) , difatti, vale collegamento, disposizione, proporzione; a

sua volta, dal greco armòzein, connettere, collegare, essere d’accordo.

Sembra naturale, poiché ne abbiamo parlato lungo la tesi, il collegamento

al termine sistema, dal greco systema, composto dalla particella syn, ovvero con, insieme, e

stênai, stare, collocare. Vale quindi stare insieme.

L’emotività sembra dunque essere il garante armonico della conoscenza, esattamente come

l’armonia è ciò che colora la musica.

Abbiamo finalmente: pausa, ritmo, accento ed amronia. L’attacco della 5° sinfonia di Beethoven

è completo, possiamo, ora, proseguire con l’ascolto.

25

Conclusioni

In musica, il contrappunto è un intreccio di voci o linee melodiche indipendenti che formano,

nel loro rapporto, una totalità che supera la somma delle parti.

Nel corso di questa tesi si è cercato di mostrare come la conoscenza possa essere concepita

sotto forma di contrappunto musicale a partire da quello che abbiamo definito “l’enigma

Beethoven”. Il fulcro di tale enigma sembra, dunque, aver trovato un possibile dispiegamento,

grazie all’analisi di tutte le figure che compongono l’attacco della 5° sinfonia: il compositore

tedesco ha cambiato la chiave di lettura nel leggere le leggi armonice classiciste. Analogamente

a quanto accade nel solfeggio musicale, nel quale la lettura di una stessa disposizione delle note

su di un pentagramma, varia a seconda della chiave (come può essere quella di violino o di

basso).

Mai si è parlato però di melodia. Ora è il momento di farlo, poiché essa nasce con la chiusura

delle prime due battute della 5° e dall’unione di ritmo e armonia. Date le osservazioni che

abbiamo riportato lungo questa tesi, potremmo dire che un sistema linguistico coerente adottato

da un osservatore, costituisce una possibile melodia della conoscenza. Poiché essa unisce

l’elemento ritmico di un sistema linguistico coerente all’elemento armonico del bagaglio interno

di un osservatore.

Quando veniamo a considerare, quindi, la conoscenza come un contrappunto, essa diviene un

intreccio di linguaggi indipendenti suonati dalle nostre soggettività, in cui il loro rapporto viene a

creare una totalità che supera l’insieme delle parti. Questa visione contrappuntistica della

conoscenza è stata usata, in questa tesi, come metodo di ricerca e approfondimento per

l’esposizione stessa di questa visione nella tesi. Cercando di mostrare, come la stessa conoscenza

sia ‘proprietà dell’osservatore’ e quindi riutilizzabile per allargare gli orizzonti, cambiando

chiave di lettura.

“Questo è il mio punto di vista. Se non ti piace, ne ho degli altri...”

Groucho Marx

26

Appendice

1. Il nostro sistema numerico tradizionale è a base 10 (i cui elementi sono le cifre che vanno da

0 a 9) ed è un sistema posizionale (contrapposto al sistema additivo, come quello romano, in cui

il valore del numero si calcola con un veloce calcolo aritmetico per es. 1 = I ; 2 = II = I+I ; 3 =

III = I+I+I ; 5 = V ; 4 = IV ossia uno prima di cinque, e così via). Il sistema posizionale da il

valore alla cifra rispetto a dove si trovi rispetto al numero. Procedendo da destra a sinistra

avremo: le unità; le decine; le centinaia; le migliaia e così facendo ogni posizione aumenta il

proprio valore esponenzialmente di m x 10^n (in cui: n = numero di posizione da sinistra a

destra, 0 per la prima posizione, 1 per la seconda 2 per la terza ...etc. ; m = la cifra raffigurata in

data posizione ; 10 = la base numerica del sistema decimale) . Per esempio:

389 sarà, 9 x 10^0 = 9 Per la prima posizione ; 8 X 10^1 = 80 per la seconda posizione ; 3 X

10^2 = 300, dando 300 + 80 + 9 = 389. Nel caso di 309 invece avremo 300 (3 centinaia) 0

(nessuna decina) 9 (unità). Lo zero permette di 'saltare' una posizione, in questo caso quella

mediana delle decine.

Per quanto riguarda il sistema binario (a base 2), è sempre un sistema posizionale (avente però

solo 0 e 1 come cifre) e seguirà, quindi, la stessa logica esponenziale, vista poc'anzi, per il

passaggio da una posizione all'altra, (procedendo sempre da sinistra a destra) ovvero: m x 2^n (in

questo caso il '2' rappresenta la base 2 del sistema binario). Per esempio:

101 sarà, 1 X 2^0 = 1 per la prima posizione ; 0 x 2^1 = 0 per la seconda posizione ; 1 x 2^2 = 4

per la terza posizione, dando 4 + 0 + 1 = 5 (nel nostro sistema decimale)

2. Nel linguaggio computazionale, una cifra binaria è detta bit (binary digit ), per cui il numero 3

(in codice binario 11) è una cifra a 2 bit. Mettiamo il caso, ad esempio, di voler descrivere

l'alfabeto italiano, composto da 21 lettere, in sistema binario, numerando le lettere alla A alla Z.

21 in sistema binario corrisponde a 10101, ovvero 5 bit. Quindi per poter usare l'alfabeto della

lingua italiana occorre un sistema di codifica a 5 bit. Vediamo come questa dualità fisica ci porti

ad un sistema descrittivo della realtà tramite questi due segnali, 0 e 1

3-Il primo argomento tratta dell'impossibilità di attraversare infiniti punti spaziali o temporali

che siano, ponendo il seguente paradosso: Mettiamo il caso di voler arrivare da un punto A ad un

punto B. Per poter arrivare a B è necessario passare per la metà di questo segmento (che

chiameremo A'), successivamente per poter giungere ad A' dobbiamo passare per la meta del

27

segmento A-A' (che chiameremo A''), notiamo che questo processo di “bisezione” può continuare

all'infinito. La logica sembra dunque indicarci l'impossibilità di movimento nello spazio, cosa

evidentemente smentita dall'esperienza quotidiana, generando un paradosso.

Il secondo argomento, quello di “Achille e la tartaruga”, non è dissimile dal primo. Esso consiste

in un'ipotetica gara fra, appunto Achille ( simbolo di velocità) ed una tartaruga (simbolo di

lentezza) nella quale quest'ultima parte con un vantaggio concessole da Achille. Quando però

Achille dovrà raggiungere la tartaruga, dovrà arrivare alla posizione (A) occupata da

quest'ultima, una volta giunto in A la tartaruga avrà comunque guadagnato distanza nel

frattempo, ripetendo il processo all'infinito se ne conclude che, parafrasando Aristotele che parla

al riguardo, ' un mobile più lento non può essere raggiunto da uno più rapido' per quanto appena

spiegato e risulta, dunque, che ' il primo conserva sempre un vantaggio sul secondo'.

Il terzo argomento pone come base il lancio di una freccia, affermando che la frecca in moto è in

quiete: (DK 29A26) “tutto ciò che è lungo uno spazio uguale a sé, o è in quiete o si muove; ma è

impossibile che si muova lungo uno spazio uguale a sé: dunque è in quiete. Ora, la freccia si

muove, siccome si trova lungo uno spazio uguale a sé in ciascuno degli istanti di tempo durante i

quali si muove, sarà in quiete; se è in quiete in tutti gli istanti di tempo che sono infiniti, sarà in

quiete anche in tutto il tempo. Ma si era posto che essa fosse in movimento: dunque la freccia in

movimento sarà in quiete.”

Il quarto argomento riguarda tre “masse” uguali ( A, B e C) posizionate una parallela all'altra (

non sulla stessa retta ) al centro di uno stadio. Mettiamo che la massa A si muova verso l'

“inizio” dello stadio alla sinistra,e che, contemporaneamente e ad egual velocità, la massa C si

muova verso la fine dello stadio alla destra, ed, infine, la massa B ,centrale ed immobile. Quando

la massa A sarà avanzata di 1 rispetto a B, ugualmente avrà fatto C con B. Ma

contemporaneamente A rispetto B (e viceversa) sarà avanzato di 2, andando al doppio della

velocità nel medesimo istante, evidenziando quindi una contraddizione. Il paradosso in verità

non sussiste, giacché, la due diverse velocità sono calcolate in rapporto a due diversi punti di

riferimento.

4.Tale è la dimostrazione per assurdo che le introdusse:

Siano D e S la diagonale ed il lato di un quadrato, (per il teorema di Pitagora D2 = S2 + S2 ) ed

assumiamo che essi siano commensurabili (che il loro rapporto sia, dunque, un numero

razionale) uguale p/q dove p e q sono primi fra loro, senza, quindi, fattori comuni. Si ipotizza

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che:

2 = p2 : q2 , e quindi p2 = 2q2, dal quale si deduce che p2 è pari, e dunque è pari anche p, si ha,

ovvero, p = 2r per un intero positivo r. Dato che p è pari si deduce, poiché p e q sono primi fra

loro che q è dispari. Si ha, d’altronde, 2q2 = 4r2, ovvero q2 = 2r2, da cui si deduce che q2 è

pari. Quindi q è pari oltre che dipari, risultato contraddittorio.

5. Il piano cartesiano consiste in n rette ortogonali (rappresentanti ogni una una dimensione) che

si intersecano in un origine O , il piano cartesiano (rappresentante un sistema di rifrimento a due

dimensioni) è composto da un’ascisse orizzontale (x) e da un’odrinata verticale (y) che si

intersecano perpendicolarmente in un origine (O).

6. Mettiamo un altro caso, ad esempio, della divisione di un qualsiasi numero n ≠ 0 per 0.

Sappiamo che se effettuassimo l’operazione: 8/0 sulla calcolatrice, essa ci scriverebbe

“ERRORE” sul display. Proviamo, dunque, a dividere 8 per numeri vicini allo 0, come:

8/0,1 = 80 ; 8/0,01 = 800 ; 8/0,001= 8000

Ovviamente, più piccolo sarà il numero al denominatore, più grande sarà il valore della frazione.

Quindi, nonostante l’operazione n/0 non abbia senso, possiamo dire che il limite di una frazione

il cui denoinatore tende a zero, è infinito, matematicamente scivibile come: limx->0 n/x = ∞ ( con

n ≠ 0).

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Biliografia

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Raffaello Cortina Editore, Milano, 2005

- Boniolo, G.; Dalla Chiara, M.L.; Giorello, G.; Sinigaglia,C.; Tagliagamebe, S.; Filosofia della

scienza, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2002

- Boyer, C.B., Storia della matematica, Oscar mondadori, Milano, 2010

- Brunschvicg, L., Les étapes de la philosophie mathématique, Librairie

scientifique et technique, Parigi, 1972

- Cellucci, C., Filosofia e matematica, Editori Laterza, Roma-Bari, 2002

- Cellucci, C., Perché ancora la filosofia, Editori Laterza, Roma-Bari, 2008

- Di Cesare, D., Ermeneutica della finitezza, Edizioni Angelo Guerini, Milano, 2004

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- Galileo Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mond, Pdf

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- Lemmon, E.J., Elementi di logica, Editori Laterza, Roma-Bari, 2009

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- Solomon, Maynard – Beethoven, Pdf

- Von Foerste, H., Cybernetics of cybernetics, University of Illinois, Urbana, 1979, Pdf

- Von Foerster, H. Sistemi che osservano, Astrolabio, Roma , 1987

- Zellini, P., Numero e logos, Adelphi, Milano, 2010