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 I  L I  B R I  D E L  O   S T R A N I  E R  O 6 Dal Risorgimento alla Resistenza Claudio Pavone I   Q  U A D E R N I  

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I  L I  B R I  D E 

L  O   S T R A N I  E R  O 

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Dal Risorgimentoalla Resistenza

Claudio Pavone

I   Q  U A  D E R N I  

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Claudio Pavone

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Il presente testo è interamente tratto daLe idee della Resistenza. Antifascisti e fascisti di fronte 

alla tradizione del Risorgimento da “Passato e Presente”,n. 7, gennaio-febbraio 1959, pp.850-918.Sucessivamente pubblicato in Alle origini dellaRepubblica. Scritti su fascismo, antifascismo e continuitàdello Stato, Bollati Boringhieri, 1995, pp. 3-69.

© 1995 Bollati Boringhieri Editore2010 Edizioni dell’AsinoCopia gratuita.

Isbn 978-88-6357-057-1Distribuzione PDE spaProgetto grafico Orecchio Acerbo

Hanno collaborato:Bianca Dematteis, Marco De Vidi,Goffredo Fofi, Giulio Marcon,Francesca Nicora, Fausta Orecchio, Nicola Villa.

Le Edizioni dell’Asino sono un progetto fruttodella collaborazione tra Lunaria e Lo Stranierocon la partnership di Redattore Sociale

 www.gliasini.it

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Nota introduttiva

 A 150 anni dall’Unità, l’Italia è un paese pieno di contraddizioni politiche e territoriali, dove il messaggio dei “padri fondatori” è discusso e spesso aspramen-te respinto. In questo saggio, uno dei nostri maggiori storici analizza i modi incui le forze politiche e intellettuali hanno letto la storia del Risorgimento e han-no cercato di appropriarsene, o alcuni, pochi, di metterla in discussione. C’è sta-to un Risorgimento dei fascisti e uno degli antifascisti, e tra questi uno dei comunisti e uno dei “giellini” (quelli di Giustizia e Libertà e più tardi del Partito d’Azio-ne), e c’è stato finanche un Risorgimento dei cattolici. E c’è stata una Resisten-za che del Risorgimento in vario modo ha voluto considerarsi l’erede, secondo

 posizioni spesso tra loro divergenti, quali più opportunistiche, quali più criti-

che. Le diverse (e diversamente appassionate) interpretazioni lasceranno il po-sto, scriveva l’autore nel lontano 1959, a indifferenza o a ostilità, a un Risorgimento“sempre più lontano come mito capace di suscitare passioni politiche di vasta ri-sonanza”. E questo ci sembra esatto, nonostante si assista oggi non tanto a ten-tativi di appropriarsi di quella storia quanto di metterla in discussione, anche radicalmente.

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1. Il “Secondo Risorgimento”

L’espressione “Secondo Risorgimento” per indicare la Resistenza è dive-nuta largamente corrente nei discorsi, negli scritti, nelle testate di rivistee giornali usciti dopo il 1945. Tuttavia, quando si abbandonano i discor-si celebrativi e di prima approssimazione, quelle due parole appaiono av-volte in un alone di incertezza, e nascono dubbi suscitati innanzi tuttodai troppo diversi punti di vista da cui si pongono coloro che a esse fan-no ricorso. Andiamo infatti dal neogaribaldinismo dei comunisti e dalleesplicite dichiarazioni neorisorgimentali di Parri1, alla rivista “Risorgi-mento, periodico della Resistenza” diretta dal più noto capo di formazio-ni autonome, Mauri (Enrico Martini) e al titolo di Secondo Risorgimento

dato al volume governativo di celebrazione del decimo anniversario del25 aprile2; dalla esortazione di Pieri, in un convegno della Associazioneper la difesa della scuola nazionale, a parlare nelle scuole della Resisten-za ricollegandola al Risorgimento3, alla circolare con cui il ministro del-la Pubblica istruzione, Martino, non certo perché sensibile all’appello diquella provenienza, presentava nel 1954 la Resistenza come ritorno alRisorgimento. La Storia della Resistenza italiana di Roberto Battaglia è

1 Vedi, ad esempio, due sue brevi note in “Il Movimento di liberazione in Italia”: unaintroduttiva a Documenti relativi all’attività politica e militare del rappresentante del Par-tito d’Azione nei suoi rapporti con gli alleati (n. 27, novembre 1953, p. 3), l’altra com-memorativa di U. Ceva (nn. 38-39, settembre-novembre 1955, pp. 90 sg.).2 Il Secondo Risorgimento, scritti di A. Garosci, L. Salvatorelli, C. Primieri, R. Cadorna,M. Bendiscioli, C. Mortati, P. Gentile, M. Ferrara e F. Montanari, Nel decennale della

resistenza e del ritorno alla democrazia 1945-1955 , Roma 1955. Il Secondo Risorgimen-to d’Italia, del resto, è anche il titolo di una miscellanea di eclettica ispirazione, pubbli-cata a Roma nel 1955, e contenente scritti di F. Antonicelli, R. Cadorna, F. Parri, M.Socrate e molti altri di varia tendenza.3 P. Pieri, La tradizione del Risorgimento e l’insegnamento della storia, in “Scuola demo-cratica”, VI, 1952, nn. 3-4.

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piena di richiami risorgimentali; e perfino in qualche scritto di anarchi-ci si possono trovare accenni al nuovo Risorgimento4.

Da parte di uomini politici come di storici sono stati avanzati, in ve-rità, molti dubbi sulla correttezza di quella espressione. A uno studio cri-

tico della questione invitava Antonicelli in un saggio che voleva essere diampia impostazione problematica5; molto polemico e molto diffidente simostrava Garosci nella sua comunicazione al primo convegno di studi distoria della Resistenza6; disposto a riconoscere “che un certo parallelismocon il Risorgimento possa affermarsi anche in sede storiografica” Valia-ni7, benché in seguito tornato con maggiori perplessità sull’argomento.8

Un augurio a che qualcuno si decidesse a fare la storia della espressioneera formulato qualche anno fa da Mario Delle Piane, che contestava l’af-

fermazione fatta, sia pure dubitativamente, da Gaston Manacorda di es-sere stati primi i comunisti a valersene.9 E, nel terzo convegno di studisulla Resistenza tenutosi a Firenze nel marzo 1958, Bianca Ceva consi-gliava cautela nell’avvicinamento fra Risorgimento e Resistenza.10

 Anche da parte comunista non sono mancati recenti richiami a mag-gior scrupolo nell’uso del paragone che sembra sminuire la novità, dal pun-to di vista dei rapporti di classe, della Resistenza rispetto al Risorgimento.11

E una voce di tutt’altra provenienza, quella di Aldo Capitini, ha sentito il

4 La guerre continue , in “Quelque part en Suisse”, febbraio 1941, p. 10, che si augura unnuovo, più radicale Risorgimento. Cfr. anche Pendant le carnage , ivi, novembre 1941, p. 11.5 F. Antonicelli, Il movimento di liberazione nella storia d’Italia, in “Il Movimento di libera-zione in Italia”, n. 21, novembre 1952, pp. 13 sgg.6 A. Garosci, Appunti sui criteri generali per una storia della Resistenza, in “Il Movimento diliberazione in Italia”, n. 22, gennaio 1953, pp. 42-47.7

L. Valiani, Il problema politico della nazione italiana, in AA.VV., Dieci anni dopo (1945-1955), Bari 1955, p. 38.8 Recensione a Il Secondo Risorgimento cit., in “Il Movimento di liberazione in Italia”, n. 42,maggio 1956, p. 48.9 M. Delle Plane, Lauro De Bosis e respressione “Secondo Risorgimento “ (Per la storia di una

locuzione , in “Il Ponte”, XI, 1955, pp. 1952-54. Cfr. G. Manacorda, Dieci anni dopo o del modo di scrivere la storia recente , in “Società”, XI, 1955, p. 555.10 B. Ceva, L’Istituto Nazionale e il suo terzo Convegno storico, in “Il Movimento di liberazio-ne in Italia”, n. 50, gennaio-marzo 1958, p. 10.11 Così L. Longo alla Casa della cultura di Milano il 19 giugno 1954 (“Il Movimento di li-berazione in Italia”, n. 31, luglio 1954, pp. 45-47); così P. Secchia, il 23 luglio dello stessoanno, alla Fondazione Gramsci di Roma (Problemi e storia della Resistenza, testo ciclostila-to a cura della Fondazione, pp. 33-36).

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bisogno di ricordare che “il Risorgimento, anche corretto dalle forzatureconvenzionali, non è nella misura della Opposizione antifascista”.12

Vi è stato anche qualche tentativo di affrontare in modo diretto edesplicito il problema, e ne sono scaturiti saggi di disuguale valore, ai qua-

li non mancheremo in seguito di riferirci, man mano che se ne presente-rà l’occasione.13

Quello che ci preme dire subito è che crediamo sia da resistere alla ten-tazione di comporre scolastici elenchi di analogie e di differenze, che si ri-durrebbero poi all’ovvia constatazione che l’Ottocento non è il Novecento,che Garibaldi, Mazzini e Cavour non sono Longo, Parri e Croce, comeMussolini non è il re Bomba; oppure sfocerebbero nella disputa accade-mica sulla continuità e la novità o la rottura nella storia. Pensiamo sia più

proficuo sforzarsi di ricostruire la storia di quell’espressione, vedere comesia nata, chi, in quale senso e in quali momenti l’abbia usata, fino a chepunto essa abbia costituito un ideale operante: servirsene, cioè, per cerca-re di cogliere, sia pure in modo necessariamente frammentario, la posizio-ne in cui le varie correnti antifasciste, e i fascisti stessi, vollero collocarsidi fronte alla storia dell’Italia moderna. Alcuni dei temi più vivi del Risor-gimento, del postrisorgimento e della Resistenza potranno così, rapida-mente e di scorcio, essere tirati in campo, anche perché, se la tradizione,

o meglio le tradizioni, del Risorgimento hanno influito sulle ideologie nonsolo della Resistenza post 1943 ma di tutto l’antifascismo, la Resistenzaha poi a sua volta reagito su quelle tradizioni, rinnovando la tematica sulRisorgimento e sui suoi rapporti con l’Italia d’oggi.

12 Risposta a una inchiesta su “La Resistenza nella scuola”, promossa da “La Riformadella Scuola”, IV, aprile 1958, n. 4.13 M. Bendiscioli, Esiste un “Secondo Risorgimento”? , in “Humanitas”, IV, 1949, pp. 162-69; T. Tessari, Rapporti tra alcuni aspetti della Resistenzae alcuni aspetti del Risorgimen-

to, in “Il Movimento di liberazione in Italia”, n. 11, marzo 1951, pp. 8-27; E. PasserinD’Entreves, Risorgimento e Resistenza, in “Civitas”, n.s., VI, aprile 1955, n. 4, pp. 85-91;V. E. Giuntella Mito e realtà del Risorgimento nei lager tedeschi , Roma 1956. Vedi anche L. Bulferetti,La Resistenza nei Musei del Risorgimento, in “Il Movimento di liberazione in Italia”, n.22, gennaio 1953, pp. 22-26, e Risorgimento e Resistenza (Gli Artom), ivi, nn. 34-35,1955, pp. 44-55.

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2. Risorgimento e fascismo

“Per gli italiani, l’atteggiamento da assumere nei riguardi del Risorgimen-to implica ancora, e forse continuerà a implicare per parecchio tempo, unascelta inequivocabile che precede ogni valutazione storiografica”. Questeparole di Leone Ginzburg14 possono considerarsi il sottofondo implicito atutta la disputa non solo sui rapporti fra Risorgimento e Resistenza, maanche fra Risorgimento e fascismo: e le due questioni sono intimamentelegate, la prima nascendo anche come reazione a certe soluzioni date allaseconda.

Pur nella sua rozzezza culturale, infatti, il fascismo non poté sottrar-si all’obbligo di definirsi in rapporto alla più recente storia d’Italia; e sela retorica della romanità gli fece sempre più preferire il gran volo di col-legamento diretto con il lontano Impero, tuttavia il fatto stesso di consi-derarsi il provvidenziale termine ad quem dell’intera storia d’Italia, resenecessario al fascismo atteggiarsi, in qualche modo, anche a continuato-re e sistematore del Risorgimento. “I vincitori non si contentano di oc-cupare il presente. Essi proiettano la loro vittoria nel passato per prolungarlanell’avvenire”, scriveva Salvemini spiegando il sorgere dell’interesse di Nel-lo Rosselli per gli studi risorgimentali proprio con il desiderio di reagire

alle falsificazioni fasciste.15

Il primo a mettersi sulla strada di una reinterpretazione fascistica delRisorgimento era stato Mussolini, con materiali culturali di scarsa origi-nalità e grossolanamente manovrati sotto la spinta di scoperte esigenzetattiche. Ma l’eclettismo che ne derivava corrispondeva, sul piano effet-tuale, all’assorbimento che il fascismo andava compiendo dei vari grup-pi della vecchia classe politica e, sul piano storiografico, all’eclettismodell’agiografia tradizionale, che vedeva i quattro grandi, Vittorio Ema-

14 In La tradizione del Risorgimento, prime pagine di un saggio che Ginzburg prepara-va nella primavera del 1943. Pubblicato in “Arethusa”, II, aprile 1945, pp. 1-16.15 Prefazione a C. Rosselli, Oggi in Spagna domani in Italia, Paris 1938, p. VII.

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nuele, Cavour, Mazzini e Garibaldi, procedere a braccetto verso i più al-ti destini della patria. Il fascismo accreditò questa visione, che aveva ilgran pregio di non sollevare problemi e di preparargli la strada come aquello che di tutti quei grandi poteva, senza contraddizioni, considerar-

si il suggello.Caratteristico, da questo punto di vista, il discorso dell’Augusteo del9 novembre 1921, in cui Mussolini, con notevole abilità, trova una pa-rola di comprensione per tutti i settori dello schieramento politico tradi-zionale: dai repubblicani (l’Italia non ha bisogno di cercare in Russia isuoi profeti) ai liberali e ai nazionalisti (lodi alla Destra e a Crispi). Nonmanca nemmeno un po’ di civetteria verso gli anarchici (Malatesta san-to e profeta); mentre l’incertezza del giudizio sui popolari sottintende il

proposito, chiaro fin da allora in Mussolini, di trattare, scavalcando il par-tito di Sturzo, direttamente col Vaticano, nella convinzione, che farà for-tuna nel fascismo, che “il cattolicesimo può essere utilizzato per l’espansionenazionale”.16 Allorché i Patti lateranensi porteranno a felice compimentotale indirizzo, Mussolini, parlando alla Camera, si mostrerà di nuovo as-sai abile nel difendersi sia dalle critiche che potevano essergli mosse innome della tradizione laica e risorgimentale, sia dalle accuse di debolez-za dei fascisti intransigenti; e al Senato concluderà con una perorazione

sulla scomparsa di ogni ipoteca su Roma capitale: tema, quest’ultimo, ri-proposto per difendere la sostituzione della festa del 20 settembre conquella dell’11 febbraio, giorno da considerare ormai, esso, conclusivo delRisorgimento.17

Quando voleva giocare la carta del fascismo popolaresco Mussolininon esitava poi a tirare in scena Garibaldi: così, parlando a Monteroton-do il 23 dicembre 1923, menò gran vanto della presenza di Ricciotti Ga-ribaldi,18 e proclamò che “fra la tradizione garibaldina, vanto e gloriad’Italia, e l’azione delle Camicie nere, non solo non vi è antitesi ma vi ècontinuità storica e ideale”.19 Vedremo in seguito come di un certo tipodi continuità fra garibaldinismo e fascismo si parlasse anche in ambienti

16 B. Mussolini, Scritti e discorsi , vol. 2, La Rivoluzione fascista, Milano 1934, pp. 199-206.17 I due discorsi sui Patti lateranensi in Mussolini, Scritti e discorsi cit., vol. 7, Dal 1929 

al 1931, Milano 1934, pp. 31-122. Quello sul XX settembre, alla Camera, 12 dicem-bre 1930, ibid ., pp. 241-50.18 Sulla misera storia dei rapporti fra i Garibaldi e il fascismo, cfr. A. Garosci, Storia dei 

 fuorusciti , Bari 1953, pp. 271-73.19 Mussolini, Scritti e discorsi cit., vol. 3, L’inizio della nuova politica, Milano 1934, pp.295 sg.

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antifascisti; e già Gobetti, in una sua complessa definizione di Mussoli-ni, aveva inserito l’elemento del “garibaldino in ritardo”.20

Nel presentarsi come vendicatore della vittoria mutilata, Mussolinicontribuì a canonizzare il conflitto del 1915-18 come “quarta guerra d’in-

dipendenza”, facendolo divenire un anello della catena che partiva dal Ri-sorgimento e finiva al fascismo (“il decennio 1860-70, quando fu compiutal’unità della Patria che dovrà essere perfezionata colla guerra mondiale ela nostra vittoria.”);21 e di nuovo, nell’appropriarsi di tutta l’eredità per luipoliticamente utile del conflitto, dall’interventismo nazionalista a quellod’intonazione democratico-risorgimentale, Mussolini faceva appello a Ga-ribaldi, dichiarandosi sicuro che l’Eroe “riconoscerebbe la discendenza del-le sue Camicie rosse nei soldati di Vittorio Veneto e nelle Camicie nere che

da un decennio continuano, sotto forma ancor più popolare e più fecon-da, il suo volontarismo”.22

Perfino l’ Anschluss e l’Asse servirono a ridestare in Mussolini spiriti ri-sorgimentali, spingendolo più volte a paralleli fra i modi con cui Italia eGermania avevano raggiunto l’unità nazionale. Ed erano paragoni che,sovvertendo tutta quell’ala della tradizione liberale che aveva sempre ama-to accentuare le differenze fra Cavour e Bismarck, servivano poi d’intro-duzione all’accostamento fra fascismo e nazismo come momenti culminanti

delle due rivoluzioni nazionali. “Il dramma austriaco non è cominciatoieri: cominciò nel 1848, quando il piccolo animoso Piemonte osò sfidarel’allora colosso asburgico [...]. Noi non abbiamo fatto nulla di diverso trail 1859 e il 1861. Io vi esorto alla storia, o signori [...]”: così parlò Mus-solini alla Camera il 16 marzo 1938, accennando anche al “grande auto-ritario Cavour”.23

 Aiutavano Mussolini quei liberali che, man mano che si convertivanoal fascismo, lo scoprivano campione delle tradizioni di cui avrebbero dovu-

20 “Rivoluzione liberale”, 28 maggio 1922 (cilato da G. Solari, Aldo Mautino nella tra-dizione culturale torinese da Gobetti alla Resistenza, premesso ad A. Mautino, La forma-zione della filosofia politica di Benedetto Croce , Bari 1953, p. 85). Cfr. quanto diremopoi su Gobetti.21 B. Mussolini, Prefazione alla “Rivista marittima” del gennaio 1937, in Scritti e discor-

si cit., vol. II , Dal novembre 1936 al maggio 1938, Milano 1938, p. 39. Anche il “ger-me del nuovo Impero” risaliva “all’anno in cui il piccolo Piemonte osò sfidare ilpotente impero degli Absburgo”: discorso ai gerarchi

torinesi del 30 maggio 1935 (Scrit-

ti e discorsi cit., vol. 10, Scritti e discorsi dell’Impero, Milano 1936, p. 143).22 Mussolini, Scritti e discorsi cit., vol. 8, Dal 1932 al 1933, Milano 1934, p. 63.23 Mussolini, Scritti e discorsi cit., vol. II, pp. 221-29. Parlando poco dopo a Genova, il14 maggio, ancora dell’ Anschluss , Mussolini tirò in campo anche Mazzini (ibid ., p. 285).

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to, essi, costituire i portatori. Parlò per tutti Salandra alla Scala il 19 marzo1924, quando affidò appunto a Mussolini la tradizione del liberalismo ita-liano e del Risorgimento; e già Albertini aveva rivolto in Senato al governofascista appena costituito un appello a raccogliere, rinnovandola, l’eredità

del liberalismo.24

Se l’idea – scrive Salvatorelli – di affidare a Mussolini l’eredità del li-beralismo risorgimentale oggi appare assurda e grottesca – e tale apparivagià allora ai più perspicaci e spassionati (fra i quali va certo collocato l’au-tore di Nazionalfascismo, e di Irrealtà nazionalista) – non per questo sa-rebbe ragionevole sentenziare che in quanti allora la professavano, daSalandra ad Albertini, essa fosse pura finzione, a scopo tattico. Illusione,certamente: ma non del tutto incomprensibile.25

Non incomprensibile, ove si tenga conto che essa era l’espressione delpassaggio al fascismo del vecchio ceto dirigente liberale, con le poche ec-cezioni di coloro che, come scrive ancora Salvatorelli, alla opposizione “fu-rono letteralmente trascinati per i capelli”.26 Se il fascismo accentuò congli anni la sua polemica di principio contro il liberalismo, ciò discese an-che dal fatto che l’operazione di assorbimento del vecchio personale poli-tico aveva ormai dato tutti i frutti sperabili. Fu solo in conseguenza della

Grande crisi, infatti, che il fascismo fece di tutto per esasperare il suo ca-rattere di novità, di “terza via” corporativa, fra il mondo capitalistico indeclino e il socialismo o comunismo. Così operando, il fascismo da unaparte tendeva a far dimenticare i patteggiamenti coi vecchi liberali e il li-berismo del suo primo periodo; dall’altra parte, però, stimolava una piùenergica reazione di tutti coloro che, sia pure da posizioni assai diverse, ri-vendicavano libertà e democrazia come elementi intrinseci dell’Italia na-ta dal Risorgimento.

I due intellettuali che cercarono di dare una veste il più possibile coltaal fascismo, Giovanni Gentile e Gioacchino Volpe, dovettero entrambi farei conti con il Risorgimento: abbandonandosi a uno sfrenato ideologismopseudostoriografico, il filosofo Gentile; con maggior equilibrio lo storicoVolpe, dalle modeste esigenze speculative, e propenso, in fondo, ad ammet-tere che tutte le strade conducono a Roma.

Per Gentile, il Risorgimento è una tappa necessaria per giungere alla pie-nezza dei tempi attualistico-fascisti. Mazzini diventa

24 Cfr. L. Salvatorelli, L’opposizione democratica durante il fascismo, in AA.VV., Il Secon-do Risorgimento cit., p. 120.25 Ibid., p.104.26 Ibid., p. 112.

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l’Ezechiello della nuova Italia [...], di questa Italia nuova che si com-pie a Vittorio Veneto, sfolgorando e annientando il suo antico avversario[...]. Ora il Vangelo mazziniano sopravvive alla meraviglia del Risorgimen-to, poiché è la fede dell’Italia che ne è sorta; di quella Giovane Italia che

il Mazzini evocò. È il Vangelo fascista, è la fede della gioventù del 1919,del ’22, d’oggi.27

Nel Manifesto degli intellettuali fascisti agli intellettuali di tutte le na-zioni , comparso sui giornali del 21 aprile 1925,28 Gentile insisteva nel pa-ragone fra la Giovane Italia e lo squadrismo, nati “da un analogo bisognopolitico e morale”; e introduceva un tema caratteristico della contraddi-zione fascista fra demagogia di massa e preteso aristocraticismo religioso.Gentile rivendicava infatti il carattere di élite del Risorgimento, “quando

lo Stato era sorto dall’opera di ristrette minoranze”, il cui seme si era poipurtroppo disperso. Fu proprio Croce a ribattere su questo punto,29 con-dannando gli intellettuali fascisti che ripetono “la trita frase che il Risor-gimento d’Italia fu l’opera di una minoranza; ma non avvertono che inciò appunto fu la debolezza della nostra costituzione politica e sociale”.

Nella Dottrina del fascismo Gentile tornò alla carica in termini più ge-nerali contro il liberalismo e la religione della libertà, ricordando che laGermania aveva raggiunto la sua unità al di fuori, anzi contro il liberali-

smo e che, quanto all’unità italiana, il liberalismo vi aveva avuto “una par-te assolutamente inferiore all’apporto dato da Mazzini e Garibaldi cheliberali non furono”.30

Toccò al Gentile di dover anche difendere il Risorgimento dagli attac-chi dei fascisti più intransigenti, desiderosi di rivendicare l’assoluta origi-nalità del loro movimento: ma la difesa era di quelle che lasciano in imbarazzochi vogliono proteggere, i cui tratti caratteristici, principio di nazionalità,liberalismo, Mazzini e Gioberti, erano tutti considerati antecedenti, per-

fettamente congrui, del fascismo.31

Soprattutto su Mazzini e Gioberti in-

27 G. Gentile, Che cosa è il fascismo (conferenza tenuta a Firenze l’8 marzo 1925), inIstituto nazionale fascista di cultura, Pagine fasciste , I, I fondamenti ideali , Roma 1926,pp. 28 sg.28 Vedilo in N. Valeri, La lotta politica in Italia dall’Unità al 1925 . Idee e documenti,Firenze 1958 (2a ed.), pp. 583-89.29 Vedi la sua risposta al Manifesto, nella “Critica” del 1925; ora in Valeri, La lotta poli-tica cit., pp. 390-93.30 Mussolini, Scritti e discorsi cit., vol. 8, pp. 81-83.31 G. Gentile, Risorgimento e fascismo, in “Politica sociale” del 1931: ora in Id., Memo-rie italiane e problemi della filosofia e della vita, Firenze 1936, pp. 115-20.

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sisterà, in più occasioni, il Gentile, rendendo al primo il cattivo servizio diisolarne i tratti più confusi e mistici; e il Mazzini fascista concluderà la suacarriera sui francobolli della Repubblica sociale italiana. Gentile diveniva co-sì fra i principali responsabili della diffusione di un quadro del Risorgimen-

to provinciale e autarchico, a caccia di spirituali primati, un Risorgimentoche permetteva di considerare “il buon filosofo cattolico della Scienza nuo-va [...] tra i maestri spirituali del fascismo”.32

“Disgustevoli miscugli storico-politici da offrire agli uomini del gover-no, che, del resto, non sappiamo qual uso possano mai fare di così rea pol-tiglia”: così definì Croce “la configurazione che al prof. Gentile è piaciutodare alla storia del Risorgimento e dell’Italia una”.33

Nel Discorso agli italiani , pronunciato in Campidoglio il 24 giugno 1943,

Gentile, nel tentativo di creare nel paese una unità nazionale sotto le ali delfascismo, si sarebbe poi domandato per l’ennesima volta cosa quello fosse.Roma, avrebbe risposto, più la Chiesa cattolica, più il Rinascimento, più ilRisorgimento: cioè l’Italia. E i liberali? Fascisti ritardatari. I comunisti? “Cor-porativisti impazienti”.34

 Attenzione pari a quella dedicata al rapporto Croce-Gentile merita ilrapporto Croce-Volpe, dove la Storia d’Italia dal 1871 al 1915 e l’Italia incammino si fronteggiano, rivelando tuttavia un’affinità dovuta al fondamen-

tale ottimismo sullo sviluppo dell’Italia moderna, nata dal Risorgimento: e,se il Croce poteva rimproverare al Volpe che la sua Italia “non pensa, nonsogna, non medita, non si critica, non soffre né gioisce: cammina”,35 bencogliendo il carattere meccanico dell’evoluzione tratteggiata dal Volpe, alCroce poteva obiettarsi che anche la sua Italia, con maggiori sfumature e piùabile uso della dialettica, aveva tuttavia la caratteristica di andare sempreavanti trasformando il male in bene, fino al momento in cui incappava nelpiù grosso e imprevisto male del fascismo.

Il pessimismo finale del Croce, se ovviamente gli faceva onore sul pia-no morale e politico, poteva non senza ragione essergli rimproverato dal Vol-

32 Gentile, Che cosa è il fascismo cit., p. 42.33 Parole comparse nel 1929 sulla “Critica”, in polemica diretta con quanto Gentile ave-va scritto sul “Leonardo” nello stesso anno: ora in B. Croce, Storia della storiografia ita-liana nel secolo decimonono, vol. 2, Bari 1947 (3a ed.), pp. 260 sg.34 Cfr., del Gentile, anche I profeti del Risorgimento; la prefazione alla terza edizione,datata 2 marzo 1944, conclude nel nome di Garibaldi “perché esso ha virtù oggi comesempre di riscuotere e riunire i cuori di tutti gli italiani” (p. VIII). Sugli appelli all’“uni-tà della patria” del Gentile della Repubblica sociale, cfr. R. Battaglia, Storia della Resi-stenza Italiana , Torino 1953 (2a ed.), pp. 175 sg., 289-92.35 Croce, Storia della storiografia cit., vol. 2, p. 240.

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pe come un’almeno parziale incongruenza.36 Insomma, la contrapposizioneCroce-Volpe lasciava in eredità al pensiero politico e storiografico antifasci-sta l’esigenza di una revisione della storia d’Italia, risorgimentale e postri-sorgimentale, che meglio comprendesse anche il fascismo.

Il Volpe37

era storico troppo scaltro per indulgere alla ricerca dei precur-sori del fascismo in Giovanni dalle Bande Nere, Gian Galeazzo Visconti oGiulio Cesare, che anzi contro tali goffaggini egli apertamente ironizza inapertura alla sua Storia del movimento fascista. Ma il Risorgimento non po-té esimersi dal tirarlo in campo:

Possiamo, senza tradire né Risorgimento né Fascismo, raffigurarciil Fascismo come un nuovo Risorgimento, o una ripresa spiegata e con-sapevole di Risorgimento, dopo un mezzo secolo d’incubazione delle

forze nuove che nel primo Risorgimento erano deboli e assenti.

Contrapposizione più puntuale all’impegno che la Resistenza pose a pre-sentarsi, essa, come nuovo Risorgimento sarebbe difficile trovare. Prosegui-va Volpe in quel passo38 che il Risorgimento,

se ebbe il suo punto di partenza nelle aspirazioni liberali e di indi-pendenza, sentì poi come valori fondamentali, se pur non esclusivi, l’uni-tà, la potenza, la grandezza [...]. Ma l’Italia del Risorgimento era

un’Italia senza popolo. L’epoca che va dalla nascita del Regno ad oggi ècaratterizzata, appunto, dalla formazione del popolo [...] compiutasi, pri-ma, ai margini dello Stato e della nazione, anzi contro lo Stato e la na-zione e i valori della cosiddetta classe borghese; poi, entro lo Stato e lanazione. Questa ultima fase, la fase della più attiva e consapevole parte-cipazione del popolo alla vita della nazione e dello Stato, è quella che noiviviamo, del Fascismo.

In questo brano il Volpe ha concentrato l’essenza del suo giudizio suirapporti fra Risorgimento, postrisorgimento e fascismo. Converrà soffer-

36 G. Volpe, Prefazione (A proposito di storia d’Italia) alla terza edizione di L’Italia incammino, Milano 1928. In essa, fra l’altro, il Volpe rinfaccia al Croce la critica alla de-mocrazia per anni da lui insegnata agli italiani.37 Prendiamo qui in considerazione la già ricordata Italia in cammino e la Storia del mo-

vimento fascista, scritta per l’Enciclopedia italiana, Milano 1943 (2a ed.), che ne è co-me la continuazione. Tralasciamo la rielaborazione pubblicata dal Volpe dopo la guerra(Italia moderna, Firenze 1945-49, 3 voll.; il primo volume era già uscito nel 1943) chedel resto, per quanto riguarda le grandi linee della prospettiva storico-politica, nonpresenta innovazioni di rilievo.38 Volpe, Storia del movimento fascista cit., pp. 217 sg.

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marcisi un momento, accennando appena ad altri spunti e richiami in cuila finalità immediatamente politica e adulatoria è prevalente (anche se ca-pita al Volpe, partito per coprire di allori il fascismo, di finire invece con losfrondare quelli del prefascismo): ricorderemo, ad esempio, i numerosi vo-

li, mazziniani e giobertiani a un tempo, sulla rinascita della “missione”, del-la “iniziativa” e del “primato” italiani; il presentare la legge sulle associazionie contro le società segrete, che colpiva la massoneria, come “antico voto” di“frazioni” di liberali, socialisti, nazionalisti, cattolici; o ancora l’interpreta-re la legge del 24 dicembre 1925 sui poteri del capo del Governo come il“ritorno allo Statuto [...] che da un pezzo uomini della Destra avevano au-spicato”.39

La tesi fondamentale del Volpe e, come accennavamo, quella della pro-

gressiva inserzione delle masse popolari nello Stato, lungo processo che at-traverso l’emigrazione (“nuovo e più sostanzioso ‘Risorgimento’, anche perle masse, anche per il Mezzogiorno”),40 il socialismo (al cui riguardo non simanca di fare appello al “socialismo nazionale” di Pisacane),41 il movimen-to cattolico (che “può essere considerato il riformismo del vecchio clericali-smo”),42 la guerra (come “guerra di popolo” e “ultima guerra dell’indipendenza”,risorgimentale e nazionalistica insieme, con la contaminazione che abbia-mo notato anche in Mussolini), trova il suo punto di arrivo nel fascismo,

che rifonde in un nuovo quadro organico gli elementi per l’innanzi dispa-rati o contrastanti.43

Era implicita a tale costruzione l’idea di un Risorgimento cui fossero es-senziali indipendenza e unità più assai che libertà; un Risorgimento fruttodello sforzo di pochi, senza popolo. Ma mentre gli eroici furori del Genti-le, come abbiamo visto, traevano da ciò motivo di compiacimento, il Vol-pe, pur con qualche oscillazione, mostrava invece di comprendere che inquel carattere stava il problema più grave dell’Italia unita. Su questo puntoera più vicino al Volpe il Croce della risposta al Manifesto degli intellettuali 

 fascisti , quando, proseguendo nel brano sopra ricordato, ma con tropposcoperta apologia della classe dirigente liberale, attribuiva a quella il costan-te proposito di chiamare “sempre maggior numero d’italiani alla vita pub-blica”, e affermava che

39 Ibid., pp. 70, 147 sg., 137.40 Volpe, L’Italia in cammino cit., pp. 66-72.41 Volpe, Storia del movimento fascista cit., p. 197.42 Volpe, L’Italia in cammino cit., p. 221.43 “La nazione italiana si metteva in moto a scaglioni e reparti; o meglio, elementi cheerano fuori di essa erano tratti un po’ per volta nella sua orbita, si legavano, pur lottan-do, con gli altri elementi” (ibid., p. 266).

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perfino il favore, col quale venne accolto da molti liberali nei primitempi il movimento fascistico, ebbe tra i suoi sottintesi la speranza che,mercé di esso, nuove e fresche forze sarebbero entrate nella vita politica,forze di rinnovamento e (perché no?) anche forze conservatrici.

Salvemini osserverà molti anni dopo, intervenendo nella polemica su-scitata dall’affermazione di Parri che in Italia non c’era mai stata democra-zia, che

nessuno ha il diritto di attribuire (alla oligarchia parlamentare) il me-rito di progressi che essa tentò, finchè le fu possibile, di impedire, ed ac-cettò solamente quando non le fu più possibile opporsi. A tirare le conseguenzelogiche delle opinioni di Croce, dovremmo pensare che le leghe di resi-

stenza e le Camere del lavoro le fondavano gli agenti della polizia [...]44

 Anche il Volpe, più sensibile del Croce al conflitto delle forze reali nel-la società, offriva una visione meno paternalistica del processo di allargamen-to delle basi sociali dello Stato, perché sapeva cogliere l’elemento di urtocontro la classe al potere che quella inserzione comportava. Tutto si riduce-va tuttavia, per il Volpe, nel vedere lo Stato come qualcosa esistente di persé e costruita una volta per tutte, una botte bella e pronta entro la quale ver-sare il vino popolare.

Questa entificazione dello Stato, ultima deiezione della tradizionale dot-trina dello “Stato etico” e dello “Stato di diritto”, e punto, pertanto, sulquale il Volpe si ritrovava accanto il Gentile, faceva dimenticare al Volpeche le masse, nello Stato, ci sono sempre state come oggetto, non fosse al-tro, degli obblighi fiscali e mililari, e che pertanto il problema dello Statonon può correttamente porsi, per il “popolo”, che come problema di parte-cipazione al potere; e parlare di “masse nello Stato” senza aver fede nella de-mocrazia significa fare soltanto del paternalismo o della demagogia. Ma per

il Volpe lo Stato è, nazionalisticamente, soprattutto una macchina da poli-tica estera,45 e partecipazione del popolo allo Stato significa solo possibilitàdi meglio utilizzare le masse popolari a fini di potenza.

Resta tuttavia a questa tesi del Volpe il merito di aver richiamato l’at-tenzione sul carattere di massa assunto dal fascismo, il quale, primo esem-pio nella storia del regno d’Italia, aveva mostrato un gruppo dirigente incapace

44 G. Salvemini, Fu l’Italia prefascista una democrazia? , in “Il Ponte”, VII, 1952, pp. 295-97.45 Caratteristiche le parole con cui commenta il “piatto realismo di tanta parte dei cetidirigenti che non volevano Trento e Trieste, non volevano colonie, insomma non si sabene che cosa volessero...” (Volpe, Storia del movimento fascista cit., p. 44).

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di reggersi senza fare, sia pur demagogicamente, appello alle masse. Era uncarattere che avrebbe richiamato l’attenzione anche dei più acuti antifasci-sti; e Carlo Rosselli, sensibilissimo com’era al “nuovo” del fascismo, avreb-be visto un elemento essenziale di tale novità proprio nel regime di massa

da cui, con dialettica alquanto moralistica, si riprometteva sarebbe scaturi-ta finalmente una grande lezione di libertà per tutti gli italiani.Un’altra grossa difficoltà, anch’essa tuttavia adombrante un problema

reale, era insita nella posizione del Volpe: il suo ottimismo sullo sviluppodell’Italia in cammino come si conciliava con la irrisione fascista all’Italiet-ta, come salvava quel carattere di rottura con un indegno passato cui il fa-scismo, per le sue velleità rivoluzionarie, non poteva rinunciare e che, inalcuni suoi più intransigenti apologeti, tendeva, come abbiamo visto accen-

nando alla reazione del Gentile, a travolgere il Risorgimento stesso?Il Volpe cercò di trarsi d’impaccio un po’ usando e abusando del suo me-todo a partita doppia (bene, sì certo... ma non solo bene...; male, indubbia-mente, ma anche bene...), e poi distinguendo adialetticamente il pianodelle forze economiche e sociali in sviluppo (un capilolo, il più celebrato,dell’Italia in cammino si intilola Gli italiani al lavoro) e il piano della classepolitica dopo l’ascesa della sinistra al potere, che viene fustigata come ri-nunciataria, senza ideali eccetera, con l’unica eccezione di Crispi. “Alla ele-

vazione economica e sociale del paese non era corrisposta una elevazionepolitica [...]; l’Italia dava l’immagine di un paese migliore del suo governoe meritevole di miglior governo”: così scrive Volpe a proposito dell’età gio-littiana, sulla quale il suo giudizio è, e ci pare sintomatico, sostanzialmenteoscillante. Incerto è, del resto, anche il suo concetto di borghesia, la qualedeve essere insieme e la classe economica in sviluppo e quella politica in de-clino e, infine, la creatrice, così nel Risorgimento come nel fascismo, di va-lori spirituali e nazionali che la trascendono.46 Che il deus ex machina risolutoredi tutte le contraddizioni sia il nazionalismo e poi il fascismo, appare cosìuna conseguenza indispensabile della falsa dialettica del Volpe, per la qualeun movimento che si poneva proprio come elemento di rottura del proces-so, democratico e socialista, di immissione dei ceti popolari nella vita poli-tica del paese, assumeva la pretesa di esserne invece il sanzionatore.47 Ma,ancora una volta, la pertinace volontà del Volpe di trovare le basi del fasci-smo nella recente storia della società italiana lo spingeva a vedere con pene-trazione maggiore di certo antifascismo moralistico i legami di quello sia conalcune remote eredità risorgimentali, sia con il nazionalismo e l’imperiali-

46 Cfr. Volpe, L’Italia in cammino cit., p. 18; Id., Storia del movimento fascista cit., p. 46.47 Cfr., su questo punto, la recensione di R. Romeo a Italia moderna (in “Rivista stori-ca italiana”, LXIII, 1951, pp. 120-28).

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smo caratteristici, in tutto il mondo, del nuovo secolo, sia infine con lo svi-luppo delle forze industriali italiane, che proprio nell’età giolittiana aveva-no avuto un notevole slancio.

Il taglio netto che si era rifiutato di compiere fra Risorgimento e fasci-

smo, il Volpe lo vorrebbe oggi fare fra Risorgimento e Resistenza. In un re-cente opuscolo,48 nel quale mostra di aver saputo essere più libero di fronteal fascismo trionfante che dinanzi al proprio risentimento di fascista (e dimonarchico) sconfitto, egli scrive che la mania epuratrice post ’45 non ri-sparmiò neanche il Risorgimento. Qualche “fascista più fascista di Musso-lini”, o qualche nazionalista dottrinario come Rocco, aveva, è vero, giàmanifestato “qualche cenno di fastidio” verso quella età, considerata troppoliberale: “Ma ora si andò più in là”, perché

quella età non era nelle grazie dei due più forti partiti formatisi o ri-costituitisi dopo il 1943 o il 1945: il comunista, che la vedeva troppo “bor-ghese”, poco “sociale”; e il democristiano che la vedeva massonica, irrispettosadei diritti della Chiesa, usurpatrice di Roma al legittimo sovrano.49 È ungiudizio, questo sulla fine del Risorgimento (o meglio, dello “spirito ri-sorgimentale”), che vedremo nella sostanza condiviso da altri epigoni del-la vecchia classe dirigente postrisorgimentale, pur lontani dal Volpe, come,ad esempio, il Croce e lo Jemolo.

Riteniamo inutile offrire altre testimonianze di parte fascista ché, oltretutto, troppo ingombrante è la schiera dei minori apologeti, anche se rive-stiti di nomi non privi di notorietà: come Francesco Ercole, autore di uncentone in cui disquisisce a lungo sui rapporti fra i plebisciti risorgimenta-li e quello fascista del 1929, con una goffa polemica antigiusnaturalistica;50

come Arrigo Solmi, per il quale grandezza romana, Rinascimento, Risorgi-mento, guerra mondiale, fascismo costituiscono un ovvio continuum;51 co-me Amintore Fanfani, il quale scriveva: “È stato detto molto bene, che conla proclamazione dell’impero fascista si conclude il Risorgimento. Nulla dipiù esatto”.52

48 Volpe, Dieci anni , Edizioni “Monarchia”, Roma 1956.49 Ibid., pp. 5 sg.50 F. Ercole, La Rivoluzione fascista, Palermo 1936.51 A. Solmi, Il fascismo e la sua genesi nazionale , in Id., Discorsi sulla Storia d’Italia, Fi-renze 1935, pp. XIII-XIV.52 A. Fanfani, Cinquant’anni di preparazione all’Impero, in Colonialismo europeo ed Im-

 pero fascista, a cura di L. Silva, Milano 1936, p. 27. Cfr., dello stesso autore, Da soli! ,in “Rivista internazionale di scienze sociali”, XLIV, 1936, pp. 229-31, dove, commen-

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Ricorderemo piuttosto che al Risorgimento ricorsero ancora i fascistidella Repubblica sociale sia in appoggio ai loro sforzi di creare una unitàpatriottica a proprio vantaggio (abbiamo già accennato a Gentile) e di ri-suscitare un “socialismo nazionale” di origine mazziniana,53 sia per i ten-

tativi, compiuti in extremis da alcuni, di trovare una via di uscita al di sopra,come scrisse uno di loro, delle baionette straniere: si pensi al Raggruppa-mento repubblicano nazionale socialista di Edmondo Clone, che fece usci-re un quotidiano dal titolo mazziniano di “Italia del Popolo”, e al gruppettodetto appunto del Nuovo Risorgimento, composto da fascisti dissidentidesiderosi di creare alternative il più possibile conservatrici al regimemussoliniano.54

tando il fatto che “mezzo milione di legionari hanno sbaragliato le orde scioane”, svol-ge il concetto che, per la prima volta dal Risorgimento, nessuno potrà insinuare che gliitaliani non hanno fatto da soli.53 Le testimonianze in tal senso sono numerose. Ricordiamo l’articolo di C. Pettinatosu “La Stampa” del 5 marzo 1944, a commento degli scioperi di quel mese (citato daG. Vaccarino,

Il movimento operaio a Torino nei primi mesi della crisi italiana, in “Il

Movimento di liberazione in Italia”, n. 20, settembre 1952, p. 42).54 Su questo gruppo cfr. Vaccarino, Il movimento operaio cit., p. 34, e la nota introdut-tiva ad Alcuni documenti delle gerarchie di Salò sulla industria italiana e sulla classe indu-

striale del Nord, in “Il Movimento di liberazione in Italia”, n. 11, marzo 1951, p. 41.

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3. La “difesa del Risorgimento”

Stabilire un rapporto diretto fra ciò che abbiamo sommariamente ricordatodella interpretazione fascista del Risorgimento e l’atteggiamento degli anti-fascisti che rivendicarono per sé l’eredità di quella primavera della nuova Ita-lia non sempre è possibile: abbiamo ricordato ciò che scrisse Salvemini diNello Rosselli, abbiamo citato alcuni passi di Croce, e qualche altro collega-mento diretto lo faremo man mano notare. Quel che conta è che l’interpre-tazione fascista era nell’aria, e ai contemporanei arrivava per mille strade, nontutte filologicamente controllabili. Di più: era il fascismo in quanto tale, conil solo fatto della sua presenza, che spingeva a porre il problema di donde es-so venisse, di quali addentellati avesse nella recente storia d’Italia. E il dub-bio che qualcosa di vero potesse pur esserci nella sua pretesa di rappresentarela conclusione di un processo iniziatosi per lo meno col Risorgimento, nonpoteva non affacciarsi nelle menti più critiche, e spingerle al riesame della sto-ria di quel periodo e dei decenni successivi. Era, comunque, un ripensamen-to mosso direttamente da uno stimolo politico, e non destinato, almeno peril momento, a dare molti frutti tecnicamente elaborati come storiografia. Sipensi, ad esempio, alla discussione se nel Risorgimento la priorità spettasseal motivo della unità-indipendenza o a quello della libertà (discussione che

si riproporrà in termini molto simili per la Resistenza): storiograficamentel’alternativa era troppo cruda; politicamente, fin troppo evidente appariva ilsignificato dell’insistenza sul momento della libertà. Le opinioni antifascistesul Risorgimento, che passeremo in rapida rassegna, hanno la loro origine inquesto bisogno di polemica contro l’avversario e di miglior definizione di sestessi: ed è questo il punto di vista da cui vogliamo porci.

Nelle grandi linee di tale quadro ci sembra si collochi anche la Storiad’Italia dal 1871 al 1915 del Croce, con i lavori minori che le fanno coro-

na:55 ma non staremo a riesporre la fin troppo nota polemica che la riguar-

55 Vedi, in particolare, per la nota tesi del fascismo-malattia, la postilla Verità storica e 

ideale politico, in Croce, Storia della storiografia cit., vol. 2, p. 273.

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da. Si tratta, nel complesso, di scritti tutti volti a tener fermo, di fronte alfascismo, l’ideale del liberalismo scaturito dal Risorgimento: quasi un ma-nifesto della restaurazione prefascista, e perciò, come suole accadere, pocoadatto a comprendere ciò contro cui la restaurazione doveva essere effettua-

ta. Quanto fosse radicato nel Croce questo senso del ristabilimento, comeunica via di salvezza, di valori per il momento perduti, è confermato dal fat-to che egli riconobbe sì nel 1943 alla sorgente Resistenza il carattere diguerra “che proseguiva tenace lo spirito del Risorgimento” e che, già vivanel cuore degli italiani accanto a quella “in apparenza legale ma odiosa”condotta dal fascismo, si era infine fatta essa “legale”;56 ma, proprio in quelgiro di giorni, egli poneva gli ideali nostalgicamente accarezzati per tantianni molto al di sopra di quelli democratici della guerra antifascista, la cui

imminente conclusione vittoriosa lungi dal presentarglisi (come si presentòalla massima parte dei resistenti) quale inizio di nuova vita, accentuava in-vece in lui il senso tragico di un mondo che irrimediabilmente si dissolve-va. È del 1° marzo 1944 un commosso sfogo confidato alle pagine del suodiario:

[...] noi, nel tenace fondo del nostro animo, siamo ancora nell’attesache risorga un mondo simile a quello, continuazione di quello in cui giàvivemmo per più decenni, prima della guerra del 1914, di pace, di lavo-

ro, di collaborazione nazionale e internazionale. E in ciò è la sorgente del-la nostra implacabile angoscia, perché quella speranza sempre più si allontanae, peggio ancora, s’intorbida e si oscura.57

E già il 16 dicembre 1943 aveva scritto di essersi convinto che “questanon è la guerra per la libertà, ma come tutte le altre, per l’indipendenza, peril dominio e per il vantaggio economico e politico, e che la guerra per la li-bertà si dovrà combattere poi, e con mezzi più veri e più adatti che non sia-no le armi”.58

Uno stato d’animo simile a questo del Croce è dato cogliere in un’altrapersonalità “risorgimentale” (nel senso di tenace attaccamento alle tradizio-ni della classe colta moderata nata dal Risorgimento): lo Jemolo. Nostalgia

56 Vedi il Manifesto redatto da Croce per la chiamata dei volontari dei Gruppi Combat-tenti Italia, e affisso in Napoli il 10 ottobre 1943 (in appendice al diario Quando l’Ita-lia era tagliata in due , Bari 1948, pp. 154-56). Un certo impaccio nel trattare la questionedella legalità è indicativo delle preoccupazioni, di Croce e di tanta parte del ceto diri-gente prefascista, di salvare, al di sopra del fascismo e anche attraverso a esso, la “con-tinuità dello Stato”.57 Croce, Quando l’Italia... cit., pp. 87 sg.58 Ibid., p. 44. Cfr. pure le note del giorno precedente, 15 novembre.

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del Risorgimento come primavera di uno spirito “proteso verso l’avvenire”;e quindi nostalgia meno “restauratrice” di quella del Croce, come del restola diversa posizione politica dei due uomini sta chiaramente a indicare: mapur sempre rimpianto di un mondo che svanisce, e che nello Jemolo si fon-

de con quella “delusione della Resistenza”, di cui avremo ancora occasionedi parlare. “Il 1848 – scrive lo Jemolo – è l’anno dei portenti, l’esplosionedello spirito risorgimentale: il 1948 vede un’Italia nettamente anti-risorgi-mentale”. E ancora:

Per chi abbia questo senso della fine dei movimenti storici, è chiaroche il moto risorgimentale è ben chiuso [...]. Potrà sostenersi che abbia da-to l’ultimo guizzo a Vittorio Veneto; o che lo abbia dato invece nel movi-mento partigiano del 1944-45. Ma il rapido crollare di ogni aspirazione

risorgimentale, ossia di rinnovamenti radicali in qualche modo ricollega-bili a quell’antica tavola di valori, degli uomini della Resistenza, subito do-po la cessazione delle ostililà, mostrerebbe che era proprio stato unultimo guizzo.

Nell’esaurirsi del cattolicesimo liberale, e nella scarsa sensibilità al pro-blema dei rapporti fra Stato e Chiesa, vede lo Jemolo una controprova del-la sua tesi; e il fallimento della classe dirigente della Resistenza, che ha portato

l’Italia a divenire simile al “più tipico degli Stati antirisorgimentali”, quellopontificio, dà un ulteriore suggello al suo pessimismo.59

Su quest’ultimo punto, in particolare, la posizione del Croce era diver-sa e meno generosa: la restaurazione di un mondo di valori coincideva in-fatti per lui col ritorno della vecchia classe dirigente al governo dello Stato.Per questo motivo, e non soltanto perché Guido Calogero non aveva beneinteso il rapporto fra libertà e giustizia, egli fu ostilissimo al Partito d’Azio-ne, frenando con la sua autorità gli unici spunti di liberalismo moderno chesi erano manifestati in Italia. Croce sperò che dietro al partito liberale, ilpartito dei “padri del Risorgimento”, si sarebbe ricostituita l’antica unionedei ceti dirigenti, e nelle elezioni del 1946 la sua partecipazione al blocconazionale di Orlando, Nilti e Bonomi ebbe chiaramente il significato difavorire tale ripresa. La sotituzione della Democrazia cristiana a quello cheera stato il “partito” liberale prefascista dovette certo apparire a Croce, neisuoi ultimi anni, un’ulteriore conferma della decadenza del mondo che gliera caro.

Difesa del Risorgimento: questo titolo dato alla nota raccolta di scritti di Adolfo Omodeo ben esprime l’atteggiamento di tutela del “significato pia-

59 A. C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni , Torino 1948, pp. 715,728, 730, 716.

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no e onesto del Risorgimento” che, accanto al Croce, vide appunto nel-l’Omodeo un tenace rappresentante. Si deve anzi all’Omodeo quello che po-trebbe definirsi il manifesto dell’“antirevisionismo” risorgimentale: la recensionea Risorgimento senza eroi di Piero Gobetti.60 Cosa intende difendere, dalla

“revisione”, l’Omodeo? Più che un insieme di risultati storiografici in quan-to tali, egli vuol salvare un ideale politico e di vita, il “senso del Risorgimen-to” come era stato costruito, tramandato e idealizzato dalla classe colta liberale,e che non ci si riusciva a persuadere dovesse venire, rebus ipsis dictantibus ,messo in forse dalle nuove generazioni.61 Soltanto in tale quadro ci sembrapossa essere intesa la polemica, che tuttora si trascina, fra “revisionisti” e “an-tirevisionisti”, anche se non del tutto assolto può andare l’Omodeo per ladurezza cattiva (“ho cercato invano una scintilla d’intelligenza in quelle pa-

gine”) del suo giudizio su Gobetti, da poco morto in esilio, e che nello sti-molare la resistenza al fascismo avrebbe avuto un peso certo maggiore diquello del suo acre recensore.

Colpisce, nell’atteggiamento dell’Omodeo di fronte al Gobetti, la me-scolanza, tipica dell’intellettualità idealistica, della “boria del dotto” control’“irregolare” tecnicamente sprovveduto (che spinge l’Omodeo a configura-re il contrasto non come quello di due posizioni politiche e morali, ma co-me lotta della Scienza contro il “giornalismo”), con l’incomprensione del

conservatore, resa più aspra e aggressiva dalla delusione che il fascismo da-va a tutti i conservatori illuminati. L’Omodeo, e con lui molti dei più acca-niti “antirevisionisti”, coinvolgeva nell’odio contro chi aveva, nel fatto,manomesso il suo ideale, coloro che quell’ideale avevano criticato proprioperché troppo fiacco e minato da intime contraddizioni. Si spiega in talmodo l’abitudine presa dall’“antirevisionismo”, anche in alcuni suoi tardiepigoni radicali,62 di porre in un unico sacco Oriani, Gobetti, Dorso,Gramsci, Missiroli, Mussolini, tutti rei di aver profanato la tradizione libe-rale del Risorgimento.

Omodeo stesso ha raccontato il suo volgersi agli studi del Risorgimen-to per una “ispirazione polemica a dimostrare le forze costruttive della li-bertà nella storia recente d’Italia”; e ha inquadrato tale ispirazione nel sensoche ebbe dopo la prima guerra mondiale, dalla quale pure aveva cercato dienucleare, in implicita polemica antifascista, un significato non retorico ma

60 Apparsa nel 1926 sul “Leonardo”; ora in A. Omodeo, Difesa del Risorgimento, Tori-no 1955; pp. 439-46.61 Scrive l’Omodeo nella recensione citata: “I danni successivi dipesero dall’aver smar-rito progressivamente il senso del Risorgimento, non dal Risorgimento stesso”.62 Vedi, ad esempio, F. Compagna, Benedetto Croce e la questione meridionale , in “Ar-chivio storico per le provincie napoletane”, n. s., XXXIV (LXXIII), 1955, pp. 465-82.

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“risorgimentale”,63 “di essere figlio di una età di decadenza, di appartenere aun mondo in reinvoluzione”: così da esserne spinto, quasi per contrasto, aimmergersi nello studio delle “primavere storiche” come il Risorgimento e,più su, la Restaurazione che, con scambio rivelatore di tutto l’indirizzo mo-

derato, egli pone, al posto della Rivoluzione, come vera matrice di quello.64

Questo gusto della ricerca dei momenti aurorali spingeva l’Omodeo ad avermaggiore simpatia e interesse per il Risorgimento che per il postrisorgimen-to, reintroducendo, sia pur indirettamente, quella distinzione di valori fraprima e dopo il 1870 o il 1876 che il Croce, aveva con nettezza, e quasi condisprezzo, tolta di mezzo. Il fatto è che la Destra storica e i “padri del Risor-gimento” (che l’Omodeo, nonostante i suoi studi critici su figure comeCarlo Alberto, doveva necessariamente tendere a ricomporre in un quadro

armonico senza vincitori né vinti, trasposizione dotta della vecchia agiogra-fia) esercitavano indubbiamente un fascino più immediatamente percepibi-le da parte di chi cercava conforto contro gli “hyksos” piombatigli in casa.L’Omodeo, è noto, negli ultimi suoi anni, sotto la spinta degli eventi, si ra-dicalizzò molto, come mostra la sua adesione al Partito d’Azione, che gli frut-tò qualche amichevole rimbrotto del Croce: ma non risulta che questa suaevoluzione politica abbia inciso sulla sua ideologia e sulla sua visione storio-grafica,65 che era ciò che qui ci premeva ricordare come esempio di un at-

teggiamento proprio di quella parte della vecchia classe dirigente più affezionataai valori tradizionali manomessi dal fascismo.Un tentativo di utilizzare l’ideologia risorgimentale, oscillante fra im-

pennate romantiche e desiderio fin troppo scoperto di portare su posizionidi antifascismo restauratore le più solide forze conservatrici non immedia-

63 “In sede storica è certamente erroneo considerare la recente guerra italiana come l’ul-tima del Risorgimento. Tuttavia essa fu la guerra combattuta dai figli del Risorgimen-

to. Tremenda e sanguinosa, non fu, per chi la visse, esclusivamente un museo degliorrori, proprio per questa luce ideale, per questa fede nativa, sincera, così diversa dallamaledetta retorica giornalistica che la falsò e la contaminò” (A. Omodeo, Momenti del-la vita di guerra, Bari 1934, p. 389).64 A. Omodeo, Trentacinque anni di lavoro storico, in Id., Il senso della storia, Torino1955, pp. 13 sg. Cfr., nello stesso volume, Il distacco dal Risorgimento (del 1933), pp.444-48, e La nostalgia del passato (del 1946, uno dei suoi ultimi scritti), pp. 617-20;e, in Difesa del Risorgimento cit., pp. 537-39, Storia ipotetica (del 1937), aspra pole-mica contro la scuola dell’Istituto storico per l’età moderna e contemporanea, direttadal Volpe.65 Vedi, ad esempio, la sua recensione a Pensiero e azione del Risorgimento di Salvatorel-li, dove la simpatia espressa è chiaramente più politica che culturale (Omodeo, Difesadel Risorgimento cit., pp. 531-33).

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tamente fasciste (monarchia ed esercito, Vaticano e Azione cattolica), fu quel-lo compiuto da Lauro De Bosis e Mario Vinciguerra con l’Alleanza Nazio-nale.66 Il Risorgimento, proprio quello classico, canonizzato da una destraconciliazionista in pectore , e quindi irrimediabilmente eclettico, fu parte in-

tegrante delle parole d’ordine dell’Alleanza. “L’Italia di Cavour e di Mazzi-ni è nuovamente in marcia contro l’Italia dei Radetzky e dei Borboni”,scriveva, ad esempio, il De Bosis.67 Nei manifestini da lui lanciati su Romadurante il volo senza ritorno del 5 ottobre 1931 è tutto un tambureggiaredi ricordi risorgimentali: “Siamo in pieno Risorgimento”; “non fumare”; “ilsecondo Risorgimento trionferà come il primo”; “l’Asburgo in camicia ne-ra, rientrato di soppiatto nel suo palazzo, è un oltraggio per tutti i nostrimorti”; e, rivolgendosi direttamente al re: “Accettate Voi veramente d’infran-

gere dopo Vittorio Veneto quel giuramento cui il Vostro avo restò fedeledopo Novara? Sono sette anni che Vi vediamo firmare i decreti di Radetz-ky con la penna di Carlo Alberto”.68 L’efficacia pratica dell’Alleanza, scom-paginata dall’arresto di Vinciguerra e dalla morte di De Bosis, fu scarsa: mail suo atteggiamento, volto a ricostruire una unità d’Italia che mettesse a frut-to tutto ciò che di sedimentato era nella società e nella cultura media italia-ne, non sarebbe rimasto senza eco e senza conseguenze.

66 Cfr. Delle Plane, Lauro De Bosis cit. “Guai lasciare ai sovversivi il monopolio dellalotta contro il fascismo!”, scrisse De Bosis nella prima circolare della Alleanza, del giu-gno 1930 (citato da M. Salvadori, Il sacrificio di Lauro De Bosis , in a Rossi (a cura di),No al fascismo, Torino 1957, p. 224). Dobbiamo aggiungere che il Salvadori cita unalettera (febbraio 1931) del De Bosis (la cui personalità non può essere valutata solonell’ambito dell’Alleanza) a Salvemini, in cui monarchia, Vaticano e fascismo vengonoaccomunati nella condanna, e l’atteggiamento dell’Alleanza è presentato come meroespediente tattico.67 Citato da Delle Piane, Lauro De Bosis cit.68 Citato da A. Gavagnin, Vent’ anni di resistenza al fascismo, Torino 1957, pp. 320-22.

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4. Il Risorgimento da completare

La famosa frase di Fortunato, non essere il fascismo una rivoluzione ma unarivelazione, offre una appropriata epigrafe agli atteggiamenti, pur differen-ziati, di un antifascismo che, non ponendosi come restaurazione ma deside-rando invece che l’Italia compisse un passo innanzi decisivo anche nei confrontidel regime politico e sociale prefascista, era indotto a cercare nella recentestoria d’Italia dal Risorgimento in poi (ma per alcuni, di più fervida fanta-sia, anche da prima o da sempre),69 non solo le “origini” del fascismo, ma imotivi che avevano resa debole e stentata la vita democratica e lo svilupposociale del paese, provocando poi l’ingloriosa resa della sua classe dirigente.Era questo un atteggiamento carico di ben maggiore aggressività nei con-fronti del fascismo e che, se dette origine ai molti “processi” al Risorgimen-to e al postrisorgimento tanto fastidiosi per gli storici togati, si rivelò poifecondatore delle correnti principali della Resistenza, dal Partito d’Azioneai comunisti. Non è infatti concepibile una Resistenza svuotata di questa vo-lontà eversiva contro qualcosa di più profondo del fascismo inteso nei suoiristretti termini di regime fondato da Mussolini il 28 ottobre del 1922 e fat-to rinascere, dopo l’8 settembre del 1943, dalle baionette tedesche.

L’utilizzazione di un concetto storiografico come il Risorgimento nella

polemica antifascista era talvolta soltanto implicita nella scelta di nomi e diparole d’ordine che facevano appello alla tradizione patriottica e democra-tica, senza particolari prese di posizione storico-politiche: come fu, ad

69 Ricordiamo quattro opere che potrebbero raggrupparsi sotto il titolo di De antiquis-sima italorum insipienti : G.Fenoaltea, Storia degli italieschi dalle origini ai giorni nostri ,Firenze 1945; G. Colamarino, Il fantasma liberale , Milano s. d.; F. Cusin, Antistoriad’Italia, Torino 1948; G.A. Borgese, Golia. Marcia del fascismo, trad. it., Milano 1946

(ed. orig. am. 1937). Su questi autori, eredi della parte peggiore di Gobetti, e che spes-so capovolgono soltanto il segno morale di quei romanzi fascisti che partivano da Au-gusto e finivano a Mussolini, vedi N. Valeri, Premesse ad una storia d’Italia nel postrisorgimento,in AA.VV., Orientamenti per la storia d’Italia nel Risorgimento, Bari 1952, pp. 65-71.

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esempio, per il gruppo della Giovane Italia, sorto nel 1927, il cui nome maz-ziniano e la cui organizzazione di arcaico tipo settario coprivano un raggrup-pamento assai largo di antifascisti di varie tendenze, per nulla radicale.70 Uncontributo originale non fu dato nemmeno dal movimento politico che di-

rettamente si richiamava al grande sconfitto del Risorgimento: il Partito re-pubblicano italiano, che pure, quando la Concentrazione antifascista adottònel maggio 1928 la pregiudiziale repubblicana, parve aver raggiunto un suoobiettivo essenziale. Il fatto è che l’ortodossia mazziniana mostrò proprio difronte al fascismo la sua inadeguatezza, che il coraggio civile di alcuni suoifedeli non riuscì a far dimenticare. Non erano, a tale scopo, sufficienti ri-chiami come quello formulato dalla minoranza del congresso di St. Louis,nel marzo 1932, alla “scuola socialista italiana” rappresentata dal Pri.71 An-

che nella lotta armata dopo l’8 settembre del ’43 i repubblicani, rimasti fuo-ri dei Cln, e le loro brigate Mazzini non troveranno un posto di grande rilievo.L’iniziativa della riflessione critica sul fascismo e sull’Italia contempora-

nea era passata in altre mani con Gobetti, Rosselli e, accanto a essi, ancoraSalvemini (non parliamo per ora dei comunisti). Erano uomini, soprattut-to i due ultimi, che avevano sentito il fascino della personalità di Mazzini:e il fatto che la loro posizione non si risolvesse nel mazzinianesismo politi-co (sia pur contaminato di cattaneanesimo) del partito repubblicano, con-

tro il quale il giudizio di Gobetti è particolarmente duro,72

mostra come illoro desiderio di “fare finalmente ciò che nel Risorgimento (e nel postrisor-gimento) non era stato fatto” non avesse nulla in comune con un tardivospirito di rivincita degli sconfitti del Risorgimento.

70 Vedi, sulla Giovane Italia, R. Luraghi, Momenti della lotta antifascista in Piemonte ne-

 gli anni 1926-1943, in “Il Movimento di liberazione in Italia”, nn. 28-29, gennaio-marzo 1954, pp. 15 sg.; e Gavagnin, Vent’anni di resistenza cit., pp. 257 sgg. Il Luraghi(pp. 31-33) ricorda anche il MURI (Movimento Unitario di Ricostruzione Italiana),sorto dopo gli arresti che scompaginarono nel 1937 Giustizia e Libertà, ma dal carat-tere affine alla Giovane Italia.71 Traggo la notizia da G. Bonfante, Che cosa è il partito repubblicano, in “Lo Stato Ope-raio”, VI, 1932, pp. 242-50: articolo di aspra critica al Pri, nel solco della violenta po-lemica comunista di quegli anni contro i partiti della Concentrazione antifascista (l’uscitadel Pri dalla Concentrazione, deliberata proprio a St. Louis, è considerata dal Bonfan-te un tentativo di riprender quota sotto la spinta della concorrenza di Gl). Per i rappor-

ti fra Pri e Gl, e per la reciproca irriducibilità dei due gruppi, cfr. Garosci, Storia dei  fuorusciti cit., pp. 57 sg. e 69 sg.

72 “Dottrina democratica conservatrice” è definito da Gobetti il mazzinianesimo; La

Rivoluzione liberale , Torino 1948, p. 249.

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Di Salvemini basterà qui ricordare come negli ultimi anni, pur dopo iriconoscimenti concessi al suo antico avversario,73 egli finisse col ribadire ilgiudizio negativo su Giolitti:

La differenza fra Mussolini e Giolitti era in quantità e non in quali-

tà. Giolitti fu per Mussolini quel che Giovanni il battezzatore fu per Cri-sto: gli preparò la strada. Gobetti giustamente disse che Mussolini nonfece altro che estendere a tutta l’Italia i “mazzieri” di Giolitti.74

Giudizio questo che, espresso in termini così drastici, oggi pochi sareb-bero disposti a sottoscrivere: e che pure, in quel fustigatore d’ipocrisie, ser-viva a denunciare i rinnovati tentativi di bolsa apologia della classe dirigentetradizionale. Ai partiti antifascisti non comunisti Salvemini attribuiva il com-

pito di perpetuare e rinnovare la tradizione del Risorgimento (per i comu-nisti parlava di “fonti postrisorgimentali”); e nella Resistenza egli vide attuarsiil sogno che Mazzini aveva invano coltivato dal 1833, quando tratteggiavail quadro Della guerra d’insurrezione conveniente all’Italia: la guerra per ban-de. Proprio facendo riferimento agli esempi classici dei moti sanfedisti di fi-ne Settecento e della Spagna contro Napoleone, Salvemini scriveva che ciòche aveva resa finalmente possibile nel 1943-45, in Italia, una guerra perbande non al servizio della reazione, era stato l’appoggio dei contadini. “La

partecipazione dei contadini italiani alla lotta partigiana è il fatto più im-portante nella storia italiana del secolo in cui viviamo”; cosicché, aggiunge-va, “possiamo dire ormai che una nazione italiana esiste non solo nelleaspirazioni di una minoranza intellettuale”: che era il riconoscimento, fintroppo generoso, di una “inserzione delle masse nello Stato” ben diversa daquella del Volpe. Salvemini giungeva fino a rovesciare la frase di Fortunatosopra ricordata, asserendo che non il fascismo, ma il “movimento partigia-no [...] ha rivelato il popolo italiano a se stesso” e agli altri popoli. Di fron-te alla nostalgia verso un mondo che muore che, come abbiamo visto, siimpadroniva di Croce allo sbocciare, della Resistenza, Salvemini ricordavala seconda metà del 1944 e i primi mesi del 1945 come un “tempo di esal-tazione crescente”, come un rinnovarsi, per diciotto mesi e non in una solacittà, delle Cinque giornate di Milano.75

Dell’atteggiamento di Piero Gobetti di fronte al rapporto Risorgimen-to-fascismo vogliamo qui mettere in rilievo due aspetti. Il primo è che il ri-

73 Vedi G. Salvemini, Introduzione a W. Salomone, L’età giolittiana, Torino 1949.74 Salvemini, Fu l’Italia cit., p. 285.75 G. Salvemini, Partigiani e fuorusciti , in “Il Mondo”, 6 dicembre 1952, pp. 3-4; e La guerra per bande , in Aspetti della Resistenza in Piemonte , a cura dell’Istituto storico perla Resistenza in Piemonte, Torino 1950, pp. XIII-XVI.

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salire indietro nei decenni era per Gobetti uno strumento della critica cheegli intendeva fare a quella classe dirigente che vedeva spappolarsi sotto ipropri occhi. Offrire “la teoria di una classe dirigente”, sbarazzando il ter-reno dalla incancrenita tradizione politica italiana, è il compito che aper-

tamente egli confessa nella Nota conclusiva della Rivoluzione liberale . Ealtrove, per spiegare il significato che attribuisce al “fallimento della nostrarivoluzione”, ricorda “l’incapacità del popolo a esprimere dal suo seno unaclasse di governo”.76 L’interpretazione “ideologica” che Gobetti dà del Ri-sorgimento trova la sua origine in questo accanito desiderio di non vederenella crisi della classe politica qualcosa di occasionale, e nel rifiuto di cam-biare in positivi i segni negativi di cui vedeva costellata la storia d’Italia con-temporanea.

 Accettando la realtà fatta, quale è data dal Risorgimento – scrive – noidobbiamo soddisfare un’esigenza che il Risorgimento non ha appagata eperciò non possiamo esaltare e porre come aspirazione del nostro avveni-re quella debolezza che aspramente pesa su di noi e che è nostro compitosforzarci di superare prendendone coscienza.77

La dialettica cui Gobetti ricorre per realizzare il suo assunto è una dialet-tica di puri concetti politici che, messi in moto dal suo moralismo, tentano

di sfociare nella realtà con abuso di artifici e di astuzie della provvidenza; ein questo sta la sua debolezza, che lo rende in qualche modo compartecipedell’attivismo irrazionalistico che voleva combattere, e che lo porta a dare ungiudizio incerto proprio sul fascismo. In fondo, il fascismo rimane anche perGobetti un’aberrazione rispetto a un ideale: aberrazione dalle salde radicistoriche, ma individuate unilateralmente nelle “pecche tradizionali” (e ideo-logiche) del popolo italiano, e non messe sufficientemente in rapporto conlo sviluppo complessivo della società borghese italiana e mondiale.

In tal modo, e passiamo così al secondo rilievo sopra preannunciato, Go-betti tende a far convivere in maniera singolare la teoria del fascismo-inci-dente con quella del fascismo “autobiografia della nazione”78: “parentesi

76 P. Gobetti, Risorgimento senza eroi , Torino 1926, p. 130.77 Ibid . Altrove scrive che “constatando l’immaturità ideale dell’Italia del Risorgimen-to, o la mancata partecipazione popolare, non si vuol fare un processo alla cultura eagli uomini, ma un semplice calcolo di forze” (Gobetti, La Rivoluzione liberale cit., p.34).78 L’espressione è in un suo articolo sulla “Rivoluzione liberale” del 23 novembre 1922,riportato poi largamente nel libro omonimo, p. 185. È l’articolo in cui si dice che “inItalia non ci sono proletari e borghesi: ci sono soltanto classi medie”, come aveva inse-gnato Giolitti e come confermava Mussolini.

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storica”, egli definisce il fascismo, “fenomeno di disoccupazione nella eco-nomia e nelle idee, connesso con tutti gli errori della nostra formazione na-zionale”. Di fronte a esso occorreva aver fiducia che l’Italia trovasse in sé laforza di “riprendere quella volontà di vita europea che parve annunciarsi,

almeno in certi episodi, col Risorgimento”.79

Nel Risorgimento Gobetti distingueva pertanto una parte da rilanciaree una da espungere: ed è caratteristico del suo interesse prevalentemente ac-centrato sul problema della classe dirigente che alla critica a essa rivolta dal-l’interno egli unisca una chiara insofferenza, di tipo aristocratico, controquella che pur era stata l’unica manifestazione concreta di una possibile al-ternativa risorgimentale all’egemonia piemontese: il garibaldinismo. Anzi,Gobetti giunge a stabilire quasi una filiazione del fascismo dal garibaldini-

smo, tramite il partito repubblicano.Il fascismo – scrive infatti – ricollegandosi alla parte caduca e don-

chisciottesca del nostro Risorgimento, si assume quel compito di rivendi-cazioni romantiche, di predicazione di esaltato patriottismo, di sentimentalismosociale collaborazionista, che dopo la fine del Partito d’Azione era stato ilsolo patrimonio continuato dal mazzinianesimo.

E ancora:

l’attualismo, il garibaldinismo, il fascismo sono esperienze attraversocui l’inguaribile fiducia ottimistica dell’infanzia ama contemplare il mon-do semplificato secondo le proprie misure.80

La Resistenza, e non i soli comunisti, preferirà rifarsi a un Garibaldi e aun garibaldinismo positivi: ma vedremo come in Giustizia e Libertà ricom-parissero le preoccupazioni, proprie dell’antifascismo di élite, nei confrontidi un garibaldinismo ritenuto (cogliendone, certo, un aspetto reale) simbo-lo di piccola borghesia disoccupata, incolta, sbracata e retorica.

L’espressione “secondo Risorgimento” fu usata per la prima volta espli-citamente nell’ambiente da cui doveva uscire Giustizia e Libertà; e, fra tut-te le formazioni politiche che presero poi parte alla Resistenza, il Partitod’Azione o, almeno, la sua ala che discendeva direttamente da Gl, fu senzadubbio quella che più poté considerarla congeniale.

Già Rosselli e Parri al processo di Savona per la fuga di Turati avevanoaffermato la necessità di riprendere, integrandola, la tradizione di un Risor-gimento rimasto patrimonio di pochi, fenomeno di avanguardie e non di

popolo, Rosselli accentuando il significato socialista di questa ripresa e in-

79 Gobetti, La Rivoluzione liberale cit., p. 188.80 Ibid., pp. 183 sg. Cfr. supra, nota 20.

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sieme il senso di una continuità familiare che portava, a distanza di mezzosecolo, due Rosselli a ospitare l’uno Mazzini esule in patria, l’altro Turatifuggiasco; Parri, ex combattente, rivendicando il significato risorgimentaledella guerra 1915-18 contro l’accaparramento fattone dal fascismo.81

Di “secondo Risorgimento” Rosselli parlerà poi spesso, sia nei suoi scrit-ti ideologici che in quelli politici. Nel primo appello di Gl agli italiani 82

egli dichiara che “la lotta è durissima e impone i massimi sacrifici. Questoè il prezzo del secondo Risorgimento italiano” e propone il motto “insor-gere per risorgere” che poi, con il saluto alla città delle Cinque giornate, sa-rà stampato sui manifesti lanciati da Bassanesi su Milano l’11 luglio 1930,nonché sui buoni-moneta distribuiti da Gl con evidente richiamo al presti-to nazionale mazziniano. È evidente la derivazione di molti motivi della

eclettica ideologia rosselliana da Gobetti, “genio precoce”, che “aveva indi-cato la via del riscatto con gli ideali dell’autonomia e della rivoluzione li-berale operaia”.83 Ma Rosselli poté conoscere non soltanto il fascismo delleorigini, quello di cui Gobetti aveva colto con finezza gli aspetti di gratuitàdannunziana, estetizzante e tardoromantica, ma anche il fascismo nel pie-no del suo potere, quello che si atteggiava a signum contradictionis del se-colo. Rosselli tentò perciò di fondere la tesi del fascismo male tipicamenteitalico con l’altra, di cui si fece tenace propugnatore, del fascismo come no-

vità di portata mondiale, cui pertanto andava opposta, da parte dell’anti-fascismo, altrettanta novità. Egli stesso, in un importante scritto del 1937,84

in cui traccia come un bilancio della sua creatura politica, pone al 1932l’anno in cui Gl passa dalle posizioni di concentrazione democratica socia-lista, sostenute però fin da allora dall’impegno di “rivolta contro gli uomi-ni, la mentalità, i metodi del mondo politico prefascista, responsabile dellafine miserabile dell’Aventino”, alla prospettiva dell’oltrefascismo, per usareun’espressione ricorrente sulla stampa giellista. Il 1932, scrive Rosselli, peril fascismo è il decennale, l’ingresso nel Pnf di sei milioni di nuovi iscritti,

81 Cfr. E. Tagliacozzo, L’evasione di Turati , in Rossi (a cura di), No al fascismo cit., pp.58-61.82 Vedi la Prefazione (p. 15) a C. Rosselli, Socialismo liberale , Edizioni di Gl, Milano1944-1945.83 C. Rosselli, Risposta a Mussolini , in “Giustizia e Libertà” del 21 maggio 1936, dovesi legge anche questa apostrofe: “A voi, fascisti, l’impero; a noi, la nazione. A voi, la Ro-ma della decadenza; a noi l’Italia repubblicana, comunale, risorgimentale, protesa ver-so il nuovo umanesimo proletario” (ora in Id., Scritti politici e autobiografici , Napoli1944, pp. 96-106).84 C. Rosselli, Per l’unificazione politica del proletariato italiano, in “Giustizia e Libertà”del 24 maggio 1937 (ora in Id., Scritti cit., pp. 189-200).

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la nuova demagogia corporativa: insomma, l’apparenza della stabilità. Pergli antifascisti, è la fine del periodo postaventiniano. Una nuova generazio-ne d’italiani si affaccia: quella per cui il fascismo “non è più la parentesi ir-razionale; è la norma, il punto di partenza per ogni azione”. A questi fenomeni

italiani sempre più avrebbero fatto riscontro, amplificandone il significa-to, quelli europei: Hitler,85 Dollfuss, le Asturie, la giornata del 6 febbraio1934 a Parigi, la Sarre,86 e infine, esperienza culminante, la Spagna. Di fron-te alla guerra d’Etiopia, Rosselli aveva dichiarato con vigore che “si deve es-sere disfattisti integrali e pratici” e accettare la guerra civile, ricordando chedurante la prima guerra mondiale c’erano stati dieci milioni di caduti in-vano, e “quasi tutti coatti”.87 Di fronte alla Spagna, come ha messo in evi-denza il Garosci,88 egli manifestò la sua fiducia in un antifascismo mondiale

come forza autonoma, con fini non necessariamente coincidenti con quel-li politici e diplomatici delle varie potenze: con il che veniva posto con chia-rezza, anche se in termini alquanto astratti e moralistici, un problemadelicatissimo per la Resistenza, che pure dovrà distinguere fra i suoi inte-ressi specifici e quelli militari e diplomatici delle potenze della coalizioneantihitleriana.

La parola d’ordine del “secondo Risorgimento” costituiva un antidotospecifico solo per il primo aspetto del fascismo, quello italico, perché la di-

latazione del Risorgimento a “età” di significato europeo non era persuasi-va, ché anzi il Risorgimento appariva, agli storici meno conformisti emeno nazionalisti, il tentativo di un popolo arretrato di portarsi al livellodi altri d’Europa più evoluti; e proprio l’insoddisfacente esito di quel ten-tativo, che si scontava col fascismo, poteva giustificare l’esigenza che essovenisse con più energia ripreso. Rosselli rielaborava le tesi del fascismo “ri-

85 Vedi il lucido articolo di C. Rosselli, La guerra che torna, pubblicato sui` “Quaderni

di Giustizia e Libertà” poco dopo l’ascesa di Hitler al potere (ora di Id., Scritti cit., pp.116-28), e che provocò una polemica con l’“Avanti”, poco propenso ad ammettere, nelsolco del tradizionale pacifismo socialista, la liceità di una “guerra rivoluzionaria” (cfr.G. Arfe, Storia dell’Avanti! 1916-1940 , Milano-Roma 1958, pp. 96 sg.).86 “Quel che è avvenuto il 13 gennaio in Sarre è la prova ultima, in vitro, della cadave-rica impotenza di tutte le forze, partiti, uomini del passato prefascista”: C. Rosselli, Lalezione della Sarre , in “Giustizia e Libertà” del 18 gennaio 1935 (ora in Id., Scritti cit.,p. 81).87 C. Rosselli, Perché siamo contro la guerra d’Africa, in “Giustizia e Libertà” dell’8 mar-zo 1935 (ora in Id., Scritti cit., pp. 84-90).88 Garosci, Storia dei fuorusciti cit., pp. 150-63. Su questo punto, dell’autonomia del-l’antifascismo di fronte agli interessi diplomatici delle potenze, cfr. E. Lussu, Diploma-zia clandestina, Firenze 1956.

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velazione degli italiani agli italiani” e “autobiografia della nazione”, dellamancanza in Italia di rivoluzioni popolari e di lotte religiose, dei Savoiache “furono tosto l’equivalente dei Lorena e dei Borboni”, della burocraziapiemontese che “serrò nelle sue spire tutta l’Italia”, di Mazzini e Cattaneo

“grandi vinti del Risorgimento”, della prassi corruttrice del giolittismo cheinvischiò anche i socialisti, rei fra l’altro (va segnalata tale indulgenza diRosselli) di avere interrotto la “tradizione socialista locale che aveva avutoin Mazzini, Ferrari e Pisacane i suoi principali rappresentanti”.89 Ne deri-vava che il fascismo “è il risultato più passivo della storia d’Italia, è un gi-gantesco ritorno ai secoli passati, un fenomeno abietto di adattamento e dirinuncia”; e che esso

è nato come per esplosione di fermentazioni nascoste della razza, del-

l’esperienza delle generazioni [...]. Il fascismo si radica nel sottosuolo ita-liano, esprime i vizi profondi, le debolezze esistenti, le miserie del nostropopolo, del nostro intero popolo.90

Queste ultime citazioni le abbiamo tratte da Socialismo liberale , scrittonel 1929, prima cioè della “svolta” del 1932, cui sopra accennavamo; epertanto sarebbe inesatto contrapporle con puntualità formalistica alle te-si sul fascismo fenomeno mondiale. Tuttavia, non è possibile risolvere in-

tegralmente con la cronologia la difformità delle due interpretazioni offerteda Rosselli, perché entrambe, sia pur con diversa accentuazione, si trovanonelle due fasi del suo pensiero politico. Durante la guerra di Spagna, adesempio, che segna il culmine della seconda fase, i richiami rosselliani alRisorgimento, ai suoi esuli, ai suoi volontari, ai suoi legami con la libertàdel popolo spagnolo, non sono dovuti soltanto a nobile enfasi.91

Il fatto è che può cogliersi in Rosselli uno sforzo di sintesi analogo a quel-lo che contemporaneamente, e sia pur da altro punto di vista e con altri ri-sultati, venivano compiendo i comunisti: fondere la considerazione sulfascismo primogenito con quella sui fascismi, fino a cercare di attingere unadefinizione del fascismo come sistema politico proprio di una certa fase del-lo sviluppo della società borghese. Crediamo non vada sottovalutata, negliantifascisti non comunisti, la spinta che a tale slargamento del quadro deri-vò dall’umiliazione di sentirsi rinfacciare che chez nous o mit uns (proprio

89 Rosselli, Socialismo liberale cit., pp. 187, 174, 168, 70.90 Ibid., pp. 167, 173.91 Vedi, per tutti, il discorso da radio Barcellona del 13 novembre 1936, che lanciò laformula “oggi in Spagna, domani in Italia”: “Un secolo fa l’Italia schiava taceva e fre-meva sotto il tallone dell’Austria, del Borbone, dei Savoia, dei preti” (Rosselli, Scritti cit., pp. 166-72).

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così: anche mit uns !) un fenomeno d’inciviltà come il fascismo non sarebbestato possibile:92 rinfaccio democratico che si mescolava (il danno e la bef-fa) alle lodi conservatrici per Mussolini baluardo dell’Occidente contro ilbolscevismo e, nella fervida fantasia di qualche baronetto inglese, novella in-

carnazione di Garibaldi.93

In che cosa consistesse, per Rosselli, la modernità mondiale del fasci-smo non è compito di questo scritto riesporre. Possiamo solo ricordare quan-to egli, senza tuttavia mostrare una reale conoscenza delle tesi sull’imperialismodi Lenin, cui preferisce il De Man, insista sulla novità del capitalismo con-temporaneo che rimproverà (nel 1929)94 al marxismo di non più compren-dere, dato che l’elemento essenziale non starebbe più nella produzione, manella distribuzione e nella morale. L’eclettismo culturale, favorito dalle am-

bizioni superatrici, e l’affrettato desiderio di porsi in una posizione di pun-ta sulla scena politica italiana o addirittura europea, offuscano in realtà inRosselli l’intuizione storico-politica fondamentale, che finisce col venire ar-gomentata in termini poco coerenti e persuasivi. In contraddittorio con Sal-vemini, egli afferma potersi parlare di “sistema economico fascista”, di “tiponuovo di struttura sociale”, di nuova barbarie alleata con un tecnicismo for-sennato.95 Ed è nota la sua definizione dei fascismi come i più perfetti re-gimi di massa della storia: con il che, come già abbiamo fatto notare a

proposito del Volpe, si coglieva del fascismo un aspetto reale, ma nellostesso tempo si distorceva in una interpretazione sostanzialmente morali-stica e aristocratica che rischiava, fra l’altro, di dimenticare proprio le cri-tiche al Risorgimento come movimento di pochi. Secondo Rosselli “la massa,in quanto massa, è brutale, ignorante, impotente, femminile, preda di chifa più chiasso, di chi ha più quattrini, di chi ha la forza e il successo [...].Combattere i regimi di massa fascisti a forza di massa, è tempo perso”.96 Ilsenso della classe operaia come élite della rivoluzione liberale, mutuato da

92 Vedi, su questo punto, le testimonianze di Salvemini, Partigiani e fuorusciti cit.; L.Sturzo, L’Italia e l’ordine internazionale , Torino 1946, pp. 67 sg.; M. Salvadori, Resi-stenza e azione , Bari 1951, pp. 26-28.93 Ceva, L’Istiluto Nazionale cit., p. 11, ricorda il generale Sir George White, amico diChurchill, che “entusiasta di Garibaldi, percorreva la Sicilia segnando le tappe dellacampagna dei Mille; per lui Mussolini e Garibaldi erano una stessa cosa, e, purtroppo,non solo per lui”.94 Rosselli, Socialismo liberale cit., p. 110.95 Cfr. Garosci, Appunti cit., p. 44.96 Rosselli, La lezione della Sarre cit. Corollario di tale atteggiamento è che il fascismonon si batte con il classismo (vedi, ad esempio, Classismo e antifascismo, articolo di fon-do di “Giustizia e Libertà” del 25 gennaio 1935).

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Gobetti,97 non era sufficiente a riempire il vuoto così prodotto e a far fron-te ai compiti sempre più pressanti posti dall’espansione fascista nel mon-do. Non era sufficiente sul piano della teoria e dell’azione politica a lungascadenza, perche la nobiltà del comportamento di Rosselli, fino a che

Mussolini e Ciano non lo fecero assassinare, non ha certo bisogno di esse-re difesa.Il “secondo Risorgimento” non rimase senza opposizione nell’ambito

di Gl, e nel 1935 si svolse in proposito sul settimanale del movimento unadiscussione di notevole vivacità e interesse.98 Aprì il fuoco Andrea Caffi ilquale, portando alle estreme conseguenze la critica al Risorgimento, fallitofin dal nascere, che ha “avuto per sbocco (tutt’altro che inaspettato) il fasci-smo”, e attaccando con particolare veemenza il gretto e culturalmente im-

produttivo Mazzini, negava la convenienza dell’antifascismo a rifarsi alRisorgimento, nel quale “prevalgono elementi, ai quali i nostri avversari han-no più ragione di attingere che non noialtri, sovversivi senza riguardi”. Inun successivo, più elaborato, intervento Caffi chiariva che “la questione sipone non sul piano della cultura storica, ma su quello della pratica”: sul-l’utilità, cioè, per i rivoluzionari di oggi, di prendere come modello gli im-pacciati rivoluzionari di ieri. Con il che il carattere pragmatico del “secondoRisorgimento” era forzato fino a considerare la comprensione della verità

storica totalmente irrilevante per l’efficacia dell’azione politica; ma, nellostesso tempo, veniva individuato un punto che, vedremo fra poco, avrebbemesso in sospetto, anche se con altra motivazione, anche i comunisti: par-lare di secondo Risorgimento non significava distorcere lo sguardo dall’av-venire al passato, non significava “porre una (fosse pure parziale) ‘restaurazione’fra le finalità dell’antifascismo italiano?”. Il Risorgimento, insomma, non losi poteva raddrizzare: era stato quello che era stato, una volta per tutte, mo-to per nulla popolare e guidato, a loro esclusivo vantaggio, da retrive oligar-chie; e come si sarebbe potuto in buona fede negare che l’Italia di Giolitti,che aveva partorito quella di Mussolini, era creatura del Risorgimento?

97 “La classe operaia nella società capitalistica è la sola classe veramente rivoluzionaria”:Rosselli, Socialismo liberale cit., p. 145. Ma, ibid., p. 203, ammoniva i socialisti italia-ni a decidersi: o attendere fatalisticamente che l’Italia si trasformi in Inghilterra, o far-si rappresentanti di tutti gli italiani, e non dei soli, pochi, operai.98 Andrea (Andrea Caffi), Appunti su Mazzini (29 marzo); Gianfranchi (Franco Ventu-ri), Sul Risorgimento italiano (5 aprile); G. O. Griffith, Attorno a Mazzini (12 aprile);Luciano (Nicola Chiaromonte), Sul Risorgimento (19 aprile); Curzio (Carlo Rosselli),Discussione sul Risorgimento (26 aprile); Replica di Gianfranchi e Lettera di un uomo del-la strada (3 maggio); Andrea, Discussione sul Risorgimento, con Postilla di Luciano (10maggio); U. Calosso, Palinodia mazziniana (24 maggio).

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Il supporto ideologico dell’atteggiamento di questa frazione di Gl fuesposto dall’intervento di Nicola Chiaromonte, e consisteva in una violen-ta dissociazione del motivo della libertà, trattato con sensibilità quasi anar-chica, da quello della nazionalità, dando a quest’ultimo un significato, ab

antiquo, totalmente negativo, quello che, appunto, aveva irrimediabilmen-te compromesso il valore di civiltà del Risorgimento. Chiaromonte sbeffeg-giava, conseguentemente, sia Croce e la storiografia liberale, di cui vedeva,non a torto, una difesa nelle tesi raccomandate da Venturi, sia Marx per ilsuo principio della rivoluzione nazionale tappa della rivoluzione sociale.

La posizione rosselliana, fu sostenuta dall’“uomo della strada”, e poi daRosselli stesso. Griffith, l’autore di Mazzini profeta di una nuova Europa, silimitò a difendere la nobiltà del credo spirituale di Mazzini; e Calosso si

prese il gusto di ritorcere l’accusa di reazionarismo in pectore all’antirisorgi-mentismo di Caffi e di Chiaromonte. Rosselli riconobbe anch’egli che, piùche di un problema storiografico, si trattava di un problema del movimen-to rivoluzionario italiano; ma, appunto per questo, è conveniente, si chie-deva, lasciare il monopolio del Risorgimento al fascismo? Egli rispondevadistinguendo due Risorgimenti: quello “ufficiale, prima neoguelfo, poi sa-baudo e sempre moderato”, e quello popolare, in cui nazionalità e libertàerano stati momenti inscindibili; di quest’ultimo, sconfitto fra il 1859 e il

1860, l’antifascismo aveva tutto il diritto e l’interesse a presentarsi come ven-dicatore e continuatore. Ne era riprova la permanenza nel popolo italianodella tradizione risorgimentale democratica, come dimostrava, fra l’altro, ilgrande successo ediloriale delle dispense della Storia del Risorgimento e del-l’Unità d’Italia dello Spellanzon.

La discussione su Gl mise in luce il facile scambio di posizioni (adesempio, rispetto al “popolo” nel Risorgimento: era più “rivoluzionario” ri-vendicarne la presenza, o darne per scontata l’assenza?) e il rischio di astrat-ti giochi dialettici nel maneggio di termini storiografici disancorati dalla lorobase effettuale. Risultava comunque evidente che l’antifascismo non pote-va non fare i conti col Risorgimento, e che la difficoltà consisteva nella ela-borazione di una nuova sintesi, dopo quella liberale, fra dati (per la maggiorparte dei quali non c’era tuttavia, almeno per il momento, che da rifarsi al-le ricerche degli storici tradizionali), nuove spinte politiche e nuove esigen-ze metodologiche.

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5. I socialisti. I comunisti fra Gramsci e il “cosiddetto Risorgimento”

 Anche il socialismo scese in campo su questo terreno. Le fortune del Ri-sorgimento nel socialismo italiano erano state varie, e una indagine accu-rata su di esse servirebbe anche a chiarire quanto di veramente popolarec’era nel mito del Risorgimento, e quanto invece di piccolo-borghese col-to o semicolto. Schematizzando, può dirsi che, alle origini, il movimentooperaio italiano, proprio perché nasceva dalla delusa democrazia risorgi-mentale, dovette, per prendere coscienza della propria originalità, accen-tuare la polemica politica e ideologica contro di quella e contro i dueGiuseppi che ne erano i pontefici massimi. Il maggior attaccamento alletradizioni della sinistra risorgimentale rimase perciò una caratteristica del-le ali destre del movimento, quelle che meno riuscivano a sottrarsi a unaposizione subalterna nei confronti della piccola borghesia democratica, eche erano conseguentemente inclini alla politica dei blocchi con massoni,liberi pensatori, mazziniani e garibaldini.

Il Partito socialista italiano ereditò da questa situazione una relativaindifferenza nei confronti del Risorgimento. Se si scorre, ad esempio, la“Critica Sociale” degli anni 1909, 1910, 1911 non si trova alcuno scrittoche prenda posizione nei confronti del cinquantenario dei fatti conclusi-

vi dell’unificazione, se non due insignificanti articoletti, pur scritti da unmembro della direzione del partito, e che, del resto, rientrano nella cam-pagna per il suffragio universale.99 I giudizi che Marx ed Engels avevanodato sul processo di unificazione italiana100 non stimolarono la elaborazio-ne della problematica che poteva scaturirne per il movimento operaio,

99 S. Cammareri Scurti, La mancata conquista inglese della Sicilia e l’Unità d’Italia, e LaSicilia e il suffragio universale (Dal cinquantenario dei Mille al suffragio universale ), in“Critica sociale”, XX, 1910, pp. 117-19, 228 sg.100 Su di essi, vedi E. Ragionieri, Il Risorgimento italiano nell’opera di Marx ed Engels , in“Società”, VII, 1951, pp. 54-94.

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per quanto, nella nota lettera a Turati del 26 gennaio 1894,101 Engels enun-ciasse un giudizio destinato a divenir classico, e cioè che la borghesia italia-na “non seppe né volle completare la sua vittoria”, cosicché anche all’Italiapoteva applicarsi la tesi di Marx sui paesi che soffrono insieme dello svilup-

po della produzione capitalistica e della mancanza di esso.La sostanziale accettazione dell’alveo del regime parlamentare borgheseper svolgere la propria specifica azione di classe, implicava naturalmente, peril partito socialista, il riconoscimento di certe strutture fondamentali delloStato scaturito dal Risorgimento. Era un riconoscimento che sarebbe statoaspramente rinfacciato dai comunisti delle origini, pronti a vedere, comefece Rakovsky nella discussione sulla “questione italiana” al III congresso del-l’Internazionale comunista (giugno-luglio 1921), nei richiami che alle “tra-

dizioni del Risorgimento” vi sarebbero stati nella “Critica Sociale” (cosa,abbiamo visto, da non prendere alla lettera), una manifestazione del social-patriottismo e del riformismo di Turati.102 Ma era anche un riconoscimen-to che avrebbe fornito in seguito, unitamente a più remote ispirazioni chepotrebbero farsi risalire alle lodi del Manifesto verso l’opera rivoluzionariasaputa svolgere dalla classe borghese, armi polemiche contro la borghesia ita-liana traditrice dei suoi stessi ideali, secondo uno schema che proprio Leninenunciava fin dal 1915, in occasione dell’entrata in guerra dell’Italia:

L’Italia democratica e rivoluzionaria, cioè l’Italia della rivoluzione bor-ghese che si liberava dal giogo austriaco, l’Italia del tempo di Garibaldi, sitrasforma definitivamente davanti ai nostri occhi nell’Italia che opprimealtri popoli, che depreda la Turchia e l’Austria, nell’Italia di una borghesiabrutale, sudicia, reazionaria in modo rivoltante, che all’idea di essere am-messa alla spartizione del bottino, si sente venire l’acquolina in bocca.103

Toccò a Gramsci compiere lo sforzo più complesso di ripensare, in unanuova sintesi socialista, la più recente storia d’Italia. Questo sforzo si basa-va, obiettivamente, sulla maturità raggiunta dal movimento operaio italia-no, che poteva infine riproporsi, senza complessi, il problema del suo rapportocol Risorgimento, sottraendosi alla posizione subalterna che era stata dellasua ala destra, come pure al rifiuto polemico che aveva caratterizzato le sue

101 Vedila in appendice a Lenin, Sul movimento operaio italiano, Roma 1949, pp. 195-97.102 Cfr. La questione italiana al 3° congresso dell’Internazionale comunista, Edizioni delPartito comunista d’Italia, Roma 1921. Rakovsky era stato delegato del Comitato ese-cutivo dell’Internazionale al congresso di Livorno.103 Lenin, Imperialismo e socialismo in Italia, pubblicato sul “Kommunist” nell’agosto1915 (ora in Id., Sul movimento operaio italiano cit., p. 10).

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correnti più vivaci della sinistra. In Gramsci questa maturità si esprime colporre il problema dello Stato in generale, e di quello italiano, della sua ori-gine e delle sue caratterizzazioni storiche, in particolare. Gramsci volle slar-gare la sua attenzione dagli sconfitti del Risorgimento a tutto lo Stato e alla

sua classe dirigente, nelle cui caratteristiche soltanto, del resto, potevano es-ser pienamente colti i motivi di quella sconfitta. Proprio per questo, le fon-ti immediate di Gramsci, nelle sue considerazioni sulla storia d’Italia, vannoricercate non tanto nella tradizione socialista italiana (che, abbiamo ricor-dato, era stata poco sensibile all’argomento), e tanto meno nelle querimo-nie degli epigoni del mazzinianesimo, ma nelle élite critiche che si eranoformate nell’interno stesso della classe dirigente: Salvemini, i liberisti di si-nistra e, in un rapporto di dare e avere, Gobetti.104 Gramsci innestò alcuni

risultati di quella critica nel suo marxismo riattivizzato dalle esperienze le-niniste e della rivoluzione d’Ottobre: e ne derivò quel nuovo quadro delloStato italiano su cui è ancora impegnata la discussione di storici e di politi-ci. Le prese di posizione del Partito comunista d’Italia, che ricorderemo trapoco, fanno sorgere l’interrogativo sulla circolazione e l’influenza che leidee elaborate in forma definitiva nei Quaderni del carcere ebbero nel parti-to della clandestinità e dell’esilio. Si tratta di un problema dalle ampie im-plicazioni, e che il limitato angolo visuale di questo scritto può solo sfiorare.

Pubblicamente Gramsci aveva già manifestato alcune sue tesi risorgi-mentali ai tempi dell’“Ordine Nuovo”, riconoscendo, ad esempio, che “laborghesia italiana è stata lo strumento storico di un progresso generale del-la società umana”, ma che ormai, perso tale ruolo, sta affossando e disgre-gando la stessa nazione da lei creata, cosicché “solo lo Stato proletario, ladittatura proletaria, può oggi arrestare il processo di dissoluzione dell’unitànazionale”: tema, questo, che avrà ampi e caratteristici sviluppi, innestan-dosi in quello della vera unità (non quella del regno sorto “con un vizio diorigine che lo rende incapace, nonché di risolvere, di sentire il problema delpopolo”), da realizzare finalmente con l’alleanza degli operai del Nord e deicontadini del Sud.105

I socialisti delle varie correnti non sembra che approfondissero, nell’esi-lio, questi suggerimenti, né che ne venissero stimolati a proprie originali ri-flessioni, il loro impegno politico-culturale essendo rivolto in altre direzioni.I socialisti non potendo, specie nei primi anni di esilio, non rimanere in

104 Su questo punto, vedi un’osservazione proprio di Gobetti, in La Rivoluzione libera-le cit., p. 129.105 A. Gramsci, L’Ordine nuovo, Torino 1954, pp. 276-78 (L’Unità nazionale ); pp. 327-30 (Tradizione monarchica). Vedi anche, oltre vari spunti disseminati nel volume, il pa-ragone fra Cavour e Giolitti, ritenuto irriverente per il primo (pp. 300 sg.).

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qualche modo fedeli al proprio passato, furono frenati sulla via di quell’in-tegrale riesame dei rapporti politici e di classe sviluppatisi in Italia dal Ri-sorgimento in poi, sulla quale si erano messi sia i comunisti che Gl. I socialistiperciò, proprio perché parte integrante del sistema politico prefascista e

giolittiano, indugiarono a riconoscere nel fascismo un fenomeno che nonfosse solo una parentesi nella “normalità”. Glielo rimproverava Rosselli;106 e,nell’alternativa di polemiche e di collaborazione che caratterizzò i rapportifra socialisti (prima e dopo la riunificazione del 1930) e Gl,107 da parte so-cialista si univa alla critica del carattere generico e aclassista del socialismodi Gl – “anti-capitalismo da ceti medi”, come lo definì Nenni –108 un certofastidio per un atteggiamento che voleva sbarazzarsi con tanta irruenza ditutta una tradizione ancora cara, pur nello sforzo di rinnovamento, al socia-

lismo italiano.Per quanto riguarda i comunisti, la grande svolta compiuta dopo l’asce-sa di Hitler al potere, divide in due fasi, i cui rapporti di continuità e di rot-tura non sono di facile definizione, il loro atteggiamento anche di fronte alproblema che stiamo esaminando: riprova, questa, di quanto esso sia lega-to alla evoluzione generale delle correnti antifasciste, per l’esame delle qua-li costituisce un limilato, ma non impreciso, reattivo.

Nelle Tesi del congresso di Lione (gennaio 1926)109 ricompare con gran-

de evidenza l’argomento, cui già abbiamo fatto cenno, del proletariato co-me unica forza unitaria d’Italia, dato che la “classe industriale non riesce aorganizzare da sola la società intiera e lo Stato”. “La costruzione di uno Sta-to nazionale – si aggiunge –, non le è resa possibile che dallo sfruttamentodi fattori di politica internazionale (cosiddetto Risorgimento)”. E Gramscistesso, autore con Togliatti delle Tesi , che spinge qui a tal punto la criticadello Stato italiano da coinvolgervi, tout court , il Risorgimento: posizione dicui, nel contesto del pensiero di Gramsci, è possibile precisare e chiarire ilsignificato; ma che, nella polemica politica del partito fino agli anni dellasvolta, farà del “cosiddetto Risorgimento” una espressione largamente e sprez-zantemente usata. Partendo dalla premessa, già implicita nelle Tesi di Lione (richiamantesi a quelle del V congresso mondiale sulla divisione di funzio-ni fra fascismo e democrazia), che “la sola politica antifascista è la politicacomunista” e che “la lotta per abbattere il fascismo ed eliminarlo completa-

106 Vedi, ad esempio, Rosselli, Socialismo liberale cit., p. 186.107 Cfr., su questo punto, Arfe, Storia dell’Avanti! cit., passim.108 Cit. da Garosci, Storia dei fuorusciti cit., pp. 78 sg.109 Vedile in Trent’anni di vita e di lotte del Partito comunista italiano, Quaderno di “Ri-nascita”, n. 2, Roma (1952), pp. 93-103.

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mente dalla vita politica italiana coincide con la lotta per la instaurazionedello Stato operaio in Italia”,110 i comunisti conducono un’aspra battagliacontro tutte le posizioni che sembrano prospettare l’ipotesi che il fascismopossa essere invece rovesciato da forze democratiche borghesi, con la conse-

guente restaurazione dello Stato parlamentare e democratico borghese. Co-sì, ad esempio, più volte “Lo Stato Operaio” sente il bisogno di chiarire chela espressione “rivoluzione popolare”, contenuta nella risoluzione sulla situa-zione italiana approvata dal Praesidium dell’Internazionale nel gennaio 1927,non può venire intesa come parola d’ordine mirante ad accodare il Partitocomunista a una rivoluzione antifascista democratico-borghese, ma solo co-me individuazione di una prima tappa, di un periodo di lotte aperte anti-fasciste e per la egemonia del proletariato.111 Tale atteggiamento fu rafforzato

dalla convinzione, espressa dal decimo Plenum dell’esecutivo dell’Interna-zionale (nel 1929, quando ci fu la svolta in senso intransigente – il “social-fascismo” – che portò all’espulsione dal partito italiano di Tresso, Leonettie Ravazzoli) che “il lineamento fondamentale della situazione è l’inizio diuna nuova ondata di movimento rivoluzionario ascendente”.112

Gli atteggiamenti neorisorgimentali dovevano necessariamente fare lespese di una tale politica, secondo la quale, va ancora ricordato tenendopresente che il bordighismo non fu eliminato d’un colpo (Bordiga fu espul-

so solo nel 1930), “il proletariato non deve rivendicare la conquista demo-cratico-parlamentare”.113 Fin dal primo numero di “Lo Stato Operaio”,nell’Ediloriale già citato, si polemizza infatti contro coloro che “parlanodella battaglia contro il fascismo nei termini di Mazzini e del liberalismo ditre quarti di secolo fa”; e in un articolo dell’anno successivo,114 sbozzate ra-pidamente le “stentate vicende del cosiddetto Risorgimento”, e ricordato che“i tratti caratteristici del regime fascista non sono altro che lo sviluppo, lo-gico e conseguente sino alle conseguenze estreme, di principi, di consuetu-dini e di stati di fatto i quali erano insiti nello stesso regime statutario”, siconcludeva affermando che “l’antifascismo liberale democratico e socialde-mocratico non spezza il cerchio di questa politica. È un momento di essa.È una posizione di attesa e di riserva”.

110 Editoriale del primo numero di “Lo Stato Operaio”, I, 1927.111 Vedi, ad esempio, l’Editoriale, in “Lo Stato Operaio”, I, 1927, n. 4, e le Osservazio-

ni sulla politica del nostro partito, ivi, II, 1928, p. 332.

112 Cfr. l’editoriale La conquista della maggioranza, in “Lo Stato Operaio”, III, 1929, p.465.113 La riforma costituzionale , in “Lo Stato Operaio”, I, 1927, p. 1077.114 Lo Statuto e la lotta per la libertà, in “Lo Stato Operaio”, II, 1928, pp. 225-29.

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L’attacco frontale contro il Risorgimento, vecchio e nuovo, doveva ve-nir sferrato da Togliatti nel corso di un violento articolo contro Rosselli eGiustizia e Libertà.115

Una prima presa di posizione nei confronti di Gl si era avuta nel nume-

ro precedente della rivista, con un articolo di Giorgio Amendola, riesponen-do le tappe del cammino da lui e da altri compiuto dal gobettismo (si citaRisorgimento senza eroi ) al Partito comunista d’Italia, riconosceva che altrigobettiani erano invece passati a Gl, verso la quale egli usa un linguaggio unpo’ meno aggressivo di quello di cui poco dopo si sarebbe servito Togliat-ti.116

Il quale, fors’anche perché preoccupato di una certa forza di attrazioneche Gl mostrava di esercitare sui comunisti che uscivano dal partito,117 tiene

a considerare assurdo ogni parallelo fra Gobetti e Rosselli: l’uno povero, pen-satore originale, rivoluzionario; l’altro ricco, dilettante dappoco, revisioni-sta ignorante del marxismo fino alla malafede. L’obiettivo politico principaledell’articolo è espresso con chiarezza:

Giustizia e Libertà – scrive Togliatti – rappresenta, in questa crisi, iltentativo più vasto che sino ad oggi sia stato fatto dalla intellettualità pic-colo-borghese e dalla piccola borghesia radicale per darsi una posizionepolitica autonoma, assumendo essa la direzione di tutto il movimento

antifascista.Contro tentativi di tal genere la replica dei comunisti non poteva mai

essere troppo dura.L’ideologia del “nuovo Risorgimento” è vista da Togliatti come strumen-

tale rispetto all’ambizione politica di Gl. Già nell’articolo di commento aiPatti lateranensi Togliatti aveva parlato del “Risorgimento” e della “TerzaItalia” come ideologia autonoma che la borghesia italiana aveva tentato didarsi, peraltro con meschini risultati.118 Ora scrive che

la dissoluzione del mito del “Risorgimento” nazionale è uno dei ri-sultati cui era già arrivata la critica storica più spregiudicata. Nella propa-ganda di Giustizia e Libertà il mito viene restaurato in pieno, e nella suaforma più pacchiana, nella stessa forma, del resto, in cui lo si trova, col

115 Ercoli, Sul movimento di “Giustizia e Libertà” , in “Lo Stato Operaio”, V, 1931, pp.463-73.116 G. Amendola, Con il proletariato o contro il proletariato? (Discorrendo con gli intellet-

tuali della mia generazione ), in “Lo Stato Operaio”, V, 1931, pp. 309-18.117 Cfr., su questo punto, Garosci, Storia dei fuorusciti cit., pp. 77-99.118 Ercoli, Fine della questione romana, in “Lo Stato Operaio”, III, 1929, p. 128.

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marchio di dottrina ufficiale, nei “libri di Stato” del fascismo per le scuo-le elementari. Il “Risorgimento” è, per il piccolo-borghese italiano, comela fanfara militare per gli sfaccendati. Fascista o democratico, egli ha bi-sogno di sentirsela squillare agli orecchi, per credersi un eroe. Il “Risorgi-

mento” italiano è stato – siamo tutti d’accordo – un movimento stentato,limitato, rachitico. Le masse popolari non vi partecipano. I suoi eroi so-no figure mediocri di uomini politici di provincia, di intriganti di corte,di intellettuali in ritardo sui loro tempi, di uomini d’arme da oleografia.Ma tutto questo non è stato un caso, tutto questo ha avuto una ragione.

E la ragione sta nel fatto che la borghesia italiana, non avendo volutorisolvere il problema della terra e della distruzione totale della feudalità,non poté essere conseguentemente rivoluzionaria “per la paura che il suo po-

tere venisse travolto prima ancora di essere saldamente instaurato”. Ma ap-punto perciò, prosegue Togliatti, “è assurdo pensare che vi sia un ‘Risorgimento’da riprendere, da finire, da fare di nuovo, e che questa sia il compito del-l’antifascismo democratico”. Infatti, il capitalismo italiano è ormai divenu-to imperialismo, è nata la moderna lotta di classe e i contadini si trovano difronte proprio la borghesia risorgimentale, reazionaria oggi come ieri.

La tradizione del Risorgimento vive quindi nel fascismo, ed è statada esso sviluppata fino all’estremo. Mazzini, se fosse vivo, plaudirebbe al-le dottrine corporative, né ripudierebbe i discorsi di Mussolini su “la fun-zione dell’Italia nel mondo”. La rivoluzione antifascista non potrà essereche una rivoluzione “contro il Risorgimento”, contro la sua ideologia, con-tro la sua politica, contro la soluzione che esso ha dato al problema del-l’unità dello Stato e a tutti i problemi della vita nazionale. Le questioniche il Risorgimento, come rivoluzione borghese, non ha risolto, dovran-no essere risolte contro la classe che fu protagonista del Risorgimento, dal-la classe che oggi è rivoluzionaria, dal proletariato [...]. I borghesitengono curvi i contadini sotto il giogo del capitale. Le fantasie sul “se-condo Risorgimento” sono fatte solo per nascondere questa realtà.

 Abbiamo riportato ampiamente l’articolo di Togliatti non solo perché isuoi argomenti verranno ripresi in numerosi scritti di “Lo Stato Operaio”,119

119 Vedi, ad esempio, E.R., Il programma di “Giustizia e Libertà” , in “Lo Stato Opera-io”, VI, 1932, pp. 87-96; e, soprattutto, due articoli di R. Grieco, Il programma agra-rio di “Giustizia e Libertà” , ivi, pp. 157-65, e  Ancora sul programma agrario di 

“Giustizia e Libertà” , dove, a p. 671, scrive: “Ah, no, bastardi di Giuseppe Mazzini (de-finiti poco prima ‘imbroglioni quanto il loro antenato’)! Non l’avete voluta e non l’ave-te fatta nel 1848 una rivoluzione contadina, e oggi ve ne venite fuori con la riformetta”.

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ma perché, connesso al significato politico immediato cui sopra abbiamofatto cenno, l’articolo ne ha un altro che si presta a considerazioni piùgenerali.

I comunisti si trovarono infatti di fronte a un problema analogo a

quello che richiamava l’attenzione di Rosselli: fondere la considerazione sulfascismo come fenomeno mondiale caratterizzato dalla “dittatura terrori-stica aperta degli elementi più reazionari, più sciovinisti, più imperialisticidel capitale finanziario” (secondo la nota definizione datane poi da Stalinnel 1933), con l’altra sul fascismo legato a tutte le tare storiche di un pae-se ben individualizzato come l’Italia. Era un problema di largo respiro le-gato alla struttura composita dell’Italia (anello forte o anello debole?) e, indefinitiva, a quella che sarebbe stata poi la controversia sulla “via italiana al

socialismo”.I comunisti, in effetti, proprio mentre sembravano spingere alle più dra-stiche conseguenze la tesi del Risorgimento fallito potevano (e possono)soltanto fino a un certo punto farla integralmente propria. Per quanto me-schino e stentato, il Risorgimento non può tuttavia non rimanere, marxi-sticamente, il processo storico che ha portato in Italia al potere la borghesia:borghesia asfittica, poco coerente, che non ha saputo legarsi i contadini ec-cetera, ma pur sempre borghesia.120 Non solo. Ma tale borghesia, sia pure al-

la retroguardia e col fiato grosso, ha seguito poi una linea di svilupposostanzialmente simile a quella delle altre borghesie, ed è divenuta imperia-listica come tutte le altre. Si tratta, anche qui, di un imperialismo sui gene-ris , da straccioni, ma, contro tutte le altre proposte d’interpretazione delfascismo, “sul carattere imperialistico del capitalismo italiano non vi posso-no essere dubbi”, come scriveva Longo.121 E Togliatti, polemizzando con Sal-vemini, affermava che non la mania di grandezza o la buffoneria di Mussolini

Rivelatrice del complesso di borghesismo che affliggeva Gl di fronte ai comunisti e larisposta, Sulla questione agraria, comparsa nel n. 6, marzo 1933, dei “Quaderni di Giu-stizia e Libertà” (pp. 75-78), in cui si offre il seguente sillogismo: chiunque si batte og-gi per la rivoluzione contadina, “a parte le differenze di dettaglio” non può, “perdefinizione”, essere borghese; Gl si batte per la rivoluzione contadina; dunque Gl nonè borghese.120 Di qualche interesse, in questa direzione, la comunicazione presentata al X congres-so internazionale di scienze storiche dalla sovietica Lina Misiano, Alcuni problemi di sto-ria del Risorgimento italiano, Mosca 1955.121 L. Gallo (Luigi Longo), Aspetti dell’imperialismo italiano , in “Lo Stato Operaio”, VI,1932, p. 147.

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stavano alla radice della politica estera fascista, ma le basi obiettive dell’im-perialismo italiano, debole, ma non per questo non aggressivo. Togliatti neprendeva spunto per un’altra spallata al Risorgimento:

Fa ridere – scriveva – sentir accennare qua e là a una politica estera

del “Risorgimento italiano” che sarebbe stata qualcosa di grande, di gene-roso, idealistico, rettilineo. Per dirla con Marx, non vi è stato nulla di piùsordido e pidocchioso della manovra diplomatica, durata più di venti an-ni, attraverso la quale la dinastia dei Savoia riuscì a trasformare il suo re-gno di Sardegna in regno d’Italia.122

In un discorso di tal tipo, volto a mostrare di quali meschine lacrimegrondasse il capitalismo italiano, il settarismo politico e lo schematismo

ideologico erano mescolati a un forte senso della irripetibilità degli even-ti storici (le occasioni, la storia, le presenta agli uomini e alle classi una vol-ta sola) e a una intransigente affermazione della novità dei tempi imperialistici,destinati a sfociare nella instaurazione della dittatura del proletariato nel-la Repubblica mondiale dei Soviet, con totale eversione non solo dellestrutture economiche capitalistiche, ma anche delle forme politiche dellademocrazia borghese-parlamentare: nella totale sotituzione, insomma, diuna civiltà a un’altra.

Più pensoso della complessità del nodo storico dell’Italia moderna, ilGramsci dei Quaderni del carcere è tratto a non scavare abissi tra l’ieri el’oggi. Gramsci volle far quadrare l’esperienza del Nord, dove gli operaisi trovano di fronte una borghesia con caratteri ormai abbastanza analo-ghi a quelli della borghesia occidentale, con l’esperienza meridionale deicontadini rimasti vittime anche della insufficiente rivoluzione borghese.Gramsci, insomma, tentò di cogliere l’individualità italiana in questa coe-sistenza, nell’ambito di uno stesso Stato, di un anello forte e di un anel-lo debole. Va addebitato all’uso superficiale delle tesi gramsciane,nonché a certe caratteristiche, che non possiamo qui esaminare, dell’azio-ne del Pci nel dopoguerra, la conseguenza, assai semplicistica da un pun-to di vista marxista, che alcuni sembra abbiano voluto trarne: e cioè cheil rimprovero principale da muovere alla borghesia italiana sarebbe statodi essere borghesemente poco coerente. No, avrebbe risposto “Lo StatoOperaio”: ciò che si deve, senza rimpianti, rimproverare alla borghesiaitaliana (se avessero un senso rimproveri di tal fatta) è di essere, pura-mente e semplicemente, borghesia. È nella rigidezza di questa posizioneche va intesa la denuncia del “cosiddetto Risorgimento” come tentativo

122 Ercoli, Per comprendere la politica estera del fascismo italiano, in “Lo Stato Operaio”,VII, 1933, pp. 270-76.

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d’individualizzare il giudizio sul fascismo italiano, senza però cedere allelusinghe della democrazia borghese.

La tesi generale sulla “stabilizzazione relativa” del capitalismo era stataapplicata all’Italia affermando che il fascismo era il tentativo di stabilizza-

zione di “un paese a economia prevalentemente agricola, sprovvisto di ma-terie prime e di mercati esterni e di un largo mercato di consumo interno”.123

E, nelle Osservazioni al “Progetto di programma della Internazionale Comu-nista” presentate alla Commissione del programma del VI congresso mondiale dalla delegazione del Partito Comunista d’Italia (1928), si criticava l’uso trop-po generico del termine fascismo, sostenendo che vi sono forme di reazio-ne aperta che non possono a quello assimilarsi. Il fascismo sarebbe infatticaratterizzato dalla debolezza capitalistica del paese e dalla possibilità di ap-

profittare di uno spostamento e di un movimento di masse della piccola bor-ghesia rurale e urbana.124 Sono le tesi che Togliatti riprenderà e svilupperà,ricollegandole a vari motivi gramsciani sul Risorgimento e sullo Stato da es-so scaturito, nel saggio A proposito del fascismo, scritto anch’esso in occasio-ne del VI congresso dell’Internazionale.125

 Alle soglie poi della svolta del 1933-35, Grieco scriverà un interessantearticolo126 di contrappunto al dibattito che si sviluppava fra i fautori, soprat-tutto giellisti, del “secondo Risorgimento”, ricordando che non poteva ave-

re senso sperare in una “rivincita” dei “principi giusti” che nel Risorgimentoavevano avuto la peggio di fronte a quelli “falsi”. Grieco riprendeva alcunedelle critiche rivolte da Gramsci al Partito d’Azione, rimproverava a Gari-baldi, che nel 1860 avrebbe potuto diventare il “Washington italiano”, diessersi invece impigliato in una “diplomazia di bassa lega” e, ribadendo chei problemi non risolti dal Risorgimento potevano ormai esserlo solo nel nuo-

123 Così nelle Tesi presentate dal Comitato centrale alla II conferenza del Partito Comuni-

sta d’Italia (La situazione italiana e i compiti del partito), in “Lo Stato Operaio”, II, 1928,p. 127.124 Ibid ., pp. 478-80.125 Ripubblicato in “Società”, VIII, 1952, pp. 591-613, accompagnato da una breve no-ta in cui Togliatti, ricordando che l’articolo era nato per combattere sia la negazione so-cialdemocratica dell’identità fascismo-capitalismo, sia le tendenze comuniste a chiamarefascismo ogni forma di reazione dimenticando le caratteristiche del fascismo tipo, quel-lo italiano, concludeva che il dibattito sulla natura del fascismo era poi stato risolto daStalin con la definizione già da noi ricordata (la quale sembra, invece, ricadere proprionell’appiattimento che Togliatti volle criticare nel 1928).126 R. Grieco, Centralismo e federalismo nella rivoluzione italiana, in “Lo Stato Opera-io”, VII, 1933, pp. 424-22. Cfr. anche un successivo articolo di Longo: L. Gallo, Cen-

tralismo, federalismo e autonomia, in “Lo Stato Operaio”, pp. 647-61.

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vo quadro di classe, affermava con orgoglio che “l’introduzione al program-ma dei comunisti italiani è la storia d’Italia”. Subito dopo chiariva moltobene la differenza fra la “continuità” rivendicata dai comunisti e quella dicui si faceva invece banditore l’antifascismo borghese: “Il partito del prole-

tariato rivoluzionario italiano non è il continuatore di nessun partito stori-co, ma solo del movimento politico del proletariato, dal momento in cuiquesto è sorto dalla nuova classe rivoluzionaria”. Con il che, tuttavia, insie-me alla tradizione dei partiti politici italiani si rischiava anche di espungeredal socialismo ogni tradizione di pensiero democratico, pur nei limiti, cer-to modesti, in cui esso si era manifestato in Italia.

La svolta operata dopo il 1933, e sanzionata dal VII congresso della In-ternazionale (1935), è evento di troppo vasta portata nell’intero comunismo

mondiale per poter essere valutato adeguatamente in questa sede. La neces-sità di far fronte a Hitler e alla minaccia di guerra che scaturiva dalla sua asce-sa al potere spinge l’Urss e i comunisti a uscire dallo splendido isolamentofino ad allora mantenuto. Essi, si convincono che, nella lotta contro il fasci-smo mondiale (la Francia, nel febbraio 1934, era apparsa anch’essa sull’or-lo dell’abisso), il proletariato (e l’Urss sul piano diplomatico) non può “fareda sé”, ma ha bisogno di alleanze che, ormai, è in grado di sollecitare senzatema di restarne inquinato, poiché ha alla sua testa un partito e uno Stato

per definizione incorruttibili, quali appunto sono il Partito comunista el’Unione Sovietica. È vero, le tesi sul “fronte unico” erano state approvatefin dal 1921 dal Comitato esecutivo dell’Internazionale, e nel congresso diLione del PCdI il tema era stato ampiamente sviluppato. Ma proprio a Lio-ne si era chiarito che la tattica del fronte unico mirava a unificare il prole-tariato sulle posizioni comuniste; tanto che essa, come azione politica, venivadefinita “manovra” volta a smascherare i dirigenti di partiti e gruppi sedi-centi rivoluzionari, per strappare loro la base, alla quale, quindi, direttamen-te ci si rivolgeva.

Con la tattica dei fronti popolari, inaugurati concretamente in Francia,ci si sposta invece su un altro piano: si cerca l’accordo di vertice con partitie movimenti non comunisti, in quanto tali. È caratteristica, al riguardo, lapolemica sulla “unità organica”, svoltasi coi socialisti: nel 1932 Grieco spie-gava che la tattica del fronte unico consisteva nello stabilire l’unità di lotta“con qualsivoglia organizzazione o gruppo di proletari disposto a battersi peruna rivendicazione di classe, quale che sia”.127 Nei programmi di unità anti-fascista seguiti alla svolta, i comunisti, invece, tennero proprio a escluderele precise rivendicazioni di classe, e perciò contrastarono la tendenza socia-

127 R. Grieco, Per il fronte unico proletario di lotta, in “Lo Stato Operaio”, VI, 1932, p.749.

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lista a vedere nel riaccostamento dei due partiti l’avvio alla unità organicadella classe operaia.128 C’era, in questo atteggiamento comunista, il deside-rio di sfruttare fino in fondo la nuova tattica (che si rivolgerà infatti semprepiù anche a gruppi e partiti per nulla proletari e “a tutti gli uomini sempli-

ci e di buona volontà”), senza tuttavia rinunciare completamente all’antica,conservando intatto il nucleo comunista come unica élite dirigente dell’in-tero gruppo di alleati.129 Insomma: verso l’esterno apertura, larghezza e dut-tilità, fino al più spicciolo realismo; all’interno, ferma preservazione delcarattere accentrato e burocratico del partito, che sembrava condizione in-dispensabile per affrontare senza rischi questa ed eventualmente altre svol-te, a prescindere dal loro contenuto.

 Altro, naturalmente, dovrebbe essere il discorso sui risultati che, al di là

delle iniziali intenzioni dei gruppi dirigenti, furono provocati dalla svoltanella composizione e nella natura dei partiti comunisti, quello italiano inparticolare. La svolta, infatti, secondo il costume comunista, fu subito ideo-logizzata, e da espediente tattico e diplomatico, sia pur di vasta portata, sug-gerito da una situazione di emergenza, tese sempre più a trasformarsi inpiattaforma programmatica di quello che fu poi detto il “partito nuovo”, ri-tenuto senz’altro tale da molti arrivati al comunismo durante e subito dopola Resistenza. La “doppia anima” del Partito comunista italiano, e la equi-

voca formulazione della “via italiana al socialismo” hanno la loro origine inquesto carattere ambiguo della svolta, che, non va dimenticato, si compì inconcomitanza con i definitivi giri di vite della dittatura personale di Stalin.

L’atteggiamento comunista verso il Risorgimento (e chiudiamo così ladigressione, necessaria tuttavia per dare un senso a quanto ora diremo) ri-sentì subito del mutamento avvenuto nella direzione politica e di quella chesopra abbiamo chiamato la sua ideologizzazione. Innanzi tutto, non potevavenir mantenuto, nemmeno sul piano ideologico, il totale e sprezzante ostra-

128 Vedi al riguardo (“Lo Stato Operaio”, VIII, 1934, pp. 570-80) le due Dichiarazio-ni , del Psi e del Pci, allegate al “patto d’accordo” (il primo) del 17 agosto 1934, e l’ar-ticolo di commento di Grieco che, pur nel titolo, Per l’organizzazione del fronte unico,tende a rivendicare la continuità della politica comunista (pari tentativi facevano i so-cialisti: ma è evidente che sia l’uno che l’altro partito, nel realizzare l’unità di azione,operarono una svolta). Cfr., su tutta la discussione, Arfè, Storia dell’Avanti! cit., pp. 109-20.129 Scriveva Togliatti, in piena svolta, che “la sola garanzia reale della vittoria della clas-se operaia sulla borghesia, in tutti i momenti della lotta e particolarmente nei momen-ti supremi, è il fatto che esista un partito bolscevico e che questo partito non rinuncimai alla sua funzione di direzione e alla sua iniziativa rivoluzionaria” (Ercoli, Problemi 

del fronte unico, in “Lo Stato Operaio”, IX, 1935, p. 510).

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cismo contro quei gruppi antifascisti non comunisti di cui ormai si solleci-tava la collaborazione: non si poteva più parlare, rivolgendosi al Psi, di “so-cialfascismo”;130 non si poteva continuare a insultare i democratici borghesisensibili a certi movimenti risorgimentali, ma bisognava scendere a più sot-

tili distinzioni.L’obiettivo politico immediato della lotta contro il “cosiddetto Risorgi-mento” veniva in tal modo a cadere. Si doveva inoltre necessariamente ridarfiducia a motivi popolari e popolareschi ritenuti idonei a commuovere lemasse; e Garibaldi si sarebbe trovato, fra questi, in prima fila. Ma, accantoa queste manifestazioni tattiche per le quali la intransigenza settaria sem-brava cedesse il posto solo a improvvisazioni e confusionarismo, quasi chel’apertura politica dovesse essere scontata con una perdita di chiarezza intel-

lettuale, il nuovo atteggiamento, almeno in chi veramente lo sentì come ta-le, si sarebbe dimostrato capace di meglio riprendere certi temi cari al pensierodi Gramsci.

Il lunghissimo appello lanciato nel 1935 dal Comitato centrale del par-tito contro la guerra di Etiopia, Salviamo il nostro paese dalla catastrofe! ,131

che pur finiva ancora con le parole “Viva l’Italia proletaria! L’Italia Sovieti-ca!”, fu una delle prime ufficiali manifestazioni del nuovo corso.

Tutto ciò che vi fu di progressivo, di rivoluzionario – affermava l’ap-

pello – nelle lotte del secolo scorso e di questo secolo, appartiene al pro-letariato, è nostro! Noi continuiamo le lotte dei nostri nonni, proseguitedai nostri padri, contro gli oppressori d’Italia, per le libertà popolari, peril benessere delle masse lavoratrici.

Seguiva la consueta diagnosi sulla borghesia italiana mai stata rivoluzio-naria e sulla classe operaia unica capace di fare ciò che quella non aveva fat-to; ma, contro il fascismo nato dalle forze che avevano soffocato la rivoluzionepopolare del Risorgimento, si rivendicava per sé l’eredità di quella rivolu-zione, operando così una distinzione che apriva la porta al reingresso delRisorgimento (o meglio, di una delle facce di esso) fra i beni del patrimo-nio socialista: “La bandiera che passa dalle mani di Pisacane e di Garibaldia quelle di Andrea Costa e dei pionieri del movimento socialista, e, oggi, nel-le mani del partito comunista”. Il manifesto, che si rivolgeva a comunisti,socialisti, massimalisti, repubblicani, anarchici, cattolici e fascisti, trovava ilsuo suggello nel lancio di quella politica di “riconciliazione del popolo ita-liano”, di fascisti e “non fascisti”, che doveva spingersi, senza che fosse più

130 Nella ricordata Dichiarazione del Psi annessa al patto del 1934, si diceva appuntoche, con il patto, il Pci mostrava di aver ripudiato la teoria del “socialfascismo”.131 In “Lo Stato Operaio”, IX, 1935, pp. 241-60.

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possibile distinguere la spregiudicatezza dalla ingenuità o dall’opportuni-smo, fino a rivendicare il programma fascista del 1919 come programma dilibertà.132

Che la nuova posizione riportasse alla ribalta il problema del Carattere 

internazionale della rivoluzione proletaria e le “particolarità nazionali” , è mo-strato dall’articolo che con questo titolo, e a commento dell’appello del 1935,fu scritto da Ruggero Grieco,133 che appare fra i dirigenti comunisti più im-pegnati a dare una base culturale alle posizioni del partito. Grieco che, nelgià ricordato scritto attorno al Patto d’accordo coi socialisti del 1934, avevacon sincera enfasi scritto: “Diffondiamo fra le masse lavoratrici il pathos del-la patria socialista [...] Oggi la Unione dei Soviet e la Repubblica Sovieticacinese sono la nostra patria. Grande fatto per il proletariato del mondo in-

tero, quello di avere finalmente una patria”, si sforza di far quadrare questoatteggiamento con la rivendicazione del carattere nazionale del Partito co-munista italiano. Egli concede ai polemisti di Gl che nell’Appello c’è delnuovo: ma non, come essi credono, un nuovo meramente tattico, bensìl’organico sviluppo di quell’insegnamento di Gramsci che il partito non ave-va ancora saputo mettere bene a frutto. Del resto, non aveva già Engels, nel-la sua lettera a Giovanni Bovio del 14 aprile 1872, osservato che “nel movimentodella classe operaia [...] le vere idee nazionali, cioè corrispondenti ai fatti eco-

nomici, industriali e agricoli che reggono la rispettiva nazione, sono semprenello stesso tempo le vere idee internazionali ”? “Noi possiamo dunque – con-cludeva Grieco – giustamente richiamarci alla tradizione rivoluzionaria delRisorgimento nazionale, cioè alla tradizione delle lotte popolari per la liber-tà”: e questa continuità è in Italia più intima che nei paesi capitalisticamen-te più avanzati, proprio per il rachitismo delle soluzioni risorgimentali; néè possibile confondere questa posizione comunista con il filisteismo dei “so-cialisti nazionali” piccoli borghesi.

 A questo motivo di rivalutazione della pur sconfitta democrazia risorgi-mentale si aggiunge, da parte, ad esempio, di Emilio Sereni,134 l’altro di di-fesa addirittura dello Stato liberale e borghese in quanto tale: con il che dauna parte si estendeva la tattica delle alleanze fino alle ali destre della bor-ghesia, dall’altra si poteva riprendere il motivo del riconoscimento, marxi-sticamente indispensabile, di un qualche sviluppo borghese italiano. Ed è

132 Vedi l’appello Per la salvezza dell’Italia, riconciliazione del popolo italiano! , pubblica-to come editoriale del numero di agosto 1936 di “Lo Stato Operaio”. Contro questo“diciannovismo ritardatario”, vedi le reazioni dei socialisti in Arfè, Storia dell’Avanti! cit., pp. 244 sgg.133 In “Lo Stato Operaio”, IX, 1935, pp. 404-16.134 E. Sereni, XX Settembre , in “Lo Stato Operaio”, X, 1936, pp. 588-92.

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sintomatico che a questo tema si dimostrasse sensibile proprio chi, comeSereni, si dedicava allo studio del capitalismo nelle campagne italiane, cioèdei reali, se pur particolarmente contraddittori, effetti borghesi del Risorgi-mento, e non di quelli mancati. Perciò Sereni, rivendicando il valore del XX 

settembre come momento in cui la classe dirigente italiana compie final-mente un atto di significato europeo e mondiale, può affermare che, “no-nostante tutta la sua incompletezza e incoerenza”, il Risorgimento rimaneun fatto “obiettivamente rivoluzionario”, avendo creato in Italia lo Stato mo-derno, borghese, s’intende, ma unitario, indipendente, laico, costituziona-le, “autonomo” (nel senso dello Spaventa): quello Stato che il fascismoaveva dovuto, per disfrenare tutta la sua carica reazionaria, distruggere, eche è compito di tutti gli italiani “che non rinnegano e non arrossiscono

delle lotte dei loro padri”, rivendicare.La guerra di Spagna doveva essere l’occasione della glorieuse rentrée diGaribaldi nel mondo del comunismo italiano e internazionale. Il nome diBrigate Garibaldi nacque in Spagna; e durante quel periodo la stampa co-munista (e non solo comunista) è piena di richiami all’eroe dei due mondi.La politica del fascismo in Spagna, scriveva Dimitrov, “è in stridente con-trasto con le tradizioni democratiche e rivoluzionarie che si incarnano nel-la immortale figura di Garibaldi, eroe del popolo italiano, e sono patrimonio

inalienabile del popolo italiano”.135

“Dovunque si rammenta la libertà, il nome di Garibaldi le tien dietroquasi eco di quella”: queste parole del Guerrazzi furono da Giuseppe Bertiposte come epigrafe in testa al primo di due suoi articoli dedicati a Garibal-di.136 Berti ripeteva ancora una volta che se i comunisti parlano di Risorgi-mento ciò non significa che essi pensino ci sia in Italia una rivoluzionedemocratico-borghese da compiere. Questo può crederlo Gl quando pre-tende di porsi alla testa di tutto l’antifascismo, mentre invece, come ammo-niva in quel torno di tempo Montagnana, meglio farebbe a dedicarsi, piùmodestamente, ma più utilmente, a organizzare le frazioni antifasciste del-la media e piccola borghesia.137 Berti rivendica la continuità del primo so-cialismo italiano con il garibaldinismo, che, proprio per questo, solo in partepuò considerarsi sconfitto; e rivaluta il significato rivoluzionario di Garibal-di, in virtù certo dell’istinto e non della teoria rivoluzionaria: ma fra il buon

135 Vedi il saluto inviato alla rivista per il suo decimo anniversario, in “Lo Stato Opera-io”, XI, 1937, p. 188.136 Jacopo, Garibaldi nella rivoluzione nazionale italiana, in “Lo Stato Operaio”, X, 1936,pp. 599-609; G. Berti, L’attualità di Garibaldi , ivi, XI, 1937, pp. 386-99.137 M. Montagnana, Franche parole a “Giustizia e Libertà” , in “Lo Stato Operaio”, XI,1937, pp. 379-85.

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istinto e la cattiva teoria, caratteristica di Mazzini, la scelta deve essere tut-ta a favore del primo. Caratteristico è il rimprovero che Berti muove a Ga-ribaldi: non quello dell’“ascetico e settario” Mazzini, di essersi messo d’accordocon la monarchia, bensì l’altro di non aver saputo, in quell’incontro, essere

il più forte, mantenendo in mani democratiche la direzione del fronte uni-co delle forze nazionali. Insomma, Garibaldi aveva avuto il merito di essere“unitario”, ma il demerito di essersi fatto rimorchiare dagli alleati, anzichérimorchiarli.

La riscoperta di un filone democratico del pensiero politico italiano di-veniva una delle conseguenze del nuovo corso: e ancora Berti vi si sarebbededicato con impegno qualche anno dopo, in America, durante la guerra.138

 Avrebbe allora espresso giudizi più equanimi su Mazzini, facendo sue le bel-

le parole di Cattaneo: “Reputava vittorie anche i disastri, purché si combat-tesse”; e avrebbe invitato a non limitarsi a ripetere all’infinito i giudizi diMarx ed Engels sui democratici italiani del Risorgimento, i quali, poi, nonfurono tutti trasformistizzati, che altrimenti fra Garibaldi e Mazzini da unaparte e Crispi e Nicotera dall’altra non ci sarebbe differenza. Contempora-neamente, Berti avrebbe riaffermato con vigore l’irriducibilità fra democra-zia e liberalismo e, a maggior ragione, tra democrazia e liberalismo italiano,che era stato nulla più di un moderatismo e di un cattolicesimo non sanfe-

dista, nato e sviluppatosi come reazione all’illuminismo, alla democrazia eal socialismo assai più che come lotta contro l’assolutismo e i residui feuda-li, e perciò legittimo antecedente del fascismo. La parziale assoluzione che,sul terreno strutturale, il marxismo doveva concedere alla borghesia italiananon poteva infatti minimamente estendersi all’azione e al pensiero politicodei moderati.

La rivalutazione dell’illuminismo fu in effetti, ed è ben noto, comune amolti pensatori politici dell’antifascismo; e vogliamo qui ricordare come,quasi contemporaneamente a Berti, e pur partendo da altre premesse, Leo-ne Ginzburg, nel saggio citato all’inizio di questo scritto, spezzasse una in-telligente lancia a favore del Settecento, e non per ciò che esso anticipadell’Ottocento, ma proprio per ciò che ebbe di peculiare: fu progressivo inItalia, scriveva Ginzburg, quel romanticismo che seppe continuare anche latradizione dell’illuminismo. Gioberti in particolare faceva, sia in Berti chein Ginzburg, le spese di una tale impostazione; ma Berti, preoccupato di

138 Materiali in preparazione del centenario di Antonio Labriola, saggio comparso anoni-mo, in più puntate, sullo “Stato Operaio” del 1942. Va tenuto presente che la serie ame-ricana della rivista (primo numero: 15 marzo 1940, “anno uno”, senza aggiungere “nuovaserie”) fu pubblicata da Berti per iniziativa personale, e quindi non ha più carattere uf-ficiale.

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salvaguardare da ogni infiltrazione liberale la via democratica al socialismo,si spingeva fino a travolgere anche Gobetti in un giudizio stroncatorio, chefa pendant con quello di Omodeo. Gobetti, simbolo del disorientamentodella gioventù intellettuale del dopoguerra, aveva avuto, secondo Berti,

proprio l’assurda pretesa di trovare gli antenati del movimento operaio e delcomunismo non già nella democrazia (di fronte alla quale egli aveva tutti ipregiudizi insegnatigli dalla reazione crociana), ma nel liberalismo: in con-creto, nelle vecchie cariatidi (Cavour non escluso) che costituivano la clas-se dirigente piemontese. “Vedete un po’ – commentava Berti – che antenatiGobetti regalava alla classe operaia!”. Berti, diversamente dal Togliatti del1931, riconosceva la filiazione di Gl da Gobetti, e ne traeva motivo di ulte-riore condanna per l’autore della Rivoluzione liberale . Errore dei comunisti

era stato quello di non sottoporre a critica radicale le idee di Gobetti, limi-tandosi a cercare di attrarre alla classe operaia i giovani da quello influenza-ti: ma un militante della classe operaia può imparare da Gobetti solo “nellamisura in cui riesce a capire la gravità degli errori in cui cadde”.

Fra il patto tedesco-sovietico del 1939 e l’attacco di Hitler all’Urss cor-re uno dei periodi più travagliati e confusi della storia dei partiti comunistioccidentali. L’elaborazione ideologica, che aveva sempre voluto accompa-gnare con baldanza tutte le svolte, in quei due anni si fa incerta e segna il

passo, racchiusa in un arco che ha al suo inizio la tesi (echeggiante le vec-chie posizioni leniniste del 1914-18) che si tratta di guerra meramente in-terimperialistica, e al suo termine l’altra, che l’aggressione all’Urss ne hamodificato la natura, trasformandola nella “più giusta di tutte le guerre”.139

Il Partito comunista italiano, nelle testimonianze che abbiamo potutoesaminare ai fini della nostra ricerca, partecipa di questa incertezza, pur nondeflettendo dalla opposizione di principio al fascismo. Si ha l’impressione checerti motivi vengano come tenuti in caldo, in attesa di tempi migliori: adesempio, quello del vassallaggio di fronte all’imperialismo tedesco, che dàsempre motivo a citazioni di Garibaldi e degli altri “padri del Risorgimento”;o l’altro dell’indipendenza della Grecia, per cui morirono Santorre di Santa-rosa e i garibaldini italiani; o perfino quello, alla vigilia ormai del giugno 1941,della “tradizionale amicizia” con l’Inghilterra, che ci aveva aiutati nel Risor-gimento e aveva data generosa ospitalità a Garibaldi e a Mazzini.140

139 Vedi, ad esempio, l’editoriale La disfatta dell’hitlerismo libererà l’Italia e assicurerà il suo avvenire , che commenta l’aggressione all’Urss, in “Lo Stato Operaio”, I, 1941, pp.89-96.140 Vedi ad esempio, l’ Appello del Comitato centrale del Pci del 16 maggio 1941: “LoStato Operaio”, I, 1941, pp. 103 sg.

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Erano discorsi d’occasione. Ma fra il 1941 e il 1943 passarono due an-ni che permisero al Partito comunista italiano di presentarsi all’inizio dellaResistenza senza dover rimettere in discussione la parentesi 1939-41, e ri-collegandosi direttamente a quanto in tutti gli anni antecedenti esso era ve-

nuto elaborando.

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6. Il Risorgimento e i giovani del ventennio

Le opinioni che abbiamo finora esaminato sono opinioni di vertice, elabo-rate fra le ristrette élite antifasciste rimaste in patria e, soprattutto, fra i fuo-rusciti. Ma la Resistenza non scaturì dal solo fuoruscitismo, bensì dall’incontrodi esso con gli italiani che mai avevano varcato i confini e che, pure, nongiunsero impreparati all’8 settembre del 1943. Altro discorso sarebbe dun-que da fare sulle reazioni e sui fermenti che l’accaparramento fascista di tut-ta la storia d’Italia suscitò fra i giovani nati sotto il fascismo e privi, fino al1943, di contatti con l’antifascismo politicamente organizzato. Sarebbe undiscorso da inquadrare in quello più ampio su di una generazione che, qua-si da sola, seppe costruirsi, usando i materiali più disparati, una coscienzapolitica e culturale antifascista. Si possono, fra tali materiali, rinvenirne dirisorgimentali?

È indubbio che il Risorgimento abbia agito in molti casi come mito con-formista, provinciale e piccolo-borghese, elemento passivamente accolto nel-la formazione del cittadino disciplinato e rispettoso di una immagine oleograficadella Patria. Ricordiamo che i programmi d’insegnamento della storia nel-le scuole medie, elaborati nel 1936 da De Vecchi di Val Cismon,141 prescri-vevano che

il massimo rilievo deve essere dato in ogni ordine di scuole al proces-so formativo dello Stato unitario italiano che confluisce nel Fascismo, al-la funzione esercitata dalla dinastia Sabauda dal suo primo orientamentoverso l’Italia all’azione decisiva che essa svolse durante il Risorgimento enella più recente vita italiana. E il Risorgimento venga presentato non qua-le materiale conseguenza di sia pur grandi eventi stranieri ma come feno-meno schiettamente italiano le cui origini risalgono ai primordi del

secolo XVIII.

141 Avvertenze generali per l’insegnamento, annesse al R.D. 7 maggio 1936, n. 762.

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Un Risorgimento siffatto, cui poco interessavano le più sottili distin-zioni di un Volpe, entrava bene nel gran calderone monarconazionalfasci-sta: e un uomo sensibile ai problemi educativi come Aldo Capitini ha ricordatodi recente le gravi responsabilità del “patriottismo scolastico”, della “esalta-

zione del Risorgimento italiano” e degli “stimoli della letteratura nazionaledal Foscolo al Carducci e al D’Annunzio”.142

Tuttavia, per quanto il discorso su tale terreno sia difficile, per la quasicompleta mancanza di testimonianze esplicite, una più dignitosa tradizionenell’insegnamento della storia fu mantenuta da alcuni docenti; e l’immagi-ne di un Risorgimento un po’ all’antica, ma nobilmente ravvolto nei suoi purlogori panni liberali, fornì senza dubbio qualche germe di potenziale resi-stenza alla pressione fascista.143 La stessa presentazione della guerra 1915-18

come “ultima del Risorgimento” poteva offrire uno stimolo, per chi era ingrado di ricordarne o di apprenderne la realtà, a porsi, non fosse altro, la do-manda se essa fosse stata veramente dichiarata, combattuta e vinta da Mus-solini. I tentativi, anche se presto falliti, di organizzare associazioni di excombattenti non fascisti (come, ad esempio L’Italia Libera)144 avevano giova-to in questa direzione; e anche giovò il già ricordato libro dell’Omodeo, cheraccoglieva le lettere degli ufficiali combattenti, cercando di ricostruirneun’umanità più ricca e contraddittoria di quella canonizzata e oleografica.

Sia, dunque, per derivazione diretta dagli ultimi fili della tradizioneprefascista, attraverso fortunati incontri nella scuola o, per alcune élite, at-traverso più diretti e precisi canali,145 sia per spontanea reazione alla grosso-lanità dell’insegnamento fascista, nacque in alcuni giovani la spinta a riscoprireun Risorgimento più schietto, come uno dei punti sui quali far leva pertrarsi dalle secche fasciste. Influì su questo atteggiamento il fastidio per ilbolso romanesimo del regime: non di Cesare si desiderava infatti sentirsi fi-gli, ma di quegli uomini che, cento anni prima, avevano tentato di fare del-l’Italia un paese moderno e civile.146

142 Cfr. supra, nota 12.143 In una delle Autobiografie di giovani del tempo fascista , pubblicate a Brescia nel 1947a cura della rivista cattolica “Humanitas”, G.C. parla ad esempio (pp. 9 sg.) del “carat-tere risorgimentale” che ancora informava ai suoi tempi (17 anni nel 1935) la scuolaelementare e media: “idee di libertà e di nazionalità”, “sensi romantici”, filofrancesi-smo e antitedeschismo.144 Cfr. Gavagnin,

Vent’anni di resistenzacit., pp. 157, 182-85; e Garosci,

Storia dei fuo-rusciti cit., pp. 271 sg.145 Vedi, ad esempio, il saggio di Solari, Aldo Mautino cit.146 Ricordiamo un interessante articolo, con accenni autobiografici, di G. Levi, La scuo-

la fascista e la gioventù, in “Lo Stato Operaio”, II, 1942, pp. 207-11. “Noi non ci van-

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Di fronte al nazionalismo fascista, sorgeva la esigenza di riporsi il pro-blema dei rapporti fra nazionalità e libertà, andando a verificare cosa aveva-no davvero pensato al riguardo gli uomini del Risorgimento, soprattuttoMazzini, che i fascisti facevano di tutto per tirare dalla loro. Di “tradimen-

to di Mazzini” avrebbe allora parlato chi, come ad esempio il Capitini cosìpoco tenero verso il Risorgimento patriottardo, vedeva nel genovese coluiche invano aveva riproposto ai distratti italiani il problema della riforma re-ligiosa, nella cui mancanza tutta una tradizione individuava una delle taredell’Italia moderna.147 Dal Risorgimento provinciale, cui era stata assegnatada De Vecchi come termine a quo l’impresa di Pietro Micca, si veniva re-spinti, con l’aiuto dei migliori studiosi non clandestini come, oltre l’Omo-deo, il Maturi,148 al Risorgimento che aveva significato il reingresso dell’Italia

nel circolo della vita culturale, politica ed economica d’Europa. Un Risor-gimento, insomma, che poco quadrava con il fascismo autarchico e corpo-rativo.

La pubblicazione da parte di Giaime Pintor del Saggio sulla rivoluzione di Pisacane venne poi a ricordare l’esistenza di un Risorgimento dichiarata-mente “eretico”: Pintor reintroduceva la tematica della rivoluzione italiana,del socialismo, della ribellione ai miti borghesi, del marxismo; e nel falli-mento pratico di Pisacane e dei mazziniani denunciava pericoli che prova-

vano “la loro realtà di fronte all’Italia unita”.149

Nell’ultima, ben nota, lettera al fratello la frase di Pintor “oggi sono ria-perte agli italiani tutte le possibilità del Risorgimento”, avrebbe definito il“senso del Risorgimento” proprio di alcuni giovani di quella generazione.Che era un Risorgimento non agiografico, e implicitamente da “revisiona-re”, poiché non potevano, quei giovani, presentarsi con l’heri dicebamus deisuperstiti della vecchia classe dirigente prefascista.150

tiamo – scriveva nel 1934 la madre di un antifascista della generazione di mezzo – diessere una fedele copia degli antichi romani – Dio ci liberi! – ma sappiamo essere de-gli autentici italiani, di quegli italiani che nel ’48 seppero soffrire e morire per il benedella Patria” (Elide Rossi, Lettere ad Ernesto, Firenze 1958, p. 101).147 Cfr. A. Capitini, Un’esperienza religiosa dell’antifascismo, in “Il Movimento di libera-zione in Italia”, n. 33, novembre 1954, pp. 60-64.148 Si può fare un confronto fra le voci Risorgimento dell’Enciclopedia italiana e del Di-

zionario di politica (edito dall’Istituto dell’Enciclopedia in collaborazione col partitofascista): scritte entrambe dal Maturi, la prima, problematica, si colloca bene nella tra-dizione liberale; la seconda è invece espositiva e anodina.149 G. Pintor, Prefazione a C. Pisacane, Saggio sulla rivoluzione , Torino 1942.150 “Loro (la vecchia classe dirigente) credono [...] che il fascismo sia stato nient’altroche un’offesa alla cultura mossa da alcuni insipienti. Per loro, tolti di mezzo gli insi-

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Il successo che ebbe al suo apparire (1943) il libro di Salvatorelli, Pen-siero e azione del Risorgimento, si spiega proprio per la spavalderia con cuirompeva lo schema scolastico, attaccando apertamente la monarchia, mo-strando che nel 1861 c’erano stati dei vincitori e dei vinti, e personifican-

do quasi nell’“Antirisorgimento” il “male” d’Italia, sempre vivo e operante,e che con un piccolo e sollecitatissimo trapasso si identificava senz’altro colfascismo. Se l’Antirisorgimento di Salvatorelli è divenuto poi una catego-ria di comodo, in quel momento, alla vigilia della resistenza armata, rap-presentò, per un certo tipo di cultura giovanile, un ben riconoscibile obiettivoda battere.

La guerra fascista del 1940-43, crediamo, non fu mai presentata come“quinta guerra dell’indipendenza”. La Corsica, Nizza, Malta non erano tan-

to sentite, dagli stessi fascisti, nel quadro della tradizione unitaria (niente diparagonabile a Trento e Trieste del 1915), quanto in quello nuovo della espan-sione imperialista, come mostrava il metterle sullo stesso piano della Savo-ia, di Tunisi e di Gibuti; e che anche quelle rivendicazioni imperiali fosseropoi provinciali, è altro discorso. Molti, la maggioranza forse, di coloro cheparteciparono poi alla Resistenza avevano anche combattuto nella guerra1940-43: il senso oscuro dell’ingiustizia di essa e la tensione richiesta dal-l’adempimento di un astratto dovere trovarono dopo l’8 settembre come un

atteso compenso nel collaborare a una impresa collettiva che poteva, final-mente, essere compiuta senza ricorso a criteri di doppia verità. Spunti e pa-role d’ordine risorgimentali, reinterpretati spesso senza un preciso significatopolitico e culturale, entrarono allora a far parte dei materiali che la nuovaesperienza tentava di rifondere in una sintesi originale, anche se non da tut-ti veniva acquistata piena coscienza di tale novità.151

Il Giuntella152 si è sforzato di ricostuire il clima che, nei lager tedeschi,portava gli internati italiani a trasformare la “leggenda” del Risorgimento inuna idea-forza; e ha individuato alcuni motivi eterogenei, dall’equiparazio-ne fra i tedeschi di oggi e gli austriaci di ieri come simbolo di barbarie, alla

pienti, la cultura rimane intatta e perfetta come prima; per noi invece rimane malatacome prima, e sempre in grado di ripetere l’ascesso [...]. Il fascismo affonda le sue ra-dici nel lontano risorgimento”: così U. Alfassio Grimaldi, in una delle  Autobiografie citate supra, nota 143 (pp. 78, 73, 54).151 Gli ufficiali di carriera che parteciparono alla Resistenza possono considerarsi il ca-so limite della continuità pre e post 8 settembre: vedi, ad esempio, la lettera del capi-

tano Franco Balbis, tutta fondata sulla convinzione della perfetta identità fra il darela vita per l’Italia in Africa e il darla ora contro tedeschi e fascisti (Lettere dei condan-nati a morte della Resistenza italiana, Torino 1952, pp. 42 sg.).152 Giuntella, Mito e realtà cit.

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fratellanza degli italiani coi polacchi e con tutti gli altri popoli oppressi dal-la stirpe teutonica; dai ricordi scolastici, ai cori del Nabucco e dei Lombar-di ;153 dalla fierezza dell’esiliato politico, alla sensazione che, pur nella disgrazia,l’Italia ritrovava il suo posto accanto ai popoli d’Europa. In alcuni si ma-

nifestava il desiderio di un “ritorno alle origini” che raddrizzasse un cam-mino finito non casualmente nel baratro; e la nostalgia di un’antica tavoladi valori si confondeva con la spinta a trapassare oltre tutte le esperienzecompiute.

Un atteggiamento di questo tipo si poteva già cogliere (facciamo unesempio fra i molti) in due documenti stilati da un gruppo di giovani, inmaggioranza combattenti, che, tentato invano di prender contatto conl’antifascismo organizzato, vollero ugualmente affermare la loro presenza

pubblicamente (se così può dirsi di un documento clandestino).154

In essi lavolontà, risolutamente affermata, di una “radicale rivoluzione sociale” enon di una semplice “rivolta antifascista”, si appoggiava a un acceso ideali-smo politico, alla “religione della libertà” (ma non quella “illusoria prefasci-sta”), al senso della “gloriosa fatica comune del Risorgimento”; e c’era l’invitoad appendere ai muri i ritratti di Mazzini e di Cavour, e a insegnare ai figlil’inno di Garibaldi.

Dopo l’8 settembre la spontaneità di certi motti e parole d’ordine risor-

gimentali (“bastone tedesco Italia non doma”, inni di Garibaldi e di Mame-li eccetera) si incontrò con i risultati della elaborazione del pensiero politicoantifascista; e il “secondo” o “nuovo” Risorgimento (la parola “Resistenza”,di origine francese, si affermò in Italia a cose fatte) divenne un termine dilargo uso, ma, proprio per questo, atto a coprire atteggiamenti ancor più sva-riati o contrastanti di quelli che erano stati propri delle preesistenti corren-ti antifasciste. Il generico, ma indubbiamente stimolante, richiamo alleprecedenti lotte per la libertà sostenute dal popolo italiano, appena arriva-va al livello dei partiti e delle forze politiche organizzate si frantumava in-fatti in significati profondamente diversi.

153 G. Carocci racconta dei cori verdiani che si levavano dalla tradotta dei prigionieri alpassaggio del Brennero (Il campo degli ufficiali , Torino 1954, p. 46).154 Agli Italiani (novembre 1941) e Ai migliori degli Italiani (agosto 1942), ripubblica-ti poi sul “Bollettino” nn. 1-2, giugno-luglio 1943 del Movimento “Popolo e Libertà”.

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7. Secondo Risorgimento e unità della Resistenza

Può dirsi che il “secondo Risorgimento” fu parte integrante della ideolo-gia della “unità della Resistenza”, bandita soprattutto dai comunisti, manon respinta, almeno esplicitamente, da nessuna delle altre correnti, an-ti talvolta da quelle ritorta, ancor oggi, contro i comunisti per sostenereil carattere aclassista della Resistenza.155

I contrasti e, talvolta, gli equivoci, che erano coperti dalle parole d’or-dine unitarie, trovavano così riscontro nei significati diversissimi con cuiil Risorgimento veniva tirato in campo, pur sotto l’apparenza di cosa sucui era facile intendersi e ritrovarsi, quasi si volesse ancora una volta ri-correre alla vecchia oleografia dei padri della patria che, per vie diverse,vengono dalla provvidenza condotti alla realizzazione del fine comune. Ecome l’“unità del Risorgimento” era stata uno dei modi con cui la nuovaclasse dirigente aveva affermato la sua forza di assimilazione dei movi-menti politici concorrenti, così l’unità della Resistenza, con i richiami ri-sorgimentali che la puntellavano, voleva essere l’espressione della fiduciadella formazione politica che più la sosteneva, ma non solo di quella, dicostituire la forza egemone dell’intero movimento.

Perfino il “Regno del Sud” fu considerato dai suoi apologeti la “rie-

mersione dello Stato italiano risorgimentale”, il “disincrostamento” del-la monarchia, unico istituto costituzionale che il fascismo non avevaabbattuto.156 “Ritorno allo Statuto” di nuovo genere, che pretendeva dicoprire con una parvenza di dignità storica la preoccupazione fonda-mentale della monarchia e dei ceti che le si stringevano attorno di salva-re “la continuità dello Stato”. Agli “istituti tradizionali” e ai “valori idealidel Risorgimento” si appellava, ad esempio, il primo giornale confessio-

155 Vedi, ad esempio, quanto scrive G. Rossini nel volumetto, celebrativo della Resi-stenza sub specie democristiana, Il fascismo e la Resistenza, Roma 1955, pp. 10, 97.156 A. Degli Espinosa, Il Regno del Sud , Roma 1946, pp. 342-44.

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nalmente monarchico uscito a Brindisi, il quale non esitava a rilanciareil grido di “Viva V.E.R.D.I.”.157

La guerra del 1915-18, più che mai ripresentata come quarta guerra del-l’indipendenza, fu ampiamente utilizzata a tal fine. Del “secolare nemico”

parlava Vittorio Emanuele già nel discorso da Radio Bari del 24 settembre1943, e parlerà il nuovo “governo dei sottosegretari” nella sua prima dichia-razione del 28 novembre, stigmatizzando come antirisorgimento coloro cheavevano ancora una volta chiamato quel nemico al di qua delle Alpi.158

La carta dei “tradizionali alleati” fu a sua volta scopertamente giocata neltentativo di trovar grazia presso i vincitori: dalla risposta inviata da Bado-glio al messaggio di Churchill e Roosevelt dell’11 settembre 1943, ai pro-clami dello stesso maresciallo del 15 settembre 1943 (“i nostri antichi compagni

del Piave e di Vittorio Veneto”) e dell’11 febbraio 1944,159

alle dichiarazio-ni di uomini politici e della stampa.160

Che l’alleanza coi tedeschi dovesse considerarsi “innaturale” era cosa ri-petuta da molti e con sfumature diverse: si andava da affermazioni retori-che o addirittura da un razzismo rovesciato (nemici “della nostra razza e dellanostra civiltà” erano stati chiamati dal re i tedeschi nel ricordato discorso),al desiderio di riaffermare la vocazione liberal-occidentale dell’Italia, controil prussianesimo e il nazismo, contro la politica estera fascista. Nell’ordine

del giorno redatto da Bonomi, e approvato il 2 settembre 1943 dal Comi-tato centrale delle forze antifasciste, si rivendicava, ad esempio, per l’Italia ilrinnovamento di quella scelta a favore della libertà, dell’eguaglianza e dellapacifica convivenza di tutte le nazioni, che essa aveva già compiuto nel Ri-sorgimento;161 e, in un telegramma inviato a Badoglio dal Comitato di libe-razione nazionale di Napoli, il maresciallo veniva lodato per “aver rottol’iniqua alleanza” e riportato l’Italia alle antiche tradizionali amicizie.162 Pri-vati del loro “antico valore” erano stati i soldati italiani solo perché costret-ti a combattere “in una via opposta a quella della storia secolare del popolo

157 “L’Unione”, organo del “Partito d’Unione”, 25 dicembre 1943 (anno I, n. I), e 28gennaio 1944.158 Degli Espinosa, Il Regno del Sud cit., pp. 80 sg.; M. Bendiscioli, La Resistenza: aspet-ti politici , in AA.VV., Il Secondo Risorgimento cit., p. 314.159 P. Badoglio, L’Italia nella seconda guerra mondiale , Milano 1946, p. 126; Degli Espi-nosa, Il Regno del Sud cit., pp. 53-58, 273.160 Vedi, ad esempio, l’intervista, ancora di Badoglio, del 13 novembre 1943 (ibid., p.191) e “La Rassegna” di Bari, 14 dicembre 1943.161 I. Bonomi, Diario di un anno, Milano 1947, p. 87.162 Si può leggere in “Il Risorgimento” di Napoli, 19 ottobre 1943.

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italiano”: questa era la convinzione espressa dal nuovo governo di Salernodi concentrazione antifascista.163 Bonomi, capo del governo, in un suo di-scorso del 4 novembre 1944 riprenderà questi temi, sforzandoli a dismisu-ra, fino a dichiarare che il fascismo, dilapidando l’eredità del Risorgimento,

aveva fatto passare l’Italia per tre anni al nemico, in quell’unica grandeguerra contro “l’eterno barbaro” che era cominciata nel 1914 e che final-mente si avviava alla vittoria totale.

Da parte alleata, come è noto, si dava moderato ascolto a tali afferma-zioni italiane; o meglio, si prendeva di esse quanto poteva servire a rafforza-re la linea di condotta, d’ispirazione britannica, volta a sostenere il re eBadoglio e, più in generale, a salvare, anch’essa, la continuità dello Stato.

 Anche gli alleati amavano fare appello, contro quella fascista, a una Italia

“vera”, i cui interessi e le cui tradizioni, come avevano detto, poco prima del25 luglio, Churchill e Roosevelt in un loro messaggio, erano stati traditidalla Germania e dai gerarchi “falsi e corrotti”.164 Ad armistizio concluso,l’interesse alleato per un profondo rinnovamento italiano sarebbe ovviamen-te diminuito. Nel dibattito sull’Italia svoltosi ai Comuni il 21 e 22 settem-bre 1943 i laburisti tentarono invano di portare a conseguenze più radicali,in polemica con Churchill, il motivo dell’Italia che ritrova se stessa: “Se illegittimo appello dei capi democratici italiani al popolo italiano – essi dis-

sero – fosse stato consentito”, in modo che “la fiamma della libertà legitti-mamente percorresse l’Italia, come fece durante il Risorgimento”, ben altroaiuto avrebbero fornito alla causa alleata gli italiani, i quali si era invece pre-teso rischiassero la vita per sostenere, con armi insufficienti, dei voltagabba-na; e il deputato Thomas ricordò l’esempio dei garibaldini di Spagna.165

L’appello al Risorgimento riproponeva ancora una volta il problema delrapporto fra nazionalità e libertà: era prevalente, oggi come un secolo fa,l’aspetto di guerra al tedesco per l’indipendenza della patria, o invece quel-lo di guerra per la libertà, di guerra civile non solo italiana, ma europea emondiale? La tematica era resa ancora più complessa dall’intervento di unterzo termine, quello della lotta per il socialismo, come forma più pienadella libertà dei tempi moderni. È vero: nel corso della lotta il problema

163 Degli Espinosa, Il Regno del Sud cit., p. 340.164 Il testo del messaggio in W. Churchill, La seconda guerra mondiale , parte V, vol. I,La campagna d’Italia, Milano 1951, pp. 60 sg.165 Degli Espinosa, Il Regno del Sud cit., pp. 63-79; Churchill, La seconda guerra cit., pp.168-74. Nel volume a cura di A. e V. Toynbee, Hitler’s Europe , London-New York-To-ronto 1954, il saggio The Italian Resistance Movement di E. Wiskemann accenna (p.331) al “Secondo Risorgimento” e lo differenzia dal primo per la partecipazione dioperai e contadini.

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non si poneva in termini così scolastici, e una concreta unità dei primi duemotivi, e anche del terzo, si realizzava con relativa facilità nella coscienza deisingoli combattenti. Ma non per questo il problema non sussisteva; e il di-verso modo di vederne la soluzione influì allora in re , e non può non influi-

re oggi sul nostro giudizio.È stato da molti, e giustamente, osservato che la Resistenza italiana futra le più politicizzate: i motivi di ciò sono intuitivi, come è facile compren-dere che i più ostili a tale politicizzazione furono i ceti monarchici e conser-vatori, nonché gli alleati. Per tutti costoro il nuovo Risorgimento era solouna formula di comodo per incanalare il rischioso ribollire della società ita-liana nella patriottica guerra al tedesco; e abbiamo potuto vedere nel volu-me governativo che celebra il decimo anniversario della liberazione, Il Secondo

Risorgimento, riservare venticinque pagine fredde, burocratiche e inspirateda una invincibile ripugnanza per la politica, al saggio di Cadorna sul Cor- po Volontari della Libertà , e ottanta pagine a quello del generale Primieri suIl contributo delle Forze armate alla guerra di liberazione .

Non sarebbe tuttavia giustificato un atteggiamento di sufficienza versoil motivo nazionale della Resistenza, quale si riscontra soprattutto in unaparte dell’antifascismo di origine giellista (si ricordi la discussione del 1935):166

non si può, cioè, considerare un mero equivoco il fatto che la Resistenza si

avvalse con larghezza di uomini mossi da spinte prevalentemente patriotti-che; bensì si deve riconoscere che le più mature forze politiche antifascistenon seppero trasformare tali spinte, in quella situazione, in motivo di gene-rale rinnovamento della società italiana. Anche i fascisti della Repubblica so-ciale tentarono la corda del patriottismo contro l’invasore angloamericano,ma con esito pressoché nullo. Paradossalmente, i fascisti post 8 settembreavrebbero potuto anch’essi fare i nazionalisti antitedeschi, e così tentare dirinfrescare il proprio volto: se non lo fecero, è perché il legame che li univaalla Germania nazista non era per essi qualcosa di occasionale; e non occa-sionale fu dunque il carattere di lotta insieme antifascista e antitedesca cheassunse la Resistenza: antitedesca perché antinazista.

“Viva l’Italia e viva la Germania libera!” esclamò sul patibolo il chimi-co siciliano Pietro Mancuso, impiccato l’11 settembre 1944 dai tedeschi aCarignano: e sembra che l’ufficiale nazista guardasse stupito e senza com-prendere.167 Viene in mente, ma trasferito su un piano assai più alto, il “ri-passin l’Alpe, e tornerem fratelli” del poeta risorgimentale.

166 Vedi, ad esempio, gli scritti di Salvadori, Resistenza e Azione cit., e, in misura atte-nuata, Id., Storia della Resistenza italiana, Venezia 1955.167 G. Marabotto, Un prete in galera, Il Cuneo 1953, pp. 277 sg.

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La presenza del fattore nazionale contribuì, fra l’altro, a far riflettere sulposto che a esso sarebbe spettato nella ricostruzione postbellica e sul valoreche poteva ancora avere per l’uomo moderno. Il Risorgimento, da questopunto di vista, servì a rivalutare il civile patriottismo del secolo scorso con-

tro la spuria filiazione del nazionalismo e dell’imperialismo. Anzi, sulla sciadi un secondo Risorgimento che doveva ricollocare, come già il primo,l’Italia nell’Europa,168 il carattere europeo del Risorgimento fu sforzato finoa vedere in esso il precedente di quello che, con pari, anzi maggiore sforza-tura, sembrava ad alcuni il carattere essenziale, in tutti i paesi, della Resisten-za: l’europeismo o federalismo europeo.169 Ne sarebbe nata quella confusionedi atteggiamento realmente aperto e di sciovinismo occidentalistico caratte-ristica del federalismo europeo postbellico.

Per l’Italia c’era, in particolare, da risolvere in termini democratici la que-stione delle minoranze nazionali oppresse durante il fascismo, soprattuttoquelle slave. La slavofilia della democrazia risorgimentale tornò allora di at-tualità, quella slavofilia che aveva sempre dato fastidio ai nazionalfascisti: ilVolpe, ad esempio, aveva ritenuta superata “certa tradizione del Risorgimen-to, che considerava croati e sloveni strumenti ciechi d’occhiuta rapina dell’Im-pero asburgico dominato dai Tedeschi, cioè vittime essi stessi, come noi, diun uguale regime di oppressione”170. Soprattutto i comunisti si erano, du-

rante il ventennio, interessati alla sorte delle minoranze etniche in Italia, nelquadro delle note tesi di Lenin e di Stalin sulla questione nazionale; anzi,era stato da parte loro sopravvalutato il ruolo che la ribellione di quelle mi-noranze avrebbe potuto giocare nella rivoluzione italiana. Articoli e dichia-razioni comunisti sugli sloveni e sui croati si erano susseguiti in abbondanza,171

168 Cfr., su questo punto, le osservazioni di G. Spini, Della Resistenza come di un aspet-

to della storia d’Europa, in “Il Movimento di liberazione in Italia”, n. 22, gennaio 1953,

pp. 48 sg.169 Esemplare, per l’esposizione di questa tesi, il saggio del cattolico L. Benvenuti, Resi-

stenza europea e federalismo europeo (sul quale avremo occasione di tornare), in “Civi-tas”, n. s., VII, aprile 1955, n. 4, pp. 60-81.170 Volpe, L’Italia in cammino cit., pp. 131 sg.171 Vedi, ad esempio, in “Lo Stato Operaio”: V. Ukov, Sul problema delle minoranze slo-vene e croate in Italia, III, 1929, pp. 668-76; lo Schema di una piattaforma per l’azione 

 politica delle organizzazioni comuniste della Venezia Giulia, IV, 1930, pp. 514-31; la Ri-soluzione del IV congresso del Partito comunista d’Italia, V, 1931, p. 223; la Dichiara-zione comune dei partiti comunisti della Jugoslavia, dell’Italia e dell’Austria sul problema

sloveno, VIII, 1934, pp. 349-51. Nel 1942-43 E. Curiel, triestino, scrisse a Ventotenealcuni Appunti per uno studio sul movimento nazionale slavo (ora in Id., Classi e genera-zioni del Secondo Risorgimento, Roma 1955, pp. 145-54).

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e non ci si era dimenticati né dei greci del Dodecanneso,172 né dei tedeschidell’Alto Adige,173 anche se la posizione di questi ultimi aveva necessariamen-te risentito dell’Asse, dell’ Anschluss , del plebiscito per il trasferimento in Ger-mania e, dopo l’8 settembre, della loro pratica annessione al Reich, che li

collocò in una posizione totalmente diversa da quella delle altre popolazio-ni alpine e di confine. Anche Salvemini, in Mussolini diplomatico, aveva de-nunciato la politica fascista contro le minoranze slave e tedesche; Gl avevaa sua volta agitato questo motivo; e Sforza, in una intervista alla “Gazzettadel Mezzogiorno” di Bari dell’ottobre 1943, appellandosi a Cavour, Mazzi-ni e Garibaldi indicava nella politica balcanica del fascismo la riprova del suocarattere antitaliano.174 Fu prova di maturità della Resistenza aver saputo af-frontare con spirito democratico le rivendicazioni autonomiste delle popo-

lazioni alpine,175

e anche, almeno nelle linee di massima (che il resto nondipendeva dai soli italiani), i rapporti difficili coi francesi e difficilissimi congli jugoslavi:176 il neorisorgimento democratico prevalse, in quelle occasio-ni, su quello nazionalisteggiante.

L’atteggiarsi delle due principali formazioni politiche della Resistenza, iPartiti comunista e d’Azione, di fronte al Risorgimento era fissato, nelle suegrandi linee, dalla elaborazione precedente, di cui abbiamo già parlato. Mala concretezza della lotta e il fatto che essa coinvolgesse masse assai più lar-

ghe di quelle cui erano abituati a rivolgersi i fuorusciti, non furono, anchein questo campo, senza conseguenze.Il carattere composito del Partito d’Azione, di cui il vecchio tronco giel-

lista costituì solo una delle parti, conteneva in sé un’implicita diversità di

172 K. Grispos, La popolazione del Dodecanneso in rivolta contro l’imperialismo italiano,in “Lo Stato Operaio”, VIII, 1934, pp. 627 sg.173 S. Gassmayer, Il problema del Tirolo meridionale , in “Lo Stato Operaio”, III, 1929,

pp. 532-46. Cfr. pure la Risoluzione , citata a nota 171, dove si parla anche delle mino-ranze tedesche.174 Degli Espinosa, Il Regno del Sud cit., pp. 161 sg.175 Cfr. G. Peyronel, La dichiarazione dei rappresentanti delle popolazioni alpine al con-vegno di Chivasso il 19 dicembre 1943: contro “il motto brutale e fanfarone di Roma do-

ma” si rivendicò, nella fedeltà allo spirito del Risorgimento, il diritto alle autonomielocali, schiacciate dallo Stato monarchico accentratore (“Il Movimento di liberazionein Italia”, n. 2, settembre 1949, pp. 16-26).176 Parri, nel secondo convegno di studi sulla Resistenza, ha ricordato che il solo consi-glio dato ai triestini “fu quello di combattere da antifascisti il più attivamente possibi-le: unico modo per pesare sulle sorti della città” (“Il Movimento di liberazione in Italia”,nn. 34-35, 1955, p. 15). Cfr. i paragrafi Gli accordi diplomatici della Resistenza e L’in-ternazionalismo partigiano, in Battaglia, Storia della Resistenza cit., pp. 318-26.

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valutazione della storia italiana risorgimentale e postrisorgimentale. Ciò sirispecchia, curiosamente, nel modo stesso con cui fu scelto un nome tanto“revisionista” proposto da Mario Vinciguerra, cioè da un rappresentante del-l’estrema destra del partito, perché, come racconta Ragghianti, “meno im-

pegnativo circa il carattere e il contenuto del nuovo partito”: cioè, potrebbedirsi, per evitare il peggio, rappresentato da parole come “lavoro” e “sociali-smo”, che pure erano entrate in ballottaggio.177 La lotta, nel suo corso, fececomunque prevalere la interpretazione più radicale, e il partito interpretò ilsuo nome quale incitamento alla “conquista della libertà”, motto che “Og-gi e domani”, periodico azionista uscito clandestinamente a Firenze alla fi-ne dell’agosto 1943, contrapponeva a quello badogliano di “ritorno allalibertà”178 e quale impegno a realizzare i “fini supremi che allora (nel Risor-

gimento) furono solo additati e non conseguiti”, come si esprimeva il pri-mo numero dell’“Italia libera” uscito a Bari nell’ottobre 1943; e riteniamosuperfluo ricordare altri analoghi atteggiamenti azionisti.

Per i comunisti, poiché la base più larga della unità da essi patrocinataera costituita dalla lotta contro il tedesco invasore, il largo uso di echi e disuggestioni risorgimentali diveniva ovvio; e senza, anche qui, dilungarci insoverchie esemplificazioni, citeremo le parole dell’ Appello dei comunisti al-l’insurrezione (12 marzo 1945): “L’insurrezione [...] si svolge sotto la bandie-

ra del tricolore, simbolo dell’unità di tutto il popolo, nella tradizione deglieroi che combatterono e si sacrificarono nel corso del primo Risorgimento,per fare l’Italia unita, libera e indipendente”.179 Giova piuttosto ricordare cheil secondo Risorgimento, se aveva dato in precedenza luogo, nel Partito co-munista, alle contrastanti reazioni che abbiamo esaminato, ora contribuì acoprire, senza tuttavia ben risolverlo, il problema del rapporto tra i fini diclasse, socialisti, della Resistenza e quelli nazionali e genericamente demo-cratici. Togliatti, nel dicembre 1943, sostenendo la necessità della parteci-pazione italiana alla guerra contro la Germania come solo mezzo per presentarsicon un nuovo volto dinanzi ai vincitori, dichiarava che gli italiani non ave-vano combattuto nella guerra fascista perché

l’unica tradizione militare che vive nel popolo italiano è la tradizio-ne delle guerre di liberazione nazionale del secolo scorso, delle Camicierosse di Garibaldi, la tradizione cioè di un esercito popolare pronto a com-

177 Cfr. C. L. Ragghianti, La politica del Partito d’Azione in un giornale clandestino di Fi-

renze , in “Il Movimento di liberazione in Italia”, n. 14, settembre 1951, pp. 9 sg.178 Ibid., p. 3.179 Trent’anni di vita e di lotte cit., p. 202.

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battere, e che combatte realmente, sotto la bandiera dell’indipendenza edella libertà di tutte le nazioni.180

Motivo militare e garibaldino, cui si accoppiava quello del Risorgimen-to politicamente e socialmente incompiuto:

Reclamando la convocazione di un’Assemblea Costituente, noi ci ri-colleghiamo alle migliori tradizioni democratiche del Risorgimento italia-no [...]. La lotta per l’Assemblea Costituente è in tutto il nostro Risorgimentocome un filo rosso, il quale permette di scorgere quali fossero gli elemen-ti e le forze che, mentre auspicavano la formazione di un fronte di lottaveramente nazionale, per creare un’Italia libera, indipendente e unita, pu-re volevano fosse garantito al popolo il sacro diritto di darsi una Costitu-

zione corrispondente ai suoi bisogni e alle sue aspirazioni. Se questo dirittofosse stato rispettato, non v’è dubbio che la marcia dell’Italia sulla via del-la civiltà e del progresso sarebbe stata molto più rapida, dolorose paren-tesi di reazione sarebbero state evitate, e forse non ci troveremmo ora alpunto in cui ci troviamo.181

L’accenno alla coesistenza, nel Risorgimento, di fini d’indipendenza eunità nazionale con altri di miglioramento della condizione delle classi po-polari quadrava bene con la pari coesistenza di obiettivi nella guerra parti-

giana, più volte affermata da parte comunista, e argomentata con la separazionefra le trasformazioni strutturali e politiche in senso socialista, che venivanorinviate, e quelle riforme sociali che avrebbero dovuto invece far parte inte-grante della democrazia nuova o progressiva.182 Derivava, da questa posizio-ne, un nodo di problemi che non è qui il caso di dipanare e che potrebbe,ad esempio, essere riguardato sotto l’angolo visuale del dibattilo sui Cln,che raggiunse una delle sue formulazioni più esplicite nella nota polemicadelle “cinque lettere”.183

180 Ercoli, Per un’Italia libera e democratica, in “Lo Stato Operaio”, III, 1943, pp. 102-104.181 Parole di Togliatti citate da Longo nel Rapporto politico presentato alla riunione allar-

 gata della Direzione per l’Italia occupata del Pci , 11 e 12 marzo 1945 (ora in L. Longo,Sulla via dell’insurrezione nazionale , Roma 1945, pp. 440 sg.).182 Cfr., fra i tanti documenti comunisti che si esprimono in tal senso, gli articoli Salu-

to al governo di unione nazionale , in “Il Combattente”, maggio 1944, e Tutta la nazio-ne per la insurrezione , in “La nostra lotta”, settembre 1944, nonché lo Schema di rapporto politico presentato alla conferenza dei triumvirati insurrezionali del Pci (novembre1944), in cui Longo si dilunga a spiegare la differenza fra democrazia progressiva e dit-tatura del proletariato (Longo, Sulla via dell’insurrezione cit., pp. 209-12, 288, 329 sgg.).183 Cfr., su questa polemica, Battaglia, Storia della Resistenza cit., pp. 517-25; e R. Car-li Ballola, Storia della Resistenza, Milano-Roma 1957, pp. 47-51.

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Naturalmente – ha poi scritto Longo – noi rifuggivamo dall’idea disottoporre il movimento operaio per le rivendicazioni immediate alcontrollo e alla direzione operativa dei Cln. Sarebbe stato un non senso.Il Cln, proprio per la sua natura di organo di unità nazionale di tutte le

forze patriottiche, non poteva assumere la direzione delle lotte operaieche erano classiste per la loro stessa natura e per gli obiettivi che si po-nevano.184

Secchia, a sua volta, considerava un “errore da evitare [...] quello di fartacere la voce del partito per parlare solo a nome del Cln”185 e, nella riunio-ne allargata alla direzione del Pci dell’11 marzo 1945, dopo aver citato unlungo brano di Togliatti sul partito nuovo, commentava: “Partito nuovo dun-que per i suoi compiti, per la sua funzione, per le forme e i metodi nuovi

della nostra organizzazione, partito nuovo la cui natura di classe e l’ideolo-gia rivoluzionaria rimangono inalterate”.186 Se si rammenta l’accusa lancia-ta dal Cominform a Tito, di aver annegato il partito nel Fronte (la Resistenza

 jugoslava era stata fra quelle con più spiccati caratteri nazionali e di massa),si può meglio cogliere il senso di queste distinzioni fra partito e Cln.

D’altra parte, citiamo ancora parole di Longo, “noi eravamo per deiCln che fossero non dei semplici strumenti di un organo centrale, burocra-tico e lontano, ma organi di mobilitazione e di autogoverno delle masse,

strumenti di democrazia diretta e immediata”.187 Discendeva, da tutto ciò,che l’unità, pei comunisti, oscillava fra il riconoscimento della spinta dal bas-so tendente a vedere nei Cln l’embrione di nuovi strumenti di potere popo-lare, e l’alleanza, al vertice, di partiti, patrocinata nella fiducia di sapernecostituire la guida e i beneficiari; e il secondo Risorgimento poteva far gio-co nell’uno come nell’altro atteggiamento.

Che sotto quella bandiera potessero nascondersi degli equivoci fu avver-tito, ad esempio, da Eugenio Curiel che, nel dicembre 1943,188 criticando

l’atteggiamento “antipartitico” di alcune formazioni di montagna, avanzavail dubbio che esso si rifacesse a certe situazioni risorgimentali, e in particola-re alla formazione della Società Nazionale del 1857. “Sono richiami astratti

184 Longo, Sulla via dell’insurrezione cit., p. XXVI.185 Il partito e il Cln, in “La nostra lotta”, dicembre 1943 (ora in P. Secchia, I comunisti 

e l’insurrezione , Roma 1954, pp. 49-55).186 Ibid ., p. 391.187 Longo, Sulla via dell’insurrezione cit., p. XXXIV Cfr. lo Schema di rapporto, citatosupra a nota 182, dove si dice che, a liberazione avvenuta, i Cln periferici dovranno tra-sformarsi in organi di potere popolare.188 Fronte nazionale, società nazionale, blocco nazionale (Curiel, Classi e generazioni cit.,pp. 161-67).

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dalla realtà storica”, commentava Curiel, non risparmiando le sue critiche al-la “indefinibilità politica” e al “candore” di Garibaldi, che lo facevano “facilestrumento di avvedute diplomazie”. Ormai l’Italia non era più nazione di “po-polo”, nel senso indiscriminato e precapitalistico che poteva ancora valere nel

Risorgimento, bensì nazione di classi socialmente diverse e contrastanti, chedi ciò acquistano coscienza nei partiti: quindi, “nazione di partiti”. E “l’uni-tà d’azione non si raggiunge nella romantica ed enfatica confusione dell’em-brassons nous , ma nella coscienza della distinzione”. Perciò, concludeva Curiel,

ridurre, quasi per tema di complicazioni, le parole d’ordine al vec-chio motto sabaudo e garibaldino di via i tedeschi , significa non aver in-teso la profonda differenza tra la occupazione nazista di oggi e il dominioasburgico di ieri. Noi non possiamo scindere la parola d’ordine di via i te-

deschi da quella di morte ai fascisti .

Parole chiare, in cui il desiderio di evitare l’equivoco viene argomenta-to in termini quasi liberali, come invito a ciascuna delle forze in campo agiocare fino in fondo il ruolo che le è proprio, nella fiducia che i fatti avreb-bero poi dimostrato quale fosse la più valida ed efficiente.

In realtà, come abbiamo visto all’inizio ricordando Longo e Secchia,189 icomunisti ancor oggi, nonostante il largo uso fattone, considerano il “Se-

condo Risorgimento” come formula tutt’altro che ovvia, anzi bisognosa dimolte precisazioni, di cui ormai siamo in grado di meglio cogliere il signi-ficato e la remota origine.190 C’è da aggiungere che man mano che passanogli anni, e i fatti dimostrano come la classe operaia sia lontana dall’esercita-re in Italia quella funzione dirigente che avrebbe dovuto costituire il pre-supposto della sua azione unitaria durante la Resistenza, agli stessi comunistisarà sempre più difficile sottrarsi alla necessità di un riesame critico che noncontinui a dare per scontato ciò che palesemente non sussiste. Di “attacca-mento eccessivo, in qualche caso, alla politica unitaria” ha parlato ancheTogliatti;191 e Longo riconosceva, nella conferenza già ricordata, che se la ca-tastrofe nazionale aveva fatto confluire nella Resistenza numerosi gruppi del-le vecchie classi dirigenti, ciò fu sì “indice della profondità e della ampiezzaraggiunte dalla Resistenza, ma fu anche la causa dei suoi contrasti e dellesue remore interne”.

189 Cfr. supra, nota 11.190 Aggiungiamo che le ultime propaggini del bordighismo stanno ferme al totale ripu-dio del secondo Risorgimento. Vedi: Alfa, Il ridicolo “bis” del risorgimento e Dopo le ga-

ribaldine , in “Prometeo”, 1946, n. 2, p. 70, e 1948, n. 10, p. 433.191 Trent’anni di vita e di lotte cit., p. 208 (Si tratta di una delle note redazionali, attri-buite comunemente a Togliatti).

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8. I cattolici

Non abbiamo finora parlato dei cattolici. I cattolici non hanno prodottoun pensiero politico antifascista che possa essere messo alla pari di quellogiellista o comunista. A leggere, ad esempio, il volume che raccoglie i prin-cipali scritti di De Gasperi durante il fascismo, I cattolici dall’opposizione al governo,192 è difficile sfuggire all’impressione che, se il governo fossepremio alla originalità e al mordente del pensiero politico, i cattolici me-ritavano di rimanere ancora per lunghi anni all’opposizione. Non basta-no, a smentire questo giudizio, scrittori vivaci e coraggiosi, come GiuseppeDonati e Francesco Luigi Ferrari, il primo dei quali, quando Mussolini sipresentò alla Camera dopo il 28 ottobre, voleva tornare a cospirare “conpassione garibaldina e mazziniana, con la passione della mia stirpe, cri-stiana e repubblicana”;193 e il secondo denunciava con forza, nel solco diuna sincera accettazione delle strutture fondamentali dello Stato liberale,la collusione fra la Chiesa e il fascismo.194 Sturzo fin dal congresso di To-rino del 1923 del Partito popolare fece appello alla “tradizione più sanadel nostro Risorgimento”, e in uno dei primi discorsi fatti in esilio, nel1925, parlò della “attuale battaglia per la libertà come un secondo Risor-gimento”.195 Nel volume L’Italia e l’ordine internazionale , pubblicato a New 

 York nel 1944, in un excursus sulla storia d’Italia egli fa largo uso di simi-li espressioni. Ma l’equivoca rivendicazione di libertà propria della tradi-zione democratico-cristiana (nello Stato risorgimentale, scriveva Sturzo,“la libertà era per la borghesia, ma non per il popolo né per la Chiesa”),196

192 Bari 1955.193 Citato da Rossini, Il fascismo e la Resistenza cit., p. 43.194 F. L. Ferrari, L’Azione cattolica e il “regime” , Firenze 1957, in cui è ripubblicato an-che l’ Appello ai parroci d’Italia, redatto nel 1931 e diffuso in Italia a cura di Gl.195 Cfr. Salvatorelli, in Il Secondo Risorgimento cit., p. 108; A. Marazza, I cattolici e la Re-sistenza, in “Il Movimento di liberazione in Italia”, n. 43, luglio 1956, p. 4.196 L. Sturzo, L’Italia e l’ordine internazionale , New York 1944, p. 118.

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rendeva arduo un originale ripensamento della storia dell’Italia contem-poranea, e portava a giudizi eclettici e poco mordenti sul fascismo.

Va anche detto che un vero dibattito fra antifascisti cattolici e noncattolici non vi fu, sia per disabitudine degli uni come degli altri, sia per-

ché gli antifascisti democratici, socialisti e comunisti, non mostrarono diprendere in seria considerazione l’ipotesi che sarebbe stato il partito cat-tolico la grande riserva della borghesia italiana. Ma va soprattutto ripetu-to che il fatto massiccio che caratterizzò il cattolicesimo italiano duranteil ventennio fu la “conciliazione”, con tutto ciò che essa implicava sul pia-no culturale non meno che su quello politico. Hic Rhodus, hic salta: e sal-tò male Sturzo;197 e inciampò anche Jemolo.198

Per i giovani cattolici nati durante il ventennio il cammino verso l’an-

tifascismo, se da una parte trovò qualche appoggio nella appartenenza al-l’unica organizzazione non fascista esistente in Italia, dall’altra fu resodoppiamente difficile dalla necessità di superare il peso non di una, ma didue autorità costituite: la seconda, anzi, più che di superarla si trattava,per chi voleva restare cattolico, di tentare di interpretarla in una chiavecontrastante con gli atteggiamenti che essa ogni giorno palesemente assu-meva. Un giovane studioso cattolico ha recentemente scritto che accantoall’antifascismo politico degli ex popolari si formò nel ventennio, fra i

giovani, un “nuovo antifascismo, originale, se così può dirsi”, “morale piùche politico”, basato su due convinzioni, lentamente maturate: la prima,della irriducibilità dei principi cristiani a quelli fascisti (e in questo il fa-scismo fu seriamente compromesso dalla politica razzista); la seconda,che “precarie e instabili sono le garanzie offerte alla Chiesa e alla religio-na da una dittatura, anche se dichiari di voler difendere il patrimonio re-ligioso della Nazione”.199

L’ingresso nella Resistenza di cattolici così formatisi costituì indubbia-mente uno di quegli eventi sui quali molte cose sono ancora da scrivere(insufficienti appaiono, ad esempio, alcune ricostruzioni biografiche di

197 In L’Italia e l’ordine internazionale cit., p. 131, Sturzo, difendendo la Chiesa dall’ac-cusa di avere approvato teoria e prassi del fascismo, considera i Patti del 1929 la con-clusione del Risorgimento come processo di unificazione: e le sue riserve sono nelsenso che non per questo deve intendersi che la Chiesa abbia voluto sanzionare impli-cazioni teoriche e leggi del Risorgimento a essa ostili.198 Per risolvere la questione romana “occorreva venisse l’Uomo capace di comprende-

re che il momento era giunto [...]. Nel 1929 quest’Uomo dominava ormai da sette an-ni la vita italiana, e la sua figura già si levava poderosa nel cielo d’Europa” (A. C. Jemolo,La questione romana, Milano 1938, p. 16).199 P. Scoppola, Dal neoguelfismo alla democrazia cristiana, Roma 1957, p. 270.

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singole esperienze):200 il peso avuto da considerazioni sulla storia d’Italia esul Risorgimento potrebbe venire allora meglio chiarito.

Possiamo tuttavia accennare al fatto che la partecipazione cattolica al-la Resistenza non coinvolse solo pochi giovani intellettuali, ma strati mol-

to più ampi di popolazione, soprattutto nelle campagne, e che quindi silegò alla presenza di quei contadini che, come diceva appunto Salvemini,segnarono la sconfitta della tradizione sanfedista e antirisorgimentale del-le campagne italiane. E possiamo appena ricordare il problema, tropposchematicamente impostato, e che pur si è dibattuto, se i cattolici furononella Resistenza come cattolici o come italiani, se spinti cioè da moventireligiosi o politici (e poi, di nuovo, nella seconda ipotesi, se come sempli-ci patrioti o come antifascisti, ripresentandosi anche per loro l’interroga-

tivo di cui già abbiamo parlato). Occorre comunque distinguere fra lapartecipazione dei democristiani, e quella dell’alto clero, del basso clero,dei semplici credenti: gruppi non omogeni, e non mossi da uguali finali-tà.201 E bisognerà saper leggere le frequentissime espressioni di fede catto-lica ricorrenti nelle Lettere dei condannati a morte , di contro, per far unesempio connesso al nostro tema, agli accenni al Risorgimento contenutiin una sola lettera, quella di un ufficiale in servizio permanente effettivo,iscritto al Partito d’Azione, Pedro Ferreira.202

Esiste una interpretazione cattolica della Resistenza? Ne esiste più d’unaperché, anche in questo caso, la cultura cattolica non è stata capace di ela-borare una sua posizione originale, ma si è dovuta accontentare di ripren-dere, variandole e adattandole alle proprie esigenze, quelle che venivanoofferte dalla cultura laica. Ciò sembra valere in modo particolare per il nes-so Risorgimento-Resistenza, dato che i cattolici erano, su quel terreno, dop-

200 Vedi, oltre le già ricordate Autobiografie (fra le quali, quella di U. Alfassio Grimaldi

appare la più articolata): A. Caracciolo, Teresio Olivelli , Brescia 1947 (dove però pro-prio l’insorgere del momento della libertà rimane insufficientemente chiarito, nono-stante il richiamo a Mazzini, ma forse anche per questo); Ignazio Vian, il difensore di Boves , testimonianze raccolte da V. E. Giuntella, Roma 1954.201 Buone osservazioni in G. Rovero, Il clero piemontese nella Resistenza, in Aspetti della

Resistenza in Piemonte cit., pp. 41-75. Si può anche citare l’ultima lettera del sacerdo-te Aldo Mei, fucilato il 4 agosto 1944, il quale attribuisce la sua sorte all’“aver fatto ilprete” (Lettere dei condannati a morte cit., pp. 142-45). Ingiuriosa fu ritenuta dalla “Ci-vilta Cattolica” (CV, 1954, n. 4, pp. 684 sg.) la distinzione, fatta dal Battaglia nella suaStoria, fra alto e basso clero.202 Lettere dei condannati a morte cit., pp. 76-83. Per una interpretazione laica della re-ligiosità dei combattenti che muoiono con i riti cattolici, cfr. Omodeo, Momenti dellavita di guerra cit., pp. 376 sgg.

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piamente compromessi: essi avevano infatti alle spalle o la tradizione cleri-cale-antirisorgimentale, o quella, latu sensu, neoguelfa, che così bene si eraportata su posizioni conciliazioniste e filofasciste. Quanto questa secondatradizione fosse forte è mostrato, fra l’altro, dal fatto che perfino uno dei

pochi movimenti clandestini cattolici del ventennio, quello facente capo aPiero Malvestiti, non trovò nome migliore di Movimento Guelfo d’Azio-ne;203 mentre nel “Regno del Sud” la Democrazia cristiana, non stimolatadal movimento partigiano, fu subito proclive a riprendere logore paroled’ordine neoguelfe e italocattoliche, come quelle che abbondantemente ap-parivano sulla sua stampa.204 È noto del resto come lo stesso De Gasperi av-vertisse in qualche modo i rischi di tali atteggiamenti quando, nella suaultima lettera a Fanfani, raccomandava di tenere fuori il partito dallo “sto-

rico steccato politico” dell’alternativa guelfo-ghibellina.Due appaiono, a ogni modo, le tesi principali avanzate da parte catto-lica sul nesso Risorgimento-Resistenza, cioè sulla posizione della Resistenzanella storia dell’Italia moderna. L’una si rifà alla definizione del Risorgi-mento come fatto essenzialmente religioso per applicare pari modulo inter-pretativo alla Resistenza; l’altra accetta molte delle tesi “revisioniste” sulRisorgimento, conducendole ovviamente a conclusioni assai diverse da quel-le dei loro primi formulatori.

Il Passerin d’Entreves, nel saggio Risorgimento e Resistenza,205

offre laformulazione più colta della prima posizione. Egli polemizza contro chiha posto in primo piano i motivi sociali e politici della Resistenza, “chenon si voglion certo ignorare, ma si voglion vedere come una materia chenon sarebbe stata sollevata e sublimata senza un lievito religioso”: parolecaratteristiche di tutti gli spiritualismi, cattolici e no, i quali sempre riten-gono la vita politica e sociale bisognosa di sollevamenti e sublimazioni,senza i quali rimarrebbe affetta dalla sua originale limitazione o colpa (edi religiosità scaturente dalla “insufficienza dei concetti morali” parla in-fatti il Passerin). Storiograficamente, il Passerin porta in primo piano ana-

203 Cfr. Rossini, Il fascismo e la Resistenza cit., pp. 55-58.204 Nel numero del 26 dicembre 1943 di “Il Risveglio” di Bari, “settimanale della De-mocrazia cristiana”, in un Saluto ai valorosi rivolto alle truppe italiane entrate in lineaaccanto agli alleati, si tiravano in campo la Roma onde Cristo è romano, san France-sco d’Assisi e santa Caterina da Siena, la Madonnina del Grappa e il Carroccio, san Ni-cola e le Alpi che Iddio pose a termine sacro d’Italia. Della “Chiesa, testimone di tutta

la storia d’Italia, dall’Impero di Roma fino ai nostri giorni” parlava il 12 dicembre del-lo stesso anno la “Giustizia Sociale”, “organo della Democrazia cristiana, Sezione joni-ca”. Cattivo gusto provinciale, certo: ma non per questo meno rivelatore.205 Cfr. supra, nota 13.

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loga essenza religiosa del Risorgimento, sforzandola fino a farla coincide-re, al limite, proprio con il cattolicesimo (la religiosità di Mazzini diven-ta così “cattolicesimo deviato [...] e secolarizzato”). Il cattolicesimo liberaleappare così il vero protagonista del Risorgimento; e il suo riemergere, sia

pure in forme nuove, il protagonista della Resistenza.Con minor dottrina e sensibilità, il Marazza ha esposto tesi analoghe,accettando senz’altro il “Secondo Risorgimento”.

E di nuovo – scrive – come nel primo Risorgimento, essi (i cattolici)ebbero la fortuna di sentire accanto a sé la presenza fortificante dei lorosacerdoti. La Resistenza fu nella storia d’Italia, come era stato nel Risor-gimento, ansia di rinnovamento etico prima che azione politica, e questospiega perché, come nel primo Risorgimento, di nuovo si dispiegò fer-

vente il patriottismo del clero, e con noi tanti religiosi si fecero congiura-ti ed il Vaticano stesso, pur conscio delle sue enormi responsabilità, scesenella battaglia, mentre il Soriano Pontefice pronunciava contro i nuovibarbari la sua chiara e pesante condanna.206

Su questa strada, la totale annessione al cattolicesimo, liberale e no, delRisorgimento come della Resistenza non appare lontana.

L’impegno europeistico di alcuni cattolici può essere posto accanto a

questa interpretazione religiosa della Resistenza. Un certo tipo di catto-lico colto italiano è venuto infatti alimentando una sempre maggioreammirazione per i cattolici stranieri, specie francesi e belgi, consideratisimbolo di una religiosità aperta alle esigenze del mondo moderno: esse-re antifascisti significò soprattutto, per i cattolici di tal fatta, uscire dalbigotto cattolicesimo italico su cui aveva fatto leva Mussolini. I cattoliciitaliani si fecero talvolta, e si fanno, dei cattolici stranieri un vero mito;e tutti i problemi aperti fra cattolicesimo e civiltà moderna, che hannosempre angustiato i cattolici più sensibili, si postulavano, e si postulano,con semplicistico entusiasmo, risolti da quei vivaci cattolici d’oltralpe.Occorre comunque riconoscere che in tal modo i cattolici colti parteci-parono positivamente al moto, caratteristico dell’antifascismo, per ri-condurre l’Italia, come già nel Risorgimento, nell’ambito della vita europea.In ciò essi furono favoriti dalla coscienza di appartenere a un corpus , an-che culturale, che scavalca i confini dei singoli Stati. Questa coscienza,dal Risorgimento in poi, era entrata in conflitto con la rivoluzione na-zionale come fatto progressivo: e i cattolici si erano sentiti ricacciati aimargini della vita, anche morale, del nuovo Stato. Si aggiunga che con-

206 Marazza, I cattolici e la Resistenza cit., e La Democrazia cristiana come forza politica

della Resistenza, in “Civitas”, n. cit., pp. 15-29.

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tro la nazionalità dello Stato era sorta la internazionalità del socialismo:per i cattolici, da Scilla a Cariddi.

Il federalismo europeo (quello dell’Europa carolingia) è apparso comeun’occasione di rivincita per i cattolici che si sentivano finiti in quel vicolo

cieco. Essi hanno creduto di avere finalmente la possibilità di presentarsi investe moderna, all’avanguardia contro i nazionalismi e i socialismi degene-rati nelle tirannidi totalitarie: e non casualmente uno dei rappresentanti piùespliciti di tale tendenza, il Benvenuti,207 può presentare il federalismo eu-ropeo quale superamento (come già si diceva del corporativismo) del libe-ralismo e del socialismo, tesi cui altrimenti sarebbe difficile attribuire unsignificato. Così facendo, i cattolici hanno avvertito come la soddisfazionedi ritrovare la loro strada e la loro tradizione, che finalmente si dimostrava-

no le più positive e feconde: Cristianità o Europa. È chiaro allora come, sianel Risorgimento che nella Resistenza, si voglia scoprire come essenziale ilclima cattolico-europeo, rinvenendo in esso il vero legame fra i due eventistorici.208

I cattolici “revisionisti” sono stati soprattutto dei giovani influenzati daGramsci e dall’ambiente della Resistenza e della immediata postresistenza.Il fascismo, reazione degli agrari e degli industriali, “affonda le sue radici nel-le carenze del vecchio Stato borghese”, affermavano anni fa i giovani demo-

cristiani, e argomentavano ricordando che l’Italia fu fatta senza gli italiani,a opera di una minoranza “che nelle baionette piemontesi trovò la sua for-za di realizzazione” e che “sistematicamente soffocava quegli ideali di liber-tà e di giustizia più schiettamente rivoluzionari”. Quei giovani, inoltre, nonsolo separavano nettamente la “mistificazione corporativa” fascista dal cor-porativismo cattolico (questa era una distinzione cui molto aveva mostratodi tenere, come è ovvio, De Gasperi), ma anche verso il secondo non rive-lavano un entusiasmo troppo vivace.209

Il revisionismo cattolico, se da una parte ha sbandato fino alle equivo-che, anche se non prive d’intelligenza, prese di posizione del Ciccardini,210

dall’altra ha espresso il sincero desiderio di riesaminare la storia d’Italia dalRisorgimento in poi alla luce delle nuove esperienze che avevano portato al

207 Cfr. supra, nota 169.208 Cfr. ancora il citato saggio del Passerin.209 Il fascismo in Italia, edito da “Per l’Azione”, rivista dei gruppi giovanili della Demo-

crazia cristiana, a cura di A. Paci, L. Elia, V. Bachelet, F. Grassini, prefazione di F. M.Malfatti, Roma s.d.210 B Ciccardini, Il fascismo come esame di coscienza delle generazioni , in “Terza genera-zione”, I, 1953, pp. 39-44.

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potere un gruppo dirigente cattolico la cui impreparazione culturale era av-vertita dai più sensibili giovani di quella fede; ed è quanto si sono accinti afare su un piano di sbrigliata e, spesso, sofisticata dialettica il De Rosa, conpiù profondo senso della storia il Fonzi, lo Scoppola e altri, della cui opera

non vogliamo qui tentare il bilancio.Un punto, fra tanta frammentarietà di atteggiamenti cattolici, può es-sere individuato come raccordo ricco d’implicazioni non solo culturali, madirettamente politiche: quello secondo cui la Resistenza rappresenterebbel’inserzione nello Stato delle masse cattoliche che ne erano state escluse du-rante il Risorgimento. Si vuole in tal modo non solo offrire una interpreta-zione della Resistenza, ma trovare una base storica e culturale al potereesercitato, dopo la liberazione, dai cattolici.

L’assimilazione dei cattolici alle forze popolari escluse dallo Stato risor-gimentale costituisce, sul piano della logica storica, un evidente equivoco,oggi peraltro molto fortunato. Il De Rosa ne fa il suo cavallo di battaglia,quando discorre del Partito popolare come della Resistenza e della Demo-crazia cristiana, e vi innesta l’altra affermazione sui cattolici rivendicatoridelle libertà dei cosiddetti “corpi intermedi” fra l’individuo e lo Stato, con-culcate dalla “borghesia censitaria” e dall’“assetto proprietario”. Gli editoridegli scritti di De Gasperi rivolgono al leader democristiano la lode di aver

contribuito “a dare al nuovo Stato una base popolare che non ebbe lo Statorisorgimentale”;211 e altri scrittori cattolici identificano senz’altro il caratte-re popolare della Resistenza, che la contraddistingue dal Risorgimento, conla partecipazione dei cattolici.212 La conclusione politica aperta di tale atteg-giamento si poteva leggere su “Il Popolo” del 26 aprile 1955 che, commen-tando le manifestazioni per il decimo anniversario della Resistenza, presentavaquella come semplice prologo o premessa del secondo Risorgimento, ilquale così veniva senz’altro a coincidere con la Democrazia cristiana al po-tere. Del resto, anche un liberale, Mario Ferrara, nella stessa occasione cele-brativa, scriveva che il 18 aprile del 1948 il popolo italiano “riaffermò la suafede nella ispirazione morale e negli ideali del Risorgimento”.213

211 De Gasperi, I cattolici cit., p. XIII.212 Vedi, ad esempio, F. Salvi, Valori morali della Resistenza, in “Civitas”, n. cit., pp. 9-14.Cfr. anche Rossini, Il fascismo e la Resistenza cit., p. 22 e passim. Un infortunio deve con-siderarsi quello del Ciasca che, negando con sdegno alla Resistenza la qualifica di primo

moto armato popolare nella storia d’Italia, le dona come precedenti i lazzaroni del car-dinale Ruffo, gli insorgenti, aretini del “Viva Maria”, e tutti i moti antigiacobini dellafine del Settecento ( Moti di popolo nella storia d’Italia, in “Civitas”, n. cit., pp. 92-102).213 M. Ferrara, Il consolidamento della democrazia, in Il Secondo Risorgimento cit., p. 451.

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 Abbiamo all’inizio di questo scritto ricordato la tesi del Volpe sul fasci-smo come immissione delle masse nello Stato: mutatis mutandis , molte del-le obiezioni che abbiamo mosse al Volpe potremmo ora ripeterle a questeposizioni cattoliche. E potremmo anche mettere in rilievo che fra i due at-

teggiamenti non esiste solo un’affinità ideologica, ma anche una continui-tà in re , se è vero che la “pace” fra Italia e Chiesa (cioè, la “immissione deicattolici nello Stato”) ebbe una sua manifestazione essenziale proprio nel-la Conciliazione fascista, e che la Democrazia cristiana, assumendo il ca-rattere di partito di massa, ha fruito, non da sola del resto, anche di certeeredità fasciste.

La “dolorosa dilacerazione” fra cattolici e Stato risorgimentale che sareb-be stata sanata dalla Resistenza, non può essere considerata un fatto occa-

sionale, un sovrapprezzo che sarebbe stato augurabile risparmiare. Il Risorgimentoconteneva intrinsecamente, in quanto volto a fare dell’Italia un paese di ci-viltà moderna, una carica anticattolica che nessun apologeta del cattolicesi-mo liberale potrà mai, contro l’autorità di Pio IX, nascondere. Altro è casomaiil discorso da fare, e cioè che la classe dirigente liberale non fu capace di fog-giare una società e uno Stato così civili da non far più sentire come dilace-razione la tendenziale, corretta, riduzione delle cose di religione nell’ambitodel comune diritto di libertà. Pertanto, se la partecipazione dei cattolici, o

almeno di parte di essi, alla Resistenza è fenomeno di grande interesse e disignificato sicuramente positivo, occorre tenere ben distinta la deduzionepolitico-ideologica che si pretende trarne.214

In realtà, la formula della inserzione delle masse cattoliche nello Statoda un lato esprime la prevalenza finale avuta, nella Resistenza, dalla conti-nuità dello Stato, dall’altro sta a indicare le sempre maggiori pretese che difronte a esso Stato hanno accampato i cattolici, fino a rovesciare l’iniziale si-gnificato della formula, immettendo, se così può dirsi, lo Stato nella Chie-sa: tanto che oggi l’Italia soffre insieme della sussistenza dello Stato liberaleborghese e del suo sovvertimento a opera dei cattolici.

I cattolici, fino ancora al 1945-46, si sentivano ed erano sentiti comeforza subalterna nella società e nello Stato, alla cui direzione, anche se nonpiù da soli, avevano riproposto la candidatura gruppi e uomini prefascisti.Fu errore della sinistra italiana essere rimasta troppo a lungo ancorata a un

214 Uno degli scrittori cattolici già ricordati, lo Scoppola, sembra rendersi conto del sem-

plicismo della formula che pure, almeno in parte, accetta, quando scrive che se “il ca-so di coscienza del nostro Risorgimento” appare oggi sanato, non è ancora risolto il“problema centrale” di un giusto rapporto tra coscienza religiosa e azione politica (Dal 

neoguelfismo alla democrazia cristiana cit., p. 176).

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quadro prefascista in cui il Partito popolare poteva essere considerato, en-tro limiti che oggi si tende però a dilatare, una forza di potenziale rinnova-mento della società italiana. Le sinistre, e in particolare i comunisti, ricercandol’alleanza dei democristiani partivano evidentemente da un presupposto di

tal fatta, pensando di potersi subordinare i cattolici sulla via di quelle rifor-me che, d’altronde, non avevano fiducia di poter condurre in porto da so-li.215 Ma De Gasperi concepiva le riforme come provvedimenti amministrativida attuare dall’alto, dopo aver restaurato l’autorità dello Stato, salvaguar-dato l’ordine pubblico e ricostruita l’economia su basi privatistiche: cioè,dopo aver ridato forza a tutto ciò che si sarebbe poi opposto alle riforme.216

Così la Democrazia cristiana, lungi dal costituire una forza almeno poten-zialmente eversiva in senso progressivo, finì col funzionare, proprio per quel

carattere di massa di cui la borghesia non può più fare a meno per i suoipartiti, da strumento principale della salvaguardia della continuità delloStato tradizionale, borghese, censitario, proprietario, conservatore e, a suomodo, risorgimentale. Nel volume ufficiale sul Secondo Risorgimento lo ri-conosce anche il Bendiscioli, quando scrive che la Democrazia cristiana, colprimo governo De Gasperi, “si assumeva il compito di avviare la restaura-zione del vecchio Stato burocratico, facendo leva sulle correnti politicamen-te conservatrici dello spirito pubblico”; ma, crede di poter aggiungere il

Bendiscioli quasi a contrappeso, “rimanendo fedele al proprio programmasociale avanzato, condiviso dalle sinistre”.217 Che poi la Democrazia cristia-na, impadronitasi dello Stato così restaurato, abbia voluto fare un passo piùin là, è altro discorso, cui sopra accennavamo, ma che non rientra, almenodirettamente, nell’oggetto di questo studio.

215 Cfr. P. Melograni, Comunisti e cattolici , in “Passato e Presente”, I, 1958, pp. 587-614.E vedi anche Valiani, Il problema politico cit., in AA.VV., Dieci anni dopo cit., pp. 72sg. e passim.216 Cfr. ancora ibid ., e P. Togliatti, L’opera di De Gasperi. Rapporti fra Stato e Chiesa, Fi-renze 1958.217 M. Bendiscioli, in Il Secondo Risorgimento cit., p. 359. Cfr. le conclusioni del saggiodello stesso autore citato supra, nota 13.

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9. La “delusione della Resistenza”. Esaurimento della polemica sul

“revisionismo risorgimentale”

 Ai nostri fini immediati, interessa porre in luce come il punto della conti-nuità dello Stato, le cui implicazioni vanno al di là del discorso sulla Demo-crazia cristiana, può forse consentire anche a noi di prospettare uno di queiparagoni puntuali fra Risorgimento e Resistenza, cui all’inizio abbiamo di-chiarato di volerci sottrarre. E cioè, che nel 1860 come nel 1945 ha preval-so nelle cose italiane, col favore della situazione internazionale, lo Stato comemomento del già istituzionalmente compiuto.

Fra i Cln e gli altri organismi nati durante la lotta come embrioni dinuove forme di potere e lo Stato ricostituitosi al Sud, è il secondo che ha fi-nito, e abbastanza rapidamente, coll’avere la meglio, nonostante che nel 1946si sia ottenuta la cacciata della monarchia e quella Costituente invano so-gnata nel 1860.

Discende da questo, che è ovviamente solo un accostamento volto a sti-molare la riflessione sulla vocazione italiana allo Stato già fatto come unicoluogo, intrinsecamente trasformistico, della evoluzione sociale, discende for-se da ciò che è da ritenere giustificata una “delusione della Resistenza” chefaccia il paio con la “delusione del Risorgimento” patita dai democratici ita-liani dopo il 1860?

La critica storica ha ormai sufficientemente messo in luce, al di là deitermini in cui il problema era posto dalla pubblicistica dell’epoca, qualefosse la realtà sottintesa da quella delusione; e vincitori e vinti della batta-glia per l’egemonia risorgimentale sono sempre più riconosciuti nelle lorocaratteristiche storicamente concrete, nel quadro di un evento globalmenteprogressivo. Per la Resistenza un analogo processo critico non è forse nep-pure iniziato. Ma non per questo dobbiamo astenerci dal respingere sia ilvolgare ottimismo ufficiale e governativo, sia il moralismo sterile, anche senobile, dei nuovi delusi.

Le forze politiche che hanno raggiunto il potere sogliono nutrire scarsasimpatia per coloro che, nel processo che le ha condotte a tanto, non rinun-

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ciano a individuare voci ed esigenze reali, realmente sacrificate e non soltan-to verbalmente “mediate” o “conciliate” dalla parte vincitrice; e ciò avvienecon tanto maggiore impegno, quanto più una rivincita è considerata nell’or-dine del possibile. Nella classe dirigente postliberazione, come in quella po-

stunitaria, la polemica contro i delusi ha appunto questo significato pragmatico:negare che vi siano problemi lasciati aperti dal periodo critico e rivoluzio-nario, e imbalsamare questo come eroica, oleografica e, al limite, apoliticaparentesi, da considerarsi definitivamente chiusa con l’avvento della nor-malità e col passaggio dalla poesia alla prosa.

Da parte loro, i delusi del Partito d’Azione (mai, forse, come in questocaso l’identità del nome rinvia a una reale affinità fra il partito del Risorgi-mento e quello della Resistenza) hanno il torto di non vedere tutta la origi-

nalità, gravida di progresso, delle situazioni scaturite pur dalla rivoluzioneincompiuta: e finiscono o col far pesare nel giudizio la continuità giuridicapiù che la novità dei fatti,218 o, come ad esempio fa il Bauer, col rifugiarsi inun ideale di libertà proprio dell’eroismo di pochi, mentre “pei più non v’èche l’entusiasmo facile di fronte alla conclusione fatale, ormai evidente”.219

I comunisti oscillano, nella loro valutazione dei risultati della Resisten-za, fra il pessimismo implicito nella denuncia di una Italia preda dei grup-pi più retrivi del capitale monopolistico e del clericofascismo,220 e l’ottimismo

basato sulla convinzione della forza acquistata dal loro partito, che costi-tuirebbe la irreversibile garanzia di una situazione ricca di potenzialità pro-gressive, caratterizzata dai nuovi rapporti di forza già espressi dalla Costituzione.Pietro Secchia ha espresso abbastanza chiaramente questo duplice atteg-giamento in un discorso pronunciato a Napoli nel 1954,221 dove ricono-sce che sino a oggi “gli ideali, gli obiettivi, il programma della Resistenzanon sono stati realizzati”, e che perciò è legittima una certa analogia col-l’esito del Risorgimento (e cita il giudizio di Antonio Labriola su di quel-lo come “rivoluzione democratica non compiuta che lasciò il paese nella

218 Questa ci sembra sia l’osservazione principale da fare al Valiani per il suo saggio, piùvolte citato, in Dieci anni dopo. Rivelatori, nel Valiani, gli accostamenti comunisti-ga-ribaldini (sotto l’insegna del coraggio unito al possibilismo) e azionisti-mazziniani(sotto quella dell’intransigenza).219 R. Bauer, Non poteva essere altrimenti , vero manifesto della Resistenza tradita (Id., Alla ricerca della libertà, Firenze 1957, pp. 411-20).

220 Anche nelle note redazionali di Trent’anni di vita e di lotte del Partito comunista ita-

liano cit., attribuite a Togliatti, si parla, a p. 209, di “restaurazione reazionaria”.221 P. Secchia, Il significato e il valore delle quattro giornate , in “Cronache meridionali”,I, 1954, pp. 669-76. Cfr. anche la conferenza alla Fondazione Gramsci citata supra,nota 11.

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corruttela e nel pericolo permanente”); ma conclude che oggi le forze po-polari e democratiche sono tali che indietro non è possibile tornare.

Togliatti, recensendo la Storia della Resistenza del Battaglia,222 tornava,dopo ventidue anni, a porsi la domanda della legittimità della formula

“nuovo” o “secondo Risorgimento”. La molta strada percorsa dal Partitocomunista italiano trova in quello scritto un riscontro quasi pari a quelloche lo stesso Togliatti ha fornito col suo Discorso su Giolitti . Nel 1953 To-gliatti si colloca con un certo distacco di fronte all’argomento, ironizzan-do sui molti ricami e sulle cose belle e lodevoli che intorno a esso si dicono,e ponendosi alcune corrette domande metodologiche sul nesso tra novitàe continuità nella storia. Il fatto è che Togliatti non teme più, come nel1931, che il “secondo Risorgimento” possa servire da bandiera a un grup-

po antifascista concorrente: egli parla ormai dal punto di vista di quellanuova classe dirigente di cui la Resistenza, scrive, ha segnato il primo ap-parire e affermarsi. E che Togliatti si serva della espressione di “nuovaclasse dirigente” piuttosto che di quella di classe operaia, indica la persi-stente convinzione che quest’ultima, e per essa il Partito comunista, stiaal centro, come guida, di un più vasto raggruppamento di forze sociali epolitiche.223

Torniamo così al punto della valutazione globale dei risultati della

Resistenza, perché una classe dirigente che non riesce a dirigere non è unfenomeno che possa essere preso alla leggera. Ma il nostro scritto deve, aquesto punto, fermarsi, perché la parabola dell’uso immediato del Risor-gimento nella polemica politico-culturale antifascista può considerarsiormai compiuta; e le parole di Ginzburg, che abbiamo citato all’inizio,sembrano più che mai destinate a conservare valore come semplice richia-mo a una scelta pregiudiziale fra libertà e reazione. “Gli è che il mondodel Risorgimento – e chi è stato educato nel suo culto non può scriverlosenza angoscia – si è andato decomponendo nei suoi elementi costitutivie ciascun elemento se ne va tutto solo a cercarsi le sue origini storiche”:così uno dei migliori storici liberali italiani esprimeva pochi anni fa il sen-

222 In “Rinascita”, X, 1953, pp. 678-80.223 Soltanto come esempio di testardaggine ricordiamo “Il Dibattito politico” che, in-tervenendo nelle discussioni suscitate dal decimo anniversario della Liberazione, scri-

ve che la Resistenza ha per novità irreversibile l’aver portato alla ribalta “due vigoroseforze antiborghesi: la cattolica e la comunista”, il cui dialogo e incontro caratterizza an-che gli anni susseguenti. (La Resistenza vince ancora, e Storiografia dei delusi , nei nume-ri del 23 aprile e del 6 giugno 1955).

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so, già da noi richiamato, della caduta dell’ambizione del Risorgimento acostituire il centro della coscienza di una classe dirigente.224

Di fatto, il Risorgimento si allontana sempre più come mito capace disuscitare passioni politiche di vasta risonanza; e, quale che sia il futuro riser-

vato all’Italia, è difficile immaginare che una ripresa di vita democratica pos-sa, dopo il primo e il secondo, inalberare la bandiera di un terzo Risorgimento.I francesi, tutti i francesi, che dopo il 13 maggio 1958 intonavano la Mar-sigliese ci rendono d’altronde accorti sulla ambigua polivalenza in cui puòscadere nella lotta politica l’uso di certi appelli a eventi sempre più remoti.

 Agli studi sul Risorgimento il dibattito svoltosi in seno all’antifascismoha fornito un alimento ormai messo sufficientemente a frutto, tanto che,fermo rimanendo che a ogni solida concezione politica non può non corri-

spondere una organica visione storiografica, possono considerarsi in via disuperamento i vecchi termini della polemica fra revisionismo e antirevisio-nismo. Lo notava tempo fa, da parte marxista, il Cafagna;225 lo confermaoggi il più spregiudicato storico liberale, il Romeo,226 che, passando oltrel’impuntatura spiritualistica sul Risorgimento incontaminatamente etico-politico, considera ormai indispensabile far largo all’esame dei modi e deirisultati dell’accumulazione capitalistica in Italia, e sia pure per ribadire ilgiudizio positivo sulla Destra.

224 W. Maturi, Gli studi di storia moderna e contemporanea, in Cinquant’anni di vita in-tellettuale italiana, a cura di C. Antoni e R. Mattioli, vol. I, Napoli 1950, p. 247.225 L. Cafagna, Intorno al “Revisionismo risorgimentale” , in “Società”, XII, 1956, pp.1015-35.226 R. Romeo, Problemi dello sviluppo capitalistico in Italia dal 1861 al 1887 , in “Norde Sud”, V, 1958, n. 44, pp. 7-60; n. 45, pp. 23-57.

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Indice

3 Nota introduttiva

5 Il “Secondo Risorgimento”

8 Risorgimento e fascismo

20 La “difesa del Risorgimento”

26 Il Risorgimento da completare

37 I socialisti. I comunisti fra Gramsci e il “cosiddetto Risorgimento”

55 Il Risorgimento e i giovani del ventennio

60 Secondo Risorgimento e unità della Resistenza

70 I cattolici

79 La “delusione della Resistenza”. Esaurimento della polemica sul“revisionismo risorgimentale”

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Finito di stampare nel mese di ottobre 2010

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L’Unità d’Italia ha appena un secolo

e mezzo di storia. Si è trattato

di una storia tormentata e difficile,

e le idee dei profeti del Risorgimento

 – un lungo processo non privo

di contraddizioni – sono state utilizzate

da destra e da sinistra, dai fascisti

così come dagli antifascisti in modi opposti.

E, nella storia della Resistenza,

se ne sono serviti in modi diversi il Partito

comunista rispetto a Giustizia e Libertà

e agli stessi cattolici, con maggiore

o minore sincerità, e a volte in modi

decisamente strumentali. Questo saggio

magistrale del 1959 aiuta a far chiarezza,

e ha avuto grande influenza su tutta

la storiografia successiva.

Ripubblichiamo fuori commercio

questo saggio magistrale prendendolo

da Alle origini della Repubblica

(Bollati Boringhieri 1995), anche come

omaggio degli “Asini” a Claudio Pavone,

autore del fondamentale Una guerra civile ,

che festeggia quest’anno

i suoi novant’anni.

9 788863 570571

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