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PIANI DI ZONA in Lombardia
L’esperienza della prima triennalità e l’avvio della seconda stagione dei Piani
PIANI DI ZONA in Lombardia
L’esperienza della prima triennalità e l’avvio della seconda stagione dei Piani
P I A N I D I Z O N A
LA RIFORMA DEL WELFARE LOMBARDO
Risposta ai bisognidella comunità
Con questa pubblicazione l’Assessorato alla Famiglia e Solidarietà Sociale presenta gli esiti del processo di attuazione della prima triennalità dei 98 Piani di Zona, realizzato in coerenza con il principio di sussidiarietà che, per Regione Lombardia, costituisce il fulcro di ogni azione politica e amministrativa.
Il modello di welfare lombardo nasce e si sviluppa a partire da una precisa visione della vita sociale che afferma e persegue il primato della persona e delle formazioni sociali sullo Stato.
In particolare, nell’ultimo decennio, la prospettiva della Regione vede nella libertà di scelta dei cittadini il metodo e il valore che permette di avere un sistema più equo, più soddisfacente, più sostenibile e nella libertà d’azione lo strumento perché la
famiglia, il Terzo Settore, il privato siano elementi attivi del sistema lombardo.
Soprattutto nella realizzazione dei servizi alla persona sono state privilegiate le iniziative dei cittadini e dei corpi intermedi che ne sono espressione; i bisogni evolvono continuamente e le risposte, di conseguenza, non sono immaginabili e definibili a priori. Occorre perciò costruire un sistema flessibile, capace di cogliere il nuovo e di adattarsi ai rapidi cambiamenti che caratterizzano la nostra società.
È questa l’impostazione ideale, prima che politica, che è stata messa in primissimo piano nei nostri programmi favorendo, il più largamente possibile, come criterio guida di tutto il sistema dei servizi, la libertà di scelta della persona e delle famiglie.
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In questo quadro, è prioritario dare prospettiva al sistema del welfare come condizione di sviluppo e so-no stati definiti processi di partecipazione allargata in cui gli interventi progettati dovranno realizzarsi secondo una politica di costante condivisione con gli attori locali.
I Piani di Zona certamente rappresentano lo strumento strategico del governo del sistema locale dei Servizi Sociali e riconoscono il ruolo del privato sociale come elemento portante, sancendo il principio della democrazia partecipata come chiave di volta delle politiche sociali della comunità locale.
Il processo di attuazione della L. 328/00 ha dunque sviluppato opportunità di crescita e spazi di libertà, attraverso cui anche le organizzazioni del Terzo Settore hanno espresso la propria capacità di operare per contribuire allo sviluppo delle comunità di riferimento.
La rete utilizza strumenti innovativi, come i Buoni e i Voucher sociali, adatti a produrre risposte personalizzate e flessibili alle esigenze delle persone e delle famiglie.
Un sistema rivolto alla persona, e quindi al contesto di legami e relazioni (familiari, di vicinato, comunitarie) che ne caratterizzano l’identità, non può prescindere dallo sviluppare strategie e strumenti volti a valorizzare le capacità di organizzazione e di autosoddisfacimento che tale contesto è in grado d’esprimere; occorre partire dal riconoscimento, dal-la valorizzazione e dal sostegno delle capacità della comunità di “prendesi cura” delle fragilità.
L’Assessorato è oggi impegnato nel dare attuazione alla seconda stagione dei Piani di zona; le priorità programmatiche riguardano il rilancio del ruolo della famiglia, lo sviluppo della coesione sociale nei quartieri e nelle comunità locali, l’ulteriore riconoscimento del ruolo del Terzo Settore.
Colgo l’occasione per ringraziare gli Uffici di Piano e le Direzioni sociali delle Asl per il prezioso contributo a questa pubblicazione, segno di una proficua collaborazione e di un cammino condiviso.
Gian Carlo Abelli Assessore alle Famiglia
e Solidarietà Sociale
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PIANI DI ZONA IN LOMBARDIA
Come, dovee quando
La L. 328/00 in Lombardia si innesta su uno scenario normativo e di esperienze maturare nell’ambito dei servizi sociali e socio-sanitari forte e consolidato. La Regione Lombardia ha infatti avviato fin dall’inizio degli Anni ‘80 la costruzione di un proprio sistema sociale e sociosanitario, che trova le sue radici nella legge 1/1986 “Riorganizzazione e programmazione di servizi socio-assistenziali della Regione Lombardia” e nel Piano Regionale Socio Assistenziale per il triennio 1988-1990.
In tali atti la Regione già individuava le funzioni da svolgere obbligatoriamente a livello di Comuni associati, attraverso l’Ente Responsabile dei Servizi di Zona (l’allora USSL) e contemporaneamente stabiliva che ai comuni singoli venisse lasciata la gestione dei servizi privi di complessità tecnico-gestionale: un modello di governance quindi già orientato alla “programmazione associata” e all’integrazione tra politiche sociali e politiche sanitarie, attraverso processi di “delega” dei Comuni alle allora USSL. Il legislatore regionale esprimeva già al
lora una particolare attenzione al problema dei piccoli comuni lombardi, le cui limitate dimensioni non avrebbero agevolato la gestione dei servizi secondo criteri di economicità ed efficienza.
Un quadro, questo, destinato comunque a modificarsi nel corso degli Anni ‘90 sotto la spinta della normativa nazionale: da un lato la legge 142/90 sull’Ordinamento delle Autonomie Locali, la legge 241/90 e le varie leggi Bassanini degli anni 96-97, con le quali veniva riconosciuta al Comune la centralità assoluta e la piena autonomia nella gestione amministrativa del proprio territorio; dall’altro lato, sul fronte sanità, un nuovo assetto del Servizio Sanitario attraverso i Decreti Legislativi 502/92 e 517/93, che hanno caratterizzato la trasformazione delle Usl in ASL, concepite come enti strumentali della Regione.
In questo contesto nazionale, la Regione Lombardia ha emanato la Legge Regionale 31/97 «Norme per il riordino del servizio sanitario regionale e sua integrazione con le attività dei servizi sociali» con cui ha inizio il percorso di ri
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definizione del ruolo delle ASL: un ruolo di sempre maggiore impatto sul piano organizzativo e una presenza sempre più significativa a livello di governance. Ed è sempre in questo scenario che si inserisce anche l’altro tassello del quadro normativo regionale ante L. 328/00: la l.r. 1/2000 “ Riordino del sistema delle autonomie locali in Lombardia”.
È dunque in questo ricco e articolato quadro che si introduce la L. 328/00, la “Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali”: la prima legge nazionale di riforma del welfare che ha l’obiettivo di garantire alle persone e alle famiglie un sistema integrato di servizi sociali, qualità della vita e pari opportunità, al fine di prevenire, eliminare o ridurre le condizioni di disabilità, bisogno, disagio, difficoltà sociali, mancanza di autonomia.
Lo strumento che la legge prevede per definire, progettare e realizzare gli interventi che compongono l’offerta complessiva dei servizi socioassistenziali, forniti da soggetti pubblici, privati e del privato sociale è il Piano di Zona: un innovativo e potente strumento in grado di coinvolgere e meglio coordinare tutte le realtà locali presenti sul territorio.
In grado anche, e soprattutto, di qualificare la spesa con un impiego coerente delle risorse, promuovere solidarietà e aiuto, oltre che responsabilizzare i cittadini e le stesse strutture nella programmazione e nella verifica dei servizi. Si è quindi introdotta una vera e propria
rivoluzione culturale che ha cambiato completamente le regole del gioco.
Al concetto di “delega” si è sostituito quello di definizione degli ambiti di responsabilità e di ottimizzazione delle risorse a disposizione: più potere agli enti locali, dunque, ma anche maggiore responsabilità.
Un progetto di completa ridefinizione dei ruoli, quello richiesto dalla L. 328/00, che la Regione ha voluto guidare attraverso l’applicazione della cosiddetta “soft law” (una normativa semplice e flessibile, costituita principalmente da linee guida e circolari) e che ha richiesto un nuovo metodo di approccio, più moderno e gestionale.
L’unico, in grado di fornire risposte sempre più dinamiche non solo in termini di progettazione ma anche e soprattutto in termini di interventi. E per la cui realizzazione si è reso indispensabile un notevole investimento di risorse umane. I rappresentanti delle parti in gioco necessitano infatti, data la particolare struttura della governance - composta da un organismo politico (Assemblea dei Sindaci dei comuni di distretto) e da un organismo tecnico (l’Ufficio del Piano) di una preparazione all’altezza di un “piano” caratterizzato da obiettivi così ambiziosi.
Le origini e gli attori L’introduzione dei Piani di Zona ha
trovato in Lombardia piena espressione nella DGR. VII/7069 del 23/11/01, nel
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Piano Socio Sanitario 2002-2004 del 13 marzo 2002 e, in termini operativi, nella circolare numero 7 del 29 aprile 2002 della DG Famiglia e Solidarietà Sociale Regione Lombardia che ne ha descritto le principali linee attuative. In primis l’individuazione dell’ambito distrettuale, quale territorio di riferimento del Piano di Zona: la L. 328/00 prevede infatti che sia la Regione a identificare l’ambito territoriale di riferimento per la redazione e attuazione dei Piani di Zona.
La Regione Lombardia ha scelto di configurare il distretto sociosanitario come “area sistema”, grazie alla compresenza di interventi sanitari, socio-sanitari e sociali e alla complementarietà delle reti di offerta, pertanto ha definito la coincidenza tra ambiti dei PdZ e distretti socio-sanitari, lasciando tuttavia aperta la facoltà di due o più distretti di una stessa ASL di associarsi per dare vita a un unico Piano di Zona.
Tale facoltà può essere esercitata solo in presenza di particolari condizioni, una delle quali riguarda il sottodimensionamento del territorio.
Ciò in coerenza con il Piano Socio Sanitario 2002-2004, che stabilisce che la dimensione di un distretto debba considerarsi ottimale nel caso in cui questo comprenda circa 100mila abitanti. Pertanto, distretti sottodimensionati rispetto a tale volume di popolazione hanno la facoltà di aggregarsi per l’attuazione del Piano di Zona in un unico ambito comprendentetutti i co
muni appartenenti ai distretti associati. In Lombardia ciò ha dato origine,
nella prima stagione dei Piani di Zona, alla nascita di 98 ambiti distrettuali. Di questi solo due hanno avuto origine dal-la fusione di più distretti, gli altri hanno ricalcato la localizzazione dei distretti sociosanitari. Inoltre 4 distretti sono risultati di tipo mono-comunale.
Nella programmazione del triennio 2006-2008 questa dimensione territoriale ha subito modifiche solo in due ambiti, per cui a oggi la situazione è quella riportata nello schema visibile a pagina 9.
La definizione dell’ambito distrettuale è particolarmente importante in quanto costituisce il primo passo verso l’elaborazione di un Piano di Zona. Rappresenta, cioè, il livello territoriale ritenuto adeguato, per una programmazione e, in seguito, una gestione dei servizi il più funzionale possibile.
Gli obiettivi Il Piano di Zona altro non è che lo
strumento attraverso cui vengono definiti, progettati e realizzati gli interventi che compongono l’offerta complessiva dei servizi socio-assistenziali forniti dai soggetti pubblici, privati e del privato sociale.
Due i principali obiettivi cui è finalizzata l’attività dei Piani di Zona.
Il primo riguarda lo sviluppo di interventi volti al mantenimento a domicilio dei soggetti fragili attraverso l’utilizzo dei titoli sociali. In particolare i “buo
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TIPOLOGIE DEI PIANI DEFINITI per il triennio 2006-2008
TIPOLOGIE N.PdZ INDIVIDUAZIONE DIMENSIONE
DISTRETTUALE (2) SUB SOGLIA
<100.000 abitanti SOPRA SOGLIA
=>100.000 abitanti
Piani pluridistrettuali (1) 1 1 PdZ di 2 distretti (Vimercate e Trezzo D’Adda
1
Piani monodistrettuali
Mono comunali 3
Milano Busto Arsizio Campione D’Italia
1
1
1
Pluri comunali 94 Tutti gli altri 65 29
Totale PdZ definiti nei 101 distretti sociosanitari
98 67 31
101 76 25
(1) Indicazione Circ. 7/2002 e circ.34/2005 (2) Indicazione PSSR 2002-2004: distretto almeno 100. ab.
ni sociali”, intesi come erogazione di un contributo economico atto a sostenere l’impegno diretto dei familiari o le spese sostenute per l’assistenza resa da personale non professionale o, ancora, dal-le reti di solidarietà per l’accudimento di un proprio congiunto in condizione di fragilità. E i “Voucher sociali”, il mezzo, cioè, attraverso cui è possibile acquistare prestazioni sociali erogate da parte di operatori professionali.
Entrambi i titoli devono essere inseriti in un progetto “personalizzato”, definito congiuntamente tra il servizio sociale e il richiedente o i familiari. È bene ricordare che tali strumenti devono essere gestiti, in forma associata, tra
tutti i comuni delllo stesso ambito. Il secondo obiettivo del Piano di
Zona riguarda la razionalizzazione dei servizi già esistenti e, nello stesso tempo, lo sviluppo di quelli definiti dalla stessa L. 328/00 come “configurazione minima della rete dei servizi”, ossia quei servizi che devono essere assicurati a livello di ciascun ambito distrettuale.
Nella programmazione del 2° triennio, avviata nel 2006 e attualmente in atto, tali obiettivi sono stati confermati quali punti di forza rispetto al sistema di risposta ai bisogni dei cittadini, integra-ti da tre obiettivi che potremmo definire “di sistema”: l’attivazione di forme di gestione associata, la costituzione di un
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tavolo di rappresentanza del Terzo Settore; la costituzione di un fondo di solidarietà tra comuni associati.
Alla base, un accordo Le diverse amministrazioni coinvol
te nell’attuazione del Piano coordinano i rispettivi interventi per il raggiungimento degli obiettivi comuni attraverso quello che viene definito “Accordo di Programma”. Le parti determinano, in questo modo, il ruolo e gli impegni di ogni soggetto, i sistemi di regolazione interna delle relazioni reciproche, i tempi, il finanziamento e gli adempimenti necessari alla realizzazione degli obiettivi. Attraverso l’Accordo di Programma, dunque, i Comuni dell’ambito distrettuale si dotano della configurazione necessaria e sufficiente per la gestione delle funzioni di loro competenza nell’attuazione del Piano di Zona.
Nell’accordo di programma viene inoltre indicato l’Ente capofila del Piano di Zona, espressamente individuato e designato da parte dell’assemblea dei sindaci del Piano di Zona e che assume l’iniziativa per la conclusione e attuazione dell’accordo di programma ai sensi dell’art. 34 L. 262/00. All’ente Capofila dell’accordo di programma per l’attuazione del Piano di Zona vengono conferite le risorse necessarie alla realizzazione delle attività previste dal piano di zona e al funzionamento delle struttura tecnico organizzativa (Ufficio di Piano).
L’Ente Capofila ha il dovere di ren
dere conto agli enti sottoscrittori dello stato di avanzamento dell’attuazione del Piano e dell’utilizzo delle risorse. Perché sia garantita la costruzione di una rete dei servizi e degli interventi sociali che sia integrata, l’accordo di programma deve essere acquisito con consenso unanime da tutti i comuni dell’ambito distrettuale e sottoscritto da tutti i loro rappresentanti (soggetti istituzionali del territorio ai sensi dell’art.34 del DLgs. 267 del 2000).
Il Terzo Settore Un discorso a parte va invece fatto
per i soggetti non istituzionali, quelli cioè appartenenti al cosiddetto “Terzo Settore”. A riguardo, è la stessa L. 328/00 a esprimere la necessità di favorire e coinvolgere, anche nella fase di progettazione, tutti i soggetti attivi in grado di dare apporti in tal senso.
In particolare l’articolo 19, comma 3, stabilisce che i soggetti del Terzo Settore partecipino all’Accordo di Programma in qualità di aderenti o sottoscrittori, attraverso il concorso di risorse proprie per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali previsto nel Piano.
Perché sia poi assicurato un adeguato coordinamento delle risorse umane e finanziarie, sono state messe in atto alcune strategie per favorire la partecipazione dei destinatari, l’approfondimento degli aspetti gestionali, i rapporti con il Terzo Settore, l’associazionismo e l’inte
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grazione all’interno delle varie istituzioni. È in quest’ottica che sono stati isti
tuiti i Tavoli tecnici, principali strumenti della programmazione locale, ma non solo. Data la particolare importanza attribuita al Terzo Settore, soprattutto per quanto riguarda la conoscenza dei bisogni locali e delle risorse, potenzialmente attivabili per integrare l’offerta dei servizi, è stato inoltre previsto, quale obiettivo del 2° triennio, la costituzione di un Tavolo di Rappresentanza.
Il Terzo Settore è un soggetto particolarmente prezioso all’interno del processo di programmazione, non solo per un contributo di tipo gestionale in qualità di produttore ed erogatore di servizi, ma anche in quanto soggetto attivo «di partecipazione al governo del sistema», nelle sue fasi di progettazione, realizzazione e valutazione.
L’ASL Se i Comuni sono i protagonisti dei
Piani di Zona, l’ASL ne è un altro importante attore, con un ruolo che nel tempo si è andato sempre più affermando, rispetto ai Piani di Zona, nella direzione di “presidio” del territorio locale, in un delicato, quanto significativo, equilibrio giocato nel rispetto delle autonomie dei Comuni.
L’ASL ha il compito di verificare che sia garantita la coerenza con le indicazioni regionali, assegna le risorse attribuite dalla Regione agli ambiti distrettuali e può, inoltre, sotto
scrivere gli accordi di programma. L’ASL deve altresì assicurare l’inte
grazione sociale con il socio sanitario e il sanitario ed è pertanto fondamentale che curi la coerenza degli atti di programmazione di sua competenza con quelli che rientrano nei Piani di Zona.
All’ASL è richiesta la capacità di an-dare oltre i confini aziendali per interagire con il territorio individuandone esigenze e risorse; questa è un’altra caratteristica che l’ASL deve saper sviluppare per poter effettivamente esercitare il ruolo di antenna del mutamento sociale, costruendo, attraverso meccanismi partecipativi, un modello di sviluppo “sostenibile” rispetto ai bisogni della persona.
Le Province La L. 328/00, all’art. 7 indica che le
Province concorrono alla programmazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali “per i compiti previsti dall’art. 15 della legge n. 142/90, nonché dall’art. 132 del decreto legislativo n. 112/98, secondo le modalità definite dalle regioni”.
In via generale, all’interno di questi limiti e alla luce di alcune esperienze condotte in fase di definizione dei Piani, la Regione, richiamato anche l’art. 4 comma 20 l.r. 1/2000, ha individuato alcune funzioni che gli ambiti distrettuali, in base a proprie scelte, possono conferire alle Province: collaborazione per la costruzione e l’organizzazione di un sistema informativo dei servizi sociali fi
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nalizzato a migliorare la conoscenza dei fenomeni che necessitano di protezione sociale e a monitorare gli impatti del nuovo sistema di welfare; partecipazione, con un ruolo di “facilitatore” a incontri interdistrettuali sul tema dei criteri di accreditamento ai soggetti erogatori di prestazioni; supporto, relativamente agli interventi formativi, agli operatori coinvolti nel processo di gestione dei PdZ.
In generale, le indicazioni regionali hanno espresso la volontà di lasciare a livello locale la decisione rispetto a quale ruolo richiedere alle province, nel rispetto sia della valorizzazione delle risorse che tale Ente può mettere a disposizione, sia dei limiti comunque imposti dalla legislazione che attribuisce la titolarità del-la governance del sistema ai Comuni.
Welfare oggi L’enorme salto di qualità del siste
ma lombardo è costituito essenzialmente dal principio di libera scelta del cittadino nell’individuazione del soggetto erogatore dei servizi, un principio che si fonda sul principio di accreditamento e che si basa sull’affiancamento dello strumento dei titoli sociali a quello dei servizi consolidati. È un sistema che richiede capacità professionali nuove e nuova capacità di mettersi in gioco da parte dei soggetti erogatori nell’ambito della voucherizzazione.
Alla fine della prima triennalità, all’interno del sistema “titoli sociali”, a es-sere stati maggiormente sviluppati sono
stati i buoni sociali, che risultavano attivati in pressoché tutti i gli ambiti distrettuali ed erogati alle fasce più deboli, in particolare anziani, disabili e minori. Sia pure con maggior lentezza, determinata anche dalla maggior complessità organizzativa, anche la distribuzione di Voucher sociali ha registrato risultati positivi.
Attivati a fine 2005 in 40 ambiti distrettuali, passati a 50 già nel 2006, i Voucher sono stati erogati per lo più per l’acquisto di prestazioni di assistenza domiciliare, con una tendenza all’ampliamento anche rispetto al fronte educativo.
Ciò in coerenza con la circolare regionale n. 6 del 2004 “Indicazioni per l’attivazione e l’erogazione dei Buoni Sociali e dei Voucher Sociali”, che prevedeva la possibilità di utilizzare i Voucher Sociali per interventi sia di tipo assistenziale, sia di tipo educativo, non escludendo la possibilità, previa valutazione da parte servizi competenti, di erogare il Voucher anche in presenza di provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria, con l’implicito messaggio di un rinforzo delle capacità genitoriali.
Per quanto riguarda invece lo sviluppo di servizi, grande impulso ha avuto nel primo triennio la diffusione del segretariato sociale e del servizio sociale professionale: aspetto fondamentale se si considera tale servizio come luogo privilegiato per l’espressione del-la domanda e per la formulazione di un progetto di intervento.
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IL SISTEMA DI GOVERNO DELLA RETE LOCALE
La governance dei Piani di Zona
Riportiamo, quale esempio di prassi attuativa dei contenuti maggiormente innovativi presenti nella riforma dei servizi sociali delineata dalla L 328/00,
un’analisi degli elementi costitutivi il processo di governo (governance) della rete locale “dei servizi e interventi sociali” (Piani di Zona).
La trattazione si riferisce in gran parte alle esperienze sviluppate sul territoriodella Regione Lombardia. Si ritiene che tale esperienza possa proporsi
come paradigmatica in quanto ha visto il coinvolgimento di 1.546 comuni (il 20% circa dei comuni italiani), associati in ambiti territoriali coincidenti con
distretti sociosanitari definiti dalla l. r 31/97, dando vita a 98 Piani di Zona.
Significato di “Governance” ha assunto due ulteriori accezioni, La parola inglese governance è entrambe distinte da “guida” o “con
stata per lungo tempo equiparata a duzione politica”. governing, l’elemento processuale La specificazione di questi diver-del governare, rappresentando così si significati non solo è importante la prospettiva complementare rispet- per evitare incomprensioni e frainto a quella istituzionale negli studi tendimenti; ma anche perché un mudedicati al governo. tamento semantico riflette spesso un
In altre parole, governance viene mutamento di percezione, sia che utilizzato approssimativamente quale quest’ultimo a sua volta rifletta o mesinonimo del concetto tedesco di no cambiamenti nella realtà. politischeSteuerung, ovvero “direzio- Attualmente si ricorre al termine ne politica” (R. Mayntz, 1999). governance soprattutto per indicare
Il termine governance di recente uno stile di governo, distinto dal mo
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dello del controllo gerarchico e caratterizzato da un maggiore grado di cooperazione e dall’interazione tra l’ente pubblico (Stato, Regione, ente locale) e altri attori all’interno di reti decisionali miste pubblico privato.
Il secondo «nuovo» significato attribuito al concetto di governance è invece molto più generale e vanta una diversa genealogia. Governance indica in questo secondo caso modalità distinte di coordinamento delle azioni individuali, intese come forme primarie di costruzione dell’ordine sociale. Questo uso del termine deriva da studi di teoria economica dei costi di transazione, in particolare dell’analisi del mercato e della gerarchia quali forme alternative di organizzazione economica. Vari studio-si hanno “allargato” tali categorie includendo altre forme di ordine sociale: i clan, le associazioni e soprattutto le reti (Hollingsworth e Tindberg 1985; Powell 1990).
La «scoperta» di forme di coordinamento diverse non solo dalla gerarchia, ma anche dal mercato strettamente inteso ha indotto l’uso generalizzato del termine governance per indicare qualsiasi forma di coordinamento sociale non solo nell’economia ma anche in altri ambiti.
In entrambe tali accezioni il termine anglosassone appare particolarmente utile e appropriato per rappresentare i “processi” attraverso cui
viene governata la definizione e l’attuazione dei Piani di Zona.
Alla luce delle diverse esperienze realizzate in attuazione della L. 328/00 possiamo affermare che il sistema di governance dei Piani di Zona possa in sostanza essere identificato dai seguenti elementi:
● un organo politico di governo del settore;
● un territorio di riferimento; ● un organizzazione di sup
porto tecnico ed esecutivo; ● la definizione delle modalità
di gestione dei servizi; ● la definizione dei percorsi e
dei metodi collaborativi con i vari enti pubblici e privati al fine della definizione e della gestione del Piano di Zona o di parti di esso.
Il governo politico del PdZ In Lombardia l’organo di gover
no politico del Pdz è stato identificato nell’Assemblea di rappresentanza dei sindaci di distretto (in altre regioni denominata “comitato” o Conferenza di Zona). Tale organo di rappresentanza politica è composto dai sindaci (o dagli assessori da essi delegati) dei Comuni dell’ambito territoriale preventivamente identificato per la realizzazione e la gestione del Piano sociale di Zona.
In alcune esperienze ai sindaci si aggiunge anche il direttore del distretto sanitario o il direttore genera
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le dell’ASL, i rappresentanti delle organizzazioni sindacali e dei soggetti del Terzo Settore.
Le funzioni delle Assemblee dei Sindaci sono sostanzialmente simili in tutte le regioni; a esse spetta l’esercizio della funzione di governo territoriale nel settore sociale e sociosanitario con l’approvazione dei Piani sociali di Zona e dei program-mi delle attività territoriali di distretto sociosanitario (PAT).
In genere, l’Assemblea dei sindaci è il soggetto politico di riferimento ed è l’organo deputato a:
● Svolgere un attività di indirizzo relativamente alla programmazione, verifica e controllo in ordine all’impostazione e alla gestione del sistema di servizi sociali;
● elaborare le linee guida delle politiche sociali che saranno realizzate all’interno dell’ambito territoriale di riferimento attraverso l’individuazione degli obiettivi di piano;
● emanare indirizzi circa l’istituzione di nuove unità di offerta, servizi o forme di intervento da gestire in forma associata;
● dibattere e recepire indicazioni e orientamenti sugli indirizzi delle politiche sociali locali attraverso il confronto con le rappresentanze organizzate delle forze sociali e del Terzo Settore;
● definire le modalità istituzionali e le forme di organizzazione ge
stionali più adatte all’organizzazione dell’ambito territoriale e della rete dei servizi e degli interventi sociali;
● nominare il suo presidente e individuare l’ente locale capofila;
● nominare gli organismi tecnico amministrativi per la gestione dell’attuazione del Piano (Ufficio di Piano, tavoli tecnici);
● definire le forme di collaborazione fra i comuni, soggetti del Terzo Settore e l’ASL di riferimento;
● approvare il Piano di Zona. Le assemblee dei sindaci, data la
coincidenza geografica con i distretti sanitari, esercitano anche la funzione prevista dalla rappresentanza politica di distretto sanitario, ai sensi della l.r. 31/97, integrando così le previste funzioni di indirizzo sociale, sociosanitario e sanitario.
Il ruolo della Provincia L’art. 7 della L. 328/00 assegna
alla Provincia compiti sussidiari o strumentali all’esercizio di funzioni attribuite dalla legge ad altri soggetti. Le competenze delle Province previste dall’art. 7 appaiono abbastanza marginali rispetto alla definizione e alla gestione del nuovo sistema di welfare locale.
Le indicazioni espresse in merito dalla Regione Lombardia hanno assegnato alle Province funzioni di concorso alla programmazione regionale o di zona e di coordinamen
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to degli interventi territoriali, oltre che di formazione professionale e di raccolta dati per l’elaborazione del sistema informativo. In qualche caso, come in Liguria e in Emilia Romagna, le Province forniscono anche assistenza tecnica ai Comuni.
In via generale, all’interno di questi limiti e alla luce di alcune esperienze condotte in fase di definizione dei Piani, si possono individuare, richiamato anche l’art. 4 comma 20 l.r. 1/2000, alcune funzioni che potrebbero essere conferite dagli ambiti distrettuali alle Province:
● collaborazione per la costruzione e l’organizzazione di un sistema informativo dei servizi sociali finalizzato a migliorare la conoscenza dei fenomeni che necessitano di protezione sociale e a monitorare gli impatti del nuovo sistema di welfare;
● partecipazione, con un ruolo di “facilitatore” a incontri interdistrettuali sul tema dei criteri di accreditamento ai soggetti erogatori di prestazioni;
● supporto, relativamente agli interventi formativi, all’Ufficio per la gestione di Piano e gli operatori coinvolti nel processo di gestione dei PdZ.
Gli ambiti territoriali In applicazione della L. 328/00,
le Regioni che hanno avviato il processo definizione dei Piani di Zona hanno provveduto a ripartire il terri
torio regionale in ambiti territoriali/zone per la gestione dei servizi sociali. Tali ambiti, presentano, nella maggior parte delle esperienze, una dimensione sovracomunale, con l’eccezione di alcune città mediograndi dove gli ambiti del Piano di Zona e del distretto sociosanitario coincidono con il territorio comunale o, più raramente, più ambiti per una sola grande città.
Per favorire la programmazione e l’integrazione socio sanitaria e per evitare il proliferare di organismi, la maggior parte delle Regioni ha previsto ambiti territoriali che coincidono con i distretti sanitari o loro multipli. Sulla scorta delle esperienze realizzate è stato possibile individuare alcuni “criteri generali” che possono contribuire a identificare ambiti territoriali dalle caratteristiche il piu possibile omogenee; se ne citano alcuni a titolo di esempio: a) l’assetto geo-oro-morfologico del territorio; b) l’affinità di bisogni; c) possibilità di utilizzo di risorse e servizi territoriali comuni; d) efficienza del sistema dei trasporti; e) accesso facilitato ai servizi; f) pregresse esperienze progettuali integrate. Una variabile non secondaria nella determinazione degli ambiti riguarda le dimensioni del-la popolazione
A livello nazionale è possibile riscontrare che le medie degli ambiti sono molto diverse da una Regione
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all’altra. Agli estremi troviamo il Lazio, con oltre 130mila abitanti e la Valle d’Aosta, con circa 30mila.
Tra le Regioni in cui è stato introdotto il processo di definizione dei Piani di Zona la media delle dimensioni per abitante dell’ambito territoriale/zona è di circa 80mila abitanti.
Ovviamente sulla determinazione di tali dimensioni influiscono elementi quali: la coincidenza con il territorio del distretto sociosanitario, la collocazione geografica (rurale o urbana), ecc.
Va ricordato che autorevoli studi tendono a identificare una dimensione ottimale per realizzare economie di scala e ottimizzare l’efficienza dei processi gestionali in ambito sociosanitario e sociale in ambiti che coprono una popolazione di circa 100mila abitanti, anche se è chiaro che la dimensione di popolazione non può costituire l’unico criterio per la determinazione dell’ambito.
L’Ufficio di Piano La maggioranza delle Regioni ha
previsto, nell’ambito delle indicazioni fornite agli enti locali per la costruzione e l’attuazione dei Piani di Zona, l’opportunità di sostenere l’azione programmatorio-gestionale connessa al Piano di Zona attraverso la costituzione e l’organizzazione di un organismo tecnico rappresentati
vo di tutti i comuni dell’ambito territoriale che funzionasse da supporto tecnico all’organismo di rappresentanza politica e svolgesse un ruolo di collegamento/coordinamento con quest’ultimo e con altri organismi a carattere tecnico o di rappresentanza (es. tavoli del Terzo settore).
Molte Regioni (Marche, Umbria, Abruzzo, Campania, Lombardia, Basilicata, Sicilia e Lazio) hanno chiamato tale organismo “Ufficio di Piano” o “Gruppo di Piano” o “Struttura del piano”.
Per quel che riguarda le competenze, all’Ufficio di Piano sono in genere assegnate le funzioni relative:
● alla cura della stesura e dell’aggiornamento del Piano di Zona;
● alla diffusione delle informazioni sulle iniziative e sulle modalità di partecipazione e realizzazione dei progetti;
● al supporto tecnico e metodologico per la realizzazione degli obiettivi e delle azioni definite nel PdZ;
● alla predisposizione di strumenti di monitoraggio, verifica e valutazione delle singole azioni progettuali, dei servizi e degli interventi.
Accanto a tali funzioni di natura piu propriamente tecnica è possibile individuare l’attribuzione a tale organismo di competenze di tipo amministrativo-burocratico quali, ad esempio:
● la predisposizione di atti per
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l’organizzazione/gestione dei servizi previsti dal PdZ;
● la predisposizione di atti finanziari (impegno, liquidazione, rendiconto) e la gestione economico/contabile dell’attuazione del piano;
● la predisposizione degli articolati dei protocolli di intesa/convenzioni/bandi, ecc.;
● la raccolta delle informazioni e dei dati, predisposizione rendicontazione, ecc.
In molti casi l’Ufficio di Piano è affiancato e supportato da uno o più tavoli tecnici con funzione di analisi e progettazione tecnica delle soluzioni alle problematiche sociali identificate nel territorio.
Particolarmente significativa risulta la partecipazione di rappresentanze dei soggetti del Terzo Settore alle strutture tecniche.
Le funzioni individuate sono le seguenti:
● raccordo tra le singole amministrazioni comunali e l’Ufficio del Piano per la definizione, elaborazione e attuazione degli obiettivi e delle azioni di sistema contenute nel PdZ;
● consulenza tecnico professionale nelle aree di interventi individuate dal Piano (famiglia minori, disabili, anziani, emarginazione-dipendenza);
● monitoraggio e riprogram
mazione delle attività volte all’attuazione degli obiettivi indicati nel Piano di Zona, in collaborazione con l’Ufficio di Piano e con i rappresentanti del Terzo Settore;
● partecipazione alla realizzazione associata degli obiettivi e delle azioni di sistema individuate dal Piano, in collaborazione con l’Ufficio di Piano e con i rappresentanti del Terzo Settore.
Organismi di rappresentanza del Terzo Settore Non è possibile parlare di gover
nance secondo le definizioni date, senza tenere conto del ruolo del Terzo Settore e delle forme della sua partecipazione a tutto il processo di governo del nuovo sistema dei servizi e degli interventi sociali.
La partecipazione del Terzo Settore nello spirito della L. 328 supera la tradizionale forma dell’affidamento o convenzionamento per la gestione di servizi e assume un vero e proprio significato di partnership con l’ente pubblico per la definizione del disegno complessivo del sistema di welfare locale.
Nel corso dei processi di definizione dei Piani di Zona i soggetti del Terzo Settore hanno in molteplici casi sviluppato proprie forme di rappresentanza (“Tavoli del Terzo Settore” e simili) che hanno trovato, con diverse modalità, collocazione
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stabile sia sui tavoli di confronto politico sia sui tavoli tecnici.
L’individuazione di modalità di coinvolgimento del Terzo Settore nella programmazione zonale, risponde sia alla domanda crescente di partecipazione da parte dei soggetti del territorio, sia alla volontà politica di dare corso a quanto previsto nella L. 328 e nelle diverse linee guida regionali in termini di coinvolgimento e partecipazione. Di fronte all’esigenza e alla volontà di avviare un percorso di partecipazione, si delineano però alcune criticità:
● l’innovatività del tema: non c’è una tradizione consolidata in tal senso. Non esistono cioè metodi e strumenti, per favorire la partecipazione, validi a prescindere dal contesto nel quale vanno a operare;
● l’esperienza insegna che nel mondo variegato del Terzo Settore è difficile individuare rappresentanze;
● ciascun soggetto è portatore di percezioni cognitive differenti rispetto al perché partecipare e questo crea inizialmente aspettative che se non chiarite fin da subito ostacolano il percorso di partecipazione;
● il timore che prevalgano solo i soggetti più forti e abituati al gioco istituzionale e con un rapporto con gli Enti locali;
● un percorso di coinvolgimento necessita di competenze che non “si trovano sui libri”, di continue
ridefinizioni del percorso, di attenzioni specifiche, di un “saper fare” che è patrimonio dell’esperienza.
Che tipo di partecipazione? Posto che sul territorio si regi
strano intenzioni da parte sia dei referenti politici che dei soggetti del Terzo Settore a “partecipare”, che tipo di percorso partecipativo è possibile strutturare? Con quali finalità? Che valore dare al confronto con soggetti terzi? Secondo quanto riportato in letteratura si possono individuare tre modelli di partecipazione, a seconda del momento in cui si apre il processo a soggetti terzi e a chi coinvolgere:
● relazioni pubbliche: il coinvolgimento avviene dopo che la decisione è stata presa. L’obiettivo è di informare l’opinione pubblica e gli altri attori delle scelte fatte;
● consultazione: avviene nel momento in cui si definiscono le soluzioni per cercare adeguamenti che tengano conto dell’opinione di altri soggetti. In questo caso gli attori coinvolti sono i soggetti che esprimono un interesse rispetto alla soluzione proposta;
● partecipazione: che avviene fin dalla fase iniziale del processo decisionale, quando si deve definire il problema prima ancora che ricer-care soluzioni. L’obiettivo in questo caso è di definire le regole del gioco,
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Obiettivo Modalità N. incontri Funzione di coordinam.
Competenze necessarie
Tempi
Relazioni pubbliche
Informare Comunicazione
Unico Bassa Capacità di parlare in pubblico
Brevi
Consultazione
Co-definire le soluzioni
Metodi di consultazione (interviste, questionari, incontri,...)
Definito a priori
Media Capacità negoziali, competenze tecniche di uso degli strumenti
Medi
Partecipazione
Co-definire le regole e i problemi da affrontare
Gruppi di lavoro
Si definisce in corso d’opera
Alta Conduzione di gruppi di lavoro, capacità negoziali, competenze tecniche di uso degli strumenti
Lunghi
Le implicazioni operative dei modelli di partecipazione
di co-definire i problemi e quindi le soluzioni più efficaci per affrontarlo. In questo caso gli attori coinvolti so-no i soggetti che esprimono un interesse rispetto al problema sollevato.
Ciascuno di questi tre modi ha implicazioni sul piano operativo, in termini di competenze, impegno e modalità (come sintetizzato nella tabella qui sopra riprodotta).
Le esperienze trascorse insegnano che la scelta del modello di coinvolgimento dipende in primo luo
go dal contesto e dai contenuti del processo decisionale. Il campo delle politiche sociali, caratterizzato dalla presenza di un numero elevato di potenziali attori interessati, dalla percezione differente che ciascuno ha del tema in discussione, suggerisce un processo di lungo periodo, in grado di aprire momenti di confronto sul metodo (come confrontarsi fra soggetti portatori di istanze, responsabilità, esperienze diverse) e sul merito (che cosa fare
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sul tema degli anziani, dei minori, dei portatori di handicap, per migliorare il territorio,...).
Ma allora, quale percorso? Per le ragioni sopra riportate
(presenza di un numero elevato di potenziali attori con un interesse specifico, necessità di trovare un accordo sulla definizione dei problemi del territorio prima ancora della ricerca di soluzioni) è quindi opportuno che a livello locale si avvii un percorso di partecipazione non tanto (e non solo) mirato alla definizione del Piano di Zona, quanto alla costruzione del sistema integrato dei servizi sociali. In questa accezione, l’attività di coinvolgimento e partecipazione:
● comincia con il percorso già avviato di definizione del Piano di Zona;
● non si conclude con la presentazione del Piano all’ASL;
● prosegue secondo modalità e metodi che dovranno essere stabiliti nel periodo di vigenza del Piano;
● su temi e priorità individuati nel Piano di Zona.
La formalizzazione della partecipazione al PdZ Assunto che l’accordo di pro
gramma è lo strumento giuridico che dà attuazione al Piano, la scelta operata dalla Regione Lombardia di di
stinguere tra “soggetti sottoscrittori”, identificandoli tra i soggetti istituzionali ai sensi dell’art. 34 del Dlgs 267/00, e “soggetti aderenti”, identificati soprattutto tra i soggetti del Terzo Settore, rispecchia nei fatti l’evoluzione della dottrina relativa a questo strumento giuridico, previsto inizialmente per favorire l’azione integrata e coordinata di soggetti pubblici.
La legislazione di settore, sia a livello nazionale sia regionale, ha spesso richiamato gli accordi di programma derogando alla disciplina originaria consentendo la partecipazione di privati.
La partecipazione per i soggetti privati del Terzo Settore all’accordo di programma mediante adesione trova riscontro nella recente normativa regionale sulla programmazione negoziata (Lombardia l.r. 2/2003) che prevede la possibilità per i privati di presentare istanza di adesione all’Accordo di Programma corredandola con una proposta che specifichi gli impegni da essa derivanti.
Sulla scorta di tale orientamento “l’adesione” al PdZ per i soggetti di Terzo Settore non rimane una mera e formale espressione di condivisione di finalità, obiettivi e processi ma diviene occasione di una reale partnership (in termini di parità e reciprocità) con l’ente pubblico.
In estensione al meccanismo di
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adesione, la circolare n. 34/2005 ha previsto anche la possibilità per i soggetti del Terzo Settore di sottoscrivere l’accordo di programma a fronte del concorso con proprie risorse alla realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali previsto nel Piano. Ovviamente il ruolo del Terzo Settore nella veste di gestore/erogatore di servizi e prestazioni resta regolato dalle consuete procedure di affidamento/accreditamento.
Le forme di gestione Attraverso l’accordo di program
ma i Comuni dell’ambito territoriale dotano della configurazione necessaria e sufficiente per la gestione delle funzioni di loro competenza nell’attuazione del Pdz ed eventualmente possono scegliere una delle diverse forme di gestione associata previste dalla legislazione vigente per la gestione del Pdz.
Infatti, superata la fase della pianificazione dei servizi si pone con forza il problema di chi può gestire una rete di servizi sociali intercomunali. Una difficoltà in tal senso deriva dal fatto che l’Assemblea dei Sindaci, non avendo uno status giuridico riconosciuto ma solo politico, non ha alcuna competenza gestionale e quindi non può gestire direttamente il Piano sociale di Zona.
Per questo occorre pensare alla
struttura che può affrontare la fase gestionale del Piano sociale di Zona.
La maggior parte delle Regioni prevede genericamente una gestio-ne associata intercomunale dei servizi sociali secondo le modalità del Testo unico degli enti locali (Dlgs. 267/00) lasciando ai Comuni la possibilità di scegliere quella più adatta alle proprie caratteristiche e al proprio contesto.
Citiamo ad esempio le forme di gestione associata tra le più praticate:
● la convenzione (fra enti locali, al fine di svolgere in modo coordinato funzioni e servizi determinati);
● il consorzio (fra enti locali, per la gestione associata di uno o più servizi e l’esercizio associato di funzioni);
● l’unione di Comuni (sono enti locali costituiti da due o più Comuni, di norma contermini allo scopo di esercitare congiuntamente una pluralità di funzioni di loro competenza);
● l’accordo di programma (per la definizione di interventi che richiedono per la loro completa realizzazione dell’azione integrata e coordinata di comuni e altri enti pubblici) strumento privilegiato dalle indicazioni della L. 328/00;
● l’esercizio associato di funzioni e servizi negli ambiti e nei set-tori stabiliti dalla Regione soprattutto
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nei Comuni di piccole dimensioni. Una volta stabilita la modalità di
gestione associata dei servizi sociali, gli enti locali devono stabilire le forme di gestione da utilizzare e cioè a quale ente o strumento affidare la gestione.
Anche in questo caso le varie Regioni hanno stabilito che spetta agli enti locali dell’ambito territoriale individuare “le modalità organizzative dei servizi” esprimendo in qualche caso delle semplici preferenze.
Dal punto di vista giuridico i servizi pubblici locali vengono distinti in servizi a valenza imprenditoriale (servizi per i quali i costi di produzione sono coperti dai ricavi derivanti dalla cessione dei servizi) e servizi senza valenza imprenditoriale.
I servizi sociali risultano inclusi in questa seconda categoria e per es-si è esplicitamente prevista, almeno in linea teorica solo la forma dell’Istituzione ai sensi dell’art. 114 D.lgs. 267/00.
È prassi consolidata, però, che per la gestione dei servizi sociali possono essere adottate anche altre forme, come quella del consorzio e della società (Srl e Spa) a prevalente capitale pubblico. Non a caso si so-no già sviluppate in Italia numerose esperienze di consorzi intercomunali per la gestione dei servizi sociali e, in qualche più raro caso, anche altre forme come le aziende speciali, le
società di capitale e le fondazioni di partecipazione.
La situazione è tale che permangono ampie possibilità di scelta per gli enti locali ma quali sono le caratteristiche delle varie modalità gestionali? Per quale motivo scegliere l’una o l’altra? È possibile affermare che la forma gestionale più adatta deve gestire servizi sociali per conto di più Comuni, mantenendo però in capo agli stessi un potere di indirizzo politico e di controllo diretto e importante.
Attualmente, la forma gestionale più diffusa per la gestione intercomunale del servizi sociali, dopo gli accordi e le convenzioni, appare es-sere il consorzio intercomunale. La forma gestionale del consorzio garantisce l’omogeneità di intervento sul territorio di riferimento, mantiene in capo ai Comuni il potere di indirizzo politico dell’ente (strumentale) ed è caratterizzata dall’ampliamento del bacino di utenza che consente di ottenere delle economie di scala non conseguibili a livello comunale.
Naturalmente la forma di gestio-ne ottimale e valida per ogni realtà non esiste. Esistono necessità, storie, caratteristiche particolari di cui occorre, localmente, tener conto. Ogni territorio con i tempi e le modalità che riterrà più opportuni saprà trovare la strada condivisa che saprà meglio interpretare la storia e le esigenze di quella comunità.
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I TITOLI SOCIALI
L’esperienzadella Lombardia
Di seguito viene riportato il modello definito per l’erogazione dei titoli sociali, quale nuovo strumento di intervento del welfare lombardo.
In Lombardia, sin dalla fine degli Anni ‘90, sono stati sperimentati local-mente (a livello di territorio di ASL) titoli per l’erogazione di prestazioni di assistenza domiciliare integrata (ADI) di tipo sociosanitario.
Tra il 2001 e il 2002 la sperimentazione ha interessato l’intero territorio regionale, per un totale di circa 63 miliardi di lire e per più di 9000 beneficiari.
Nel quadro della riforma sociosanitaria e sociale avviata dalla Regione Lombardia, i titoli sociali si fondano su principi e orientamenti che esprimono una visione del sistema di welfare che colloca al centro della propria azione la persona e i suoi diritti di cittadinanza.
Rappresentano quindi gli strumenti fondamentali allo sviluppo di un welfare locale, attento alla cura della persona in relazione alla comunità di appartenenza.
È proprio a partire dal riconoscimento, dalla valorizzazione e dal sostegno della capacità della comunità (sia singolo, famiglia, reti di vicinato, ecc…) di prendersi cura dei soggetti fragili, che ciascun sistema locale (Piano di Zona) può sviluppare soluzioni di “quasi mercato regolato” attraverso la progressiva introduzione dello strumento rappresentato dal Voucher.
Tutto ciò deve avvenire, ovviamente, in considerazione delle esigenze e degli assetti organizzativi ed economici di cui dispone.
Per finanziare la prima applicazione e sperimentazione dei titoli sociali, la DGR 11 novembre 2001, n. VII/7069 individuava le risorse aggiuntive del FNPS, dando indicazione affinché fosse destinato nel triennio di attuazione del Piano di Zona il 70% delle risorse assegnate all’erogazione
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di titoli sociali, lasciando facoltà al programmatore locale di raggiungere tale percentuale in maniera progressiva nel corso del triennio.
I criteri di accesso Per sviluppare le regole di accesso ai
titoli sociali per le diverse aree di bisogno, la Regione ha fissato alcuni criteri base indicando “macro parametri” quali l’età, il reddito, il livello di fragilità demandando, poi, a un processo “bottom up” l’elaborazione di tali regole all’interno delle sedi tecnico gestionali (Tavoli tecnici, Ufficio di Piano) con il coinvolgimento di tutti i soggetti istituzionali e di Terzo Settore.
Va sottolineato che per entrambi le tipologie di titoli sociali, le indicazioni regionali individuano come fondamentale il ruolo del servizio sociale professionale, sia attraverso forme di “consulenza/orientamento” al cittadino riguardo alle agenzie erogatrici di prestazione tramite servizi acquistabili tramite Voucher, sia attraverso la predisposizione di programmi personalizzati, concordati con i familiari da persona interessata, sia per quanto riguarda i Voucher sia per quanto riguarda i Buoni sociali.
Un altro elemento sottolineato rispetto all’erogazione dei titoli riguarda la necessità di tener presente l’integrazione con altri interventi, nella logica di costruzione dei progetti di presa in carico “glo-bale” della persona.
A tal fine, è stata sollecitata l’attivazione di modalità di comunicazione tra
ASL (titolare dell’erogazione dei Voucher socio-sanitari) e Uffici di Piano, che consenta di verificare se su una situazione insistono più interventi.
Attraverso, per esempio, la trasmissione periodica di un elenco con i dati anagrafici e il numero di tessera sanitaria dei fruitori del Voucher socio-sanitario (dall’ASL all’UdP) e dei fruitori dei Voucher sociale (da UdP all’ASL).
Il processo di attivazione e di “regia” nell’erogazione dei titoli sociali è individuato in capo all’Ufficio di Piano che può articolarsi operativamente secondo le caratteristiche del territorio e secondo gli assetti organizzativi previsti dal Piano di Zona.
Definizione e applicabilità ● Buono Sociale Come già ricordato, il Buono mira al
sostegno dei familiari, direttamente o attraverso assistenti familiari (le cosiddette “badanti”), o di appartenenti alle reti di solidarietà, nell’accudire, in maniera continuativa, un proprio congiunto in condizione di fragilità.
Ma non solo. Il buono può anche essere orientato a soddisfare i bisogni di soggetti in condizioni di fragilità sociale nell’ambito di progetti individualizzati, definiti con il servizio sociale professionale dei Comuni.
Sulla base di tali considerazioni è dunque da ritenersi improprio ogni utilizzo al di fuori di un progetto personalizzato.
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È altrettanto improprio utilizzarlo come contributo per l’acquisto di generi alimentari, farmaci o presidi sanitari o addirittura usufruirne per il pagamento di canoni di noleggio o l’acquisto di strumenti e attrezzature per la mobilità dei disabili se non per certi patti di un piano d’intervento che consenta di differenziare il Buono da un generico intervento di integrazione del reddito, considerato che generici contributi economici sono già sostenuti o sostenibili attraverso altri canali di finanziamento.
Quello cui si sta assistendo è un orientamento ai cosiddetti “Buoni mirati” che rinforzano il contenuto progettuale dello strumento.
● Voucher sociale Il Voucher sociale è uno “strumento
economico” a sostegno della libera scelta del cittadino, per mezzo del quale è possibile acquistare prestazioni sociali erogate da parte di operatori (caregiver) professionali. Tale strumento è finalizzato a sostenere il mantenimento al domicilio di soggetti fragili individuati dagli artt. 15 e 16, comma 3, lettera d) ed e) della Legge 328/00.
La configurazione attuale del sistema di servizi e interventi sociali facente capo ai Comuni (singoli e associati) della Regione Lombardia identifica il momento di organizzazione, produzione ed erogazione delle prestazioni sociali di tipo domiciliare, principalmente all’interno dei servizi: “SAD” (Servizio Assistenza Domi
ciliare - anziani) “SADH” (Servizio Assistenza Domiciliare Disabili) “ADM” (Assistenza Domiciliare Minori).
Queste attività di tipo assistenziale/educativo, devono intendersi come rivolte direttamente alla persona e realizzate, professionalmente, da operatori dell’area sociale (prevalentemente ASA e Educatori Professionali).
Per quanto attiene l’ADM, non si esclude la possibilità di erogare il Voucher sociale anche in presenza di provvedimenti da parte dell’Autorità Giudiziaria (Tribunale per i Minorenni).
Tuttavia in questi casi, stante la particolarità dell’applicazione degli interventi in un contesto prescrittivo, si ritiene di dover lasciare alla valutazione di ogni singolo caso l’opportunità di proporre alla famiglia il Voucher sociale.
Segnalando un elemento di riflessione: che, in talune situazioni, tale proposta potrebbe assumere, per la famiglia, il significato di rinforzo alle funzioni genitoriali e di partecipazione attiva al processo di recupero delle capacità educative.
In ogni caso non si può però prescindere dai soggetti accreditati presenti sul territorio, che devono essere in grado di saper gestire correttamente sia le relazioni con la famiglia, sia le relazioni con i servizi sociali titolari del progetto e del rapporto con il Tribunale.
A integrazione dei servizi di assistenza alla persona è possibile identificare altre prestazioni “complementari”, ma ugualmente finalizzate a mantenere al
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domicilio il soggetto fragile quali, ad esempio, la preparazione e somministrazione di pasti, il servizio lavanderia, i trasporti anche finalizzati ad agevolare l’accesso a strutture sanitarie e/o sociosanitarie operanti in regime semiresidenziale (es. accompagnamento ai servizi di riabilitazione).
Sempre salvaguardando il principio della valorizzazione della dimensione domiciliare (più o meno integrata nel contesto di relazioni familiari) e delle attività di tipo assistenziale/educativo rivolte direttamente alla persona, possono inoltre essere sperimentate forme di servizio rivolte a bisogni non codificati nei servizi citati.
Un esempio può essere costituito da Voucher finalizzati alla frequenza di minori nella fascia 0-3 anni ad attività di nido famiglia/nido condominiale o a servizi di “babysitting”.
Le condizioni per l’erogazione Le disposizioni regionali prevedono
che i titoli sociali vengano sospesi al momento del ricovero definitivo del beneficiario in strutture residenziali e per il periodo di ricovero ospedaliero. Può invece essere sostenuto con il titolo sociale un ricovero di sollievo, che si pone come intervento a sostegno della finalità più generale di favorire la domiciliarità.
La “non sovrapponibilità” tra titoli e “ricoveri” va intesa, dunque, come non appropriatezza dell’utilizzo di Voucher
sociali per la copertura parziale o totale delle rette per servizi residenziali. È invece possibile che il servizio sociale professionale valuti positivamente l’opportunità di affiancare le prestazioni sociali domiciliari da acquistare attraverso il Voucher all’attivazione di percorsi in regime semiresidenziale.
Definizione dei Voucher I principali elementi per la definizio
ne dei Voucher Sociali sono: ● criteri per la determinazione dei
diversi livelli di Voucher; ● predisposizione e approvazione
del regolamento di ambito (Piano di Zona) per i Voucher sociali;
● patto di accreditamento con i soggetti produttori di prestazioni e servizi.
Ciascun livello di Voucher sociale vie-ne determinato attraverso la descrizione e articolazione di alcune categorie minime, quali:
● destinatari (es. tipologia di utenti: minori, anziani, ecc…);
● contenuto (es. tipo prestazioni, copertura, ecc.);
● operatori richiesti (ASA, educatore…);
● valorizzazione del Voucher; ● organizzazione necessaria.
Regolamento di ambito Le indicazioni regionali per i regola
menti di ambito per i Voucher sociali, predisposti da parte degli organismi tecnici e approvati dall’organismo politico, preve
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dono che i medesimi contengano in particolare i seguenti elementi:
● modalità di accesso da parte dei cittadini;
● descrizione dell’iter di erogazione del Voucher, della formulazione del Piano Personalizzato di Assistenza, delle forme e degli strumenti di controllo;
● recepimento dei requisiti di accreditamento;
● strumenti di controllo; ● modalità di dimissione o
sospensione; ● modalità di remunerazione del
l’erogatore. Il regolamento viene approvato dal-
l’Assemblea dei Sindaci secondo le proprie modalità.
Patto di accreditamento Il patto di accreditamento costituisce,
di fatto, il contratto tra l’ente pubblico di governo del sistema di welfare locale e i soggetti pubblici o privati produttori di prestazioni o servizi remunerate attraverso il Voucher.
I soggetti pubblici e privati, profit e non profit, candidati all’erogazione di prestazioni di assistenza domiciliare sociale (SAD anziani, SAD disabili, ADM…) e di prestazioni domiciliari complementari (preparazione e somministrazione pasti, servizio lavanderia, trasporti…), ferme restando le responsabilità in materia di normativa del lavoro, devono essere in possesso dei seguenti requisiti minimi:
● il rappresentate legale non deve aver subito condanne penali, non deve avere procedimenti penali in corso e deve godere della pienezza dei diritti civili;
● lo scopo sociale (mission aziendale) deve essere in linea con la specificità del settore presenza della carta dei servizi;
● operatività nel settore specifico da almeno due anni;
● le prestazioni professionali devono essere svolte da personale qualificato in relazione alla specificità delle prestazioni sociali da erogare;
● il possesso dell’idoneità professionale nonché organizzativo/gestionale deve essere accertato dall’Ufficio di Piano territorialmente competente.
Questi requisiti possono essere poi ampliati nella definizione di criteri locali che ogni ambito può in autonomia applicare per garantire livelli di qualità adeguati delle prestazioni.
Finalità del Patto Il Patto di accreditamento lega tra
loro, in un contesto di relazione fiduciaria, i soggetti pubblici e privati, profit e non profit che lo sottoscrivono, in quanto attori delle prestazioni connesse al Voucher sociale. La finalità del Patto è quella principale di concorrere alla realizzazione del contenuto che la relazione d’aiuto con l’assistito e i suoi familiari comporta e garantire le prestazioni per le quali il patto è sottoscritto, rispettandone le condizioni.
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Soggetti sottoscrittori Sottoscrivono il Patto: ● il responsabile - o altra figura
apicale individuata - dell’Ufficio di Piano territorialmente competente nel cui territorio il soggetto intende accreditarsi per lo svolgimento di prestazioni di assistenza domiciliare sociale;
● il legale rappresentante del soggetto da accreditare.
Prima di avviare il servizio, il soggetto accreditato porta a conoscenza della persona da assistere o, in caso d’incapacità, di qualcuno dei suoi familiari, il contenuto del Patto affinché venga sottoscritto.
Assistenza domiciliare Il soggetto accreditato, all’atto della
presa in carico dell’assistito, si impegna a concordare con lui e con la sua famiglia le modalità di attuazione del Piano Personalizzato di Assistenza formulato dal servizio sociale comunale e approvato dal-l’UdP, individuando le prestazioni sociali da svolgere a domicilio mediante opera-tori dotati di effettiva competenza tecnico professionale.
La relazione d’aiuto La relazione d’aiuto fra caregiver pro
fessionale e assistito è definita dall’affermazione della centralità della persona fragile da assistere, da considerare tanto nella sua dimensione personale che in quella derivante dal contesto familiare e sociale di riferimento.
Tale centralità orienta sia i comporta
menti del caregiver professionale che quelli del soggetto accreditato.
Caregiver professionale Ha i seguenti compiti: ● esercizio di effettiva competenza
e diligenza professionale nello svolgimento delle prestazioni;
● innalzamento e/o mantenimento della qualità di vita individual-mente percepibile da parte della persona assistita;
● rispetto del credo religioso della persona assistita;
● rispetto della riservatezza rispetto a fatti e/o circostanze di rilievo personale relative alla persona assistita o ai suoi familiari;
● uno stile di lavoro funzionale alla valorizzazione di tutte le risorse relazionali familiari e sociali attivabili in favore della persona assistita;
● la disponibilità ad agevolare la persona assistita e/o i suoi familiari nell’esprimere la mutevolezza degli stati di bisogno.
Soggetto accreditato Caratteristiche: ● assenza di scelte gestionali e/o
di comunicazione incoerenti con la natura delle prestazioni di assistenza domiciliare sociale accreditate;
● tempestiva e corretta informazione della persona assistita e/o dei suoi familiari sulle funzioni e sui livelli di responsabilità interni all’organizzazione
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stessa rispetto all’attuazione dei contenuti del Patto.
Il soggetto accreditato è responsabile della qualità delle prestazioni sociali e della relazione d’aiuto poste in essere dai propri operatori incaricati.
In corrispondenza dell’avvio del servizio devono pertanto essere attivati protocolli operativi, attraverso i quali consentire la periodica verifica dei livelli di qualità di prestazioni e relazione d’aiuto resi e/o percepiti dalla persona assistita e/o dai suoi familiari.
Libertà di scelta dell’assistito La persona assistita (o uno dei suoi
familiari, se non in grado), in relazione al grado di soddisfazione nei confronti delle prestazioni ricevute, ha la facoltà di scegliere un’altra organizzazione qualora subentrino motivi di insoddisfazione durante l’erogazione delle prestazioni medesime.
È bene sottolineare che tale cambiamento è praticabile solo a partire dal mese immediatamente successivo a quello in cui la persona assistita (o uno dei suoi familiari se non in grado) abbia revocato per iscritto la propria adesione al relativo Patto (a suo tempo sottoscritto).
Gli strumenti di verifica I soggetti accreditati devono impe
gnarsi a compilare per ogni utente una scheda di rilevazione (es. diario giornaliero) riferita alla tipologia degli interven
ti, al numero degli stessi, ai tempi di erogazione. È compito degli UdP acquisire, quale strumento di verifica:
● i dati e le informazioni finalizzate alla rilevazione delle prestazioni effettuate;
● i dati relativi alla scheda di valutazione dei bisogni dell’utente definendo tempi e modalità di acquisizione secondo il proprio modello organizzativo.
È bene ricordare che il Patto di accreditamento deve contenere la clausola circa l’impegno da parte del soggetto accreditato ad assolvere il compito annesso alla verifica degli interventi, fornendo le informazioni che saranno richieste dall’UdP.
Ma non solo, il patto deve contenere anche la procedura atta alla distribuzione, compilazione e raccolta del questionario di gradimento da parte dell’assistito e/o dei suoi familiari, in conformità con la modalità di controllo della customer satisfaction.
È quindi opportuno che vengano predisposti idonei strumenti di rilevazione, in grado di fornire informazioni elaborabili e utilizzabili ai fini dell’attività di verifica sia dell’intervento che delle modalità di erogazione.
I compiti dell’Ufficio di Piano L’Ufficio di Piano ha il diritto/dovere
di effettuare verifiche periodiche sulla compiuta attuazione, da parte delle organizzazioni accreditate, dei contenuti del Patto di accreditamento e del Piano assistenziale.
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STUDI E RICERCHE
Analisi dei processidi attuazione
In questa sezione sono riassunti i dati più significativi di due ricerche attivate nel periodo 2002-2005: una a inizio triennalità
e finalizzata a un’analisi comparata della programmazione espressa nei Piani di Zona, e una a fine triennio per verificare la diffusione
e le pratiche esercitate in tema di Titoli Sociali.
Analisi comparata dei processi di avvio dei Piani - Anno 2002 La ricerca, svolta da IRER in colla
borazione con Sda Bocconi nel corso del 2003, ha avuto l’obiettivo di estrapolare alcuni aspetti relativi ai progetti di programmazione avviati con la L. 328/00. Uno dei primi campi di indagine presi in esame riguarda la dimensione dei vari aspetti del fenomeno.
I dettagli del fenomeno I soggetti coinvolti. Nella maggior parte dei casi (30%),
la stesura del Piano di Zona è stata originata da un’azione congiunta di tutti gli attori del territorio, in 16 casi su 100 i Piani hanno coinvolto solo Comuni,
ASL e Terzo Settore. Più raramente (13%), il Comune ha operato senza il coinvolgimento di alcun attore.
Un aspetto interessante riguarda la modalità attraverso cui i soggetti sono arrivati all’intesa. I più hanno raggiunto un primo accordo confrontandosi a tavoli strategici o tematici. Il coinvolgimento è diventato poi più formale (ratifica o confronto con gli interlocutori del Comune) a mano a mano che si avvicinava la fase finale del processo di programmazione.
Mappatura dei bisogni. La mappatura dei bisogni verso
cui indirizzare le attività ha rappresentato un passaggio fondamentale nella
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P I A N I D I Z O N A
stesura di molti Piani di Zona. Ciò ha dato origine a una ricomposizione da parte degli ambiti di tutti i servizi pre-senti sul territorio. Quindi: servizi comunali, ASL e quelli offerti dal Terzo Settore.
Accanto alla mappatura della domanda e dell’offerta, i Piani sono stati completati con la mappatura delle risorse economiche, identificate attraverso schede di rilevazione regionale. Tutto questo lavoro ha dato origine, nella quasi totalità dei casi, all’elaborazione di Piani con una definizione degli obiettivi molto puntuale. Che si è tradotta anche, per il 70% delle situazioni, nell’elaborazione di una scala temporale di realizzazione e di un piano di responsabilità.
Fonti di finanziamento. Nel 90% dei casi la definizione del
programma è stata compiuta sulla base di risorse indistinte (FNPS). In alcuni casi invece (30%), sono stati mobilitati anche altri fondi, nello specifico una quota di risorse proprie dei Comuni. Ciò fa pensare che i Piani abbiano rappresentato più un momento di programmazione delle risorse del Fondo Sociale Nazionale che non una reale programmazione complessiva d’ambito.
Livello di associazionismo Nel 77% dei casi è stato previsto
un percorso di omogeneizzazione del
le regole di accesso ai servizi o di funzionamento degli stessi. Quello che si nota è una tendenziale convergenza, se non degli orientamenti di politica sociale in senso stretto, almeno dei processi di erogazione dei servizi. Nel 75% dei casi è stata immaginata una gestione intercomunale. Nel 29% è stato ipotizzato anche un percorso di tipo istituzionale.
L’utilizzo dei titoli sociali In 90 casi su cento, sono stati
distinti i Buoni dai Voucher. Nel 57% definiti i tempi e la ripartizione tra le aree di intervento. In 25 casi su cento esiste un regolamento di applicazione.
Criteri di accreditamento Se nel 50% dei territori è previsto
un percorso di accreditamento dei fornitori dei servizi, in 9 casi su cento sono stati definiti i soggetti coinvolti nel processo di accreditamento.
Contesto territoriale Al fine di approfondire le modali
tà con cui il Piano di Zona si sia inserito nelle logiche di governance distrettuali, il gruppo di lavoro SDA Bocconi ha provveduto a selezionare alcuni ambiti significativi (Bergamo, Cremona, Gallarate, Lecco, Lodi, Milano, Orzonuovi, Valcamonica, Vigevano e Vimercate) rispetto ai quali condurre un’indagine qualitativa sui processi di realizzazione e gestione dei
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Piani. Lo strumento operativo utilizzato per condurre l’analisi è stato quello dell’“intervista incrociata”: per ogni ambito sono state condotte due interviste rivolte a un referente dei Comuni (prevalentemente Responsabile Ufficio di Piano) e un referente espressione dell’ASL di riferimento.
Il numero di Comuni che compongono gli ambiti del campione oscilla da un minimo di 1 (Milano) a un massimo di 62 (Lodi).
La variabilità riscontrata dipende dalle caratteristiche geo-morfologiche e storiche del territorio o dalle specifiche scelte operate a livello di ambito. Si è preso atto di come la capacità d’influenza del sistema da parte del Comune di maggiori dimensioni non sia sempre correlata all’ampiezza della popolazione residente. Questa capacità è infatti mediata da alcuni elementi, quali:
● il “peso” dei rimanenti Comuni, se si tratta di ambiti molto frammentati (tanti Comuni di piccole dimensioni) o se sono presenti uno o più enti le cui dimensioni hanno favorito lo sviluppo e il consolidamento delle attività sociali, rendendoli di conseguenza interlocutori maggiormente attivi.
● la volontà del Comune più grande di delineare modelli partecipati;
● la capacità dei rimanenti Comuni di organizzare forme di rappresentanza dei propri interessi.
È chiaro, quindi, come l’attivazione di questo meccanismo sia più semplice dove il numero dei Comuni dell’ambito risulti contenuto o, in alternativa, dove le municipalità sappiano individuare una serie di aggregati gestionali intermedi. Prendendo in considerazione, più nel dettaglio, il contesto territoriale, si è potuto procedere all’individuazione di quattro macro-tipologie di contesti, modelli di sistemi locali di welfare, che rappresentano in modo semplificato le diverse situazioni preesistenti alla elaborazione del Piano:
● modello di “centralità dell’ASL” ovvero in cui l’ASL risulta essere il soggetto principale del sistema in quanto erogatore dei servizi in funzione di un’ampia delega riconosciuta da tutti gli attori locali;
● modello in cui il ruolo centra-le è ricoperto dal Comune capofila: i Comuni di piccole dimensioni si appoggiano al Comune di maggiore dimensione per la gestione dei servizi sociali;
● modello bipolare Comune-ASL per cui il Comune di maggiori dimensioni gestisce autonomamente i propri servizi, mentre i Comuni più piccoli si appoggiano prevalentemente all’ASL;
● modello bipolare-comunale, in cui il Comune di maggiori dimensioni gestisce autonomamente i propri servizi mentre i Comuni più pic
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coli ricercano forme di aggregazione. È importante sottolineare la corre
lazione diretta riscontrata tra le dimensioni degli ambiti e il modello adottato.
Comportamento degli attori Per ogni attore si è proceduto a
identificare alcuni modelli di ruolo, espressione delle alternative di comportamento riscontrate (alcune delle quali non autoescludentesi) e delle criticità a queste connesse.
Tale semplificazione non è da ritenersi esaustiva in quanto non rispecchia pienamente le peculiarità dei singoli contesti.
Comune Generalmente speculare rispetto
al ruolo dell’ASL è quello del Comune di maggiori dimensioni (quasi sempre identificato come Comune Capofila) e, più in generale, dei Comuni facenti parte del distretto. I modelli di comportamento individuati sono i seguenti:
● protagonista: un Comune (tipicamente il capofila) ha promosso e redatto il Piano fornendo il necessario contributo tecnico e di supporto delineando così un medio-basso coinvolgimento dei restanti Comuni dell’ambito;
● partecipato: il Piano di Zona è stato realizzato in modo partecipato da tutti i Comuni su iniziativa degli stessi;
● partner: i Comuni hanno par
tecipato alla programmazione prendendo parte ai tavoli tematici nella veste di soggetto istituzionale.
Per quanto riguarda l’attore in questione si sono evidenziate le seguenti criticità:
● difficoltà a individuare, meccanismi di raccordo tra gli enti locali. Non tanto a livello tecnico, quanto a livello politico;
● diversi livelli di efficienza dei tavoli politici e tecnici;
● appesantimento, spesso senza conseguente riconoscimento, del carico di lavoro del Comune capofila.
L’Azienda Sanitaria Locale In riferimento a tale soggetto sono
state individuate le seguenti tendenze: ● protagonista: ha guidato il
processo procedendo alla redazione del Piano;
● propulsore: ha creato il tessuto connettivo e/o tecnico sul quale si è innestato il Piano; in forza dei rapporti con i Comuni, dovuti all’attribuzione delle deleghe, ha agevolato la creazione delle relazioni tra gli stessi;
● partner: ha partecipato alla programmazione prendendo parte ai tavoli tematici nella veste di soggetto istituzionale.
Indipendentemente dai modelli di comportamento rivestiti, sono emerse alcune criticità qualificanti questa prima fase di stesura in termini di:
● tensioni rispetto all’incertezza
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del ritiro delle deleghe; ● correlata ambiguità nella
ripartizione delle spese per i servizi tra ambito sociale e ambito sanitario;
● difficoltà a integrare le programmazioni sociale e sanitaria.
La Provincia Di seguito gli orientamenti riscon
trati: ● facilitatore: ha sostenuto atti
vamente l’elaborazione dei Piani di Zona attraverso lo svolgimento di un ruolo di tenuta complessiva del sistema, promuovendo la collaborazione tra i Comuni e favorendo l’adozione di orientamenti omogenei tra ambiti differenti;
● sostenitore: ha fornito assistenza tecnica in termini di formazione e/o progetti su specifiche tematiche e necessità evidenziate dai vari contesti;
● partner: ha partecipato alla programmazione prendendo parte ai tavoli tematici nella veste di soggetto istituzionale.
Dalle interviste sono emerse le seguenti difficoltà:
● di svolgere una funzione di cerniera tra la Regione e gli ambiti per quanto riguarda la necessità di alimentare solide basi informative che agevolino la futura programmazione sociale regionale;
● di ritagliarsi un ruolo dai confini ben definiti in rapporto agli altri attori del sistema.
Il Terzo Settore Riguardo a tale attore si è eviden
ziata una sostanziale propensione al ruolo di Partner così come descritto per i precedenti attori. Tuttavia è possibile specificare come in alcuni casi (per la verità non molti), il privato sociale non sia stato solo convocato e sentito ma abbia sottoscritto l’accordo di programma.
Tra le criticità emerse sono da segnalare:
● difficoltà a individuare meccanismi di rappresentanza della cooperazione sociale, dell’associazionismo e del volontariato;
● difficoltà a delineare i confini entro cui il privato sociale possa avere voce in capitolo in termini di programmazione e indirizzo (ad es.: scelta dei criteri di accreditamento);
● limitati tempi a disposizione nella redazione del Piano, per organizzare tavoli costruttivi ed efficaci in termini di contributi esperienziali da fornire.
Gestione del Piano Le interviste hanno fatto emergere
come il contesto sociale che caratterizza la fase di stesura, in particolare riguardo al rapporto tra i vari attori del sistema e i loro precedenti equilibri, si sia modificato o sia in corso di ridefinizione. Il ritiro delle deleghe dall’ASL, infatti, parallelamente all’adozione del-la logica PAC (Programmazione-Acqui
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sto-Controllo), rappresenta senza dubbio l’elemento che, più di tutti, ha determinato tale riassestamento dei rapporti.
Solo pochi ambiti o, meglio, pochi Comuni non sono stati interessati da questa evoluzione.
In particolare si è visto come, dove il modello di sistema di welfare locale fosse a centralità ASL o bipolare Comune-ASL (molti dei casi presi in esame), l’attività di stesura e gestione dei Piani sia stata più complessa a causa dei limitati strumenti a supporto dell’esercizio della titolarità e dell’attività di programmazione fino ad allora costruiti a livello di enti locali.
Dove il cambiamento è avvenuto, il Piano di Zona si è rivelato uno strumento doppiamente utile:
● per l’ASL, in quanto ha creato un terreno favorevole al processo di ritiro delle deleghe, accrescendo la consapevolezza sociale degli enti locali;
● per gli ambiti poiché ha consentito di trattare in anticipo il problema della gestione dei servizi “delegati”, che a breve avrebbe investito il sistema locale dei servizi.
Una realtà in movimento Sostanzialmente si è creato un alli
neamento tra lo strumento del Piano di Zona e la logica PAC: il Piano di Zona ha accresciuto la capacità di confronto e di collaborazione dei Comuni
creando presupposti più solidi su cui basare il ritiro delle deleghe. È evidente quindi come anche alcuni modelli di ruolo, precedentemente delineati per alcuni attori, non siano più concretamente rivestibili.
L’ASL, ad esempio, è stata indotta a lasciare il ruolo di protagonista e in alcuni casi a ridimensionare quello di propulsore, ri-baricentrando tali funzioni su uno o più Comuni (a seconda dei nuovi equilibri che si stanno via via definendo: centralità comunale o bipolare comunale) e ad assumere un ruolo sostanzialmente omogeneo alle funzioni di partner istituzionale.
Il cambiamento che ha coinvolto l’Azienda Sanitaria Locale ha poi sollevato delle riflessioni in merito anche alla costituzione di terzi enti (Fondazione, Azienda speciale, Consorzio), per la gestione associata dei servizi tra i Comuni.
È chiaro dunque che si stanno delineando nuove tendenze che a loro volta creeranno nuovi assesti istituzionali da integrare con quelli specifici dell’ambito. Si pensi ad esempio all’eventualità di costituzione di un’azienda sociale d’ambito e al raccordo dei meccanismi di funzionamento della stessa con l’Ufficio di Piano o addirittura alla costruzione di più aziende sociali tra soggetti diversi dello stesso ambito.
Alcuni riordinamenti stanno poi riguardando anche il Terzo Settore. Dati i meno pressanti vincoli tempora
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li, infatti, il privato sociale e gli attori istituzionali di secondo livello sono stati coinvolti in modo sempre più stabile e costruttivo. Ciò è avvenuto, tuttavia, senza che siano stati individuati adeguati strumenti di rappresentanza.
Spese per i servizi Riguardo al versante finanziario, la
ricerca ha puntato a un lavoro sui numeri, capitalizzando da un lato le preziose informazioni raccolte attraverso l’attività ordinaria di monitoraggio messa a punto dalla DG Famiglia e Solidarietà Sociale e proponendosi, dall’altro, di creare schemi di raccordo tra queste informazioni e i dati della contabilità comunale. Sono stati utilizzati:
● per il biennio 1998/99: dati dei bilanci comunali riferiti ai Certificati di Conto Consuntivo di tutti i Comuni della Regione Lombardia (fonte: Ministero degli Interni);
● per il biennio 2000/01: dati consuntivi su entrate e spese per Distretto ASL su ripartizione per aree tematiche (fonte: schede DG Famiglia, Regione Lombardia).
L’analisi è stata strutturata sulla quantificazione di quattro diverse dimensioni:
● spesa totale; ● distribuzione per interventi
della spesa totale; ● distribuzione per servizi della
spesa totale;
● fonti di finanziamento dei servizi sociali.
Dalla ricomposizione e dall’analisi delle risorse spese, sulla funzione 10 del Titolo I dei bilanci comunali riferiti ai Certificati di Conto Consuntivo, si nota che:
● l’ammontare delle risorse spese nel 1998 per la parte corrente della spesa sociale è stato di 1.267 mld. di lire, equivalenti a circa 654 milioni di euro. Rispetto al totale della spesa cor-rente, questa cifra rappresenta il 13,3%. Nel 1999, a fronte di un incremento pari al 5%, il totale della spesa è stato di 685 milioni di euro;
● la spesa sociale dei Comuni si caratterizza per essere spesa per servizi.
La spesa per l’assistenza (più di un terzo del totale), prevale rispetto a quella per asili nido (più di un quarto del totale) e a quella per le strutture residenziali per anziani (più di un quinto del totale).
Questi tre servizi, insieme, rappresentano l’86% del totale della spesa dei Comuni.
Se queste tre aree sono indubbiamente riconducibili a situazioni di bisogno importanti, è comunque opportuno osservare come da questa impostazione risulti sacrificata l’attività di prevenzione.
La partecipazione degli utenti al finanziamento della spesa sociale ammonta a 154 milioni di euro che, nel 1999, sono diventati 161 milioni.
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Si tratta di importi ben diversi rispetto a quelli rilevati come totale della spesa sociale: dal confronto emerge una incidenza dei primi sui secondi, pari al 26% in entrambi gli anni.
Leggendo le fonti da cui i Comuni hanno ottenuto questi incassi emerge una prevalenza, a livello regionale, di quelli per strutture residenziali e di ricovero per anziani, seguiti da quelli per asili nido e per servizio necroscopico e cimiteriale. Sul versante dei dati rilevati attraverso le schede della Direzione Generale Famiglia si osserva:
● un totale di spesa sociale di 495 milioni di euro per il 1999 che diventano 549 milioni nel 2000, con un incremento dell’11%;
● la spesa è polarizzata su minori e famiglia, servizi socio sanitari integrati e anziani;
● la spesa sociale dei Comuni è una spesa sostanzialmente per servizi;
● la quota di finanziamento del Comune ha un’incidenza di due terzi del totale. Il dato si presenta nella stessa dimensione sia per il 2000 sia per il 2001. A partire dalla singola ASL si evidenziano l’esistenza di situazioni anche distanti tra loro. Infatti, pur in presenza di un dato strutturale che riconosce ai Comuni il ruolo di finanziatore di riferimento del sistema, si trovano realtà come le ASL di MI2 e MI3 che esasperano questa situazione con un’incidenza della quota comunale tra il 70 e il 75%.
In contrapposizione a queste situazioni si rilevano i dati delle ASL di Varese e della Valcamonica, con incidenza tra il 31 e il 34%.
Buoni e Voucher sociali in Lombardia (IRER, Istituto Regionale di Ricerca della Lombardia - IRS, Istituto per la Ricerca Sociale)
Per meglio capire le potenzialità e i limiti espressi da questi strumenti di “welfare leggero”, è bene fare riferimento alla ricerca Irer (Istituto Regionale delle Ricerche), condotta alla fine del primo triennio di applicazione dei Piani di Zona. Lo studio offre infatti un quadro descrittivo e valutativo degli ultimi tre anni. Attingendo a fonti, tra loro diverse e complementari, permette infatti di comprendere gli effettivi cambiamenti prodotti dai titoli sociali e valutare tra gli elementi emersi, quelli che possano favorirne un utilizzo maggiormente virtuoso.
Due i percorsi di indagine applicati: l’uno di tipo estensivo che ha riguardato quindi i 98 ambiti distrettuali della Lombardia, attraverso l’analisi approfondita dei dati e della documentazione raccolti dalla Regione Lombardia e l’altro, di tipo “valutativo” che ha invece riguardato sette casi distrettuali (quattro di applicazione di Buoni: Varese, Casalmaggiore, San Donato Milanese e la Valcamonica e tre di Voucher: Vigevano, Garbagnate Milanese e la Valcamonica).
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Principali risultati Lo studio ha evidenziato, in primo
luogo, come i Buoni rappresentino una realtà, nella totalità dei distretti. Nel 2005 ne hanno infatti usufruito 20 mila persone, di cui il 59% anziani. Una cifra rilevante, quindi, che si avvicina al volume di utenza coperta dai Servizi di assistenza domiciliare comunali.
Viceversa i Voucher sono presenti in 4 distretti su dieci, con un’utenza molto più limitata quantitativamente, circa 3.500 persone nel 2005 (56% anziani). Anche se, in vista della loro introduzione, nel 2008, in tutti i 98 distretti, la previsione é di forte crescita. Ma il vero campo d’indagine riguarda l’effettivo valore aggiunto prodotto da entrambi i titoli sociali.
Ebbene, come prima considerazione, é possibile affermare che dopo un periodo in cui molti distretti hanno, oggettivamente, fatto fatica ad assimilare il cambiamento (soprattutto per quanto riguarda i Voucher), la fase attuale vede un processo di sviluppo in cui si sta ponendo grande attenzione alle dimensioni organizzative e professionali.
Pregi e difetti La ricerca evidenzia alcuni
importanti effetti positivi. Si può dire che i titoli siano generalmente apprezzati, ancor di più, se ad essi vengono affiancati anche azioni di sostegno e accompagnamento da
parte dei Servizi Sociali professionali. Soprattutto nel caso dei Buoni. È
importante notare come la libertà di scelta introdotta dai titoli risulti virtuosa nel momento in cui, ad essa, non venga fatto coincidere un principio di totale autonomia.
Che provocherebbe tra gli utenti, non solo disorientamento ma anche una percezione di abbandono.
Voucher e Buoni Relativamente ai Voucher si può
dire che abbiano provocato due effetti: il primo é stato quello di estendere la copertura dei bisogni, il secondo, di rendere più flessibile l’offerta, sia in termini temporali che di differenziazione delle prestazioni.
Eppure per coloro che utilizzavano gli stessi servizi prima della voucherizzazione, la percezione di una differenza di qualità non é così netta. Maggiore é invece la sensazione di poter chiedere di più.
I Voucher sollevano poi alcuni elementi critici quale: una diversa ma mediamente scarsa propensione alla concorrenza da parte dei soggetti erogatori; limitate possibilità di scelta da parte del cittadino e costi gestionali e amministrativi che possono incidere in maniera rilevante sulla spesa totale.
Nel caso dei Buoni, invece, la maggior parte delle criticità sono legate al fatto di essere talvolta concepiti come semplici trasferimenti economici.
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L’EVOLUZIONE
Secondo triennio: che cosa cambia
La programmazione e gestione associata dei servizi sociali dei Comuni avviata attraverso i Piani di Zona, ha rappresentato l’inizio
di un processo di evoluzione di welfare che la Regione Lombardia intende continuare e sviluppare in una logica di crescita
e consolidamento. Fermo restando, quindi, i principi base definiti e applicati nel corso dei primi tre anni, per il nuovo
triennio vengono introdotti alcuni nuovi elementi, meglio in grado di rispondere alle priorità emerse
nel corso della sperimentazione. Di seguito, le linee di indirizzo che costituiscono tali elementi di innovazione, contenute nelle circolari n. 34 del 29/07/2005 e n. 48 del 27/10/2005.
Sistema di finanziamento proprio territorio; La prima grande novità della ● le risorse del fondo sociale
nuova programmazione riguarda regionale (ex circolare n. 4) erogate quello che è stato definito il “sistema ai Comuni e agli enti gestori situati di budget unico”. Ciò significa che i nell’ambito distrettuale e destinate al comuni attivano i Piani di Zona cofinanziamento dei servizi e interattraverso i seguenti finanziamenti: venti di cui al punto precedente;
● le risorse autonome che cia- ● le risorse, a carattere agscun Comune dell’ambito destina ai giuntivo, del Fondo Nazionale per le servizi e interventi di cui ha la tito- Politiche Sociali destinate, sulla base larità istituzionale e/o gestionale sul degli indirizzi regionali, allo svilup
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po dei titoli sociali, degli ulteriori interventi e servizi previsti ai sensi della configurazione prevista dal-l’art. 22 L. 328/00 e delle attività progettuali in capo agli enti locali secondo le finalità previste dalle leggi di settore nazionali declinati dalla programmazione regionale;
● eventuali altre risorse (fondi comunitari, compartecipazione cittadini, finanziamenti privati ecc.).
All’interno del budget unico, costituito con i canali di finanziamento sopra elencati, dovrà essere istituito, a favore dei Comuni con non più di 5mila abitanti, il Fondo Sociale di Solidarietà, come già previsto dalla L.R. 34/2004, art. 4 comma 4. Per il sostegno degli interventi obbligatori, derivanti, dall’affido familiare. O dall’ospitalità, all’interno di strutture residenziali, di minori, sottoposti a provvedimenti giudiziari.
È previsto che il fondo possa essere costituito con le seguenti risorse:
● residui FNPS annualità 20012003 da destinarsi al pagamento delle rette dei minori in comunità a seguito di decreto del Tribunale per i Minorenni. Non è consentito altro utilizzo al di fuori di questo, pena la restituzione delle quote alla Regione;
● quota percentuale del FNPS dell’annata corrente ed eventual-
mente una quota di quanto già assegnato con riferimento al FNPS delle annualità precedenti non costituenti residui;
● risorse comunali. Il fondo dovrà essere gestito
secondo criteri di trasparenza dal-l’Ente Capofila del Piano di Zona.
PdZ e sistema dei servizi Il Piano di Zona costituisce lo
strumento per la programmazione sociale dei Comuni dell’Ambito distrettuale. Perché si realizzi una corretta riorganizzazione delle azioni sociali e dei servizi sulla base delle risorse disponibili, i Comuni devono individuare delle priorità di intervento. Che si possono riassumere nelle seguenti aree di programmazione:
● anziani: favorire la permanenza a domicilio o comunque sviluppare una rete integrata di servizi idonea a permettere alla persona in condizione di fragilità di scegliere la risposta più adeguata alle sue esigenze;
● disabili: sostenere e sviluppare tutta l’autonomia e capacità possibili, rimuovendo gli ostacoli che aggravano la condizione di disabilità e sostenendo le famiglie;
● minori: tutelare i diritti e costruire opportunità sia nelle situazioni di disagio conclamato e dis
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adattamento, sia in quelle, di cosiddetto “disagio evolutivo”, riconoscendo e valorizzando il ruolo centrale della famiglia quale risorsa fondamentale nella logica della rete dei servizi. Particolare attenzione andrà dedicata, in fase di programmazione, anche ai minori sottoposti a procedimento penale, prevedendo misure di integrazione fra i Servizi della Giustizia Minorile e dell’Ente Locale atte a fornire al minore e alla sua famiglia gli strumenti più idonei per far fronte alle fasi di cambiamento e di crisi emerse in occasione del reato;
● immigrazione: favorire l’inclusione sociale degli immigrati, con specifico riferimento agli interventi diretti ad affrontare i problemi legati alla tutela dei minori immigrati, la condizione abitativa e l’accesso ai servizi alla persona;
● adulti in difficoltà: emarginazione sociale, povertà, dipendenze, salute mentale, attivazione di interventi di contrasto alla povertà e di reinserimento delle persone con problematiche di dipendenza con un insieme di prestazioni integrate di tipo socioeducativo. In tale aree andranno ricompresi i problemi delle persone in esecuzione penale interna ed esterna, rispetto ai quali già nel precedente triennio si sono avviati processi di coinvolgimento e consultazione con i servizi dell’Am
ministrazione Penitenziaria. Si individua nei tavoli tecnici
l’ambito per il coinvolgimento di soggetti del Terzo Settore e di soggetti istituzionali che possono contribuire al processo di costruzione, ma anche di valutazione, dei Piani di Zona.
Oltre ai tavoli tecnici, un altro strumento di raccordo tra enti locali e Terzo Settore è individuato nel Tavolo di rappresentanza la cui costituzione rappresenta un altro obiettivo per i Piani.
Titoli sociali Sulla base delle considerazioni
già descritte nei precedenti capitoli, per il nuovo triennio, l’obiettivo è quello di consolidare il sistema dei titoli sociali. Con particolare riguardo allo sviluppo dei Voucher. L’intento è quello di garantire che i Voucher siano erogati in tutti gli ambiti distrettuali. Almeno entro l’ultimo anno di attuazione del nuovo Piano di Zona. Sinora il finanziamento dei titoli sociali è avvenuto quasi esclusivamente attraverso le risorse del FNPS. Per il nuovo triennio si raccomanda ai Comuni di considerare l’opportunità di sviluppare e incrementare tali strumenti anche attraverso una compartecipazione con risorse autonome.
Da un punto di vista organizzativo e gestionale, riconfermando la
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gestione a livello associato dei titoli sociali, andrà definito localmente il modello più “idoneo al soddisfacimento della domanda”, sia per quanto riguarda i Buoni sociali (ad esempio, potrà essere valutato se privilegiare l’erogazione attraverso bandi periodici o attraverso l’accoglienza delle domande in tutto l’arco dell’anno - il cosiddetto “Buono a sportello” - prevedendo in tal caso un adeguato sistema di analisi della domanda potenziale e dei tetti di soddisfacimento; potrà inoltre esse-re valutata l’opportunità di sottoscrizione di un “patto di assistenza”, nonché azioni di verifica e valutazione sull’utilizzo dello stesso Buono), sia per quanto riguarda i Voucher sociali. Relativamente all’attivazione di questi ultimi risultano fondamentali:
● l’accreditamento dei soggetti erogatori;
● la definizione del tipo di voucher che si intende erogare (“a profilo”, corrispondente alle diverse intensità di bisogno; “a fascia unica”, che definisce un importo unico del titolo in base ad alcuni valori medi di costo del servizio; “a fascia oraria”, corrispondente al controvalore di un’ora di assistenza o prestazione);
● l’individuazione degli operatori, scelti all’interno degli staff di Ufficio di Piano o a livello di singo
lo Comune ma sempre in coordinamento con l’Ufficio di Piano, che abbiano le competenze professionali necessarie a sovrintendere e gestire le seguenti funzioni: identificazione di un percorso di analisi della domanda, predisposizione di progetti individualizzati, orientamento del cittadino, nel rispetto della dimensione della libera scelta, verso gli erogatori accreditati più idonei al tipo di intervento individuato nel Piano di intervento personalizzato.
Sviluppo e potenziamento Con una quota del FNPS non
superiore a quella utilizzata per i titoli sociali, potranno anche essere finanziati azioni di sviluppo dei servizi che rientrano nella classificazione della “configurazione rete minima dei servizi” ex art. 22 L.328/2000 e nelle tipologie messe a rete dalla Regione (es. servizi per la prima infanzia). Perché, infine, all’interno di ciascun territorio, sia garantito il riconoscimento del bisogno e l’accesso, ai servizi utili alla sua risoluzione, risulta indispensabile che vi sia un’appropriata rete di servizi sociali professionali e di segretariato sociale.
Forme di gestione associata Il secondo triennio vede, tra le
priorità in capo ai comuni, quella dell’individuazione di forme di
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gestione associata. I Comuni, fra tutte le modalità previste dalla normativa nazionale e regionale, potranno quindi adottare quelle che riterranno essere più adeguate alle loro esigenze, portando tuttavia sempre la massima attenzione agli impatti economici.
Per individuare le possibili forme di gestione applicabili ai servizi sociali occorre far riferimento al Decreto Legislativo n. 267 del 18.08.2005, art. 113 secondo il quale i Comuni possono gestire i servizi pubblici nelle seguenti forme:
a) in economia, quando per le modeste dimensioni o per le caratteristiche del servizio non sia opportuno costituire un’istituzione o una azienda;
b) in concessione a terzi, quando sussistano ragioni tecniche, economiche e di opportunità sociale;
c) a mezzo azienda speciale, anche per la gestione di più servizi di rilevanza economica ed imprenditoriale (servizi per i quali i costi di produzione sono coperti dai ricavi derivanti dalla cessione dei servizi);
d) a mezzo di istituzione, per l’esercizio di servizi sociali senza rilevanza imprenditoriale;
e) a mezzo di società per azioni o a responsabilità limitata a prevalente capitale pubblico locale costituite o partecipate dall’ente titolare del pubblico servizio, qualora sia
opportuna in relazione all’ambito territoriale del servizio la partecipazione di più soggetti pubblici o privati.
A queste forme di gestione van-no aggiunti i consorzi; lo stesso Decreto legislativo all’art. 31 stabilisce infatti che i Comuni per la gestione associata di uno più servizi possano costituire un consorzio secondo le norme previste per le aziende speciali.
Il monitoraggio condotto al momento della chiusura della prima triennalità sui Piani di Zona in Lombardia, ha evidenziato che 37 distretti su 98 hanno attivato forme di gestione associata ricorrendo allo strumento dell’accordo di programma o alle convenzioni; la costituzione di vere e proprie forme giuridiche di gestione ha riguardato principalmente consorzi (6 distretti su 98); aziende speciali (5 distretti su 98); in misura residua fondazioni e srl (2 distretti su 98) e istituzioni (1 distretto su 98).
Si assiste inoltre al fenomeno della nascita di forme associative che non coinvolgono tutti i Comuni di uno stesso ambito, ma parte dei Comuni, a seconda delle affinità delle dimensioni demografiche, delle caratteristiche della popolazione e delle aree di bisogno.
Poiché la realizzazione di forme di gestione associata è individuato
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tra gli obiettivi dei PdZ, può essere utile riportare - con valore esclusivamente esemplificativo - un’analisi comparata delle varie caratteristiche strutturali delle forme a oggi riscontrate.
A mero titolo esemplificativo, si richiamano alcuni vantaggi e alcuni limiti delle diverse forme di gestione:
● il consorzio è caratterizzato dall’ampliamento del bacino di utenza, che consente di ottenere delle economie di scala non conseguibili a livello locale. Inoltre, sempre in virtù dell’ampiezza del bacino di utenza, nel consorzio possono esse-re presenti figure professionali non previste nei singoli enti e possono essere superati problemi connessi a carenze qualitative o quantitative di personale. Un altro elemento è dato dalla maggiore disponibilità di risorse finanziarie a fronte di prevedibili economie di scala. Il consorzio, inoltre, presenta un maggior potere contrattuale nei confronti dei fornitori esterni rispetto ai singoli enti. Infine, con la forma consortile, è possibile garantire omogeneità di intervento sul territorio di riferimento, ovviando al problema della disparità di trattamento per bisogni simili. Tra i punti di debolezza vanno annoverati quelli legati alla lentezza di funzionamento dell’assemblea consortile composta da rappresentanti di tutti gli enti proprietari e le difficoltà
relative alla composizione dei diver-si interessi di cui ciascun ente é portatore;
● l’azienda speciale può garantire livelli di flessibilità organizzativa e gestionale, se tale opportunità è concretamente sfruttata nel momento della stesura dello statuto, evitando che in tale atto vengano inseriti elementi di rigidità tipici del settore pubblico. L’azienda speciale offre, ad esempio, la possibilità di adottare per i dipendenti un contratto di tipo privatistico, che nella maggior parte dei casi rappresenta un’opportunità rispetto ai livelli retributivi previsti per i contratti di tipo pubblico;
● l’istituzione è sottoposta ai vincoli tipici dell’ente locale, essendo priva di un proprio statuto;
● la costituzione di una società (Srl o SpA) consente di ottenere una serie di vantaggi, quali la maggior flessibilità gestionale, cioé l’effettiva possibilità di superare i vincoli formali che caratterizzano gli enti pubblici, e la partecipazione del pubblico risparmio nel caso delle SpA. Tale forma, però, essendo di diritto privato, consente la sola titolarità alla produzione di servizi.
La scelta della forma associata più idonea agli obiettivi gestionali, dovrà quindi essere valutata sia secondo una prospettiva di tipo “istituzionale” per salvaguardare, in
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capo a un ente tra quelli classificati di diritto pubblico la funzione di indirizzo e “governo” delle funzioni individuate dal nostro ordinamento, sia secondo un approccio economico-aziendale che pone l’accento sui reali meccanismi di funzionamento delle “aziende sociali” e sulla loro capacità di consentire un’efficace ed efficiente organizzazione delle risorse a disposizione per il raggiungimento delle finalità istituzionali.
Autorizzazione e accreditamento Nel corso del 2005 sono state
emanate delibere della Giunta Regionale con le quali si è dato avvio al processo di definizione dei criteri di accreditamento della rete d’offerta dei servizi e interventi del sistema sociale per minori e disabili: Delibera n. 20588 del 11/02/2005 e la Delibera n. 20942 del 16/02/2005.
A seguito della l.r. 1/2005 sono state attribuite ai Comuni le funzioni di autorizzazione al funzionamento e di accreditamento delle strutture socio assistenziali e ciò determina a livello locale l’assunzione delle competenze e delle funzioni amministrative in tale materia.
Pertanto, il momento programmatorio dei Piani di Zona diventa anche l’ambito nel quale individuare la forma più consona alla propria
realtà locale per l’esercizio di tali funzioni, valutando sia gli aspetti gestionali sia l’importanza di adottare, relativamente all’accreditamento, criteri omogenei quanto meno a livello di ambito distrettuale.
Sintesi degli obiettivi per il 2006-2008
Di seguito la sintesi degli obiettivi di piano definiti nella due circolari di indirizzo:
● titoli sociali: consolidamento del sistema dei titoli sociali con l’attivazione del Voucher sociale entro il triennio in tutti gli ambiti;
● attivazione di forme di gestione associata dei servizi sociali;
● costituzione del fondo di solidarietà tra comuni associati;
● costituzione di un tavolo di rappresentanza del Terzo Settore: può trattarsi dello stesso tavolo costituito a livello di ASL, purché tutti gli ambiti distrettuali siano rappresentati e purché sia chiara la distinzione delle tematiche in discussione. In relazione ai propri specifici bisogni territoriali, gli ambiti dovranno definire ed elaborare un modello organizzativo integrato relativamente agli interventi in materia penale minori e adulti, secondo quanto indicato dalla legge regionale n. 8 del 14 febbraio 2005, art. 2 “Sistema Integrato di Intervento”.
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SOSTEGNO ALLA DOMICILIARITÀ
I titoli sociali e il sistema dei servizi
Dopo il primo triennio di attuazione, in Lombardia, della legge 328/200 e, in particolare, dell’adozione dei Piani di Zona e a più di un anno
dall’avvio della seconda triennalità, presentiamo una sintesi dei risultati degli interventi attivati a sostegno della domiciliarità.
Risponde la dottoressa Cristina Colombo, dell’Unità Organizzativa Programmazione, Regione Lombardia.
Dottoressa Colombo, che cosa si intende per domiciliarità?
«Quando si parla di domiciliarità si fa riferimento all’insieme degli interventi finalizzati a consentire la permanenza a domicilio di persone fragili che, per vari motivi, non possono svolgere autonomamente le normali attività di vita quotidiana. Il sostegno alla domiciliarità può essere realizzato attraverso una pluralità di servizi e interventi, prevalentemente di carattere socioassistenziale e sociosanitario».
In che modo si attivano gli interventi socioassistenziali?
«Attraverso il servizio di assistenza
domiciliare (SAD), attraverso il Voucher Sociale e altri interventi, di tipo economico, erogati con il Buono sociale».
Può fornire alcuni dati? «Per quanto riguarda il sostegno
domiciliare, le ultime rilevazioni elaborate parlano di 1.181 servizi di assistenza domiciliare. In tema di titoli sociali, i primi a partire e ad avere maggiore diffusione sono stati i Buoni sociali, anche per la loro minor complessità organizzativa.
I Buoni, infine, sono presenti in pressoché tutte le realtà territoriali (95 distretti in 15 ASL) e hanno raggiunto più di 20mila fruitori, il 54% dei quali, anzia
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ni. La spesa complessiva, per il 2005, è stata di circa 36 milioni di euro. Coperta per il 97% dalle risorse del Fondo Nazionale Politiche Sociali.
Il SAD è sostenuto dai finanziamenti del Fondo Sociale Regionale.
Più lento il processo di voucherizzazione che è stato attivato a fine 2005 in 40 ambiti distrettuali. Sempre nel 2005 sono stati raggiunti 3.580 soggetti/famiglie, di cui il 56% anziani, il 23% disabili e il 14% minori (i Voucher sono stati erogati inoltre, anche se in misura minore alle seguenti aree di utenza: immigrazione, emarginazione e salute mentale). La spesa complessiva, nel corso del 2005, è stata pari a 7,4 milioni di euro. Sostenuta per l’86% dalle risorse del Fondo Nazionale Politiche Sociali.
Un dato comunque rilevante, se si considera che nel 2003 l’attivazione è avvenuta in 12 distretti e nel 2004 in 27 distretti. E che il Voucher sociale, come detto, oggi è un’esperienza diffusa in ben 12 ASL su 15 (non è attivo nell’ASL di Cremona, 3 distretti, di Lodi, 1 distretto, e Città di Milano, 1 distretto)».
A che cosa si deve il diverso percorso di attuazione?
«Si deve, principalmente, a due ragioni. La prima riguarda il differente processo di definizione richiesto per l’attivazione dell’uno e dell’altro. Mentre per l’erogazione dei Buoni sociali basta un sistema in cui siano indivi
duati criteri definiti tra tutti i comuni dell’ambito e un regolamento comune, per i Voucher occorre, invece, definire anche il sistema degli accreditamenti per i soggetti erogatori, attraverso la predisposizione e approvazione dell’omonimo patto.
In più, l’attivazione dei Voucher richiede la presenza sul territorio di soggetti disponibili a entrare in un sistema governato da regole diverse rispetto alla formula tradizionalmente usata dall’ente pubblico per affidare i servizi a terzi (appalto/concessione). Ciò implica, quindi, una disponibilità a mettersi in gioco in un sistema di concorrenzialità basato sulla libera scelta del cittadino nell’accesso a un’agenzia piuttosto che a un’altra.
Va, infine, osservato che in alcune ASL il processo di diffusione non è ancora iniziato o si è affermato in modo limitato perché a livello interdistrettuale si è scelto di intraprendere la via della omogeneità dei criteri e delle modalità organizzative .
Il secondo motivo all’origine delle differenze di percorso dei due titoli è ricollegabile alla già attiva presenza di servizi domiciliari, storicamente erogati dai Comuni, nei diversi ambiti distrettuali. I Voucher, infatti, rappresentano una possibilità di accesso a prestazioni domiciliari accessibili attraverso il servizio di assistenza erogato dai comuni e già diffuso, in quasi 1.200 realtà comunali. Tanto è vero
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che, la realtà dei Voucher si è maggiormente affermata proprio nei territori in cui il Sad comunale non era attivo, dove erano scaduti i tradizionali contratti di appalto o dove, al tradizionale Sad, si è scelto di affiancare il Voucher. Per situazioni, per esempio, che richiedevano una diversa flessibilità di orari (es. interventi nei giorni festivi o in orari serali)».
A quale richiesta risponde il Voucher sociale?
«Il Voucher sociale rappresenta una forma di erogazione delle prestazioni sociali di tipo domiciliare, che a oggi sono individuabili principalmente all’interno dei servizi: SAD (Servizio Domiciliare Anziani), SADH (Servizio Domiciliare Disabili) e ADM (Assistenza Domiciliare Minori).
Il Servizio Domiciliare Anziani si caratterizza per le prestazioni, non sanitarie, di sostegno alla quotidianità e alla cura della persona rese da assistenti socio assistenziali. Il servizio per disabili e per minori si caratterizza per l’intervento di tipo educativo. A integrazione dei servizi di assistenza alla persona ci sono altre prestazioni, cosiddette complementari, ma ugualmente finalizzate a mantenere al domicilio il soggetto fragile, quali ad esempio: la preparazione dei pasti, il servizio lavanderia, il servizio trasporti, ma anche di cura della persona, come il servizio “beauty”, il parrucchiere, il pedicure.
Coerentemente con le finalità assegnate dalle indicazioni regionali, che vedono una equivalenza, in termini di tipologia di prestazioni, tra il Voucher sociale e il servizio di assistenza domiciliare, risulta che nel 2005 con i Voucher sociali sono state acquistate complessivamente 26.226 prestazioni e che di queste il 55% è stato assorbito da prestazioni Sad, il 16% da interventi di sostegno educativo minori e una quota residua (7%), per le prestazioni cosiddette “complementari” (quindi: trasporto, pasti e lavanderia). Dati confermati, in termini percentuali, anche per il 2006».
Chi eroga i Voucher? «L’erogazione è effettuata da sogget
ti accreditati che rispondono ai requisiti definiti dagli ambiti, partendo dai criteri individuati dalla Regione. Il sistema dei “pattanti” è costituito prevalentemente da soggetti privati, con un grado di diffusione diversificato a livello territoriale.
Ritengo interessante considerare il ruolo assegnato al Terzo Settore, come soggetto chiamato a essere presente nei momenti di programmazione, anche attraverso lo specifico tavolo di rappresentanza previsto con le più recenti indicazioni regionali, e come erogatore dei servizi in un sistema nuovo e profondamente diverso da quello tradizionale dell’appalto/concessione.
Queste nuove modalità di “esserci” nell’erogare servizi, implicano la capaci
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tà, per il Terzo Settore, di sapersi porre in un sistema sempre più caratterizzato dal-l’accento sulla libertà di scelta del cittadino, dove molto si gioca sulla qualità del servizio reso, sulla soddisfazione da parte del cittadino, ma anche sul “prezzo” richiesto per le prestazioni, che deve essere tale da essere allo stesso tempo sostenibile e competitivo».
E sul futuro del Voucher? «L’esperienza ha dimostrato che il
Voucher rappresenta un utile strumento per sostenere le persone fragili nel percorso di vita autonoma presso il proprio domicilio. È importante, però, che alla base vi sia, da parte degli operatori, una corretta valutazione della domanda. Valutazione che deve tener conto del tipo di intensità assistenziale richiesta, dei tempi di erogazione del servizio e di quale possa essere la relazione più appropriata con gli altri servizi di assistenza domiciliare già esistenti. In questo modo, il Voucher consente di ampliare la gamma dei servizi e prestazioni già esistenti, realizzando pienamente la sua funzione.
Ed è proprio a partire da queste considerazioni che, nella circ. 48/2005, il consolidamento del sistema dei titoli sociali e lo sviluppo dei Voucher viene indicato come obiettivo del nuovo triennio dei Piani di Zona. Ma non solo. È prevista inoltre la possibilità di sperimentare forme di voucherizzazione di altri servizi sociali a carattere diurno o resi
denziale (a esclusione delle comunità di accoglienza per minori) attraverso percorsi progettuali che dovranno essere concordati dagli ambiti distrettuali con la Regione.
I dati raccolti a fine 2006, e quindi nel primo anno di questa seconda stagione dei Piani, danno atto che anche i territori stanno valorizzando il voucher come “servizio tra i servizi”. Si è registrata infatti una diffusione del voucher nei distretti, passando dai 40 del 2005 a 50 nel 2006, con ampliamento della platea dei beneficiari e un livello di integrazione che appare positivo tra servizi domiciliari “tradizionali” e servizi per domiciliarità voucherizzati. Sono in cor-so peraltro incontri con tutti gli Uffici di Piano proprio per verificare in modo congiunto anche quali sono gli effetti sul sistema di questa nuova modalità di rispondere ai bisogni dei cittadini.
Ma il punto più importante da evidenziare, in termini di futuro, è l’evoluzione del Voucher che, nato come strumento che possiamo definire “equivalente” al servizio di assistenza domiciliare, si va sempre più configurando, nelle volontà regionali, come strumento di sostegno alle famiglie anche per bisogni di tipo sociale ed educativo, come declinato nella circolare 31/06, che prevede l’utilizzo dei Voucher a sostegno delle famiglie numerose.
Una nuova strada, che sta tracciando un nuovo percorso per gli interventi a sostegno della famiglia».
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LE POLITICHE PER LA FAMIGLIA
Uno sguardo al futuroL’esperienza sin qui condotta ha dimo
strato che la programmazione associata esercitata attraverso i PdZ rappresenta l’occasione per dare risposte strategiche all’esigenza di passare da una cultura assistenziale di erogazione delle prestazioni alla persona “bisognosa” a una politica positiva di servizi fra loro integrati, a favore della comunità locale. Le politiche legislative che orientano lo sviluppo dei servizi sociali devono essere viste, secondo questa logica, come una grande opportunità per modernizzare il sistema di risposta alle grandi questioni e ai problemi che coinvolgono gli individui e le famiglie nei diversi momenti del loro ciclo di vita. Proprio la famiglia è stata in questi anni il paradigma attraverso cui la Regione ha reinterpretato la propria azione di governo nel settore delle politiche del welfare.
Già con la l.r. 23/1999 è stato realizzato un modello di azione pubblica su vasta scala attraverso la promozione, valorizzazione e responsabilizzazione diretta delle famiglie, chiamate attivamente ad associarsi, a pensare, proporre e realizzare i progetti in risposta alle proprie esigenze.
Regione Lombardia ha scelto di investire sulla famiglia, in particolare quella con figli piccoli e quella numerosa. Per tale ragione, la nostra Direzione è impegnata su una serie di fronti che hanno come tema centrale la
famiglia numerosa e di nuova formazione. Queste, nel dettaglio, le azioni che verranno messe in campo: politiche a sostegno della fiscalità; politiche abitative; politiche a sostegno dell’educazione; sostegno alla famiglia attraverso il sistema dei titoli sociali; informazione, orientamento e messa in rete dei servizi a disposizione della famiglia.
Tali interventi si inseriscono nel contesto dei servizi alla persona e della programmazione locale dei PdZ e introducono nuove misure di protezione sociale per soddisfare i crescenti bisogni di assistenza con il coinvolgimento di tutti gli attori del territorio ai vari livelli di responsabilità, perseguendo una logica di forte integrazione a tutti i livelli programmatori. Per garantire risposte efficaci e interventi mirati è infatti necessario mettere a sistema risorse per creare sinergie con quanto prodotto e sperimentato a livello locale.
Visti in questo quadro, i PdZ assumono un ruolo decisivo per la costruzione di un sistema che potrà sempre più evolvere ed affermarsi quanto più sarà forte la responsabilità dell’organismo politico di perseguire e proseguire una logica di programmazione fortemente partecipata tra Comuni e a livello tecnico la competenza degli uffici Piano.
Umberto Fazzone Direttore Generale
Famiglia e Solidarietà Sociale
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ASPETTI POSITIVI E CRITICITÀ
Le voci dai Distretti«Che cosa è cambiato nel sistema di risposta ai bisogni dei cittadini:
luci e ombre dei Piani di Zona»: questa la domanda posta ai referenti di 98 distretti e sintetizzato dai referenti delle ASL. Ne pubblichiamo qui le risposte
che, messe una a seguito dell’altra, mostrano un quadro fedele dell’esperienza fin qui vissuta e indicano la direzione verso cui andare nel futuro prossimo.
BERGAMO L’introduzione dei Piani di Zona ha per
messo di raggiungere un buon livello di equità nell’erogazione dei servizi. Alcuni ambiti faticano più di altri, ma l’impianto generale è servito a far crescere gli ambiti equilibrando i servizi sul territorio. Tra gli aspetti positivi: il potenziamento del personale e il miglioramento delle prestazioni. Accanto ai risultati positivi, vanno comunque evidenziate alcune zone d’ombra: la presenza nei Comuni di forme di ritrosia, di rogine storica o culturale, nei confronti della programmazione condivisa; le indicazioni regionali hanno trovato alcune difficoltà a calarsi nelle specifiche peculiarità del territorio bergamasco.
L’incertezza, poi, sull’entità dei finanziamenti (solo annuali) e la frammentazione dei canali di finanziamento ha determinato una difficoltà nella programmazione unitaria e pluriennale. Risulta inoltre opportuno migliorare il raccordo fra il ruolo dell’Assemblea dei Sindaci e il ruolo dell’Ufficio di Piano.
BRESCIA Punti positivi: il Piano di Zona ha permesso
di definire sul territorio equità e omogeneità degli interventi a favore della popolazione e ha portato a una maggiore informazione e conoscenza dei servizi, facilitando l’accesso dei cittadini agli stessi. L’Ufficio di Piano è divenuto un luogo di confronto, dibattito, pensiero rispetto alle risposte ai bisogni dei cittadini. Con i tavoli tecnici è stato possibile incontrare i vari interlocutori territoriali e evidenziare i diversi bisogni.
Punti critici. Difficoltà di rendere omogenea la programmazione dei servizi/interventi sociali in un territorio quanto mai eterogeneo; mancanza di un adeguato incremento delle risorse umane ed economiche; difficoltà a realizzare il raccordo tra le politiche sociali, sanitarie, educative, formative, culturali, urbanistiche e abitative.
COMO Il processo di assunzione di sviluppo delle
politiche sociali da parte dei Comuni – iniziato
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nel 2002 – è ormai concluso, con limitate eccezioni in materia di adozioni, anche in virtù delle peculiarità della materia. Il pieno esercizio da parte dei Comuni delle attività socio-assistenziali “ex delegate” costituisce un positivo presupposto per la completa espressione della programmazione zonale. I titoli sociali sono stati introdotti presso tutti i territori consolidando il loro utilizzo; è stato costituito, nel 2004, un Tavolo tecnico coordinato dall’ASL per l’individuazione di criteri comuni. I Tavoli di confronto con il Terzo Settore, in particolare, costituiscono spesso l’evoluzione di Tavoli tecnici o tematici già presenti presso tutti gli ambiti per la predisposizione dei PdZ; si rilevano a volte criticità nell’utilizzo di tali strumenti e nei rapporti con i soggetti del Terzo Settore.
CREMONA L’introduzione dei Piani di Zona ha per
messo di prendersi un tempo per migliorare il funzionamento dei Servizi socio-assistenziali ed evitare inutili sprechi. Ma la visione d’insieme è un obiettivo ancora in parte percepito come in contrapposizione o distante dalle politiche dei singoli Comuni. Il rischio della programmazione e gestione unitaria è, però, la distanza che può crearsi rispetto al cittadino. Una distanza che può essere colmata con l’attenzione alla comunicazione e alla trasparenza dei processi di aiuto, attraverso la preparazione degli opera-tori sociali e la partecipazione delle associazioni che rappresentano le istanze dei cittadini.
In questo senso, la sensazione degli operatori è di lavorare in costante affanno rispetto agli impegni. La richiesta primaria è quella di qualificare maggiormente lo scambio e la
comunicazione con i Comuni, favorendo una maggiore visibilità dell’operato del Piano di Zona, potenziando una gestione centralizzata a livello distrettuale.
LECCO Le positività rilevate sono: la valorizzazio
ne delle risorse del territorio, per un buon lavoro di rete; l’associazionismo tra Comuni di alcune subaree che ha permesso la realizzazione del SAD e del Servizio Sociale di base in tutti i Comuni; la costituzione dei Tavoli Tematici che ha permesso a una pluralità di esperienze di incontrarsi, confrontarsi, discutere e condividere problematiche sociali; la valorizzazione delle professionalità; la creazione di una cultura consolidata in materia di servizi sociali.
Tra i punti critici si sono invece evidenziati: alcuni contrasti politici; le differenze tra Comuni di dimensioni diverse e il problema della rappresentatività di quelli più piccoli; il non completamento di un programma di integrazione socio-sanitaria; la scarsità di risorse economiche che si ripercuote sulla programmazione e sull’offerta dei servizi sociali; il poco tempo, le scarse risorse a disposizione dell’Ufficio di Piano. Le strategie di miglioramento dovrebbero essere orientate alla necessità di creare maggiore condivisione politica nelle scelte programmatorie e di potenziare la competenza tecnica e gestionale.
LODI Nei distretti di Lodi e Casalpusterlengo si è
in piena fase attuativa e si sta cercando di interpretare il mandato del Piano di Zona come: opportunità per affrontare problemi di rilevan
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za sociale con modalità integrate; invito a un’innovazione organizzativa del sistema dei servizi, rendendo la spesa più congruente alle necessità del territorio e migliorando l’offerta in termini di maggior accessibilità e omogeneità dei livelli di servizio.
Un primo esito, su cui continuare a investire, è la crescita della consapevolezza rispetto alle problematiche sociali da parte degli amministratori, chiamati a orientare le scelte in termini di politiche sociali. Esempi concreti della modalità di progettazione partecipata e condivisa sono i gruppi di lavoro sui problemi, l’equipe territoriale dei Servizi sociali coordinata dal-l’Udp, il Tavolo Tecnico, il Tavolo Istituzionale Sovradistrettuale che insieme alle Assemblee Distrettuali rappresentano gli organismi di Governance attivi e funzionanti nel territorio.
MANTOVA Nell’esperienza maturata fino a oggi, si è
riscontrata una maggiore omogeneità nelle risposte ai seguenti bisogni diversificati per aree: anziani, disabili e salute mentale, minori e famiglia, immigrazione ed emarginazione.
Per quanto riguarda i punti di debolezza, i vincoli imposti dalla Regione per l’utilizzo delle risorse economiche ci sembrano a volte in contraddizione con la richiesta di programmazione autonoma dei PdZ. La distribuzione dei fondi regionali ci sembra poi tenga conto solo di un parametro di tipo quantitativo (N. abitanti), mentre una ripartizione con approccio di tipo qualitativo consentirebbe di tenere presente anche la composizione del tessuto sociale.
In seguito a un trend di invecchiamento della popolazione, inoltre, ai Comuni e ai
Distretti vengono sempre più richieste prestazioni che si collocano in una zona border line tra il sociale e il sanitario. A queste richieste non sempre si riesce a dare risposta integrata tra i vari servizi.
MILANO CITTÀ Il modello di governance del Piano di
Zona 2006-2008 del Comune di Milano si attua tenendo conto dell’evoluzione della domanda sociale, del Piano Generale di Sviluppo e della necessaria flessibilità e implementazione dei servizi e delle relative risorse. Uno dei principi ispiratori della costruzione e gestione del PdZ è quello di una maggiore “prossimità” e “condivisione”. Per questa ragione è stata avviata una collaborazione interassessorile in termini di definizione, di costruzione, di programmazione, di monitoraggio e di intervento di sistema, integrando le politiche sociali con quelle sanitarie, urbanistiche, della casa, culturali, della sicurezza, del lavoro. Ispirandosi al modello di governance europea, sono stati assunti come fondamenti della governance milanese i cinque principi seguenti: apertura, partecipazione, responsabilità, efficacia e coerenza.
MILANO 1 La programmazione sociale di zona ha
favorito un sistema di servizi e interventi sociali integrato e partecipato. Un’occasione per innovare i servizi, innescare processi di integrazione, di connessione e relazione sia tra i Comuni, sia con il Terzo Settore attraverso i tavoli d’area. Il tutto supportato da una raccolta dati che ha permesso un’analisi dei bisogni. Accanto agli esiti positivi, alcuni ambiti hanno evidenziato criticità
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non ancora superate. Tra di esse, alcune difficoltà: nel prendere decisioni programmatorie che vadano oltre gli interventi finanziati con il fondo aggiuntivo del F.N.P.S.; nel costruire un’integrazione degli interventi e servizi già esistenti all’interno dei singoli Comuni; nell’armonizzare i criteri e i regolamenti di accesso ai servizi.
MILANO 2 Tra i punti di forza sono da annoverare: la
riqualificazione dei servizi in essere e l’avvio di nuovi interventi; il rafforzamento della rete dei servizi e del ruolo di regia degli Enti Locali; la condivisione di linguaggio, approccio, modalità di intervento tra i Comuni; l’aumento di professionalità e competenze tecniche all’interno dei Comuni; l’avvio di un processo di crescita delle realtà del Terzo Settore; le integrazioni con altri strumenti di pianificazione; l’introduzione di una logica di valutazione degli interventi, alla quale concorrono gli “utenti” dei servizi.
Tra le criticità: non è stata raggiunta una razionalizzazione dei costi; serve un’evoluzione dell’Ufficio di Piano; la gestione di risorse defilata rispetto ai bilanci non consente una programmazione economica degli interventi sociali; i meccanismi decisionali riguardo alla pianificazione dei servizi non sempre si sono mostrati efficienti. In un’ottica sovradistrettuale, infine, il territorio di ASL Milano 2 presenta ancora disomogeneità tra i livelli organizzativi e quali/quantitativi della gestione associata e dell’offerta di servizi tra i diversi ambiti.
MILANO 3 Sul territorio dell’Asl Provincia di Milano 3,
il processo di integrazione istituzionale, gestio
nale e professionale degli Ambiti Territoriali si è sviluppato secondo linee coerenti con gli indirizzi regionali. In esito a uno specifico percorso di formazione, dove sono emerse criticità e sono stati suggeriti specifici strumenti di semplificazione, si è giunti a gennaio 2007 alla firma dell’Accordo di Programma per la Governance in ambito socio sanitario. Una tappa fondamentale, che ha portato a individuare nella dimensione distrettuale il luogo di elaborazione partecipata della programmazione Socio Sanitaria e sociale. Giova sottolineare lo sforzo che gli ambiti stanno compiendo nell’alimentazione del Sistema informativo sociale regionale, costituito da Report che, declinando per target di fragilità la scelta nella destinazione delle risorse, consentono anche di disporre di indicatori utili ai fini della programmazione sociale successiva.
PAVIA I Piani di Zona nel primo Triennio, si era-
no posti come obiettivi primari l’introduzione del Segretariato Sociale nei Comuni che ne era-no privi e l’istituzione dei titoli sociali, interventi che si sono rivelati utili per il mantenimento al domicilio dei soggetti fragili. Inoltre, la progettazione condivisa ha dato luogo a un maggior coinvolgimento degli amministratori locali e dei referenti sociali dipendenti dai Comuni. La maggiore vicinanza ai bisogni dei cittadini ha aumentato le capacità di risposta.
Sull’altro fronte, per alcuni Distretti si rileva una certa difficoltà nell’utilizzare le norme che regolamentano il PdZ come strumento per l’organizzazione ed erogazione di servizi e interventi sociali a livello integrato. Alcuni Distretti, inoltre, segnalano la perplessità a individuare la
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tipologia della forma di gestione associata per la gestione del Piano di Zona, dovute ai costi di gestione che qualsiasi forma comporterebbe; tali oneri si rifletterebbero negativamente sulla quantità dei servizi erogati ai cittadini.
SONDRIO Punti di forza: l’istituzione del Servizio
Sociale di Base ha permesso maggior capillarità e uniformità nel sistema di rilevazione dei bisogni sul territorio e di risposta agli stessi; maggior coinvolgimento degli Enti Locali e del Terzo Settore nelle fasi di lettura del bisogno e della programmazione; passaggio dalla gestio-ne delegata a una gestione associata dei servizi secondo principi di solidarietà; utilizzo dei titoli sociali (per alcuni Uffici di Piano).
Criticità: l’Ufficio di Piano, essendo titolare sia della programmazione degli interventi sia della gestione ed erogazione dei servizi, rischia di spostare la propria attenzione più sugli aspetti gestionali che quelli di programmazione; eccessivi vincoli da parte della Regione (per alcuni uffici di Piano); poca certezza nell’entità delle risorse e ritardi nella loro assegnazione (per alcuni Uffici di Piano); ruolo non definito del Terzo Settore rispetto alla progettazione.
VALLECAMONICA Il Piano di Zona è servito ai Comuni per
iniziare a pianificare: pianificazione come motivo di riflessione, momento di rielaborazione dell’esperienza fatta, integrazione delle diverse soggettività, mappatura dei servizi esistenti. Il secondo elemento di positività è che le politiche sociali, da quando ci sono i PdZ, hanno ottenuto la giusta visibilità nell’agenda degli
amministratori. Terzo elemento: si è cercato di uniformare i criteri di accesso dei cittadini ai servizi, non facile per un territorio complesso come il Distretto di Valle Camonica formato da comuni montani di piccole dimensioni.
L’UdP rileva la mancata integrazione tra i servizi sociali e le altre politiche: quelle della casa, quelle formative, quelle del lavoro. Infine, ci si interroga sul futuro della 328/2000 e dei Piani di Zona, sul mantenimento dei fondi di cui alla ex circolare 4 e sulle future fonti di finanziamento.
VARESE Per quanto riguarda gli aspetti positivi,
emerge la condivisione a livello sovracomunale di scelte e modalità di intervento quali lo sviluppo del servizio sociale nei Comuni che ne erano privi; la definizione zonale di criteri di accesso ai titoli sociali; l’avvio di relazioni con enti e organizzazioni del privato sociale con la conseguente messa in rete degli Enti che hanno partecipato alla programmazione zonale.
Sul versante delle criticità si segnala ancora qualche difficoltà sul versante di un più approfondito coinvolgimento con le organizzazioni del Terzo Settore e della totale copertura del territorio con l’istituzione del servizio sociale professionale. Qualche criticità viene altresì segnalata relativamente all’auspicata integrazione con la programmazione dei servizi sanitari territoriali, valutata non sempre soddisfacente, alle scelte a livello zonale di utilizzo del fondo unico e, talvolta, i vincoli posti dalle deliberazioni regionali sulla destinazione delle risorse, ritenute non sempre e completamente rispondenti ai bisogni rilevati a livello territoriale.
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Gli indirizzi dei referenti
Ecco tutti i DistrettiIn questa sezione sono riportati i distretti suddivisi per ASL,
con l’indicazione - tra parentesi - del numero di Comuni che appartengono al distretto. Per ogni distretto, inoltre, è indicato l’ente capofila
con i riferimenti (indirizzo,numero di telefono, indirizzo e-mail).
BERGAMO ● Alto Sebino (10) Comunità Montana Alto Sebino Via del Cantiere 4 - Tel.: 035 4349823 [email protected] ● Albino (Valle Seriana) (18) Comune di Albino - Piazza Libertà Tel.: 035 759621 - [email protected] ● Bergamo (6) Comune di Bergamo P.za Matteotti 27 (24100) - Tel.: 035 399893 [email protected] ● Dalmine (17) Comune di Dalmine P.za Libertà 1 (24044) - Tel.: 035 6224797 [email protected] ● Grumello (8) Comune di Bolgare - Via Dante 24 Tel.: 035 4493930 - [email protected] ● Romano di Lombardia (17) Comune di Romano di Lombardia P.za Giuseppe Longhi Sindaco 5 Tel.: 0363 919255 - [email protected] ● Seriate (11) Comune di Seriate - Piazza Alebardi 1 Tel.: 035 304293 [email protected] ● Treviglio (18) Comune di Caravaggio P.za Garibaldi 9 (24043) - Tel.: 0363 351190 [email protected] ● Isola Bergamasca (24) Azienda Consortile Ambito Isola Bergamasca e
Bassa - Via Garibaldi 15 - Bonate Sotto Tel.: 335 7903855 - [email protected] ● Monte Bronzone-Basso Sebino (12) Comunità Montana Monte Bronzone e Basso Sebino - Via Roma 35 - 24060 Villongo Tel.: 035 927031 - [email protected] ● Valle Brembana (38) Comunità Montana Valle Brembana Via don A.Tondini 16 - 24014 Piazza Brembana Tel.: 0345 81177 [email protected] ● Valle Cavallina (20) Comunità Montana Val Cavallina Via Don Zinetti 2/d - Tel.: 035 824457 [email protected] ● Valle Imagna e Villa D’Almè (21) Comunità Montana Valle Imagna Via V. Veneto - S. Omobono Terme Tel.: 035 85.13.82 [email protected] ● Valle Seriana Superiore e Valle di Scalve (24) Com. Montana Valle Seriana Superiore Via Angelo Maj 6 - Clusone Tel.: 0346 25841 - [email protected]
BRESCIA ● Bassa Bresciana Centrale
(Leno distretto 9) (20) Comune di Ghedi - Piazza Roma 45 Tel.: 030 9058255 [email protected] ● Bassa Bresciana Occidentale
(Orzinuovi distretto 8) (15)
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Comune di Orzinuovi - Via A. da Brescia 2 Tel.: 030 9942347 [email protected] ● Bassa Bresciana Orientale
(Montichiari distretto 10) (7) Comune di Montichiari P.za Municipio 1 - Tel.: 030 9656306 [email protected] ● Brescia Est (Rezzato distretto 3) (13) Comune di Rezzato - Piazza Vantini 21 (25086) Tel.: 030 249747 [email protected] ● Brescia (distretto 1) (2) Comune di Brescia - Piazza Loggia 1 Tel.: 030 2977666 - [email protected] ● Brescia Ovest (Gussago distretto 2) (11) Comune di Gussago - Via Perracchia 3 Tel.: 030 2526867 [email protected] ● Salò (distretto 11) (22) Comunità Montana Parco Alto Garda Bresciano Via Oliva 32 - 25084 Gargnano - Tel.: 036 5521087 ufficio.assistentisociali@cm_parcoaltogarda.bs.it ● Monte Orfano (distretto 6) (6) Comune di Palazzolo sull’Oglio Via Torre del Popolo 2 - Tel.: 030 7405542 [email protected] ● Oglio Ovest (Chiari distretto 7) (11) Comune di Chiari P.za Martiri della Libertà - Tel.: 030 7008238 [email protected] ● Sebino (Iseo distretto 5) (12) Comune di Iseo- Piazza Garibaldi 10 Tel.: 030 9868770 - [email protected] ● Valle Sabbia (distretto 12) (27) Comunità Montana di Valle Sabbia Via G. Reverberi 2 - 25070 Nozza di Vestone Tel.: 0365 81138 - [email protected]; [email protected] ● Valle Trompia (distretto 4) (18) Comunità Montana di Valle Trompia Via Matteotti 327 - 25063 Gardone - Tel.: 030 8337426 [email protected]
COMO ● Campione d’Italia (1) Comune Campione d’Italia Piazzale Maestri Campionesi - Tel.: 41916419134 [email protected]
● Cantù (8) Comune di Cantù - Via Cavour 19 Tel.: 031 717716 - [email protected] ● Como (25) Comune di Como - Via Italia Libera 18/A (22100) Tel.: 031 252635 - pianodi [email protected] ● Dongo (18) Comune di Gravedona P.za San Rocco 1 (22015) - Tel.: 0344 916031 [email protected] ● Erba (26) Consorzio Erbese Servizi alla Persona P.zza Prepositurale 1 (22036) - Tel.: 031 647450 [email protected] ● Mariano Comense (6) Città di Mariano Comense P.za C.T. Manlio 6/8 (22066) - Tel.: 031 749378 [email protected] ● Menaggio (36) Azienda Sociale Centro Lario e Valli Via Lusardi 26 (22017) - Tel.: 034 430274 [email protected] ● Olgiate Comasco (23) Consorzio Servizi Sociali dell’Olgiatese P.za Volta 1 (22077) Tel.: 031 994657 - [email protected] ● Lomazzo - Fino Mornasco (19) Azienda Sociale Comuni Insieme P.za IV Novembre 4 - 22074 Lomazzo Tel.: 029 6941221 [email protected]
CREMONA ● Casalmaggiore (20) Comune di Casalmaggiore Piazza Garibaldi 26 - Tel.: 0375 284486 [email protected] ● Crema (48) Comunità Sociale Cremasca asc Piazza Duomo 25 - Tel.: 0373 876625 [email protected] ● Cremona (47) Comune di Cremona Piazza del Comune 8 (26100) - Tel.: 0372 407330 [email protected]
LECCO ● Bellano (32) Comunità Montana Valsassina Valvarrone
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Val d’Esino e Riviera Via Roma 40 - 23816 Barzio - Tel.: 0341 821124 [email protected] ● Lecco (32) Comune di Lecco Via Sassi - Tel.: 0341 2414251 [email protected] ● Merate (26) Azienda speciale Consortile retesalute Via per Robbiate 8 - 23807 Merate Tel.: 039 9285167 - [email protected]
LODI ● Casalpusterlengo-Lodi (49) Comune di Lodi - Piazza Broletto 1 Tel.: 0371 409332 - [email protected] ● S. Angelo Lodigiano (13) Comune di Sant’Angelo Lodigiano Viale Partigiani 14 - 26866 Tel.: 02 48015098 - [email protected]
MANTOVA ● Asola (12) Comune di Asola P.za XX Settembre - Tel.: 0376 733054 [email protected] ● Guidizzolo (9) Comune di Castiglione delle Stiviere Via C. Battisti 4 - Tel.: 0376 679279 [email protected] ● Mantova (16) Consorzio Progetto Solidarietà Via Conciliazione 128 - Tel.: 0376 376878 [email protected] ● Ostiglia (Destra Secchia) (17) Comune di Ostiglia Via Gnocchi Viani 16 (46035) - Tel.: 3204314788 [email protected] ● Suzzara (6) Comune di Suzzara P.za Castello 1- 46029 Suzzara Tel.: 0376 513261 - [email protected] ● Viadana (10) Consorzio Pubblico Servizio alla Persona P.za Matteotti 2 (46019) - Tel.: 0375 786230 [email protected]
MILANO ● Milano Città (1)
Comune di Milano - P.zza Scala 2 Tel.: 02 88463015 - [email protected]
MILANO 1 ● Abbiategrasso (15) Comune di Abbiategrasso Via San Carlo 23/c - Tel.: 02 94692518 [email protected] ● Castano Primo (11) Azienda Sociale C.so Roma (20022) - Tel.: 0331 888032 [email protected] ● Corsico (6) Comune di Corsico Via Monti 16 - Tel.: 02 4480445 [email protected] ● Garbagnate Milanese (13) Comune di Garbagnate Milanese P.zza De Gasperi 1 - Tel.: 02 9954577 [email protected] ● Legnano (11) Comune di Legnano P.za San Magno 6 - Tel.: 0331 472522 [email protected] ● Magenta (13) Comune di Magenta P.za Formenti 3 (20013) - Tel.: 02 9784503 [email protected] ● Rho (9) Comune di Rho P.za Visconti 24 - Tel.: 0293 332266 [email protected]
MILANO 2 ● Binasco (Area 6) (7) Comune di Pieve Emanuele Via Viquarterio 1 (20090) - Tel.: 02 907788351 [email protected] ● Cernusco sul Naviglio (Area 4) (9) Comune di Gorgonzola Via Italia 62 - Tel.: 02 95109120 [email protected] ● S.Giuliano Milanese (Area 2) (9) Comune di San Donato Milanese Via C. Battisti 2 (San Donato) - Tel.: 02 52772517 [email protected] ● Melzo (Area 5) (8) Comune di Melzo Piazza Vittorio Emanuele 1 - Tel.: 02 95120262
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● Paullo (Area 1) (5) Via Castello 24 - Tel.: 0383 804941 Comune di Paullo [email protected] Via Mazzini 28 - Tel.: 02 90632454 ● Certosa (24) [email protected] Comune di Landriano ● Pioltello (Area 3) (4) P.za Garibaldi 14 - Tel.: 0382 64001 Vimodrone [email protected] Via Cesare Battisti 56 - Tel.: 02 25077236 ● Corte Olona (25) [email protected] Comune di Albuzzano ● Rozzano (Area 7) (4) P.za Venco, 1 (27010) - Tel.: 0382 584001 Comune di Rozzano [email protected] P.zza G.Foglia 1 (20089) - Tel.: 02 8226351 ● Garlasco (27) [email protected] Comune di Sannazzaro de’ Burgondi
Via Cavour 18 - Tel.: 0382 995608 MILANO 3 [email protected] ● Carate Brianza (13) ● Mortara (20) Comune di Lissone Comune di Mortara Via Gramsci 21 - Tel.: 039 7397257 P.za Martiri della Libertà 21 - Tel.: 0384 2564226 [email protected] [email protected] ● Cinisello Balsamo (4) ● Pavia (12) Comune di Cinisello Balsamo Comune di Pavia P.za Confalonieri 5 (20092) Tel.: 02 66023348 P.za Municipio 3 - Tel.: 0382 399504 [email protected] [email protected] ● Desio (6) ● Vigevano (4) Comune di Desio Comune di Vigevano Via Gramsci 3 - Tel.: 0362 392339 C.so Vittorio Emanuele II 25 (27029) [email protected] Tel.: 0381 299847 ● Monza (3) ● Voghera (24) Comune di Monza Comune di Voghera - P.za Duomo 1 Piazza Trento e Trieste - Tel.: 039 2372719 Tel.: 0383 336402 [email protected] [email protected] ● Seregno (6)Comune di Seregno SONDRIOVia Umberto I 76/78 - Tel.: 0362 263409 ● Bormio (6)[email protected] Comunità Montana Alta Valtellina● Sesto S. Giovanni - Cologno Monzese (2) Via Roma 1 - 23032 BormioComune di Sesto S. Giovanni Tel.: 0342 909415 - [email protected] della Resistenza 5(20099) ● Chiavenna (13)Tel.: 02 24885258-51-52 Comunità Montana della Valchiavenna● Vimercate-Trezzo sull’Adda (29) Via della Marmirola 3 (23022) - Tel.: 0343 67300Offertasociale ASC [email protected] Marconi 7/d - Vimercate - Tel.: 039 6358071 ● Morbegno (25)[email protected] Comunità Montana Valtellina di Morbegno
Viale Stelvio 23/A (23017) - Tel.: 0342 619030 PAVIA [email protected] ● Broni (26) ● Sondrio (22) Comune di Broni Comune di Sondrio P.za Garibaldi 12 (27043) - Tel.: 0385 250642 Via Perego 1 - Tel.: 0342 526428 - [email protected] [email protected] ● Casteggio (28) ● Tirano (12) Comune di Casteggio Comunità Montana Valtellina di Tirano
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Via Maurizio Quadrio 11 - 23037 Tirano [email protected] Tel.: 0342 708535 - [email protected] ● Laveno (26)
Comunità Montana della Valcuvia VALLECAMONICA Piazza Marconi 1 - 21030 Cuveglio ● Vallecamonica (42) Tel.: 0332 658516 Comunità Montana di Vallecamonica [email protected] P.za Tassara 3 - 25043 Breno ● Luino (26) Tel.: 0364 324058 Comune di Luino [email protected] Piazza Crivelli Serbelloni - Tel.: 0332 536727
[email protected] VARESE ● Saronno (6) ● Arcisate (11) Comune di Saronno Comunità Montana Valceresio Piazza Repubblica 7 (21047) - Tel.: 02 96710241 Via Matteotti 18 - Tel.: 0332 850276 [email protected] [email protected] ● Sesto Calende (13) ● Azzate (13) Comune di Sesto Calende Comune di Azzate P.za Cesare da Sesto 1 (21018) - Tel.: 0331 923210 Via Castellani 1 - Tel.: 0332 456311 [email protected] [email protected] ● Somma Lombardo (9) ● Busto Arsizio (1) Comune Somma Lombardo Comune Busto Arsizio P.za V. Veneto 2 - Tel.: 0331 989049 Via Frat. d’Italia 12 - Tel.: 0331 357822 [email protected] [email protected] ● Tradate (8) ● Castellanza (8) Comune di Tradate Comune Castellanza P.za Mazzini 6 - Tel.: 0331 826835 Viale Rimembranze 4 - Tel.: 0331 502118 [email protected] [email protected] ● Varese (12) ● Gallarate (8) Comune di Varese Comune di Gallarate Via Sacco n. 5 - Tel.: 0332 241111 Via Verdi 2 - Tel.: 0331 718315 [email protected]
Bibliografia e ricerche● R.Mayntz. La teoria della governance. Sfide e prospettive – in Rivista Italiana di Scienza Politica n. 1/99 Il Mulino. ● Battistella, De Ambrogio, Ranci Ortigosa. Il Piano di zona: costruzione, gestione, valutazione - Carocci Faber 2004. ● Balboni, Baroni, Mattioni, Pastori. Il sistema integrato dei servizi sociali - Giuffrè Editore 2002.
RICERCHE REALIZZATE IN COLLABORAZIONE CON IRER(ISTITUTO REGIONALE DI RICERCA DELLA LOMBARDIA):2003/04 - Analisi comparata di alcuni Piani diZona per gli interventi sociali (IRER-SDA Bocconi).2005/06 - Buoni e Voucher sociali in Lombardia(IRER-IRS).2006 - La costruzione degli indicatori di sussidiarietà orizzontale (IRER-SDA Bocconi).
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Gli atti della Regione Lombardiain attuazione della Legge 328/00
● Piano Socio Sanitario Regionale 2002-2004 del 13.03.2002 - “Libertà e innovazione al servizio della salute”.
CIRCOLARI
● Circolare 7/2002 del 29.04.2002 - Linee guida esplicative della d.g.r. 11 novembre 2001, n. VII/7069. ● Circolare 18/2003 del 6.06.2003 - Indicazioni ai Comuni e alle A.S.L. per l’attuazione e il monitoraggio dei Piani di Zona – Anno 2003. ● Circolare 6/2004 del 2.02.2004 - Indicazioni per l’attivazione e l’erogazione dei Buoni sociali e dei Voucher sociali. ● Circolare 7/2004 del 15.06.2004 - Indicazioni ai Comuni e alle A.S.L. per l’attuazione e il monitoraggio dei Piani di Zona - Anno 2004. ● Circolare 37/2004 del 18.10.2004 - Piani di Zona: indicazioni per il completamento della prima triennalità di programmazione nel corso dell’anno 2005. ● Circolare 14 del 22.03.2005 - Fondo nazionale politiche sociali 2004 - Indicazioni attuative della D.G.R. n. 19977 del 23 dicembre 2004 “Ripartizione delle risorse del Fondo Nazionale per le Politiche Sociali in applicazione della Legge 8 novembre 2000, n. 328 e dell’art. 4 commi 4 e 5 della LR 6 dicembre1999 n. 23. Anno 2004”. ● Circolare 34/2005 del 29.7.2005 Indirizzi per la programmazione del nuovo triennio dei Piani di Zona. ● Circolare 48/2005 del 27.10.2005 «Linee guida per la definizione dei Piani di Zona - 2 triennio».
DELIBERE RIPARTO DEL FONDO NAZIONALE
● DGR VII/7.069 del 23.11.2001. Ripartizione delle
risorse indistinte del Fondo nazionale per le politiche sociali in applicazione della legge 8 novembre 2000, n. 328 ed Assegnazione alle Aziende Sanitarie Locali e, per la parte di competenza, al Comune di Milano, dei finanziamenti destinati agli ambiti distrettuali. Anno 2001 ● DGR 10803 del 24.10.2002 – Riparto 2002 Ripartizione delle risorse del Fondo nazionale per le politiche sociali in applicazione della legge 8 novembre 2000, n. 328 e dell´art. 4, commi 4 e 5, della l.r. 6 dicembre 1999, n. 23. Assegnazione alle Aziende Sanitarie Locali e, per la parte di competenza, al Comune di Milano, dei finanziamenti per l’anno 2002 relativi alle risorse indistinte, destinate agli ambiti distrettuali, ed alle risorse finalizzate all’attuazione delle leggi di settore. ● DGR 15452 del 5.12.2003 – Riparto 2003 Ripartizione delle risorse del Fondo nazionale per le politiche sociali in applicazione della legge 8 novembre 2000, n. 328 e dell’art. 4, commi 4 e 5, della l.r. 6 dicembre 1999, n. 23. Anno 2003. ● DGR 19977 del 23.12.2004 – Riparto 2004 Ripartizione delle risorse del Fondo nazionale per le politiche sociali in applicazione della legge 8 novembre 200, n. 328 e dell’art. 4, commi 4 e 5, della l.r. 6 dicembre 1999, n. 23. Anno 2004. ● DGR VIII/1642 del 29.12.2005 – Riparto 2005. Ripartizione delle risorse del Fondo nazionale per le politiche sociali in applicazione della legge 8 novembre 2000, n. 328 e dell’art. 4, commi 4 e 5, della l.r. 6 dicembre 1999, n. 23. Anno 2005. ● DGR 8/3921 del 27.12.2006 – Riparto 2006 Ripartizione delle risorse del Fondo nazionale per le politiche sociali in applicazione della legge 8 novembre 2000, n. 328/2000. Anno 2006.
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Direzione Generale Famiglia e Solidarietà Sociale Regione Lombardia (in ordine alfabetico):Cesarina ColombiniCristina ColomboUmberto FazzoneTonino Franzoso
Ornella FusèMarco Grassi
Barbara RosenbergDavide Sironi
Si ringraziano per la collaborazione: I Responsabili degli UDP
I Direttori sociali delle ASLI Referenti ASL per gli UDP
Realizzazione: Servizi Editoriali srl - Via Pagliano 37 - 20149 Milano
In redazione: Luca Palestra (coordinamento)Grafica: Carlo Bertatini
Giugno 2007
Direzione Generale Famiglia e Solidarietà SocialeVia Pola 9/11 - 20124 Milano
www.famiglia.regione.lombardia.it