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Pietro Costa Cittadinanza sociale e diritto del lavoro nell'Italia repubblicana in "Quaderni Fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno", materiali dell'incontro di studio "Diritti e lavoro nell'Italia repubblicana", Ferrara, 24 ottobre 2008

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Pietro Costa Cittadinanza  sociale  e  diritto  del  lavoro  

nell'Italia  repubblicana

in  "Quaderni  Fiorentini  per  la  storia  del  pensiero  giuridico  moderno",  materiali  dell'incontro  di  studio  "Diritti  e  lavoro  nell'Italia  repubblicana",  Ferrara,  24  ottobre  2008  

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PIETRO COSTA

Cittadinanza sociale e diritto del lavoro nell'Italia repubblicana

1. Una domanda di confine: la cittadinanza sociale fra giuslavoristica e sociologia - 2. La matrice remota del paradigma giuslavoristico - 3. Il modello costituzionale: la centralità del lavoro e la cittadinanza sociale - 4. Il paradigma giuslavoristico nell’orizzonte del sozialer Rechtstaat - 5. La crisi dello Stato sociale e il mercato come ‘modello’- 6. Morte o trasfigurazione del Welfare State? Le strategie delle scienze sociali - 7. La sfida del mutamento: le strategie della giuslavoristica

1. Una domanda di confine: la cittadinanza sociale fra giuslavoristica e sociologia

Sessanta anni – il periodo che ci separa dalla nascita dell’Italia repubblicana – è un periodo

breve. Ragionando in astratto, lo storico del diritto potrebbe attendersi un ritmo di sviluppo rela-

tivamente tranquillo e una notevole omogeneità di fondo: la grande cesura è alle spalle – il crol-

lo dei totalitarismi e la catastrofe della guerra – e una nuova costituzione si propone come il

centro di gravitazione di un ordinamento che arriva fino a noi. In realtà, anche uno sguardo su-

perficiale alla cultura giuridica dell’ultimo sessantennio ci mostra una realtà diversa, segnata

dalla compresenza di soggiacenti continuità e di brusche accelerazioni. Ogni disciplina potreb-

be, a suo modo, offrire conferme di questa impressione. La giuslavoristica però appare, più di

altri settori del sapere giuridico, decisamente spostata sul fronte delle rotture e delle innovazio-

ni. La sua esposizione al mutamento è peraltro una conseguenza naturale del suo oggetto: for-

temente intrecciato con la dinamica economica e con le strategie volta a volta adottate per con-

trollare e ‘governare’ il conflitto sociale. Guardando a essa, è difficile provare il senso della ri-

petizione o del dejà vu. Il crollo del fascismo e la fine dell’ordinamento corporativo, con il qua-

le la disciplina si era strettamente intrecciata per quasi venti anni, producono un vuoto dal quale

la giuslavoristica può uscire solo a patto di definire ex novo il proprio metodo e il proprio ogget-

to. È la fase eroica di una disciplina di cui un osservatore acuto come Giovanni Tarello (Tarello

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1967) poteva sottolineare la capacità costruttiva e propositiva. In poco più di un ventennio la

giuslavoristica viene ridefinendo il proprio originale paradigma e appare ormai avviata a svilup-

parsi compattamente intorno a esso: fervono i dibattiti, ma essi appartengono a quella ‘normali-

tà’ che, secondo Kuhn, caratterizza un sapere unificato da una condivisa assunzione di metodo e

di oggetto. Una siffatta stabilizzazione della disciplina ha però una durata relativamente breve e

quanto più ci avviciniamo al nostro presente, tanto più espliciti e numerosi divengono i segnali

di crisi: i punti di riferimento consolidati sembrano insufficienti o addirittura insussistenti e il

dibattito investe l’orizzonte stesso entro il quale la disciplina si era costruita.

Di questa appassionante vicenda, in corso di svolgimento sotto i nostri occhi, non potrò offri-

re, per difetto di competenza, una ricostruzione ravvicinata. Dovrò riferirmi a essa per interposta

persona: attingendo soprattutto a quanto i giuslavoristi hanno scritto e scrivono sulle caratteri-

stiche e sullo sviluppo del loro sapere. Nel caso della giuslavoristica, a vantaggio

dell’osservatore esterno, quale io sono, interviene una peculiarità della disciplina: la sua inclina-

zione a scrivere la storia di se stessa. Valga l’esempio illustre di Umberto Romagnoli, che quasi

in ogni suo saggio mette in rapporto, e in tensione, il passato e il presente (e il futuro) della di-

sciplina, fino al recentissimo libro, curato da Pietro Ichino (Ichino 2008), dove vari autori (Ichi-

no stesso e poi Raffaele De Luca Tamajo, Giuseppe Ferraro e Riccardo Dal Punta) ricostruisco-

no le grandi tappe della giuslavoristica dal dopoguerra a oggi. L’inclinazione della giuslavori-

stica alla propria ‘autobiografia disciplinare’ non è peraltro casuale né ha una valenza celebrati-

va e ‘monumentale’: al contrario, è la conseguenza naturale di un sapere che torna sempre a in-

terrogarsi sui propri presupposti.

La giuslavoristica tende a fare la storia di se stessa perché è consapevole del carattere intrin-

secamente storico dei paradigmi che essa viene costruendo, applicando, mettendo in crisi. Con-

viene impiegare in un senso concettualmente preciso il termine ‘paradigma’. Un paradigma è un

insieme di enunciati capaci di definire il ‘campo teorico’ (l’oggetto e il metodo) di una discipli-

na e come tali implicitamente o esplicitamente condivisi dai cultori di quel sapere specialistico.

Componente strutturale di una disciplina (forma ‘strutturante’ del suo campo teorico), il para-

digma è la finestra con la quale la disciplina guarda al mondo, una sorta di interfaccia fra

l’‘interno’ e l’‘esterno’, fra le strategie cognitive di un sapere specialistico e l’intreccio magma-

tico dell’interazione sociale1.

1 Credo che la nozione kuhniana di ‘paradigma’ (Kuhn 1985; Kuhn 1995; Gutting 1980) sia feconda per

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Il paradigma permette dunque a una disciplina di elaborare il suo ‘punto di vista’ sulla realtà

e di risolvere su questa base i problemi cognitivi e pragmatici che essa si trova di fronte. È il pa-

radigma l’elemento che caratterizza un determinato sapere, ma non per questo lo trasforma in

una monade senza finestre, in un universo privo di contatti con altre discipline. Al contrario, i

molteplici saperi che insistono sui medesimi fenomeni, ma guardano ad essi da differenti angoli

visuali, si sviluppano spesso attraverso un complicato regime di connessioni e di suggestioni

scambievoli.

È proprio sui punti di congiunzione fra mondi (fra paradigmi) diversi che vorrei soffermar-

mi. Devo muovermi su un crinale sottile: da un lato, si apre lo sviluppo della giuslavoristica;

dall’altro lato, si distende il mare magnum dei progetti e dei modelli politico-sociali. Fra i due

versanti esistono però importanti punti di contatto. Il mio obiettivo è appunto soffermarmi su

uno di essi: il tema della cittadinanza sociale.

È ormai consueto parlare di ‘cittadinanza’ per intendere il complessivo statuto politico-

giuridico di un individuo entro una determinata comunità politica e di ‘cittadinanza sociale’ per

alludere alla partecipazione dei cittadini al patrimonio (economico e culturale) della società di

cui essi fanno parte. La nostra domanda di confine può allora essere formulata nei termini se-

guenti: in che modo (per quali vie, con quali contenuti, con quali effetti) la cittadinanza sociale

entra a far parte del corredo tematico delle scienze sociali e fra queste anche della giuslavoristi-

ca italiana del secondo Novecento?

A questa domanda non potrò dare risposte perentorie ed esaurienti. Le risposte peraltro non

mancano e sono già state prospettate in modo spesso convincente tanto dalla giuslavoristica

quanto dalla sociologia. Mi limiterò a segnalare qualche possibile collegamento, non già con

l’intenzione di sostenere tesi originali, ma solo con la speranza di agevolare lo sviluppo della di-

scussione fra cultori di diversi, ma contigui saperi.

intendere il formarsi e il trasformarsi di un ‘sapere specialistico’, di una ‘disciplina’, a patto di ridefinire e adattare lo schema kuhniano in modo da renderlo pertinente con le caratteristiche proprie delle ‘scienze umane’ in generale e in particolare del sapere giuridico. Massimo D’Antona (D’Antona 2000) ha invitato a riflettere sulla metodologia e sulla disciplina giuslavoristica a partire dall’idea kuhniana di paradigma. Ho impiegato la nozione di ‘paradigma’ per ricostruire la storia della giuspubblicistica italiana otto-novecentesca (Costa 1986) e mi permetto di rinviare a quel tentativo per un’illustrazione analitica. Un’applicazione sistematica della nozione di ‘paradigma’ alle discipline giuridiche non sembra però an-cora corrente.

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2. La matrice remota del paradigma giuslavoristico

La visione del soggetto è una componente che vorrei dire originaria del paradigma giuslavo-

ristico. Le assunzioni antropologiche sono ricorrenti in svariate discipline giuridiche, ma rive-

stono una peculiare importanza nella giuslavoristica. Non è un caso che Umberto Romagnoli, da

sempre impegnato sui due fronti (distinti ma connessi) dello sviluppo storico e della fondazione

epistemologica di quella disciplina, insista sulla sua costitutiva dimensione antropologica.

Forse la prima e più remota condizione di pensabilità di un paradigma giuslavoristico coin-

cide con la messa in questione della visione lockiana del soggetto di diritti. Nell'universalismo

giusnaturalistico lockiano il protagonista è l'individuo come tale: ognuno, proprietario per vo-

lontà divina del proprio corpo, ha il diritto-dovere di conservarsi impossessandosi delle cose e-

sterne, investendole con la sua attività, erogando quell'energia appropriativa e trasformativa che

Locke chiama labour. Labour e proprietà sono due facce della stessa medaglia e valgono come

profili essenziali dell'essere umano come tale. Le disuguaglianze intervengono successivamente,

come conseguenza di una più o meno razionale e oculata gestione delle energie individuali. So-

no le differenze che separano, ad esempio, i nativi americani dagli europei, ma non inficiano,

anzi confermano, per Locke, l’essenziale, originaria eguaglianza degli esseri umani.

Fino a che punto è però possibile sostenere che lavoro e proprietà sono due facce della stessa

medaglia? Già a fine Settecento per Thomas Spence – un esponente di quella che potrei chia-

mare, con una boutade, la 'sinistra lockiana' – il lavoro dovrebbe, sì, produrre proprietà così co-

me la proprietà dovrebbe essere il frutto del lavoro, ma questo circuito virtuoso fra lavoro e

proprietà è ormai interrotto; il lavoro è separato dalla proprietà e si profilano i termini di una

contrapposizione che assumerà una profondità e una rilevanza drammatiche nel corso dell'Otto-

cento. È ancora vicino a questa impostazione schiettamente antropologica il giovane Marx, che

nei Manoscritti del ’44 ribadisce icasticamente l’opposizione fra capitale e lavoro; un lavoro

che «produce meraviglie per i ricchi» e «caverne per l’operaio» (Marx 1976, p. 300). Certo,

verrà formandosi, nel corso dell'Ottocento (attraverso Marx e oltre Marx), l'idea di una società

strutturata in classi differenziate e contrapposte sul terreno (oggettivo, 'materiale') dei rapporti di

produzione e sembrerà diminuire l'interesse per i riflessi antropologici di questa determinante

dicotomia economico-sociale. In realtà, il problema dello statuto del soggetto mantiene tutta la

sua rilevanza e la manifesta sul terreno del dibattito politico-giuridico.

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A partire dalle rivoluzioni di fine Settecento l'eguaglianza diviene uno dei principali simboli

di riferimento. Variano però, a seconda delle visioni del mondo e degli interessi in gioco, il sen-

so del termine e l'estensione della sua applicazione; muta soprattutto la rappresentazione dei

soggetti cui riferire l'eguaglianza. Tutti gli individui sono eguali: ma quale è l'estensione del

termine 'tutti'? Che cosa resta delle differenze una volta assunto come criterio decisivo l'egua-

glianza? Quali sono le discriminazioni illegittime e quali le disuguaglianze insuperabili? E

quindi: proprietà e lavoro sono i termini di un'opposizione che mette in crisi la pretesa egua-

glianza dei soggetti oppure quest’ultima trascende qualsiasi differenza economico-sociale?

La componente antropologica della giuslavoristica trova un suo punto di origine nella dialet-

tica fra l'unitario, e originario, soggetto di diritti e il suo successivo, e conflittuale, sdoppiamen-

to consumatosi sulla falsariga dell'opposizione fra lavoro e proprietà. È iscritta in questa lontana

archè la tensione fra l'eguaglianza dei soggetti e una irriducibile differenza socio-antropologica.

Legato alla centralità del soggetto non meno che alla sua interna differenziazione o scissione,

il paradigma giuslavoristico trova un secondo punto di origine in quel processo, caratteristico

della modernità, che amo chiamare (parodiando Jhering) la ‘lotta per i diritti’.

Il lavoro non viene solo assunto come contrassegno di una determinata classe di soggetti: es-

so si presenta anche come il contenuto di un diritto che viene rivendicato come fondamentale.

Per Fourier, i diritti dell'uomo enunciati dalla rivoluzione dell’89 sono flatus vocis, promesse

derisorie, in assenza dell'unico diritto da cui dipendono la sopravvivenza e la gratificazione del-

l'essere umano: il diritto al lavoro. Già in questa fase abbastanza precoce del processo di indu-

strializzazione, il lavoro come diritto (il diritto al lavoro) diviene, al contempo, la posta in gio-

co e l’arma retorica di incandescenti conflitti politico-sociali. È nel diritto al lavoro che l'as-

semblea costituente francese del 1848 riconosce un ‘nuovo’ tipo di diritti, di contro al ‘vecchio’

diritto (la proprietà). La realtà del lavoro sollecita non soltanto una nuova definizione del sog-

getto, non soltanto un ripensamento del rapporto fra eguaglianza e differenza, ma anche la for-

mulazione di una pretesa inedita, l’enunciazione di un diritto nuovo; nuovo e destabilizzante nei

confronti dell’ordine consolidato.

Rivendicare il lavoro come diritto non conduce però soltanto ad ampliare (e a complicare) il

catalogo dei diritti, ma costringe anche a ripensare a fondo il rapporto fra Stato e società. È la

scottante e conturbante realtà del lavoro (nello scenario della prima industrializzazione) che

gradualmente distoglie le classi dirigenti delle principali nazioni europee dalla teoria dello 'Stato

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minimo' (pur difesa ancora da Spencer con robusti argomenti a fine Ottocento) e le induce ad at-

tribuire al potere pubblico l'onere di mediare il conflitto, di assistere, controllare e integrare le

‘classi pericolose’.

5.

Ripensare il soggetto; interrogarsi sull'eguaglianza; riscrivere il linguaggio dei diritti; ridefi-

nire il ruolo dello Stato: sono questi gli stimoli che dalla realtà del lavoro raggiungono il discor-

so pubblico dell'Europa otto-novecentesca e da qui si rifrangono negli specchi di molteplici sa-

peri specialistici. È da questo ambiente che anche la giuslavoristica in statu nascenti trae l'agen-

da dei suoi principali problemi2. Il compito che essa si trova di fronte non si riduce alla sempli-

ce ripetizione di formule già collaudate nel conflitto politico-ideologico. Occorre piuttosto tra-

durre gli orientamenti e i modelli politico-sociali nel lessico specifico, nella logica peculiare di

una disciplina specialistica. È a questa altezza che si colloca, mi sembra, l'intervento di Baras-

si3. La sua riflessione si iscrive nel campo di tensione che si è venuto creando fra l’eguaglianza

e la differenza: fra l’unitario soggetto lockiano e la determinante specificità socio-antropologica

del lavoro. Privilegiando l'eguaglianza giuridico-formale dei soggetti, lo schema barassiano get-

ta un cono d'ombra sulle istanze provenienti dalla valorizzazione delle differenze: al centro si

pone il contratto4 come rapporto fra soggetti giuridicamente eguali, mentre restano ai margini

le caratteristiche socio-economiche dei contraenti e il carattere gerarchico-potestativo del rap-

porto di lavoro. Allo stesso modo (con la stessa logica) appare improprio chiedere allo Stato un

intervento a sostegno di una specifica classe di soggetti: anche le leggi sociali finiscono nel co-

no d'ombra che il principio dell’eguaglianza contrattuale dei soggetti proietta sulla complessa

fenomenologia economico-sociale

L'avvento del corporativismo impone una brusca svolta alla disciplina giuslavoristica. Nel

nuovo modello totalitario la dialettica fra eguaglianza e differenze cede il posto alla celebrazio-

ne della gerarchia, mentre lo Stato si propone come l'organo capace di pacificare coattivamente

2 Sono fondamentali in proposito i lavori di Umberto Romagnoli. Cfr. in particolare Romagnoli 1991. L’attenzione dei giuslavoristi alla formazione storica della loro disciplina è comunque, in generale, alta. Cfr. ad es. le sintesi offerte da Bruno Veneziani (Veneziani 2006) e da Mario Giovanni Garofalo (Garofa-lo 2006). Un significativo contributo è offerto da Giorgio Ghezzi (Ghezzi 1997). Sul fronte della storia del diritto i saggi di Giovanni Cazzetta (ora raccolti in Cazzetta 2007) offrono una preziosa ricostruzione dell’intera parabola giuslavoristica. 3 Di recente la giuslavoristica ha fatto approfonditamente i conti con uno dei suoi ‘padri fondatori’ grazie all’iniziativa di Mario Napoli (Napoli 2003). 4 Ha dedicato un’accurata e ampia indagine alla storia del contratto di lavoro Paolo Passaniti (Passaniti 2006. Cfr. anche Cazzetta 2007, Cianferotti 2007, Gaeta 2007). 5 Importanti considerazioni in Cazzetta 2007, pp. 27 ss.

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la società e organizzarla preservandone le esistenti stratificazioni socio-economiche in funzione

di una politica espansionistica ed aggressiva. Il lavoro è posto al centro dell' ideologia corpora-

tivistica, ma è bandita una connessione che (a partire dai primi socialismi) aveva tentato fatico-

samente di affermarsi: la connessione fra il lavoro e i diritti. Se per i liberalismi ottocenteschi i

diritti fondamentali coincidevano con la libertà-proprietà e sembravano non aver niente a che fa-

re con la realtà del lavoro, per i totalitarismi del Novecento è il lavoro produttivo a essere cele-

brato come strumento dell'integrazione autoritaria delle masse nello Stato, ma proprio per que-

sto esso deve essere preservato da qualsiasi contaminazione con l'individualistico linguaggio dei

diritti.

3. Il modello costituzionale: la centralità del lavoro e la cittadinanza sociale

I diritti fondamentali, messi al bando dai regimi totalitari, vengono assunti come il perno de-

gli ordinamenti costituzionali del secondo dopoguerra. Muta lo statuto dei diritti: non più mo-

menti di un processo storico-istituzionale che culmina nello stato, ma attributi 'immediati' della

soggettività e parametri di legittimazione dello Stato, chiamato a tutelarli e ad attuarli. Muta an-

che il 'catalogo' dei diritti, dal momento che in esso ormai figurano, accanto ai diritti civili e po-

litici, numerosi diritti sociali.

Queste innovazioni non sono casuali e hanno una lunga gestazione: non solo il 'precedente'

weimariano (e la costituzione spagnola del 1931), ma anche i progetti e i movimenti anti-

totalitari che negli anni Trenta e Quaranta tentavano di individuare le caratteristiche di un ordi-

namento anti- e post-totalitario. Si pensi all'idea maritainiana di democrazia, che pone al centro

la persona e la vuole titolare di una pluralità di diritti capaci di assicurarne uno sviluppo piena-

mente umano. Si pensi al liberalsocialismo di Rosselli e di Calogero e all'invito a coniugare, in

una nuova sintesi, eguaglianza e libertà. Non siamo di fronte a orientamenti meramente acca-

demici o dottrinari. Assistiamo piuttosto alla formazione di quella 'filosofia di guerra' che so-

sterrà negli anni Quaranta l'immane sforzo bellico delle democrazie occidentali. Non è suffi-

ciente a questo scopo evocare i fasti del vecchio liberalismo ottocentesco. È piuttosto l'attesa di

un futuro diverso e migliore ad animare l'impegno della guerra anti-fascista. A questa logica ri-

sponde il famoso appello rooseveltiano alla realizzazione delle quattro libertà (non solo la liber-

tà di parola e di religione, ma anche la libertà dalla paura e dal bisogno); e lo stesso piano Beve-

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ridge trova una forte motivazione, secondo il suo ideatore, nella necessità di offrire nuove sicu-

rezze e nuove chances ai cittadini nel momento in cui vengono loro richiesti pesanti sacrifici.

È questo il clima nel quale vedono la luce la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e

la costituzione italiana. 'Incipitur novus ordo'. E il nuovo ordine, internazionale e nazionale, pre-

suppone la centralità dei diritti (il loro ruolo di 'fondamento infondato' dell'assetto politico-

giuridico) e il principio della loro indivisibilità: il principio della necessaria complementarità dei

diritti civili, politici e sociali.

I presupposti antropologici di questa complessa e innovativa operazione non sono trascurati

od occultati dai suoi promotori: al contrario, i costituenti, nella loro faticosa ricerca di punti di

convergenza, trovano un terreno comune, percorribile dai cattolici 'dossettiani' come dalle sini-

stre socialiste e comuniste, proprio nell'etica e nell'antropologia che si vogliono proprie della

nuova società. E al centro di entrambe si colloca il lavoro. Se è vero che sono i diritti nel loro

complesso il fondamento dell'ordine in quanto tutti necessari per il pieno compimento dell'esse-

re umano, il loro centro di gravitazione e il principale elemento di raccordo fra la persona e l'or-

dinamento è il lavoro (Avio 2001, Andreoni 2006, Smuraglia 2007).

Ne offre un'esemplare dimostrazione Costantino Mortati nel suo celebre saggio del 1954

(Mortati 2005). La visione del lavoro che egli (senza forzature) attribuisce all'assemblea costi-

tuente è al contempo eroica e sacrificale. Il lavoro è dominio sul mondo, espressione dell'essen-

za stessa della personalità umana, ma è anche sforzo, sacrificio, disciplina. Tradizione cattolica

e tradizione socialista si incontrano spontaneamente nell'immagine di un'affermazione di sé che

passa attraverso la porta stretta del sacrificio e dell'auto-controllo.

Il lavoro non è però solo un tratto essenziale della soggettività, ma è anche e soprattutto il

principale punto di connessione fra il singolo e gli altri, fra l'individuo e la società. L'orizzonte

culturale dei costituenti è ancora saldamente connesso con i molteplici solidarismi ottocente-

schi. Lo stesso Mortati impiega la figura argomentativa del debito, introdotta dal fortunato sag-

gio di Bourgeois: per la formazione della sua identità ogni individuo è debitore di ogni altro e

della società nel suo complesso e il lavoro è il principale strumento di cui egli dispone per paga-

re il suo debito. Solidarietà e lavoro sono dunque strettamente connessi, tanto che il secondo

appare il tramite principale della prima.

Legame orizzontale fra i membri della società, il lavoro si presenta anche come il principio

ispiratore del nuovo ordinamento costituzionale. Che il lavoro dovesse valere come un vero e

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proprio tessuto connettivo del nuovo ordine era una tesi condivisa tanto dai cattolici quanto dal-

le sinistre. Certo, fu proposto a sinistra di collegare la repubblica ai ‘lavoratori’ piuttosto che al-

l'astratto ‘lavoro’. Se pure fu quest’ultima locuzione a essere adottata, allo scopo di evitare allu-

sioni o inflessioni troppo rigidamente ‘classiste’, non per questo risultò però indebolita la valen-

za politicamente, costituzionalmente fondativa del lavoro. È il lavoro, come ricorda Mortati, che

sostiene l'intero edificio costituzionale e ne rafforza l'ispirazione complessiva. Porre al centro il

lavoro permette di chiudere i conti con il fascismo, senza doversi rassegnare a una mera restau-

razione del liberalismo d'antan: per il costituente infatti il lavoro è il terreno di coltura della per-

sona e dei suoi diritti (contro l'azzeramento totalitario della soggettività), mentre al contempo

esso introduce quella solidarietà fra eguali estranea tanto al liberalismo 'puro' quanto all'assi-

stenzialismo bismarckiano.

Elemento trainante del discorso costituzionale dei diritti, il lavoro è anche il veicolo della

responsabilità sociale del soggetto. È il lavoro il punto di equilibrio fra soggettività e socialità,

fra libertà e responsabilità, fra diritti e doveri. Se il lavoro è l'espressione principale della perso-

nalità umana, un passaggio obbligato per il suo compimento, esso è, al contempo, un diritto e un

dovere (Mengoni 1998; Pizzolato 1999; Scagliarini 2006). È il lavoro che rende l'uomo, in ogni

senso, civile: parte attiva e responsabile del consorzio umano e quindi anche membro rispettabi-

le della polis. Coerentemente con questo assunto, Mortati sostiene con forza la dipendenza dei

diritti politici dall'assolvimento del dovere di lavorare. I diritti politici – osserva Mortati – spet-

tano a tutti i cittadini, ma l'universalità del suffragio non è inficiata dalla previsione di eccezio-

ni, quali l'incapacità politica per condanna penale. Non sarebbe quindi una lesione del principio

di eguaglianza escludere dal voto individui moralmente indegni come gli oziosi. Un cittadino

ozioso è una contradictio in adiecto: solo il lavoro rende effettiva e integrale l'inclusione nella

polis.

È il lavoro l'asse di orientamento del nuovo ordine costituzionale. Gli stessi profili del welfa-

re State che ci si accinge a costruire – uno Stato capace di assicurare non solo la libertà ma an-

che la giustizia – sono tracciati sulla falsariga del diritto-dovere di lavorare. Mortati non manca

di precisare che la costituzione non ha scelto di «dare alla sicurezza sociale carattere di servizio

pubblico prestato a tutti» come in Inghilterra, ma ha concepito l'assistenza come un'integrazione

del diritto al lavoro e non già come un corollario del diritto alla vita. L'assistenza è la risposta

che la società dà ai suoi membri in ragione di una solidarietà che trova nel lavoro il suo princi-

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pale canale di espressione.

Espressione della personalità e principio ispiratore dell'ordinamento, il lavoro non soltanto si

pone al centro di molteplici diritti e doveri, ma si propone esso stesso come il contenuto di un

diritto fondamentale: il diritto al lavoro.

Fino dalla sua effimera e contrastata comparsa nella Costituente francese del 1848, il diritto

al lavoro è apparso come una sorta di diritto impossibile: inconciliabile con i diritti civili, come

sosterranno a lungo i suoi detrattori; comunque inattuabile finché si resti all'interno di un regime

dominato dal primato della proprietà, come sosterranno anche i suoi fautori. Il diritto al lavoro

mantiene a lungo il carattere di una sfida all'ordine esistente e di una promessa affidata a un or-

dine futuro e diverso. Con la costituente del 1948, i tempi sembrano finalmente maturi perché il

diritto al lavoro trovi un posto di onore fra i diritti fondamentali.

Non è un incontrollato ottimismo a suggerire questa inclusione. L'obiettivo del pieno impie-

go non sembra irraggiungibile, nel quadro di una visione politico-economica convinta di dispor-

re ormai degli strumenti adatti a governare le crisi e a incrementare indefinitamente la produ-

zione. E tuttavia non mancano i dubbi e le riserve, che possono riguardare nella loro totalità i di-

ritti sociali, i diritti 'non azionabili' (si pensi a Calamandrei e alla sua proposta di relegarli nel

cielo – o nel limbo – di un prologo alla costituzione) e a maggior ragione investono un diritto –

il diritto al lavoro – ancora circonfuso della sua storica fama di pericolosa utopia.

Il diritto al lavoro viene comunque accolto nella carta costituzionale. Certo, non era facile

dimenticarsi delle obiezioni che lo condannavano a essere un mero wishful thinking. Era però

forse ancora più difficile non tener conto delle ragioni che ne imponevano la formulazione. La

centralità del lavoro, la sua doverosità, il suo apporto alla realizzazione della personalità, il suo

ruolo come fondamento del vivere civile e politico ne reclamavano l'assunzione nel cielo dei di-

ritti fondamentali del nuovo ordinamento. È vero che il diritto al lavoro non era immediatamen-

te esigibile. Ciò però non impediva che esso potesse valere come un principio obbligante in più

direzioni: nei confronti del potere politico, chiamato ad attuare i dettami costituzionali, e nei

confronti del giudice, tenuto a interpretare e applicare la legislazione alla luce della costituzione

(La Macchia 2000; Costanzo 2003).

Il progetto costituente mirava a mettere le basi di un ordine che sembrava corrispondere per

molti versi al modello del sozialer Rechtsstaat teorizzato da Heller nel primo dopoguerra: uno

Stato interventista, interessato a preservare le libertà fondamentali, ma impegnato anche a tra-

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sformare la società riducendo progressivamente le disuguaglianze economico-sociali fra i suoi

membri. Non siamo di fronte a un'anomalia italiana, ma, come ricordavo, alla versione italiana

di un modello welfarista che, sull'onda palingenetica suscitata dalla guerra, stava realizzandosi,

in forme diverse ma in buona sostanza convergenti, in molti paesi europei.

Ovviamente, lo Stato sociale ha già una lunga storia alle spalle quando vengono gettate le

basi, nell’immediato dopoguerra, delle nuove democrazie costituzionali. Esso affonda le radici

in quella koinè solidaristica tardo-ottocentesca che reclama (pur se composta da diversi idiomi

teorici) il superamento dell’individualismo e un maggiore coinvolgimento dello Stato nel go-

verno della società. Poste di fronte a un impegnativo conflitto sociale e alla reiterata minaccia

del ‘socialismo’, le classi dirigenti giocano la carta dell’impegno assistenziale dello Stato e

dell’integrazione delle masse nell’unità della nazione. Nasce lo Stato sociale: si moltiplicano gli

interventi dell’amministrazione pubblica a sostegno dei soggetti ‘deboli’, ma non per questo

viene contemplata l’attribuzione di quei diritti che saranno chiamati ‘sociali’; diritti rivendicati

dai partiti socialisti, ma ancora rifiutati dalla cultura dominante e dalle strategie di governo.

Abbiamo lo Stato sociale, ma non ancora una democrazia costituzionale che veda nei diritti

(non solo politici, ma anche sociali) il perno dell’integrazione delle masse. Il salto oltre lo Stato

sociale tardo-ottocentesco è compiuto, prima, dalla costituzione di Weimar e dalla costituzione

spagnola del 1931 e poi dalle costituzioni del secondo dopoguerra. Il loro elemento caratteriz-

zante è la centralità dei diritti e la loro indivisibilità: l’esercizio dei diritti politici non può essere

separato dall’eguale partecipazione di tutti al retaggio comune e la realizzazione dei diritti (di

tutti i diritti e dei diritti di tutti) è lo scopo e il parametro di legittimità dello Stato. Stato sociale

e cittadinanza sociale non sono separabili, proponendosi il primo come lo strumento indispen-

sabile per la realizzazione della seconda. Possiamo usare promiscuamente e alternativamente le

espressioni ‘Stato sociale’ e ‘cittadinanza sociale’ (come farò, per motivi di brevità, nel corso

della mia esposizione), purché sia chiaro che la caratteristica essenziale della democrazia costi-

tuzionale sta proprio nella necessaria connessione funzionale dei due termini.

Lo Stato è l’organo deputato alla realizzazione della cittadinanza sociale e il termine medio,

il tramite dell’inclusione e della partecipazione, è il lavoro. Certo, non pochi dei diritti sociali

enunciati nella carta costituzionale ( a partire dal diritto al lavoro) potevano apparire una cam-

biale che non poteva essere immediatamente riscossa. Era però l'intero impianto costituzionale a

essere declinato al futuro. I costituenti erano consapevoli del salto che separava l'Italia reale dal

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modello da essi costruito, ma non drammatizzavano la frattura, bensì proiettavano la costituzio-

ne nel futuro e dal futuro si attendevano un graduale avvicinamento della realtà alla previsione

normativa.

4. Il paradigma giuslavoristico nell’orizzonte del sozialer Rechtstaat

Il disegno costituzionale messo a punto dai costituenti non era l’effetto di un improvvisato

compromesso; era un progetto che aveva alle spalle l’intera storia otto-novecentesca, si alimen-

tava dei valori e delle aspettative che avevano sostenuto lo sforzo bellico e traeva stimoli da un

clima favorevole a un profondo rinnovamento della società e delle istituzioni.

Sono queste le circostanze che permettono ai costituenti di immaginare un ordine sostan-

zialmente coerente, di progettare un sozialer Rechtstaat nonostante il rapido deterioramento del-

la situazione politica e l’aumento della conflittualità fra i partiti (Gaeta e Viscomi 2003). Vale

anche da questo punto di vista l'analogia (mutatis mutandis) con l'assemblea delle Nazioni Uni-

te, che riesce faticosamente a redigere la Dichiarazione universale dei diritti pur entro uno sce-

nario di crescenti contrasti fra le potenze occidentali e il blocco sovietico.

La compilazione di un testo normativo non coincide però con la costruzione di un ordina-

mento. Da questo punto di vista, il gioco deve ancora iniziare; ed inizia in un contesto interna-

zionale e nazionale (la 'guerra fredda') lontanissimo dalle speranze e dalle convergenze suscitate

pochi anni prima dal dramma e dalle urgenze della guerra. È il periodo nel quale Calamandrei

moltiplica le sue accorate denunce della mancata attuazione della costituzione. In effetti, la sua

realizzazione non era un processo semplice e indolore. Si fronteggiavano diverse strategie inter-

pretative e la formula della ‘costituzione inattuata’ era un’efficace mossa retorica adottata per

contrastare una lettura del testo costituzionale, largamente diffusa all’epoca, che, introducendo

la distinzione fra norme programmatiche e norme cogenti, rendeva possibile il congelamento

dei dispositivi che presiedevano all‘attuazione di un sozialer Rechtsstaat.

Per quanto consegnato alla carta costituzionale, il modello welfarista non godeva di un'in-

contestata egemonia. La più matura e compiuta alternativa a esso, maturata già negli anni della

guerra e messa a punto nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta, è legata alla riflessione haye-

kiana. Per Hayek, l'ipotesi di uno Stato socialmente ed economicamente interventista è radical-

mente incompatibile con la preservazione dei diritti e della libertà. In questa prospettiva, fasci-

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smo e socialdemocrazia, lungi dall'essere frontalmente contrapposti, condividono il medesimo

vizio 'artificialistico': affidano al potere pubblico l'onere di controllare l’interazione sociale, pre-

tendono di creare volontaristicamente un ordine che può nascere soltanto dalla dinamica spon-

tanea, ‘naturale’, della società6. Il dispotismo è una sindrome che minaccia anche le democrazie

che vogliano intervenire per mutare le regole di un gioco che si svolge all'insegna dell'autono-

mia degli attori sociali.

Il conflitto fra modelli è già dunque in atto durante il processo di attuazione del nuovo ordi-

namento; ed è un conflitto fra inconciliabili visioni dello Stato, della società, dell'individuo che

si traduce in divergenti interpretazioni del testo costituzionale. È da un complicato organigram-

ma di forze (di scelte ideologiche, di interessi, aspettative, teorie sociali e giuridiche) che dipen-

de l’attuazione della costituzione (ma potremmo dire, più esattamente, che l’attuazione della co-

stituzione è semplicemente una delle pedine con le quali gli attori sociali conducono la loro par-

tita).

È in questo contesto che la giuslavoristica rinasce dalle ceneri dopo il collasso dello Stato

corporativo. Per quella disciplina il crollo del regime aveva avuto un effetto dirompente: il qua-

dro istituzionale e normativo con il quale la giuslavoristica aveva fatto i conti nel precedente

ventennio era crollato e la costituzione sembrava offrire una prima, indispensabile alternativa.

Non era peraltro solo l’horror vacui, il bisogno di un appiglio normativo purchessia, a stimolare

l’interesse di quella disciplina nei confronti della costituzione repubblicana; erano i contenuti

stessi della carta costituzionale che venivano a toccare i punti più sensibili del sapere giuslavori-

stico; né è strano che ciò avvenisse, dal momento che tanto la cultura dei costituenti quanto la

tradizione giuslavoristica erano entrambe iscritte in un orizzonte otto-novecentesco segnato da

alcuni grandi ‘campi di tensione’ che aspettavano di essere in qualche modo accolti e risolti.

Il ruolo attivo e trasformativo della repubblica che aspira a rendere 'più eguali' i suoi membri

(in ragione della distinzione – originariamente socialistica – fra eguaglianza 'formale' e 'sostan-

ziale') di contro al principio (anch'esso costituzionalmente rilevante) della libertà-autonomia in-

dividuale; l'eguaglianza dei soggetti (all'insegna dell'antropologia lockiana, secondo la quale

proprietà e lavoro sono due facce della stessa medaglia) di contro alla valorizzazione della diffe-

renza (socialmente determinante) del lavoro; il nesso fra lavoro e diritti, l'assunzione del lavoro

6 L’opposta tesi dei presupposti ‘artificiali’ (politico-giuridici) del mercato è stata di recente brillantemen-te sostenuta da Natalino Irti (Irti 1998).

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come contenuto e presupposto di diritti fondamentali: sono questi i profili tematici con i quali la

giuslavoristica dell'Italia repubblicana si confronta nel momento in cui si sforza di elaborare una

sua nuova identità disciplinare. A rendere questo processo tutt'altro che facile e unanimistico

contribuivano non soltanto il conflitto economico-sociale e la divaricazione delle scelte ideolo-

gico-politiche, ma anche il tessuto della carta costituzionale, che raccoglieva le grandi tensioni

della modernità politico-giuridica (eguaglianza e differenze; proprietà e lavoro; interventismo

'equalizzatore' e autonomia privata), ne proponeva una sintesi, ma manteneva inevitabilmente

un’area di indeterminazione che rendeva possibili interpretazioni divergenti7.

È collegato con il primo campo di tensione il dibattito che negli anni Cinquanta investe il

problema della dimensione pubblicistica o piuttosto privatistica del lavoro (Romagnoli 1991,

Romagnoli 2005, Cazzetta 2007, Ichino 2008). Chi opta per la prima soluzione fa leva sul nesso

'lavoro-eguaglianza sostanziale-repubblica interventista' e a partire da questo orizzonte definisce

l'oggetto del sapere giuslavoristico. Non vedrei in questa scelta l'ombra di una sotterranea e dis-

simulata continuità con lo statalismo anteguerra (a meno di non far propria la tesi hayekiana

della solidarietà strutturale fra fascismi e socialdemocrazie). Sul fronte opposto, non mancano

argomenti per presentare il lavoro come la dimensione di un soggetto chiamato (dalla stessa co-

stituzione) ad agire valorizzando la sua autonomia. Siamo di fronte a due strade profondamente

diverse (e tali apparvero ai protagonisti del dibattito, che non indulsero certo a irenistici em-

brassons-nous) e tuttavia destinate entrambe a influire sul futuro della disciplina. È a partire

dalla valorizzazione dell'autonomia che la giuslavoristica inizia un percorso audace e innovati-

vo, che la conduce non solo a svolgere una funzione di 'supplenza' nei confronti di un legislatore

latitante, ma anche a spostare l'attenzione dal soggetto individuale (il protagonista indiscusso

dell'ottocentesco discorso dei diritti) a un soggetto collettivo, pur entro un ambito nettamente di-

stinto dalla sfera pubblica. Non per questo tuttavia poteva considerarsi sterile e immotivata la

strategia di coloro che, insistendo sulla valenza pubblicistica del lavoro, lo assumevano come

volano di una 'attuazione' costituzionale funzionale al rafforzamento dell'eguaglianza e alla rea-

lizzazione di una cittadinanza sociale.

Determinante per la formazione del paradigma giuslavoristico è però forse il secondo campo

di tensione: la tensione fra l'eguaglianza e la differenza. È il lavoro come differenza (socialmen-

7 Il testo costituzionale ha (ancor più di altri testi prescrittivi) il carattere di un open texture, come sostie-ne con ottimi argomenti Roberto Bin (Bin 2007, pp. 23 ss.).

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te, economicamente e antropologicamente) decisiva a conferire al sapere giuridico che lo assu-

me ad oggetto la sua specificità e la sua ragion d'essere. Ovviamente riconoscersi in un medesi-

mo orizzonte tematico non spenge il dibattito, ma anzi lo rende possibile: è proprio una condivi-

sa definizione d'oggetto che permette a una comunità scientifica di formulare problemi e ipotiz-

zare soluzioni, fra loro anche radicalmente difformi, ma comunque collegate a un medesimo

campo teorico.

Tematizzare la differenza, mettere a fuoco il rapporto di subordinazione e a partire da questo

peculiare punto di osservazione interrogarsi sull'eguaglianza: non è un programma semplice e

indolore, in un'Italia segnata dall'epocale contrapposizione fra 'blocchi' (occidente/oriente; de-

mocrazia formale/democrazia reale; Democrazia Cristiana/Partito Comunista). Il paradigma

suggerisce la direzione dell'indagine, ma non ne predetermina i risultati. È possibile procedere

(a partire da esso) in direzioni opposte: minimizzando la portata della 'differenza' e valorizzando

la componente formale-contrattuale dell'eguaglianza, oppure al contrario sottolineando la debo-

lezza del lavoratore nel rapporto contrattuale e andando alla ricerca di correttivi: si tenterà allora

di sottrarre il rapporto di lavoro al 'dispotismo' dell'imprenditore in nome dei vincoli 'oggettivi'

imposti al suo arbitrio dalla stessa configurazione 'istituzionale' dell'impresa; oppure si batterà

una strada diversa, prendendo sul serio il discorso dei diritti sviluppato dalla costituzione.

Entra in gioco, a questo proposito, il terzo dei profili tematici prima ricordati: la connessione

fra lavoro e diritti. È il tasto su cui fanno leva i giuristi raccolti intorno alla «Rivista giuridica

del lavoro», nel tentativo di attenuare la subalternità del lavoratore assicurandogli il rispetto dei

diritti fondamentali. Non si tratta certo di una preoccupazione dottrinaria. È in corso negli anni

Cinquanta una forte politica di compressione delle libertà fondamentali dei lavoratori, cui tenta-

no di rispondere iniziative sindacali di denuncia della violazione dei diritti fondamentali sul

luogo di lavoro. Si sta svolgendo insomma una vera e propria lotta per i diritti, in sostanziale

continuità con i conflitti politico-sociali otto-novecenteschi, che spesso avevano trovato proprio

nei diritti (disattesi e rivendicati) il loro principale appiglio retorico. I diritti vengono presentati

come strumenti (vorrei quasi dire trump-cards) cui i soggetti deboli del rapporto di lavoro de-

vono poter ricorrere, nel quadro di una repubblica fondata sul lavoro e impegnata a realizzare la

cittadinanza sociale.

I diritti come limite del potere: l'antica sfida costituzionalistica si dirige ora non già contro il

potere pubblico, ma contro il 'dispotismo' dei poteri privati, contro le pretese di una classe im-

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prenditoriale decisa a imporre la propria supremazia nella conduzione del rapporto di lavoro.

Le libertà fondamentali (la libertà di espressione del pensiero, la libertà di associazione) sem-

brano arrestarsi sulla soglia della fabbrica, bloccate da una disciplina unilateralmente dettata dal

'soggetto forte' del rapporto di lavoro.

È in questo contesto che alcuni giuslavoristi vedono nei diritti il principale parametro cui fa-

re riferimento nello sviluppo della loro strategia disciplinare. Le caratteristiche 'paradigmatiche'

di questa operazione mi sembrano le seguenti: una forte attenzione alla specificità-subalternità

del lavoratore; la valorizzazione delle componenti pubblicistico-costituzionalistiche del lavoro;

l'adesione a un progetto di attuazione della costituzione che avrebbe reso compiutamente citta-

dini i soggetti deboli e svantaggiati; la convinzione che i diritti fondamentali siano l'arma dei

deboli contro i forti. In questa prospettiva, assumono un particolare rilievo due assunzioni, di

metodo e di oggetto. Dal punto di vista del metodo, lo strumento necessario e sufficiente per at-

tribuire ai soggetti deboli la pienezza dei diritti costituzionalmente garantiti sembra un corretto

impiego dell'argomentazione giuridico-formale. La lotta per i diritti passa quindi attraverso l'a-

dozione di un positivismo giuridico arricchito dal riferimento alla carta costituzionale. Dal pun-

to di vista dell'oggetto, il referente è l'individuo: è il singolo che, escluso come lavoratore

dall’esercizio di alcuni diritti fondamentali, deve poter trovare nell'ordinamento i dispositivi che

lo emancipino dallo stato di minorità cui è indebitamente costretto.

La difesa dei diritti e l'attuazione della costituzione non sono peraltro appannaggio esclusivo

di una corrente della giuslavoristica degli anni Cinquanta. L'attuazione della costituzione è (co-

me ricordavo) una delle parole d'ordine della sinistra politica e sindacale; e attuare la costituzio-

ne significa varare una legislazione congruente con i suoi principi. È comprensibile quindi che

piuttosto precocemente, già negli anni Cinquanta, venga ventilata da Di Vittorio l'ipotesi di uno

statuto dei lavoratori. È solo l'inizio di un percorso che sarebbe stato lungo e tormentato. A ren-

dere problematiche la configurazione e l'adozione di un intervento legislativo contribuivano non

soltanto le resistenze degli imprenditori a qualsiasi ipotesi di contenimento del loro potere, ma

anche i dubbi nutriti nel fronte sindacale e in particolare nella CGIL: per un verso, infatti, si te-

meva che una regolamentazione legislativa del settore lavoristico diminuisse l'autonomia del

sindacato e compromettesse l'efficacia della sua azione; per un altro verso, però, ci si rendeva

conto dell’importanza di poter disporre di un appiglio normativo per arginare il potere dell'im-

prenditore in uno dei punti nevralgici del rapporto di lavoro: nell'ambito dei licenziamenti indi-

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viduali (Ricciardi 1975).

Il dibattito sull'opportunità e sulle caratteristiche di uno statuto dei lavoratori continua negli

anni Sessanta, in un contesto caratterizzato da importanti segnali di mutamento. La società ita-

liana sta cambiando: lo sforzo ricostruttivo e produttivo degli anni Cinquanta sta preparando la

diffusione di un 'consumo di massa' senza precedenti in Italia. Si manifestano i sintomi di una

'modernizzazione' che coinvolge valori, stili di vita, aspirazioni collettive, modelli culturali.

Una delle componenti di questo rapido congedo da una tradizione che per molti aspetti con-

giungeva senza soluzione di continuità l'Italia degli anni Cinquanta con l'Italia anteguerra è la

scoperta (o, se si preferisce, la riscoperta) della sociologia. Tenuta a lungo ai margini dall'ege-

monia storicistica (dopo i lontani fasti positivistici di fine Ottocento), la sociologia si propone

nei primi anni Sessanta come il veicolo di un non più rinviabile processo di modernizzazione:

come uno strumento indispensabile per comprendere una realtà in rapida mutazione. Nemmeno

il sapere giuridico può sottrarsi all'onere di ripensare i suoi tradizionali fondamenti; e tanto me-

no può farlo la giuslavoristica, da sempre sensibile, più di altre discipline, alla dinamica e ai

conflitti economico-sociali.

Fra i giuslavoristi, in particolare due giovani e brillanti studiosi – Giugni e Mancini – si

fanno paladini della necessità di un rinnovamento metodologico. Rinnovare il metodo alla luce

della sociologia significa in sostanza spostare l'attenzione dal law in books al law in action: dif-

fidare dei teoremi di un'argomentazione giuridica deduttiva e formalistica e andare a vedere

come le cose effettivamente funzionano, come gli interessi e i conflitti si traducano in norme e

in istituzioni e a loro volta vengano da queste influenzati e condizionati8.

Siamo di fronte a un drastico mutamento di paradigma? La svolta metodologica incide in-

dubbiamente a fondo sulla sua configurazione, ma non giunge al punto da travolgerne la defini-

zione d'oggetto: che resta, anche per gli enfants terribles della giuslavoristica, la tematizzazione

della 'differenza', del lavoro come differenza socio-antropologica, come fattore di subalternità.

Ciò non significa ovviamente che la loro scelta metodologica fosse un gioco improduttivo di

conseguenze. Al contrario, da essa dipendono la loro visione della giuslavoristica come le loro

proposte di politica del diritto.

8 Una recente analisi della personalità scientifica di Giugni è offerta dal «Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali», XXIX, 114, 2007, 2, che pubblica saggi di Paolo Grossi, Edoardo Ghera, Gian Primo Cella, Mario Grandi, Umberto Romagnoli, Triziano Treu, Benjamin Aaron, Xavier Blanc-Jouvan, Bill Wedderburn, Miguel Rodríguez-Piñero (Scritti su Gino Giugni 2007).

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Appare una strada senza uscita, nella loro prospettiva, una lettura giuspositivistica della co-

stituzione dalla quale ricavare la lunga lista di diritti di cui il lavoratore deve essere considerato

titolare. L'operazione può essere concettualmente irreprensibile, ma è debole sul piano dell'ef-

fettività: non produce risultati, non tiene conto dei rapporti ‘reali’ e quindi non riesce a incidere

su di essi. È dalle forze in campo che occorre prendere le mosse: dal gioco dei poteri e dei con-

tropoteri che domina il quotidiano svolgersi del processo produttivo. I rapporti di potere non

possono essere messi in parentesi dal giurista e relegati nell’ambito della mera ‘fattualità’ poli-

tica (come il giuspositivismo dei 'garantisti' indurrebbe a fare), ma devono essere tradotti in

termini giuridicamente significativi. E a questo scopo occorre compiere una mossa ulteriore: in

primo luogo, prendere sul serio la specificità del lavoro non soltanto per drammatizzarne la

condizione di subalternità, ma anche per valorizzarne la dimensione dell'autonomia; in secondo

luogo, spostare l'attenzione dal soggetto individuale al soggetto collettivo, dai diritti ai poteri, e

offrire al sindacato la possibilità di agire come un interlocutore autorevole e rispettato della con-

troparte (Barbera 2008, pp. 332 ss.).

Il mutamento di prospettiva è rilevante e il confronto fra 'garantisti' e fautori del contro-

potere sindacale si manifesta anche all'interno di quel lungo e faticoso processo che sfocerà nel-

la legge n. 300 del 20 maggio 1970. Sarebbe però riduttivo cercare in essa la prevalenza dell'una

o dell'altra strategia disciplinare. Lo Statuto dei lavoratori si presenta come un testo complesso e

articolato (Treu 1975, Mancini 1976, Stolfi 1976, Giugni 1979, Treu 1990, Garilli e Mazzamuto

1992, Giugni 2007), dove la valorizzazione del contropotere sindacale procede di pari passo con

la predisposizione di precisi vincoli giuridici per il datore di lavoro e con il conseguente raffor-

zamento della tutela del lavoratore. Piuttosto che essere la consacrazione normativa di un unico

orientamento dottrinario, lo Statuto dei lavoratori trova forse il suo senso storicamente più pre-

gnante nell‘offrirsi, forse al di là delle stesse intenzioni dei suoi ideatori, come l’esito in qualche

modo riassuntivo e conclusivo della giuslavoristica del secondo dopoguerra, come un tentativo

di risposta alle principali istanze da essa espressa: da un lato, l'enfatizzazione dell'autonomia dei

soggetti, la costruzione del 'soggetto collettivo' e la teorizzazione del contropotere sindacale;

dall'altro lato, la consapevolezza di dover offrire al lavoratore precisi strumenti giuridici capaci

di proteggere sul luogo di lavoro le sue più vitali aspettative e la sua dignità di persona. Lungi

dal presentarsi come incompatibili, le due linee di intervento apparivano piuttosto come strate-

gie diverse, ma complementari, sostenute da un presupposto condiviso e da un comune disegno:

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il senso della subalternità operaia, la tensione irriducibile fra lavoro e proprietà e l'esigenza di

attuare una costituzione che aveva promesso, in nome della centralità etico-sociale del lavoro,

un incremento dell'eguaglianza nella partecipazione di tutti al patrimonio comune.

Sintesi 'oggettiva' delle correnti più vive della giuslavoristica dell’Italia repubblicana, lo Sta-

tuto dei lavoratori vede la luce e comincia a vivere in un'Italia interessata da un rapido e trauma-

tico processo di cambiamento. Nel '67-'68 dilaga il fenomeno della contestazione studentesca,

mentre negli ultimi mesi del '69 saranno gli operai ad alzare il tiro delle loro rivendicazioni.

Appare ormai lontana non solo l'Italia (per tanti aspetti ancora 'tradizionale') degli anni Cin-

quanta, ma anche l'Italia che, nei primi anni Sessanta, cercava di promuovere una modernizza-

zione sensibile al fascino della American way of life. Certo, nemmeno i nuovi movimenti sono

estranei (per una singolare eterogenesi dei fini) a quel processo di modernizzazione iniziato ne-

gli anni precedenti e introducono forme di vita, valori, stilemi comportamentali in stridente con-

trasto con la sessuofobica, autoritaria, tradizionalistica società degli anni Cinquanta. Al contem-

po, però, i movimenti politici che si vengono formando nei primi anni Settanta sull'onda della

contestazione studentesca e operaia sviluppano una progettualità direttamente opposta ai conati

di modernizzazione manifestatisi nei primi anni Sessanta: presentandoli come una mera raziona-

lizzazione efficientistica e consumistica del modo di produzione capitalistico e reclamando il

brusco passaggio a una società nuova e diversa. Non sembrano rispondere a questo scopo il gra-

dualismo storicista e la prudenza tattica della sinistra 'tradizionale'. Servono punti di riferimento

diversi, offerti da una rilettura dei classici del marxismo depurata dagli inquinamenti e dai frain-

tendimenti provocati dalla tradizione riformistica.

È in un paese attraversato da nuove forme di conflitti e di progetti politico-sociali che lo Sta-

tuto dei lavoratori inizia la sua difficile navigazione (De Luca Tamajo 2008). Il fronte degli at-

tacchi è variegato. La critica in qualche misura più prevedibile – l'accusa di introdurre un'ecces-

siva rigidità nella gestione del rapporto di lavoro, con effetti rovinosi sulla tenuta della produtti-

vità – è ovviamente ricorrente nella polemica politica, ma non monopolizza l'attenzione – mi

sembra – della comunità giuslavoristica: si tratta, ancora una volta, di decidere come bilanciare

il principio dell'eguaglianza formale-contrattuale dei soggetti con l’onere (anch'esso iscritto nel

disegno costituzionale) di 'rendere eguali' (o più eguali) soggetti socialmente (economicamente,

potestativamente) discriminati. Giocava però a favore dello Statuto la tematizzazione (propria

del paradigma giuslavoristico) della subalternità del lavoratore: era insomma ormai consueto

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per il giuslavorista guardare all'empireo dell'eguaglianza contrattuale dal basso mondo dei rap-

porti di subordinazione. Più insidiosa è una critica di tipo nuovo, proveniente da giuristi vicini

alla nuova sinistra e convinti della necessità di usare gli strumenti del diritto non per consentire

una mera cosmesi delle istituzioni esistenti, ma per facilitare il passaggio a un ordine alternati-

vo, finalmente emancipato dal dominio del capitale. Per questi giuristi lo Statuto sbaglia, per

così dire, due volte, anche se per motivi diversi: da un lato, cade nella trappola (‘giuridicistica‘)

dell’assolutizzazione dell'individuo, cui destinare apposite norme protettive; dall’altro lato, a-

dotta un'impostazione burocratico-elitistica che rafforza il sindacato a discapito della classe ope-

raia e della sua creativa spontaneità. L'interesse della critica sta nel fatto che essa coglie (sia pu-

re 'in negativo') due aspetti importanti dello Statuto (riconducibili a due precise strategie della

tradizione giuslavoristica): la difesa del soggetto attraverso i diritti, la costruzione del contropo-

tere sindacale9.

Non mancano dunque gli attacchi allo Statuto dei lavoratori e tuttavia esso resiste nel tempo

e anzi ottiene il suo ideale completamento con la legge n. 533 del 1973, che attribuisce al giudi-

ce un nuovo e più incisivo ruolo nelle controversie di lavoro. Alla tenuta dello Statuto contribui-

scono sicuramente fattori di indole diversa; ma una delle ragioni del successo consiste proba-

bilmente nel fatto che lo Statuto non è una pianta priva di radici; è piuttosto un costrutto norma-

tivo che, al di là delle contingenze politiche che ne hanno reso possibile l'esistenza, è stretta-

mente collegato con gli assunti paradigmatici elaborati dalla giuslavoristica nel ventennio pre-

cedente.

Assumendo la subalternità del lavoratore come il profilo tematico principale, viene a matu-

razione una strategia innovativa che sfocia, pur nell'assenza di un adeguato quadro normativo,

nella progettazione di un potere sindacale come strumento di compensazione delle asimmetrie

potestative caratteristiche del rapporto di lavoro. Al contempo, non manca di farsi sentire, nel

varo e nella successiva applicazione dello Statuto, l'onda lunga di quella attuazione costituzio-

nale sempre di nuovo rivendicata nel corso degli anni Cinquanta. Lo stesso diritto al lavoro –

forse il più impegnativo e il più disatteso dei grandi diritti sociali – trova nella tutela del posto di

lavoro – una delle preoccupazioni centrali dello Statuto – la sua principale verifica («la tutela

del posto di lavoro – scrive Giugni – è di fatto l’unico profilo normativo in cui si sia realizzata

una forma di tutela del diritto al lavoro» (Giugni 1998, p. 63).

9 Cfr. ad. es. AA. VV. 1971 e la risposta in Mancini 1971. Cfr. anche Carlo 1974.

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La lotta per i diritti e per l'eguaglianza sostanziale, che sembrava ormai un residuo dell'epo-

pea resistenziale e costituente, impigliatosi nelle secche della guerra fredda e dell'autoritarismo

degli anni Cinquanta, riprende slancio e vigore negli anni Settanta. L'impulso all'attuazione del-

la costituzione sembra anzi trovare nel mutato clima un nuovo credito e nuovi protagonisti: è in

atto, a partire dal congresso di Gardone, una vera ‘rivoluzione’ nella magistratura, un radicale

ripensamento del ruolo del giudice, chiamato a dimostrare il primato della costituzione nel suo

quotidiano lavoro di interpretazione-applicazione della legge10.

A trenta anni dal varo della costituzione repubblicana, il lungo viaggio verso l'eguaglianza

sostanziale dei cittadini è ben lungi dall'essere terminato e lunga è la lista delle promesse non

mantenute; e tuttavia l'idea di un'eguaglianza dinamica e propulsiva e di una cittadinanza socia-

le, di una crescente partecipazione dei soggetti al patrimonio economico e culturale della nazio-

ne, è ancora largamente condivisa; ed è un’idea che continua a trovare nel simbolo del lavoro il

suo principale sostegno.

5. La crisi dello Stato sociale e il mercato come ‘modello’

Gli anni Settanta non erano trascorsi all'insegna della concordia nazionale: la conflittualità

aveva anzi raggiunto un diapason altissimo, senza precedenti nell'Italia repubblicana. E tuttavia

molte aspettative socialmente diffuse (e fra queste proprio l'incremento dell'eguaglianza e la rea-

lizzazione della cittadinanza sociale) mostravano evidenti continuità con il disegno costituziona-

le delineato nel '48. Lo stesso Statuto dei lavoratori, pur con tutte le sue consistenti innovazioni,

poteva essere letto come la tappa di un'attuazione costituzionale tuttora in itinere. Era ancora

forte il senso di una temporalità declinata al futuro (un senso condiviso pure dai movimenti del-

la nuova sinistra, nonostante le fratture da essi introdotte nell'ethos collettivo); era ancora viva

la convinzione che le promesse della democrazia costituzionale non fossero sospese o impossi-

bili, ma avessero bisogno del futuro per compiersi.

A mostrare le prime crepe erano semmai la fiducia già riposta dai costituenti nei partiti e la

convinzione che questi (espressione e tramite della sovranità popolare) fossero gli elementi trai-

10 Disponiamo finalmente della ricostruzione storiograficamente esemplare offerta da Michele Luminati (Luminati 2007).

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nanti dell'attuazione costituzionale (Fioravanti 2003); e potremmo addirittura ipotizzare che il

nuovo protagonismo della magistratura, il suo impegno nel fare della costituzione una norma

pervasiva dell'intero ordinamento, adombrasse già una funzione di 'supplenza' nei confronti di

una classe politica frammentata e latitante. Ciò che invece sembrava ancora vivo e vitale era, in

sintesi, il modello di società che i costituenti avevano raccolto dallo spirito del loro tempo e af-

fidato alle generazioni successive: una prudente sintesi di libertà individuali e di vincoli solida-

ristici, una repubblica interventista, un'eguaglianza protesa alla realizzazione di una cittadinanza

sociale che trovasse nel lavoro il proprio baricentro.

In realtà, già negli anni Settanta stavano maturando i germi di una crisi che avrebbe rapida-

mente messo in questione lo Stato sociale e le sue condizioni di legittimità e di credibilità, pri-

ma ancora del suo effettivo funzionamento.

La crisi petrolifera dei primi anni Settanta è una seria difficoltà cui il sistema economico de-

ve far fronte, ma la risposta consiste ancora in sostanza nell'applicare la vecchia ricetta, incre-

mentando gli investimenti destinati al funzionamento e allo sviluppo del welfare (Handler 2004,

p. 95). Ben presto però, a partire dai primi anni Ottanta, si diffonde la convinzione della sempre

più difficile compatibilità fra le risorse economiche disponibili e la crescente onerosità dello

Stato sociale. È in corso di svolgimento un processo che non solo modifica i rapporti di forza fra

le classi sociali (a vantaggio degli imprenditori, con il declino delle grandi lotte sociali dei primi

anni Settanta), ma anche investe l'intera organizzazione produttiva, mutandone le strutture orga-

nizzative e le modalità di svolgimento.

È il passaggio, analiticamente ricostruito dalla sociologia del lavoro (Carboni 1991, Accor-

nero 1997, Revelli 1997, Gallino 1998), dal 'fordismo' al 'post-fordismo', dall'industria raziona-

lizzata intorno alla tayloristica 'catena di montaggio' a una produzione 'post-industriale' caratte-

rizzata da nuove parole d'ordine quali decentramento e flessibilità. Nella fase 'industrialista' il

ruolo trainante è esercitato dalla grande industria, capace di raggiungere un alto livello di pro-

duttività grazie a un'organizzazione razionale, 'scientifica', di ogni momento e gesto lavorativo.

Il tempo è rigidamente scandito e parcellizzato in funzione delle esigenze produttive e il lavoro

è un'attività quantificabile, estranea a qualsiasi valutazione qualitativa. Ciò che restava degli an-

tichi saperi dell'artigiano e della sua amorevole attenzione all'opus viene cancellato dall'avvento

dell'operaio-massa, tenuto al rispetto di ritmi e modalità lavorative rigorosamente etero-dirette.

È questo il contesto produttivo che ha reso possibile un drastico incremento dei consumi negli

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anni Sessanta; è questa l'organizzazione del lavoro presupposta dai teorici dello Stato sociale

della prima metà Novecento e dall'assemblea costituente del '48; è questo l'ambiente nel quale si

svolgeva quel confronto fra il potere imprenditoriale e il contropotere sindacale cui lo Statuto

dei lavoratori aveva riservato un occhio di riguardo.

Il passaggio a quella che è stata chiamata la fase post-industriale del processo produttivo

sovverte molte linee del quadro ora tracciato. L'organizzazione fordista della grande fabbrica

viene messa in difficoltà tanto dall'aumento del costo del lavoro quanto dalla necessità di di-

sporre di strumenti produttivi più agili e più capaci di reagire rapidamente alle sollecitazioni del

mercato. Alla rigidità e all'ossessione della quantità caratteristiche dell'organizzazione scientifi-

ca del lavoro seguono la ricerca della flessibilità e la rivincita della qualità. Acquistano un rilie-

vo inedito l'apporto personale del lavoratore, la sua capacità di reagire a problemi imprevisti, le

sue doti interattive e la sua disponibilità alla collaborazione. Diminuisce l'antica, obbligata con-

nessione fra 'fisicità' e lavoro, fra fatica e azione produttiva, a fronte di un’aumentata esigenza

di competenze e di scolarizzazione. La rivoluzione elettronica irrompe anche nel processo pro-

duttivo e lo rende più 'leggero' e al contempo qualitativamente complesso e tecnicamente esi-

gente. La centralizzata, autoritaria predisposizione dei tempi di lavoro cede il posto a una plura-

lità di scelte che mirano a dilatare o a ridurre la durata del lavoro in rapporto a esigenze concrete

e mutevoli.

Cambiano le modalità del lavoro e cambiano i profili antropologici del lavoratore: retrocede

ai margini della scena l'operaio massificato, umanamente depauperato, ingranaggio sostituibile e

intercambiabile di un'impersonale macchina produttiva e compare un nuovo tipo di lavoratore,

capace di 'individualizzare' il suo apporto produttivo, di valorizzare la sua soggettività e la sua

creatività. In questa prospettiva, è il lavoratore autonomo che potrebbe apparire l'incarnazione

più fedele del nuovo modello antropologico: di contro alla «identità professionale [...] che la

fabbrica fordista costruiva sull'individuo lavoratore», «il lavoratore autonomo acquisisce [...]

una professionalità che è attributo della persona, una competenza che fa parte della sua esisten-

za». In realtà, le due esperienze lavorative, tradizionalmente contrapposte, del lavoro subordina-

to e del lavoro autonomo si stanno avvicinando da molti punti di vista; tanto che le caratteristi-

che rinvenibili nel lavoro autonomo si ritrovano ormai sempre più frequentemente anche nella

fabbrica post-industriale, caratterizzata da «assenza di prescrittività, flessibilità e mobilità, com-

petenza personalizzata, forza-invenzione e cooperazione [...]» (Negri 2000, p. 59).

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La fabbrica fordista si allontana nel tempo e mutano con i nuovi scenari produttivi le forme e

le modalità di estrinsecazione del lavoro, non meno dei profili antropologici da esse implicati.

Se ci arrestassimo a questo quadro fenomenologico, potremmo però avere l'impressione di un

cambiamento, sì, rilevante, ma settoriale: potremmo ammettere che è cambiato qualcosa di im-

portante – il modo di produrre e di rapportarsi al lavoro – ma aggiungere che restano sostan-

zialmente immutati i grandi modelli di riferimento, i parametri con i quali interpretiamo la com-

plessiva dinamica politico-sociale, così come le aspettative e le esigenze largamente condivise.

In realtà, sembra più fondata un'impressione diversa: che cioè il passaggio da un'economia in-

dustriale a un'economia post-industriale non sia un cambiamento 'localizzato', ma sia solo il ver-

sante economico-produttivo di un mutamento che investe le aspettative e i valori collettivi nel

loro complesso, svuotando del suo senso il modello welfarista; quel modello con il quale le de-

mocrazie costituzionali del secondo dopoguerra si erano strettamente intrecciate. È appunto con

questa trasformazione epocale e complessiva che la giuslavoristica più recente è costretta a con-

frontarsi, e non soltanto con i mutamenti del sistema produttivo (anche se l'uso dell'avverbio

'soltanto' può suonare provocatorio, date l'importanza e la complessità dei fenomeni legati alla

produzione).

Il terremoto cui faccio riferimento ha una portata troppo vasta perché sia possibile individua-

re con precisione epicentri ed effetti (e peraltro epicentri ed effetti tendono continuamente a

scambiarsi le parti). Un profilo importante di questo mutamento complessivo mi sembra co-

munque costituito dall’assunzione del mercato nel cielo dei grandi concetti politico-sociali. Cer-

to, in questo empireo il mercato non è una new entry: è pur sempre un'economia di mercato

quella cui guarda la stessa assemblea costituente. Essa accoglie e rilancia una 'scommessa' da

tempo presente nel discorso pubblico europeo: la possibilità di far coesistere le libertà 'mercanti-

li' con l'impegno equalizzatore della repubblica. Il mercato è importante, per i costituenti, ma la

direzione di senso del loro progetto coincide con l'attuazione di una sempre più eguale cittadi-

nanza sociale. A partire dagli anni Ottanta, invece, è il mercato che aspira a proporsi come l'e-

sclusivo o quanto meno determinante orizzonte dell'azione individuale e collettiva.

Le conseguenze 'rivoluzionarie' di questo spostamento di accento non devono essere sottova-

lutate. Assumere il mercato come modello antropologico-sociale induce a concentrare l'atten-

zione sull'asse bisogno-consumo. Il momento del lavoro produttivo (il centro della società indu-

strialista) viene collocato ai margini della scena. La fine del fordismo e il trionfo del mercato

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sono fenomeni complementari e concorrono a produrre un'epocale mutamento nella logica della

civilizzazione: che non si fonda più sull'autodisciplina, sul differimento del piacere immediato e

sull'investimento nel futuro (su quel comportamento 'razionale' che, per Locke, rendeva provvi-

do per l'individuo come per la collettività il nesso lavoro-proprietà), ma si regge piuttosto sul-

l'immediata soddisfazione del bisogno e sull'inesauribile stimolazione-creazione di sempre nuo-

vi desideri.

Il controllo sociale allora, più che affidato a soggetti 'esterni' (allo Stato, alla Chiesa e ai più

diversi enti 'disciplinanti'), viene assolto direttamente dal mercato sulla base di meccanismi che

sanciscono volta per volta chi è 'dentro' e chi è 'fuori', chi si muove con la velocità richiesta dal-

la concorrenza e chi rallenta, perde il passo ed esce di scena (Bauman 2004; Bauman 2006).

Chi è 'fuori', peraltro, imputet sibi: il mercato presuppone l'eguale libertà dei soggetti ed e-

spunge come irrilevante (come un idolon della vecchia sociologia) l'ipotesi di un condiziona-

mento sociale delle scelte individuali. La seconda modernità (per usare il termine di Beck)

(Beck 2000 a, p. 27, Beck 2000 b) sembra ricongiungersi con la prima modernità (senza però

dimenticare, come termine medio, l'individualismo e il conflittualismo spenceriano): sembra

cioè evocare il liberalismo delle origini, per il quale libertà e responsabilità sono due facce della

stessa medaglia e la povertà è sempre accompagnata dal sospetto che una dissipazione o una

'mancanza di carattere' del singolo ne sia la colpevole causa.

Gli esclusi dal mercato, i nuovi poveri, mostrano però un tasso di inutilità sociale molto più

elevato dei loro predecessori ottocenteschi: non servono al mercato, in quanto relegati in uno

status di non-consumatori, ma nemmeno vengono a formare un esercito industriale di riserva,

dal momento che nella seconda modernità la produzione sembra aver bisogno di un numero de-

crescente di addetti e si preoccupa soprattutto di potenziare il proprio corredo tecnologico e di-

minuire il costo del lavoro. Socialmente inutili, i nuovi poveri vengono a costituire non tanto

una nuova classe quanto una underclass (Katz 1993), una sottoclasse condannata a una margi-

nalità sociale che impedisce ad essa di porsi come un soggetto collettivo, capace di una qualche

forma di resistenza o di progettualità politica.

Vengono meno le principali condizioni storico-sociali che avevano motivato e reso possibile

la creazione e il funzionamento dello Stato sociale. Era il conflitto fra le classi (formatesi con la

prima rivoluzione industriale) che aveva plasmato la storia dell'Europa otto-novecentesca, aveva

sollecitato la rivendicazione dei diritti politici e sociali e aveva trovato infine nello Stato uno

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strumento di mediazione e di equilibrio. Lo Stato, per parte sua, era arrivato a garantire la tenuta

di un patto sociale che non cancellava la conflittualità sociale, ma la regolava e la assumeva

come volano del progresso e come stimolo per una prudente suddivisione delle risorse. L'obiet-

tivo, caratteristico delle democrazie costituzionali del secondo dopoguerra, era l'integrazione dei

soggetti attraverso i diritti e la garanzia di una sicurezza riposante sulla ripartizione sociale degli

oneri e dei rischi.

Lo Stato sociale (uno Stato la cui legittimazione è stata addirittura fatta coincidere con la sua

capacità di erogare servizi) trovava il suo principale punto di forza nella sua capacità di creare

sicurezza; e questa a sua volta (la sicurezza come soddisfazione socialmente garantita dei biso-

gni fondamentali e accesso sempre più allargato al patrimonio comune) si faceva forte del nes-

so fra lavoro e solidarietà.

È appunto la capacità ‘protettiva’ dello Stato che sta perdendo rapidamente credibilità e at-

trattiva, a causa di fenomeni nuovi che incidono sugli elementi costitutivi dello Stato stesso. Lo

Stato infatti nasce e si sviluppa come un'organizzazione politica legata a un territorio. Le pretese

'esclusive' della sovranità moderna sono concepibili e possono effettivamente dispiegarsi in rife-

rimento a un territorio: è entro uno spazio rigidamente delimitato che il grande Leviatano giu-

dica e manda, affligge e consola, esercita insomma il suo potere volta a volta terrifico o salvifi-

co. È all'interno di una civitas sostanzialmente impermeabile all'esterno che ancora lo Stato ot-

to-novecentesco opera garantendo sicurezza ai propri soggetti. Ora, proprio il nesso biunivoco

fra Stato e territorio e le pretese 'esclusiviste' della sovranità stanno indebolendosi nel contesto

della recente globalizzazione. Il cittadino deve vedersela con poteri extra-territoriali e sovra-

nazionali che sfuggono al controllo dello Stato. Il Leviatano non è deceduto, ma è azzoppato: si

è inceppato il circolo virtuoso fra lealismo statual-nazionale, integrazione delle masse e garanzia

di sicurezza e l'individuo si scopre improvvisamente solo ed esposto a rischi che sembrano

sfuggire al controllo dello Stato e della collettività.

Crolla la fiducia nella forza protettiva dello Stato e si indeboliscono al contempo (come a-

spetti complementari dello stesso fenomeno) il senso e il valore della solidarietà interna alla so-

cietà nazionale. Anche in questo caso sembra toccare il suo punto conclusivo una parabola che

si sviluppa nella storia europea fra Otto e Novecento: dal positivismo comtiano e durkheimiano

all'ideologia 'ufficiale' della Terza Repubblica francese, al cattolicesimo sociale, all'organicismo

della sociologia e della pubblicistica tedesca, al 'nuovo liberalismo' anti-spenceriano, al riformi-

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smo socialista, sono mille i rivoli che confluiscono nella tesi secondo la quale l'individuo dipen-

de da ogni altro nella soddisfazione dei bisogni e nella minimizzazione dei rischi. È questa la

visione del soggetto e della società che ora perde terreno, scalzata da un rinnovato protagonismo

dell'individuo; un protagonismo che dovrebbe però dirsi non già ottimistico e prometeico (come

nella fase eroica della prima industrializzazione), ma pessimistico e spaventato; un protagoni-

smo dell'io che nasce dalla sensazione che, in assenza di interventi pubblici capaci di offrire

un’effettiva protezione, la difficile partita della sopravvivenza sia interamente affidata alle scel-

te del singolo, peraltro consapevole di non disporre degli strumenti capaci di metterlo durevol-

mente al riparo dalla sconfitta (Bauman 2002, Bauman 2007).

Si allenta e si sfrangia la rete protettiva offerta dalla solidarietà nazionale e dalle sue espres-

sioni politico-istituzionali, aumenta il senso dell'insicurezza e del rischio e la paura sembra di-

venire il principale, hobbesiano legame sociale: una paura indeterminata, proteiforme, che può

evocare i più diversi ‘nemici’, ma trova un suo bersaglio elettivo nei marginali, negli irregolari

(potenzialmente criminali), nella 'sottoclasse' degli esclusi dal circolo virtuoso del bisogno e del

consumo. Divenuta precaria o impossibile la ‘libertà dal bisogno’ promessa dallo Stato sociale,

l’esigenza prioritaria appare quella di proteggere la propria immediata singolarità dall'aggres-

sione del 'nemico': «come in un film di Peckinpah, 'Cane di paglia', è l'individuo isolato in una

'comunità' di estranei che diviene pronto a difendere in modo parossistico il proprio spazio mi-

nacciato» (Dal Lago 2000, p. 219). Se era la libertà dal bisogno il simbolo di legittimazione del-

lo Stato sociale, l'unica residua risorsa legittimante del dimidiato Leviatano sembra essere dive-

nuta la difesa dall'aggressione (donde il successo planetario del 'diritto penale del nemico' e del-

le politiche securitarie).

Da qualunque angolo visuale lo si guardi, lo Stato sociale vede cadere uno dopo l'altro i suoi

principali sostegni. Lavoro e capitale non si fronteggiano più come due blocchi monolitici en-

trambi bisognosi dell'intervento mediatore dello Stato, capace di realizzare un'integrazione al-

trimenti impossibile. Il substrato etico-antropologico della solidarietà è stato sostituito dal mo-

dello individualistico-conflittualistico del mercato. La sovranità statuale ha perduto il suo smal-

to ed è venuta meno la fiducia nella protezione statale contro il rischio. Infine, è alterata un'ulte-

riore caratteristica dello Stato sociale otto-novecentesco: l'omogeneità dei destinatari dei suoi

interventi protettivi. L'integrazione cui lo Stato sociale attendeva si esercitava su soggetti che,

per quanto differenziati socialmente e culturalmente, erano collegati almeno dal comune deno-

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minatore (simbolico e retorico) dell’appartenenza nazionale. Lo Stato sociale presupponeva la

Staatsangehörigkeit dei suoi destinatari e si proponeva di trasformare la semplice appartenenza

in un’integrata e solidale cittadinanza sociale. In tempi recenti, però, anche questo connotato

dello Stato sociale è entrato in crisi perché la crescente presenza dei ‘migranti’ sul territorio del-

lo Stato rende più problematica una nozione di solidarietà tradizionalmente operante entro il

cerchio dell’appartenenza nazionale.

Sembra infine venuto meno un orizzonte, di determinante importanza per la modernità, entro

il quale si è compiuta l'intera traiettoria dello Stato sociale: l'orizzonte di una temporalità prote-

sa verso il futuro. Le 'lotte per i diritti', che dalle rivoluzioni di fine Settecento si sono susseguite

per giungere alle costituzioni del secondo dopoguerra, presuppongono una scansione della

temporalità che permetta di commisurare le inadempienze del presente con l’idea di

un’alternativa proiettata nel futuro. Questa categoria culturale (vorrei dire questa struttura di

mentalità) è così forte e consolidata da incidere sulla stessa costituzione del '48, che fissa nor-

mativamente i tratti di una repubblica che per esistere ha bisogno del futuro.

Mentre il modello dello Stato (e della cittadinanza) sociale si alimenta della tensione fra pre-

sente e futuro e implica un movimento dal 'non ancora' al 'finalmente compiuto', il modello del

mercato sopprime il flusso temporale e coincide con il 'qui e ora' del bisogno e del consumo. La

temporalità si dà in questo caso nella forma dell’infinita ripetizione del medesimo istante e si

contrae in una sorta di eterno presente.

Con l’abulia progettuale della post-modernità e con la dissoluzione dei grandi soggetti col-

lettivi della tradizione otto-novecentesca in una pulviscolare molteplicità di individui concentra-

ti sulla loro singolarità, lo Stato sociale, che ancora negli anni Settanta sembrava al centro del

discorso pubblico europeo, rischia oggi di apparire uno strano animale preistorico, che tenta con

affanno di sopravvivere (ma fino a quando?) in un ambiente devastato da un'improvvisa glacia-

zione.

6. Morte o trasfigurazione del Welfare State? Le strategie delle scienze sociali

Parlare della nascita, crescita e agonia di un 'modello', quale lo Stato sociale, è far uso di una

metafora: un 'modello' non è un ente realmente esistente che possiamo contemplare nella sua

oggettiva configurazione. Un modello politico è un insieme (relativamente coerente) di enun-

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ciati (di carattere promiscuamente descrittivo e prescrittivo) che rappresentano-auspicano-

progettano una determinata 'forma di vita', a partire da (implicite ed esplicite) assunzioni etiche

e antropologiche e in stretta connessione con la dinamica degli interessi e dei conflitti. Esso

quindi non nasce o scompare con la tranquilla imperturbabilità di un fenomeno naturale; è piut-

tosto uno strumento impiegato nel vivo della comunicazione e del conflitto politico-sociale, for-

giato in vista di specifici obiettivi e continuamente trasformato in rapporto alle aspettative e agli

interessi sempre mutevoli dei suoi 'utenti'.

Parlare di agonia dello Stato sociale significa allora semplicemente registrare l'impressione

che nell'attuale discorso pubblico il ricorso a quel modello costituisca, per così dire, più un pro-

blema che una risorsa. Esistono insomma buone ragioni (che ho tentato prima di riassumere) per

vedere nello 'Stato sociale' l'ingombrante eredità di un passato ormai troppo diverso dal presen-

te. Resta però da decidere se accettare quell'eredità, sia pure soltanto con beneficio d'inventario,

oppure semplicemente rifiutarla come un lascito troppo oneroso (Ferrera 1993, Pennacchi 1994,

Buti, Franco e Pench 1999, Saraceno 2004, Ferrera 2005).

Per chi sceglie di rompere i ponti con il passato, una strada pressoché obbligata è assumere il

mercato come modello politico-sociale e a partire da esso ridisegnare i profili dell'ordine com-

plessivo. La razionalità strumentale (la congruenza con i fini economici della massimizzazione

del profitto e della minimizzazione dei costi) è il principale criterio di valutazione dell'azione

individuale e collettiva. È bandita un'idea dinamica e sostanziale dell'eguaglianza e con essa l'at-

tribuzione al potere pubblico di un onere redistributivo e perequativo. È ammesso soltanto, nella

migliore delle ipotesi, un intervento assistenziale nei confronti delle frange più diseredate della

popolazione. Il distacco dal modello della cittadinanza sociale non potrebbe essere più netto.

L'ideologia 'mercatista' salta a piè pari la lunga tradizione solidaristica entro la quale aveva vi-

sto la luce lo Stato sociale e si ricongiunge con il liberalismo delle origini, trovando comunque

il suo più vicino punto di riferimento nella teoria politico-sociale elaborata da Hayek (e, in Ita-

lia, da Leoni).

Un distacco così netto dall’obiettivo e dai valori della cittadinanza sociale ha il fascino di

una scelta coerente ed univoca, che può invocare a proprio favore lo Zeitgeist (in sostanza, le

imponenti e rapide trasformazioni politiche ed economico-sociali che hanno turbato le magnifi-

che sorti del vecchio Stato sociale). È però anche vero che di un fenomeno così complesso e ra-

dicato nella storia dell'Occidente come il processo di realizzazione della cittadinanza sociale è

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più facile annunciare il funerale che celebrarlo effettivamente: in parte, perché i processi storici

sono lenti e tormentati e raramente un assetto politico-sociale scompare di colpo inghiottito da

un'improvvisa voragine; in parte, perché molti dei problemi e delle aspettative cui lo Stato so-

ciale tentava di rispondere mantengono intatta la loro importanza anche in un ambiente profon-

damente mutato. È comprensibile allora che nel discorso pubblico si affollino strategie argo-

mentative diverse, ma apparentate da due scelte di fondo: da un lato, il rifiuto di assumere il

mercato come esclusivo e complessivo modello politico-sociale; dall'altro lato, la consapevolez-

za di non poter riproporre, come se niente fosse successo, lo Stato sociale prospettato nel primo

trentennio dell'Italia repubblicana. A partire da questa comune dichiarazione di intenti si svilup-

pano numerose proposte teoriche che tentano di ridefinire le caratteristiche di uno Stato sociale

'all'altezza dei tempi' . Tenterò di presentare un quadro 'sinottico' di alcune fra esse, rinunciando

a qualsiasi velleità di completezza. Ciascuna di queste proposte, o famiglia di proposte, può es-

sere contraddistinta dalla decisione di assumere un determinato fenomeno o profilo tematico

come il punto di Archimede su cui far leva per tentare di offrire una convincente ri-definizione

dello Stato sociale.

Particolarmente sensibile alle istanze del modello 'mercatista' sembra essere quella celebre

revisione dello Stato sociale che Giddens (uno dei suoi principali promotori) ha contrassegnato

con il nome di 'terza via'. Uno dei principî che la contraddistingue è il motto 'no rights without

responsibilities'. L'eccessiva onerosità dello Stato sociale deve essere corretta non solo per mo-

tivi di bilancio, ma in quanto conseguenza di una sua declinazione meramente assistenzialistica.

Resta fermo l'obiettivo inclusivo e integrativo dello Stato sociale, ma esso passa attraverso (vor-

rei dire, se non suonasse ironico il richiamo) il self-help dei suoi destinatari: che devono essere

attivi e responsabili, mentre lo Stato a sua volta deve agire non tanto erogando sussidi quanto

offrendo servizi, stimolando lo sviluppo della società civile, moltiplicando le opportunità di im-

piego. Lo welfare deve essere ripensato come workfare. Il lavoro è ancora al centro del sistema,

ma esso è valorizzato non tanto come fondamento di una crescente eguaglianza, quanto come

banco di prova della responsabile libertà dell'individuo (Rosanvallon 1997, Giddens 1998, Gid-

dens 2000).

La 'terza via' è tale in quanto vuol essere un'alternativa tanto al vecchio Stato sociale, troppo

impermeabile alla logica del mercato, quanto alla nuova ideologia mercatista, troppo indifferen-

te nei confronti dell'inclusione dei deboli. Le eccessive preoccupazioni equalizzatrici dello Stato

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sociale devono cedere il posto alla libertà e alla responsabilità del soggetto e al suo atteggia-

mento attivo e competitivo. Per questa prospettiva, il punto di crisi del vecchio Stato sociale è

quindi il mercato, che con i suoi recenti successi 'globali' rende improcrastinabile un aggiusta-

mento di rotta.

Un secondo gruppo di proposte appare invece caratterizzato dall'individuazione di un diverso

punto di crisi: le rapide e profonde modificazione del sistema produttivo, il passaggio dal fordi-

smo a una società post-industriale. Se teniamo presente il nesso strettissimo che collegava, nel

secondo dopoguerra, la realtà del lavoro con lo welfarismo delle democrazie costituzionali, in-

tendiamo facilmente come queste teorie individuino un profilo indubbiamente decisivo per le

sorti dello Stato sociale. Esse però, pur movendo da una comune diagnosi, traggono da essa

conseguenze diverse (anche se non mancano episodi di overlapping consensus).

È condivisa la diagnosi della trasformazione qualitativa e della riduzione quantitativa del la-

voro nella società post-industriale. L'obiettivo del pieno impiego (già asintotico anche nel mo-

mento dei maggiori entusiasmi keynesiani) è ormai travolto dalla constatazione del crescente

divario fra produttività e occupazione. Decresce vistosamente il numero dei soggetti stabilmente

collocati in un rapporto di lavoro subordinato, mentre aumenta in proporzione la quantità degli

occupati in attività precarie e discontinue e dei soggetti periodicamente o definitivamente taglia-

ti fuori dal sistema produttivo. Beck parla della 'brasilianizzazione' del lavoro nell'Occidente in-

dustrializzato per alludere alla diffusione di lavori occasionali e instabili anche nei paesi del

'primo mondo' e alla conseguente precarizzazione dello stile di vita di masse crescenti della po-

polazione (Beck 2000 a).

L'impatto di questo fenomeno sulle tradizionali prospettive welfariste è devastante. Per le

democrazie costituzionali del secondo dopoguerra, e segnatamente per la costituzione del '48,

era il lavoro il principale elemento di connessione fra l'individuo e la comunità; ed era quindi il

lavoro il tramite per la realizzazione della cittadinanza sociale: è attraverso il lavoro che l'indi-

viduo diviene effettivamente parte della comunità e matura un titolo per accedere al patrimonio

comune. In quel contesto, il lavoro poteva svolgere questo essenziale ruolo simbolico perché il

simbolo corrispondeva (non alla lettera, ma nella sua direzione di senso) alla realtà della società

industrialista. Non a caso Mortati poteva parlare, marxianamente, della classe operaia come di

una «classe generale» (Mortati 2005, p. 16).

Con la società post-industriale il lavoro cessa di essere il tramite privilegiato della cittadi-

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nanza sociale: cessa la (tendenziale) coincidenza fra lavoratore e cittadino e viene meno il perno

sul quale il vecchio Stato sociale incardinava la sua azione equalizzatrice. Occorre dunque, in

questa prospettiva, ripensare la cittadinanza sociale in una situazione in cui il lavoro ha perduto

la sua valenza (socialmente) 'generalista' per occupare una posizione settoriale (anche se non

marginale).

Le strategie proposte sono numerose e si differenziano a seconda della maggiore o minore

presa di distanza rispetto al modello di partenza (caratterizzato dalla dominanza del lavoro for-

dista). Una possibile strategia è prendere atto del carattere ormai 'parziale' del lavoro tradizio-

nalmente inteso e assumerlo come specie di un genere più ampio: un operare socialmente utile,

un'attività comprensiva delle più diverse forme di azione sociale. Al carattere etero-diretto del

lavoro 'tradizionale' si affianca l'immagine di un'attività collegata alla libertà e al bisogno di au-

to-realizzazione individuale. Anche in questa prospettiva, come già nel modello della 'terza via'

(pur se attraverso un diverso percorso), emerge l'esigenza di una più attenta valorizzazione della

libertà, ma al contempo non viene ignorato il problema della rilevanza socio-economico di quel-

le attività, che, pur diverse dal lavoro subordinato, non per questo possono confondersi con meri

passatempi privati. Il lavoro 'tradizionale' non viene cancellato, ma viene messo in rapporto e in

confronto con il più vario e multiforme mondo dell'operare socialmente rilevante (Carboni

1991, Accornero 1997, Beck 2000 a).

È però possibile scegliere una strategia diversa, proclamando perentoriamente la fine del la-

voro (Rifkin 1995) e non già solo la sua dislocazione (simbolica, prima ancora che effettiva) dal

centro alla periferia. Se il lavoro è (virtualmente) finito, se la trionfante automazione sta realiz-

zando l'antico sogno di una produzione emancipata dalla disciplina e dallo sforzo, il problema

del passaggio dal 'lavoro' alla 'cittadinanza' è risolto di slancio con l'elisione del primo dei due

termini. Non esiste una reale distinzione fra lavoro e attività e ancor meno la partecipazione dei

cittadini al patrimonio comune può dipendere da un qualche nesso (sia pure di nuovo tipo) con

l'agire socialmente utile dei soggetti (Gorz 1992, Aznar 1994, Gorz 1994, De Masi 1999). È la

semplice condizione di cittadino, di membro di una comunità, il titolo necessario e sufficiente

per beneficiare delle risorse collettive. Scompare la dimensione produttiva ed economica come

collante della società ed è semmai la dimensione politica a essere rivendicata come la principale

nervatura del vivere civile (Méda 1997).

Siamo di fronte a strategie molto diverse fra loro, che però non solo traggono origine dalla

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comune percezione del medesimo fenomeno (la trasformazione del lavoro nella società post-

industriale) ma finiscono per convergere anche in una nuova e interessante proposta (tenden-

zialmente) operativa: il reddito di cittadinanza.

L'idea è semplice: assicurare in qualche forma un reddito di base al cittadino; non all'indivi-

duo in quanto lavora o svolge una qualche attività entro una comunità politica, ma all'individuo

in quanto membro di quella comunità. È un'idea circolante ormai da più di un ventennio nel di-

battito filosofico-politico. Ne ha parlato, nei primi anni Ottanta, Dahrendorf sulla scia di Tho-

mas Schmid (Dahrendorf 1988), ma nel corso del tempo si sono moltiplicati gli interventi e le

iniziative fino a giungere, di recente, al varo di pubblicazioni periodiche e a convegni apposi-

tamente dedicati al tema11.

La novità della proposta è (come sempre accade in un processo storico) non già assoluta, ma

relativa. L'idea di un reddito assicurato dalla società a ciascuno dei suoi membri può essere rin-

tracciata nel radicalismo e nel primo socialismo inglese e americano fra Sette e Ottocento, in

Paine come in Spence (sia pure in termini diversi, in ragione del rispettivo quadro di riferimen-

to, individualistico o comunitaristico) (Cunliffe e Erreygers 2004). Non mancano sotterranee in-

fluenze dell'antica tesi – patristica e scolastica – del possesso originariamente comune dei beni;

e potrebbe essere evocata una qualche connessione con il diritto alla vita, che già l'eccentrico

Babeuf, negli anni del trionfo rivoluzionario della libertà-proprietà, rivendicava come l'unico di-

ritto fondamentale. Il punto è però che per tutto l'Ottocento l'ipotesi di un reddito di cittadinanza

resta ai margini del dibattito, sostanzialmente un Holzweg nel ramificato itinerario delle lotte

per i diritti. Il motivo principale risiede probabilmente nella diffusa convinzione che il diritto al-

la vita passa attraverso due strade obbligate: la proprietà o il lavoro. Non a caso è il diritto al la-

voro che Flora Tristan rivendica come un diritto fondamentale, perché l'unico in grado di assi-

curare ai non proprietari la sopravvivenza. Nonostante ciò, l'idea di un reddito di cittadinanza

non scompare del tutto: la ritroviamo nel Novecento negli scritti di George Douglas Howard

Cole, che parla di uno State bonus o di un Dividend for all, facendo leva sul bisogno (ancora il

diritto alla vita) piuttosto che sul lavoro come suo fondamento. Sarebbe però ingenuo tracciare

una linea continua fra le proposte che si vengono diffondendo negli anni Ottanta del Novecento

e i loro 'precedenti' remoti o prossimi. A valere come un determinante elemento di discontinuità

11 Valgano gli esempi del World Congress on Basic Income, tenutosi a Dublino nel 2008 e della rivista Basic Income Studies, giunta al terzo volume.

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è quella crisi della centralità del lavoro ancora insospettabile fino a tempi recenti e dilagante

proprio alla fine del ventesimo secolo, quando le proposte di un reddito di cittadinanza si infitti-

scono.

In effetti, il reddito di cittadinanza è un tema che raccoglie molteplici adesioni, pur restando

ampio lo spettro delle motivazioni e delle proposte. Ammettiamo di intendere per reddito mini-

mo universale «un reddito versato da una comunità politica a tutti i suoi membri, su base indivi-

duale» (Van Parijs e Vanderborght 2006, p. 5). Quali sono però le vie della sua realizzazione?

Sulla base di quali motivazioni? Con quali prospettive? È nella risposta a queste domande che

le strategie tornano a differenziarsi.

Una prima quaestio disputata riguarda le modalità di attribuzione del reddito: che può avve-

nire nella forma di un contributo corrisposto periodicamente a ciascun individuo adulto per

l’intera durata della sua vita, oppure nella forma di una somma versata una volta per tutte a ogni

cittadino. La scelta dell'una o dell'altra modalità può sembrare un dettaglio puramente tecnico,

ma in realtà può essere collegata al perseguimento di finalità diverse: un sostegno costante nella

soddisfazione dei bisogni basilari oppure l'offerta di una chance per inserirsi nel gioco della

produzione e dello scambio (Ackerman e Alstott 2006).

Quale che sia la forma prescelta per l'erogazione di un reddito minimo di cittadinanza, resta

comunque ampio lo spettro delle motivazioni che lo giustificano e delle aspettative che lo ac-

compagnano. Certo, è generalmente condivisa la convinzione di doversi rapportare a ciascun

cittadino senza esaurirne il valore nella logica del mercato (Accornero 1997, p. 172). Le strade

però si separano di fronte al problema del rapporto che debba intercorrere fra l'attribuzione del

reddito minimo e l'agire socialmente utile del soggetto (pur rimanendo fermo per tutti lo sgan-

ciamento dal vecchio parametro del lavoro 'in senso stretto').

Una strategia raccomanda di «spostare dallo status di lavoratore allo status di cittadino il

centro gravitazionale dei diritti sociali» (Romagnoli 1998, p. 38) e di includere fra questi la cor-

responsione di un reddito minimo, ma al contempo chiede che il reddito di cittadinanza sia il so-

stegno offerto a un individuo attivo e disposto a erogare energie a vantaggio della società di cui

fa parte. Scompare l'antica egemonia del lavoro, ma resta fermo il criterio di una necessaria re-

ciprocità fra gli oneri e i vantaggi, fra i 'debiti' e i 'crediti' del cittadino, nel quadro di una società

che si vuole ancora sorretta e unificata dal principio di solidarietà.

Una diversa strategia insiste invece sull'opportunità di svincolare il reddito di cittadinanza

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dall'ipotesi (cara ai teorici della 'terza via') di una trasformazione del welfare in workfare. In

questa prospettiva l'abbandono della logica 'lavorista' è ancora più netto e la corresponsione del

reddito minimo è sottratta al vincolo della reciprocità. Lungi dall'essere uno strumento per au-

mentare le chances di inserimento del soggetto, il reddito minimo serve a emancipare ogni cit-

tadino dalla costrizione del bisogno ampliando la sfera della sua libertà. L'obiezione di Rawls

(non possiamo finanziare il surfista di Malibu con i fondi della collettività) non è decisiva per

chi consideri il reddito di cittadinanza la risposta a un diritto fondamentale di ognuno: il diritto

alla vita. Come i diritti politici, così il diritto alla vita non può essere sottoposto a condizioni,

ma ha una valenza assoluta e si presenta come il presupposto di tutti gli altri diritti (Pateman

2006). Se nella strategia che fa leva sul criterio di reciprocità il quadro di riferimento è essen-

zialmente solidaristico, nella prospettiva che separa la corresponsione del reddito di cittadinanza

dall’assolvimento di qualsiasi 'debito' nei confronti della società, il valore prioritario è la libertà:

la libertà come «empowerment o anche capacitazione (à la Sen)» (Paci 2007, p. 14), la libertà di

progettare la propria esistenza (anche la libertà di non lavorare) sapendo di poter contare sulla

garanzia di un minimo vitale.

Non sono differenze marginali quelle che dividono il campo dei fautori del reddito di citta-

dinanza; e tuttavia le convergenze sono più rilevanti delle divergenze: occorre, per tutti, sgan-

ciarsi dalla versione lavoristico-previdenziale del vecchio Stato sociale e trasformarlo assumen-

do il cittadino come il destinatario di servizi a carattere 'universalistico' e il percettore di un red-

dito che gli assicuri la soddisfazione dei bisogni essenziali (Paci 1990).

Percorrere una 'terza via' intermedia fra il vecchio Stato sociale e il nuovo modello 'mercati-

sta', raccogliendo da quest’ultimo gli stimoli per ripensare e 'dinamizzare' la tradizione welfari-

sta; oppure prendere sul serio la trasformazione del lavoro nella società post-industriale e spo-

stare l'asse di orientamento dal lavoratore al cittadino; o infine (ecco la terza prospettiva che oc-

corre ora presentare) ripensare la cittadinanza sociale prendendo atto che lo Stato da essa pre-

supposto, lungi dall'essere un suo indispensabile sostegno, è divenuto corresponsabile della sua

crisi.

A rendere difficile la sopravvivenza del welfare 'tradizionale' contribuisce infatti (come ho

già ricordato) il recente indebolimento dello Stato nazionale, sottoposto alla pressione di poteri

sovranazionali che insidiano il carattere 'esclusivo' della sua sovranità. Uno degli effetti di que-

sto fenomeno è appunto la perdita di fiducia nelle funzioni protettive del sovrano, ritenuto ormai

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incapace di garantire l’individuo dai rischi 'globali' che insidiano la sua sicurezza. Se dunque è

il rapporto fra Stato e cittadino (così come esso si è venuto costruendo lungo l'intera parabola

della modernità) uno dei punti di crisi dello Stato sociale, è su esso che converrà far leva per de-

lineare un'efficace strategia di risposta.

In questa prospettiva, ciò che necessita di revisione è la convinzione che il tramite unico del-

la solidarietà sociale sia lo Stato, come se fra Stato e cittadino non esistessero realtà intermedie.

Questo assunto, caratteristico dello Stato liberale, orgogliosamente convinto della salutare e de-

finitiva demolizione (ad opera della rivoluzione) dei corpi intermedi, resta sostanzialmente im-

mutato anche nella fase della costruzione e della realizzazione dello Stato sociale e mostra ora

tutta la sua fragilità. L'attuale crisi della sovranità rende urgente la scoperta (o meglio la risco-

perta) di una visione diversa: secondo la quale il legame sociale e la solidarietà, lungi dal dipen-

dere soltanto dall'azione dello Stato, sono largamente tributari delle iniziative spontanee dei

membri della società (Donati 1991, Donati 1994, Ranci 1999).

È a partire da questo presupposto che è possibile ripensare il tradizionale Stato sociale fa-

cendo leva su un fenomeno recente: sulla crescente importanza di quello che è stato chiamato il

Terzo settore; un settore della società civile che è 'terzo' rispetto allo Stato e al mercato perché

racchiude organizzazioni e attività non riconducibili né all'intervento del primo né alla logica

del secondo.

È ormai attiva una galassia di gruppi impegnati in attività socialmente utili della più varia

specie, ma complessivamente sfuggenti al calcolo economico del rapporto fra costi e benefici e

all’obiettivo del profitto. Non riconducibili al modello mercatista, questi gruppi al contempo

presuppongono e praticano una solidarietà diversa da quella caratteristica del welfare ‘tradizio-

nale’. Gli interventi solidaristici dello Stato sociale procedono secondo una logica rigorosamen-

te egualitaria e impersonale: sono pur sempre l'espressione di un ente (tendenzialmente) corri-

spondente all'idealtipo weberiano del potere burocratico-razionale. Non sono esclusi l'adesione

attiva e l'impegno del singolo cittadino, che però si esplicano in una forma che mantiene il ca-

rattere universalistico e impersonale proprio dell'azione statale (valga l'esempio, proposto da

Titmuss, del servizio di donazione del sangue).

La solidarietà nella quale si iscrive l'attività dei gruppi del Terzo settore è diversa: anziché

universalistica è selettiva e particolaristica, ma è al contempo capace di una elevata personaliz-

zazione dei rapporti. All'impronta burocratico-egualitaria propria della tradizione welfarista si

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sostituisce una solidarietà di tipo relazionale per intendere la quale è stato fatto riferimento alla

dimensione antropologica del dono; un dono che, secondo la 'classica' interpretazione di Mauss,

vale come tramite simbolico di un'attività reciprocamente obbligante e come veicolo di un forte

legame sociale (Caillé 1998).

Chi propone di far leva sul Terzo settore per ripensare lo Stato sociale non intende smantel-

larne l'apparato, bensì trasformarlo e alleggerirlo. Lo Stato viene presentato non come l'unica

espressione e come l'unico strumento di realizzazione della solidarietà sociale, destinatario di

tutte le aspettative e proprio per questo sempre più incapace di rispondere adeguatamente a esse,

ma come centro di coordinamento di gruppi spontaneamente emergenti dalla dinamica sociale.

Il risultato cui si mira è un welfarismo di nuovo tipo, condiviso fra più soggetti, rivitalizzato da

una nuova e più personalizzata solidarietà: un welfare mix capace di rispondere alla crisi dello

Stato sociale ripartendone gli oneri grazie all'intervento creativo e collaborativo dei più diversi

gruppi sociali (Passuello 1997, Ascoli 1999, Cafaggi 2002, Ascoli e Ranci 2003, Donati e Co-

lozzi 2004).

Le strategie si moltiplicano (dall'ipotesi della 'terza via' al superamento del 'lavorismo', alla

valorizzazione del Terzo settore) e si differenziano fra loro, ma la partita è una sola: se da un la-

to il mercato, nella sua dimensione globale e nel suo divorante dinamismo, sembra avere facil-

mente ragione del lento e farraginoso Stato sociale d'antan, dall'altro lato le aspettative generate

dalla tradizione welfarista non sembrano aver perduto tutta la loro forza e danno luogo a nume-

rosi tentativi di salvare lo Stato sociale dalle sabbie mobili che minacciano di inghiottirlo.

7. La sfida del mutamento: le strategie della giuslavoristica

I rapidi mutamenti che si manifestano con particolare evidenza a partire dagli anni Ottanta

non possono lasciare indifferenti quei saperi (dall'economia alla sociologia, alla filosofia politi-

ca, alla giurisprudenza) che tentano di comprendere, da diversi angoli visuali, la dinamica e le

regole dell'interazione sociale. Non è in gioco soltanto un'impassibile contemplatio veritatis, dal

momento che i discorsi (anche i discorsi di sapere) sono un momento dell'incontro e dello scon-

tro di interessi vitali. Ciò non toglie però che i saperi assumano la 'verità' come il loro obiettivo

asintotico e il criterio ispiratore della loro strategia retorica; una 'verità' tanto più approssimabile

quanto più rigorose appaiono le loro procedure conoscitive e quanto più ampio è lo spettro dei

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fenomeni che essi mostrano di saper ricondurre a una spiegazione coerente e unitaria. Proprio

per questo, il rapido mutamento della realtà analizzata è la sfida più difficile che i saperi sono

chiamati ad affrontare: è di fronte all'emergenza di nuovi fenomeni che il paradigma deve dimo-

strare la sua tenuta offrendone una spiegazione soddisfacente oppure disporsi a essere riveduto e

corretto, pur mantenendo la sua configurazione, o addirittura accettare di essere sostituito da un

paradigma diverso.

È comprensibile allora che diversi saperi specialistici si interroghino sull’efficacia cognitiva

del loro paradigma di fronte alle recenti trasformazioni economico-sociali. Posti dinanzi alla

medesima sfida, i saperi tendono a influenzarsi vicendevolmente e a mostrare frequenti conver-

genze e sovrapposizioni (anche là dove l'uno o l'altro di essi proclami la più stretta Isolierung).

Spetta però a ogni disciplina individuare l’angolo visuale dal quale guardare la realtà mettendo-

ne a fuoco un aspetto peculiare.

Se dunque la sfida del mutamento è condivisa dai diversi saperi, il modo di affrontarla varia

in rapporto alla tradizione e alla configurazione dell'una o dell'altra disciplina. Per quanto ri-

guarda la giuslavoristica (Simitis 1997, Balandi 2002, Del Punta 2002, Ghezzi 2002, Mariucci

2002, Cazzetta 2007, Garofalo 2007, Leopardi 2007, Del Punta 2008) è difficile sottrarsi all'im-

pressione che essa debba confrontarsi con difficoltà peculiari che rendono più faticoso e, per co-

sì dire, più drammatico il dibattito intorno alla tenuta del suo paradigma. È un'impressione che il

più recente dibattito sembra confermare e che trova riscontro in alcune esplicite testimonianze:

che dichiarano maturi i tempi per una revisione della tradizione, ma al contempo dubitano che si

sia ormai formata una nuova piattaforma condivisa (Romagnoli 2003, pp. 69-70, Del Punta

2008, pp. 269-70). Queste difficoltà appaiono peraltro facilmente comprensibili: non solo per il

peso non indifferente della tradizione che rende faticoso qualsiasi processo di revisione, ma an-

che per il quadro normativo con il quale la giuslavoristica deve fare i conti: da un lato, la costi-

tuzione repubblicana; dall’altro lato, l’ordinamento europeo.

Determinante per la giuslavoristica è la costituzione del '48: non solo per l'ovvio motivo

formale della sua collocazione al vertice dell'ordinamento, ma anche e soprattutto per motivi so-

stanziali. Il paradigma giuslavoristico infatti si viene formando, nel secondo dopoguerra, in

stretto contatto con il dettato costituzionale (più di quanto non avvenga per altre discipline giu-

ridiche). Tanto il modello di società accolto e rilanciato dalla costituzione – il sozialer Rechts-

staat già agognato dalla socialdemocrazia degli anni Venti – quanto la centralità (simbolica e

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'reale') del lavoro subordinato divengono riferimenti imprescindibili per la giuslavoristica nel

primo trentennio repubblicano.

Accanto alla costituzione, però, il quadro normativo (ai vertici dell'ordinamento) include an-

che un elemento che ne complica la configurazione: l'ordinamento europeo; un ordinamento che

ha cominciato a svilupparsi già nell'immediato dopoguerra, ma solo nel corso del tempo ha visto

aumentare la propria incidenza sugli ordinamenti dei paesi membri. L'elemento di complicazio-

ne che l'ordinamento europeo finisce per rappresentare per la giuslavoristica dipende dal fatto

che il modello politico-sociale da esso presupposto (il rapporto fra diritti civili e diritti sociali,

l'idea stessa di welfare e di cittadinanza sociale) non è univoco e compatto e presenta nel corso

del tempo consistenti oscillazioni, a differenza delle nette e definitive scelte compiute dalla co-

stituzione del '48 (Ballestrero 2000, Cantaro 2000, Roccella 2001, Romagnoli 2001, Sciarra

2001, Amato 2002, Sciarra 2004, Greco 2006, Sciarra 2006, Veneziani 2006, Del Punta 2008,

pp. 335 ss.).

Nelle progettazioni originarie della nuova Europa, delineate già negli anni della resistenza ai

fascismi (si pensi a 'Giustizia e libertà' e poi al Manifesto di Ventotene), è presente il principio

che sarà poi detto dell'indivisibilità dei diritti ed è forte la convinzione che la libertà (garantita

compiutamente solo da un’Europa unita) non possa essere disgiunta dalla 'giustizia sociale', dal-

l'eguaglianza 'sostanziale'.

In realtà, l'Europa verrà assumendo, nel corso della sua effettiva realizzazione, una forma as-

sai lontana dal federalismo auspicato da Spinelli; e anche sul terreno dei modelli politico-sociali

la distanza dalle aspettative 'resistenziali' sarà consistente, se è vero che l'obiettivo per lungo

tempo perseguito sarà la realizzazione di un 'ambiente' transnazionale dove la libera circolazio-

ne di uomini e merci favorisca lo sviluppo di un'economia dinamica e concorrenziale. Certo, è

plausibile l’ipotesi di un gioco delle parti fra Stati nazionali (impegnati nelle nuove politiche

welfariste) e comunità europea (particolarmente sensibile al primato della libertà) (Pizzolato

2002, Giubboni 2003, pp. 26 ss.). Restano comunque fermi, per lungo tempo, due assunti: la

cittadinanza sociale non è la prima preoccupazione dell'ambiente comunitario, mentre la sua re-

alizzazione è affidata alle cure e alle risorse dei singoli Stati nazionali.

Al contempo, però è comprensibile che il richiamo ai diritti sociali, inseparabili dal costitu-

zionalismo del secondo dopoguerra non meno che dalle principali carte internazionali (a partire

dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo e del cittadino), finisca per lasciare tracce

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sempre più consistenti nella produzione normativa della nuova Europa. È una tendenza che si è

nettamente rafforzata in tempi recenti (a partire dall'Accordo sulla politica sociale allegato al

Trattato di Maastricht e poi ancora con la Carta di Nizza e infine con il precario avvio di un

processo 'costituente'), tanto che i diritti sociali sembrano ormai godere, nell’ordinamento

dell’Unione Europea, di una visibilità e di una rilevanza di gran lunga maggiore che in passato

(anche se ciò non significa certo un mero ritorno al costituzionalismo del primo dopoguerra:

valgano, a riprova, per un verso, l’esistenza di diritti ‘di nuova generazione’ e, per un altro ver-

so, la perdita dell’aura rivendicativa e palingenetica tradizionalmente connessa con il diritto al

lavoro (Cantaro 2007)).

Potremmo parlare in qualche misura di un paradosso: l'Unione Europea sembra incline a va-

lorizzare i diritti sociali proprio in un'epoca in cui si moltiplicano i segnali di crisi del modello

welfarista. Il paradosso è però forse più apparente che reale, se ipotizziamo l'esistenza di una

preoccupazione costante dell'ordinamento comunitario, pur entro le ricorrenti oscillazioni fra

l'ordo-liberalismo della scuola di Friburgo e l'apertura ai diritti sociali; la preoccupazione nei

confronti degli effetti destabilizzanti di un 'mercatismo' intransigente e la conseguente esigenza

di salvaguardare la coesione sociale tenendo basso il livello della conflittualità (Ferrera e Gual-

mini 1999, p. 95).

Per la giuslavoristica, comunque, l’esito complessivo di questa vicenda è che essa oggi si

trova ad operare in un ‘ambiente’ normativo singolarmente composito: da un lato, una costitu-

zione nazionale (che resta ovviamente il primo e determinante punto di riferimento), che fa

dell’eguaglianza sostanziale uno dei propri principî e obiettivi qualificanti; dall'altro, un nuovo e

importante universo ordinamentale, di crescente importanza per gli Stati membri, le cui prese di

posizione nei confronti della cittadinanza sociale appaiono variabili e variegate.

La complessità del quadro normativo non è però l’unica difficoltà con la quale l’odierna giu-

slavoristica deve confrontarsi: le norme infatti non si impongono per virtù propria, ma dipendo-

no da un’attribuzione di senso di cui si fa carico la comunità disciplinare, che le intende non già

prescindendo da qualsiasi pre-condizionamento ermeneutico, ma portando il peso (e utilizzando

le risorse) della propria tradizione.

Sappiamo quali siano state le componenti principali di questa tradizione: la tematizzazione

della differenza (socio-antropologica) fra lavoro e proprietà; la drammatizzazione della condi-

zione di subalternità e del carattere etero-diretto del lavoro; la percezione della tensione esisten-

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te fra l'eguaglianza formale del contratto e la disuguaglianza sostanziale (socio-economica e po-

testativa) del rapporto di lavoro; il rilievo costituzionale dell'eguaglianza 'sostanziale' e 'dinami-

ca' e quindi l'impegno a ridurre le differenze, a riequilibrare le asimmetrie sostanziali impiegan-

do lo strumento del diritto: difendendo i diritti del lavoratore, limitando i poteri dell'imprendito-

re (a partire dal potere di licenziamento ad nutum domini), favorendo la costruzione di un con-

tro-potere sindacale. Gli strumenti erano diversi, ma convergevano nell'obiettivo di contribuire

alla realizzazione di una repubblica che, in quanto fondata sul lavoro, avrebbe permesso una

crescente diffusione della cittadinanza sociale. La formazione e l'affermazione del paradigma

giuslavorista nel primo trentennio dell'Italia repubblicana sono strettamente intrecciate con la

realizzazione del disegno, e del modello socio-politico, delineato dalla costituzione. Perfino il

grande capitolo dell'autonomia collettiva, distante dagli entusiasmi 'pubblicistici' di un Mortati o

di un Natoli, era divenuto, in quanto investito dallo slancio creativo degli 'eretici' degli anni Ses-

santa, la matrice concettuale dello Statuto dei lavoratori e del rafforzamento del sindacato (un

rafforzamento dal quale dipendeva, secondo gli stessi 'eretici', una tutela effettiva, e non carta-

cea, dei diritti dei lavoratori).

La prima, rilevante difficoltà che la giuslavoristica del nostro presente si trova di fronte è

dunque la necessità di utilizzare una costituzione 'classicamente' welfarista in un mondo che da

quel modello (socio-politico e antropologico) sembra ormai notevolmente lontano. Emerge a

questo proposito il fondamentale problema dell'interpretazione costituzionale12 (assai più rile-

vante, a mio avviso, dell'ipotesi, troppo spesso avanzata, di una nuova (pseudo)-assemblea co-

stituente). Potrebbe delinearsi anche in Italia un conflitto analogo (mutatis mutandis) a quello

divampato negli Stati Uniti d'America fra 'originalisti' (e ‘intenzionalisti’) e ‘testualisti’: i primi

schierati a difesa delle intenzioni originarie dei costituenti, di contro ai secondi convinti

dell’autosufficienza del testo e della necessità di intenderlo alla luce delle esigenze e dei valori

del presente. In questa alternativa si riflette, come è ovvio, uno dei più noti e rilevanti dilemmi

dell'ermeneutica. Per parte mia, non avrei difficoltà a schierarmi dalla parte dei più sfrenati 'evo-

luzionisti' e a sostenere che è possibile 'battere' un testo come meglio si crede piegandolo ad ac-

cogliere diverse e incompatibili attribuzioni di senso. Per il giuslavorista, comunque, il proble-

ma non termina con la scelta dell’una o dell’altra teoria ermeneutica, ma inizia con essa: egli in-

fatti, quand’anche opti per il più radicale approccio ‘decostruzionista’, non può sfuggire

12 Un recente, interessante esempio in Nogler 2007.

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all’onere di misurarsi con il testo normativo e di costruire, a partire da esso, una plausibile stra-

tegia argomentativa. Il rapporto con la costituzione (con i principî e i diritti fondamentali da es-

sa formulati) è dunque un passaggio obbligato di una giuslavoristica impegnata a ripensare il

proprio paradigma, quali che siano le strategie volta a volta prescelte.

Di queste strategie la giuslavoristica offre un ampio ventaglio, a riprova della vivacità e della

creatività euristica di questa disciplina. Presentarne un quadro tipologico impedisce di rendere

giustizia alla ricchezza degli apporti individuali. Sono consapevole quindi che, procedendo in

questa direzione, estenderò alla giuslavoristica i danni che ho già inferto alle scienze sociali. A

mia discolpa posso invocare il famigerato argomento della ‘par condicio’ e soprattutto l’onestà

dell’intenzione: offrire un riepilogo, ancorché rudimentale, del dibattito al solo scopo di agevo-

larne la prosecuzione.

Una prima strategia deve essere menzionata più come ipotesi astrattamente possibile che

come proposta compiutamente formulata: una strategia che miri a ridefinire il paradigma giu-

slavoristico facendo leva sul modello politico-sociale del mercato, senza nessun occhio di ri-

guardo né al vecchio né al nuovo welfarismo. In questa prospettiva, la dialettica (presente nella

costituzione) fra libertà ed eguaglianza sarebbe risolta a favore della prima; resterebbe in piedi

l'eguaglianza giuridico-formale, mentre uscirebbe di scena l'eguaglianza dinamica e sostanziale.

L'attenzione si sposterebbe dalle asimmetrie del rapporto all'eguaglianza del contratto. Potrem-

mo parlare di un ritorno a Barassi, ma converrebbe piuttosto evocare il modello, assai più vicino

e influente, del diritto americano, caratterizzato dall'autonomia delle parti e dall'assenza di qual-

siasi velleità dirigistica del potere pubblico (D'Antona 1998, p. 318).

Con una strategia siffatta, la rottura con la tradizione del primo trentennio repubblicano sa-

rebbe netta. Essa potrebbe giovarsi dei recenti successi del modello 'mercatista' (e della crisi

profonda dello Stato sociale), ma a scoraggiarne l'adozione potrebbero intervenire altri fattori:

da un lato, una troppo traumatica rottura con la tradizione disciplinare; dall'altro lato, il timore

(insistentemente presente anche nel corso dello sviluppo dell'ordinamento europeo) che un ec-

cessivo disinteresse nei confronti degli ammortizzatori sociali potesse far crescere la conflittua-

lità oltre il livello di guardia.

Una seconda strategia si muove invece in una direzione contraria. Restano fermi i contorni

principali del disegno costituzionale varato nel '48 e i suoi presupposti etico-politici. Ciò condu-

ce a sottolineare le prioritarie esigenze 'garantistiche' della disciplina, a mettere in evidenza le

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asimmetrie potestative entro il rapporto di lavoro e più in generale a mantenere una visione pre-

valentemente conflittualistica della dinamica sociale. Una siffatta strategia può rivendicare una

forte continuità con la tradizione disciplinare, senza per questo essere condannata a rinunciare a

qualsiasi apertura nei confronti dei nuovi fenomeni. La 'scommessa' è riuscire a mantenere intat-

ta la vitalità del modello costituzionale anche in un contesto profondamente mutato e a confer-

mare, per questa via, il carattere 'presbite' della costituzione del '48, che, lungi dall'essere esauri-

ta, attenderebbe ancora una sua integrale realizzazione. La dialettica fra libertà ed eguaglianza

continua quindi a svilupparsi secondo la logica già delineata dalla costituzione: la libertà è un

momento irrinunciabile della soggettività, ma deve comporsi con un'eguaglianza che, accanto

alle sue valenze giuridico-formali, include una dimensione 'sostanziale' (Ballestrero 2004) e

postula l'intervento attivo e trasformativo della repubblica.

La centralità della costituzione resta, sullo sfondo, uno degli atouts più importanti di questa

strategia. Se volessimo estrapolare da essa una linea di ermeneutica costituzionale, forse po-

tremmo parlare di un approccio (per intendersi) ‘originalista’: leggere oggi la costituzione signi-

fica tener presente il modello politico-sociale delineato dai costituenti e al contempo sostenere

che esso non è tanto o soltanto il frutto di una scelta politico-ideologica legata all'Europa della

guerra e dell'immediato dopoguerra, bensì racchiude i profili essenziali di quella democrazia co-

stituzionale che si presenta come la più matura realizzazione della civiltà giuridica occidentale.

È un punto di vista che ha trovato di recente una sua grandiosa e rigorosa espressione nei tre vo-

lumi di Principia iuris di Luigi Ferrajoli (Ferrajoli 2007). In questa prospettiva, non vengono

passati sotto silenzio i fenomeni che stanno insidiando la tenuta del modello solidaristico-

egualitario; al contrario, essi vengono presentati e analizzati, ma al contempo vengono denun-

ciati come incompatibili con i principî e le regole della democrazia costituzionale.

Le due strategie finora menzionate intrattengono un rapporto in qualche modo speculare

con il paradigma consolidato: la prima rappresenterebbe un’inversione della direzione di svi-

luppo seguita dalla giuslavoristica nell'Italia repubblicana e condurrebbe a una completa 'riscrit-

tura' dei principali capitoli della disciplina; la seconda, al contrario, si propone di confermare il

paradigma originario e lo assume come supporto di un'argomentazione volta a dimostrare l'in-

compatibilità del modello mercatista (e delle sue proiezioni giuslavoristiche) con l’impianto

normativo della democrazia costituzionale.

In alternativa alle tendenze caratterizzate rispettivamente da una netta discontinuità o da una

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sostanziale continuità con il paradigma consolidato si profilano strategie accomunate dall'inten-

zione di mutarne (con maggiore o minore radicalità) alcune caratteristiche alla luce dei nuovi

fenomeni economico-sociali. Sono strategie che proseguono, sul fronte giuslavoristico, il tenta-

tivo, coltivato da tutte le scienze sociali, di ripensare a fondo lo Stato sociale nella sua ‘classica’

configurazione. Esse però appaiono nettamente divergenti fra loro nei punti di partenza e nei

modi di procedere, tanto da rendere in qualche misura ‘formale’, più che ‘sostantivo’, il consen-

so sul fine da raggiungere (che resta pur sempre l’aggiornamento del paradigma disciplinare).

Una strategia assume il mercato come il punto su cui far leva per ripensare a fondo il para-

digma disciplinare. Il modello del mercato non dovrebbe però essere impiegato per cancellare il

paradigma originario, ma solo per imporre alla tradizione una robusta svolta 'modernizzatrice'.

Certo, occorrerebbe valutare caso per caso quanto le proposte avanzate aggiornino o piuttosto

sradichino il paradigma consolidato. Nei limiti di un prospetto di carattere 'idealtipico' è tuttavia

ipotizzabile un netto discrimine fra una modernizzazione 'eversiva' e una modernizzazione più o

meno cautamente 'riformatrice', pur essendo il mercato in entrambi casi il parametro impiegato

per ridisegnare i lineamenti della disciplina.

Siamo di fronte a un modus procedendi che può evocare (con tutti i limiti di una semplice

analogia) le intenzioni manifestate, sul terreno della sociologia, dai teorici della 'terza via'. Nel

nostro caso, modernizzare in nome del mercato è comunque (quale che sia la radicalità dei risul-

tati) un'operazione complessa e non una facile e inoffensiva cosmesi. Muta in questa prospetti-

va, per così dire, la politica delle integrazioni interdisciplinari: se il paradigma tradizionale si

era venuto costituendo attraverso uno spontaneo collegamento con la sociologia (vorrei dire con

l’'immaginazione sociologica', prima ancora che con gli specifici apporti della sociologia del la-

voro), il programma di modernizzazione fondato sul mercato sposta l'accento dalla sociologia

all'economia (all’analisi economica del diritto, alla tradizione americana del Law and econo-

mics) e la raccomanda come un utile allargamento di orizzonti per la disciplina giuslavoristica

(Del Punta 2001, Ichino 2001, Magnani 2006, pp. 114 ss.).

Muta anche, in questa prospettiva, la lettura della costituzione e la rappresentazione del nes-

so libertà-eguaglianza (Del Punta 2002). La libertà acquista un risalto maggiore e viene accolta

come un invito a guardare in modo diverso al soggetto: non solo come a un soggetto svantaggia-

to e bisognoso di tutela, ma anche come a un individuo capace di scegliere, di amministrarsi o-

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culatamente, e desideroso non solo di tutela ma anche di opportunità13. Se l'eguaglianza sostan-

ziale non viene azzerata, essa tuttavia cessa di essere il principio guida della costituzione e della

giuslavoristica per divenire un parametro che l’interprete impiega bilanciandolo con altri di e-

quivalente rilevanza.

Muta di conseguenza l'agenda tematica della disciplina. L'accento si sposta dalla difesa in-

transigente della stabilità all'alleggerimento dei vincoli; viene posta al centro l'autonomia collet-

tiva e individuale, mentre si indebolisce il dogma dell'inderogabilità; viene valorizzato il con-

tratto individuale e viene auspicato un intervento solo sussidiario dello Stato, là dove le parti

non abbiano provveduto in proprio alla produzione di regole (Biagi 2001).

Muta il quadro di riferimento (dalla sociologia all'economia, dal conflittualismo alla sinergia

delle parti sociali) e sembra urgente uscire dalla cittadella fortificata del lavoro subordinato per

guardare a una pluralità di soggetti e di lavori ancora insufficientemente studiati e tutelati (Ichi-

no 1996). Il mercato entra nel campo di osservazione del giuslavorista e mutano il senso e i con-

fini della tutela: che si manifesta non solo assicurando al lavoratore la conservazione del posto

di lavoro, ma anche moltiplicando le informazioni e le opportunità di impiego, mentre il diritto

al lavoro dovrà cessare di «identificarsi con il diritto 'a non essere licenziati'» per tradursi in «u-

na garanzia effettiva di mobilità dell'occupazione senza soluzione di continuità» (Ichino 1996,

p. 70). È il mercato il terreno sul quale spostare la tradizionale preoccupazione 'garantista' del

diritto del lavoro; ed è ancora la logica del mercato a suggerire che in uno dei sancta sanctorum

della tradizione ‘garantista’ – il licenziamento senza giusta causa – la reintegrazione prenda una

forma economico-risarcitoria, come conseguenza di un semplice inadempimento contrattuale

(Magnani 2006, pp. 130 ss.).

Non sono modifiche di dettaglio quelle suggerite da una strategia di 'modernizzazione' (a

partire dal mercato) del paradigma consolidato (e occorrerebbe un'analisi approfondita dei sin-

goli contributi per valutare se le proposte volta a volta suggerite siano compatibili con il para-

digma o conducano oltre di esso).

Far leva sul modello del mercato non è comunque l'unica chance disponibile per chi desideri

trasformare e aggiornare i contenuti della disciplina. Una diversa linea strategica fa leva su un

fenomeno differente: la fine dell'industrialismo e la nuova fenomenologia del lavoro nella socie-

13 È evidente il nesso con la visione della libertà come empowerment o ‘capacitazione’ del soggetto, cui accennavo supra, § 6. Un interessante sviluppo nella direzione di un ripensamento del concetto di diritto soggettivo in Caruso 2007.

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tà post-industriale. Cambia il rilievo (quantitativo e qualitativo) del lavoro subordinato e cambia

il panorama dei rapporti e dei soggetti che il giuslavorista è tenuto a osservare e a tutelare. Re-

stano importanti l'impronta 'garantistica' e il retroterra solidaristico dell'eguaglianza; l'egua-

glianza stessa però acquista nuove determinazioni rispetto all'originario quadro costituzionale: si

preoccupa della valorizzazione delle differenze (pur continuando ad alimentare la lotta alle di-

scriminazioni) e si intreccia più strettamente con una libertà intesa come chance di realizzazione

dei più diversi progetti di vita (Romagnoli 1996, Romagnoli 1998, Supiot 2003, pp. 61 ss.).

Sollecitata dal passaggio dall'industrialismo alla società post-industriale, la giuslavoristica si

trasforma, dilata il suo campo di azione studiando non solo i profili giuridici della subalternità

industriale, ma anche il diritto collegato al multiforme operare dell'uomo in società: l'impegno

tradizionalmente speso a garanzia dei diritti dei lavoratori subordinati prosegue e si trasforma a

contatto con le esigenze e i problemi delle più diverse forme di operare socialmente utile. Resta

viva la vocazione profonda del paradigma originario – un diritto funzionale alla protezione dei

soggetti socialmente deboli – ma mutano i contorni e le forme di adempimento della vocazione

stessa: cessano di essere determinanti alcune coppie opposizionali della tradizione (quali subor-

dinazione/autonomia e stabilità/precarietà), mentre acquista rilievo il nesso fra la soddisfazione

(socialmente garantita) del bisogno e l'operare (socialmente utile) del soggetto (Cazzetta 2007,

pp. 325-26).

Siamo ancora all’interno del paradigma consolidato oppure sono già emersi i segni di un de-

finitivo congedo della giuslavoristica dalla tradizione sviluppatasi nel secondo dopoguerra? Non

è nelle mie possibilità e nelle mie intenzioni azzardare una qualche risposta. Come osservatore

esterno, posso soltanto esprimere un'impressione e sollevare un problema conclusivo. L'impres-

sione riguarda specificamente la giuslavoristica; ed è l'impressione che essa sia impegnata in un

dibattito di straordinaria vivacità, destinato a coinvolgere non solo gli specialisti del settore, ma

tutte le discipline interessate a capire i rischi e le aperture dell'attuale congiuntura. Senza l'ap-

porto della giuslavoristica il tema della cittadinanza sociale – il tema che ho tentato di assumere

come epicentro di un dibattito multidisciplinare – non potrebbe essere affrontato con cognizione

di causa.

È appunto ancora a proposito di questo tema – la cittadinanza sociale – che vorrei porre

un’ultima (e non retorica) domanda. L’idea di una ‘cittadinanza sociale’ è raggiunta oggi da sol-

lecitazioni opposte. Da un lato, essa sembra travolta dalla crisi di quel tipo di Stato cui la demo-

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crazia costituzionale aveva assegnato il compito di realizzare i diritti (‘tutti’ i diritti) dei sogget-

ti. Dall’altro lato, però, si moltiplicano i tentativi di salvare dalla crisi del welfarismo l’idea di

una partecipazione dei soggetti al patrimonio comune di una nazione: l’idea di un ‘reddito di

cittadinanza’ è solo uno degli esempi offerti in questa direzione dalla letteratura odierna. Né ap-

pare più scontato che i soggetti coincidano necessariamente con i cittadini, con i membri di un

determinato Stato nazionale: i diritti sociali infatti, dalla cui soddisfazione la cittadinanza socia-

le dipende, vengono con sempre maggiore enfasi presentati (in sostanza a partire dalla Dichiara-

zione universale dei diritti dell'uomo) come diritti umani, come diritti fondamentali di ogni esse-

re umano. E la conseguenza non è meramente dottrinaria, dato l'imponente e recente fenomeno

dei 'migranti', che dovrebbero allora, secondo i più rigorosi dettami dell'odierna democrazia co-

stituzionale, essere legittimati, in quanto essere umani, ad usufruire di tutti i diritti fondamentali

storicamente riservati ai 'cittadini'14.

Dal lavoratore al cittadino; dal cittadino all'essere umano: questa sembrerebbe la direzione di

senso che la democrazia costituzionale sarebbe chiamata a seguire per sviluppare coerentemente

il proprio modello normativo. Quali sono però oggi gli attori sociali che spingono in questa di-

rezione? Sappiamo come è nato e come si è affermato lo Stato sociale: esso è stato il risultato di

un complesso organigramma di forze, un punto di consolidazione di interessi contrastanti ricon-

ducibili a determinate classi sociali e a quei movimenti e partiti politici che si candidavano co-

me loro 'rappresentanti'. Appare ormai nitido il quadro delle forze e delle aspettative che hanno

reso possibile il decollo del welfare. Strettamente connesso a una specifica forma di società – la

società europea otto-novecentesca – lo Stato sociale sembra vacillare nell’ultimo trentennio

proprio perché è cambiato il terreno dal quale esso traeva la sua linfa vitale: alle grandi coali-

zioni, ai grandi conflitti e ai grandi progetti hanno fatto seguito la moltiplicazione esponenziale

degli interessi, la frantumazione pulviscolare delle classi, la crisi dei movimenti collettivi, la

contrazione della temporalità nell'immediatezza del presente.

Esistono dunque fondati motivi per credere che oggi siano pessime le condizioni di salute del

vecchio Stato sociale. Certo, niente impedisce di immaginarlo trasfigurato e risorto dalle sue

ceneri; diverso dalle sue precedenti incarnazioni, svincolato dalla centralità etico-antropologica

del lavoro e dalla sua fenomenologia ‘industrialista’, ma ancora più generoso nell’attribuire ri-

14 Opportunamente infatti la recente giuslavoristica si mostra molto sensibile al tema dei ‘migranti’: cfr. ad es. Ballestrero 1996, Lo Faro 1997, Castelli 2003, Veneziani 2007.

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sorse a ‘tutti’ i soggetti (a tutti i cittadini, anzi agli esseri umani ‘come tali’). È possibile imma-

ginare ed è legittimo auspicare una trasformazione del welfare che ne estenda le prestazioni e

ampli il raggio dei suoi destinatari. Resta tuttavia la difficoltà di individuare le forze sociali, gli

organismi politici e gli interessi collettivi capaci di trasformare un modello teorico in una trasci-

nante parola d’ordine, accreditando il nuovo welfare come uno strumento indispensabile per la

società globale del terzo millennio. Possiamo adattare al caso nostro l'antica formula e procla-

mare: ‘lo Stato sociale è morto, viva lo Stato sociale’. Dove sono però oggi i Grandi del regno

interessati all’incoronazione del nuovo sovrano?

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