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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI FERRARA DIPARTIMENTO DI ECONOMIA E MANAGEMENT
Via Voltapaletto, 11 – 44121 Ferrara
Quaderno DEM 1/2015 Note di policy
January 2015
Europa si, Euro no? Le prospettive che abbiamo di fronte
Paolo Pini, Roberto Romano
Quaderni DEM, volume 4 ISSN 2281-9673 Editor: Leonzio Rizzo ( [email protected] ) Managing Editor: Paolo Gherardi ( [email protected] ) Editorial Board: Davide Antonioli, Francesco Badia, Fabio
Donato, Giorgio Prodi, Simonetta Renga Website: http://www.unife.it/dipartimento/economia/pubblicaz ioni
0
Gennaio 2015
Europa sì, Euro no? Le prospettive che abbiamo di fronte1
di Paolo Pini2 e Roberto Romano3
Sommario La politica economica europea è attraversata da un dibattito inedito e dall’esito incerto. La crisi
economica, iniziata nel 2008, alimenta un dibattito politico e accademico senza precedenti. Più euro o meno euro? Più mercato o meno mercato? Più Stato o meno Stato? L’austerità espansiva ha fallito o creato le condizioni per uno sviluppo solido ed equilibrato? Data l’attuale situazione non rimane che gestire da sinistra (destra) la deflagrazione dell’area euro? Sono temi che richiamano l’architettura delle istituzioni europee e le politiche economiche sottese. Da una parte troviamo chi sostiene l’irriformabilità delle politiche fiscali e monetarie europee, dall’altra chi sostiene la necessità di perseguire un orizzonte europeo (riformato).
Il dibattito in Italia sembra polarizzato più che in altri paesi, dimenticando che il nostro Paese vive una crisi nella crisi, che ha radici lontane e non risolvibili nel breve termine. Il declino della produttività, la perdita di salario, la de-specializzazione produttiva, l’assenza di una strategia di riforme di struttura, condizionano l’esito finale delle proposte. Servirebbe una politica macroeconomica all’altezza della sfida e della profondità della crisi globale, così come una politica fiscale e monetaria attenta alle specificità dell’euro area. Per il momento l’uscita da sinistra o da destra dall’euro rimane un evento da studiare e considerare. È un utile esercizio intellettuale. Una eventualità però da scongiurare; alla fine la forza delle idee deve prevalere sugli interessi costituiti.
Abstract
Europe Yes, Euro no? The perspectives in front of us
The current debate on European economic policy is quite original and with uncertain outcomes. The
economic crisis started in 2008 feeds a political and academic debate not so deeply developed since the great crisis of the ‘30s. More Euro or less Euro? More market or less market? More State or less State? Did the expansionary austerity fail, or did it create the conditions for a more robust and balanced growth? Given the progressive crisis of the European monetary system and the risk of implosion of the Euro currency, isn’t it better to manage an exit strategy from the Euro “on the left”, rather than wait and see a “right wing” exit? These are all issues concerning the architecture of the European institutions, and of the underlining economic policies. On one side, some argue that it is impossible to reform the European fiscal and monetary policy; while, in opposition with this view, others sustain the necessity to pursue a more stringent and strongly reformed political and economic union integration.
In Italy the debate seems to become even more polarized than in other European countries, not recognizing however that the country suffers from a domestic crisis within the general crisis, with very deep roots in the past and not easily affordable in the short run. The decline in productivity and wages, the industrial de-specialization, the lack of strategy to introduce structural reforms, these are all factors which condition the final outcome of each proposal. What it would be necessary is surely a macroeconomic policy up to the challenge of the deep global economic crisis, as well as fiscal and monetary policies adequate to the different regional specificities within the Eurozone. By now, the exit strategy from the Euro “on the left”, with respect to a Euro-exit “on the right”, is an outcome to be considered with more accuracy, but it remains an intellectual exercise. We think that the Euro-exit is a possible and traumatic outcome we should ward off, not only because it is a too risky outcome, but mainly because it does not bring with it the solutions to the domestic issues Italy should tackle. At the end, the power of ideas must prevail over vested class interests.
Keywords: Euro, Europe, Economic policy JEL Classification: E5, E6, O52 1 Gli autori ringraziano Leonardo Becchetti, Emiliano Brancaccio, Vincenzo Comito, Mauro Gallegati, Paolo Leon, Alessandro Roncaglia, che hanno commentato una prima versione di questo scritto. Non hanno però responsabilità per le nostre tesi qui espresse. 2 Professore ordinario di economia politica, Università di Ferrara, Dipartimento di Economia e Management. 3 Ricercatore economico, CGIL Lombardia.
1
Introduzione
Il dibattito sulla crisi economica che attraversa l’Europa e in particolare l’Italia, che vive una
crisi nella crisi, è attraversato da proposte che vanno dal «meno Europa» al «più Europa»,
variamente declinate in ipotesi di: uscita unilaterale oppure uscita concordata dall’euro; costituzione
di due aree valutarie con valute distinte, la prima forte al nord, la seconda debole al sud;
rafforzamento dei poteri di controllo della Commissione Europea, con l’introduzione di
automatismi che scattano in caso di infrazione delle regole di bilancio; gestione coordinata delle
politiche fiscali e quindi maggiore cessione di sovranità alle istituzioni europee; riforma dell’euro e
nuova governance europea oppure il suo opposto, gestione della inevitabile deflagrazione dell’area
euro. L’opzione uscita dall’euro, via concordata o via traumatica, consegna nel dibattito in
particolare una doppia opzione: una uscita da sinistra e una uscita da destra.
La recente decisone della BCE di dar corso all’«alleggerimento quantitativo» (QE) nella politica
monetaria non riduce la probabilità di uscita dall’euro da qui al 2016, anzi potrebbe persino
rafforzarla se non accompagnata dall’abbandono della dottrina dell’austerità competitiva e
dall’avvio di una politica fiscale espansiva coordinata a livello europeo. Le ragioni sono molteplici.
Anzitutto gli effetti dell’espansione monetaria si faranno certamente sentire sul valore della moneta,
portando l’euro verso la parità con il dollaro, piuttosto che sui tassi di interesse, già a livelli «soglia
inferiore» quelli a breve. L’effetto potrà essere sui tassi a lungo periodo, qualora gli acquisti di titoli
si concentrino su questa fascia, ma purtroppo ciò non è assicurato, e se avvenisse il rischio è che si
concentrino sui titoli dei paesi più virtuosi, quindi che hanno meno necessità di riduzione dei tassi,
mentre sono i paesi periferici ad averne più necessità. Il contesto attuale è comunque quello della
«trappola della liquidità», per cui i meccanismi di trasmissione degli interventi monetari sulle
variabili reali sono poco efficaci. Il deprezzamento invece, in corso già da tempo, favorisce certo le
esportazioni dell’eurozona soprattutto dei paesi oggi più competitivi, secondo una logica
mercantile, con quote significative del mercato globale, ma lo farà nella misura in cui le economie
non europee cresceranno a ritmi sostenuti, scenario a cui però lo stesso FMI non assegna molta
fiducia; lo stesso deprezzamento non avrà invece effetti favorevoli sul mercato interno europeo, e
quindi la domanda interna resterà stagnante e la tendenza alla deflazione non verrà contrastata. Le
prospettive di riportare l’inflazione al target del 2% annuo, ancorché insufficiente oggi, rischia di
essere altamente futuribile; e comunque perché mai una espansione monetaria benché consistente
dovrebbe produrre una «miccia» di inflazione con un gap di domanda come l’attuale non è affatto
evidente. Il rischio d’inflazione è irrisorio, mentre non irrilevante è il rischio opposto, ovvero che
non si arresti la deflazione. Con la deflazione il peso del debiti dei paesi periferici tenderà a
crescere, anche in presenza di spread in discesa, ed in rapporto con un Pil che ristagna il rientro dai
debiti richiesto dai Trattati europei ed accordi intergovernativi sarà oltremodo difficile. Al
2
contempo, è vero che con il QE il sistema bancario sarà alleggerito di titoli di debito pubblico poco
redditizi, ma ciò non implica che le risorse liberate verranno rese disponibili alle imprese in quanto
lo stesso sistema è “stressato” da vincoli patrimoniali consistenti e dalla necessità di ottemperare a
tali vincoli; inoltre la domanda di credito rischia di rimanere debole e ad alto rischio da parte delle
imprese a causa dal vuoto di domanda aggregata, per cui l’offerta di credito del sistema bancario
sarà più potenziale che effettiva. La probabilità che tali risorse rimangano così nel circuito
finanziario, alimentandolo, senza trasmissioni all’economia reale, è elevato, con le implicazioni ben
note di bolle speculative dato il basso tasso di regolamentazione di questo circuito. Sul piano della
garanzia del debito dei paesi dell’eurozona, peraltro, la decisione stessa delle BCE di garantire i
titoli acquistati da qui a settembre 2016, ed oltre se necessario, solo per una quota del 20%, mentre
il restante 80% sarà a carico delle banche centrali nazionali, invia un segnale non particolarmente
rassicurante circa la sostenibilità di lungo periodo del sistema monetario dell’eurozona, anzi appare
come una assicurazione per i paesi creditori in caso di uscita di una o più monete dall’eurozona. Se
poi aggiungiamo che a fronte di tali interventi della BCE, si accompagna la richiesta ai singoli Stati
di procedere con maggiore alacrità con le riforme strutturali, per una ancora maggiore flessibilità
del lavoro in primo luogo ed una riduzione delle componenti pubbliche della spesa, proprio perché
il QE lascerebbe maggior spazio per la crescita, getta maggiori incognite sull’uscita dalla
stagnazione proprio perché sono quelle riforme strutturali invocate e realizzate senza soluzione di
continuità ad avere accresciuto la gravità della crisi tramite riduzione della domanda interna dei
Paesi europei spinti a realizzare politiche di svalutazione interna (contenimento salariale,
privatizzazione dei sistemi pubblici di welfare, riduzione degli investimenti pubblici) per
raggiungere unicamente obiettivi di competitività internazionale. Se questo è il quadro, secondo una
visione non particolarmente ottimistica, le prospettive di una Europa che cambi rotta permangono
flebili, mentre le ipotesi di uscita dalla moneta unica si rafforzano, e con esse la discussione sulle
opzioni di uscita, da destra o da sinistra.
In realtà il QE manifesta l’inadeguatezza della politica economica nel suo insieme. L’acquisto
sul mercato secondario di titoli pubblici può al limite ridurre i tassi di interesse degli stessi e forse
attutire il sevizio del debito sui bilanci pubblici, ma le regole “aggiornate” del fiscal compact non si
allontanano dal sentiero dalle cosiddette riforme strutturali. Il limite del QE è di assecondare il
mercato dei titoli pubblici o alleggerire il peso degli stessi sul sistema creditizio privato, ma
all’Europa servirebbe una spesa aggiuntiva da un trilione di euro finanziato proprio da un mirato e
specifico FE, Fiscal Easing. Draghi non può fare nulla di tutto questo, ma il messaggio sotto traccia
della sua operazione, e forse l’esito delle elezioni della Grecia possono diventare un fondamentale
fatto politico ed economico, è quello di ri-costruire le istituzioni europee per tenere in tensione la
domanda effettiva e per ristabilire una minimo di democrazia.
3
1. Uscire (a sinistra) dall’euro?
A riproporre questa doppia opzione interviene così Emiliano Brancaccio (2014) con il suo saggio
apparso sull’ultimo numero di Critica Marxista (2014, n.5). Prendendo avvio dalle previsioni
contenute nel Monito degli Economisti4, Brancaccio fornisce due letture di quelle previsioni, una
keynesiana ed una marxiana, che non risultano affatto contrapposte, anzi grandemente
complementari. La prima di «Keynes oppositore del Trattato di Versailles e critico delle politiche
deflazioniste. Sotto questa prospettiva il Monito riflette la tesi secondo cui la deflazione in ultima
istanza deprime i redditi e rende quindi più difficile il rimborso dei debiti» (Brancaccio, 2014, p.18)
La seconda riconducibile alla tesi della “centralizzazione dei capitali” di Marx: «La divaricazione
delle insolvenze, i relativi processi di desertificazione produttiva e le connesse, crescenti difficoltà
delle banche nelle periferie dell’Unione, preannunciano una nuova crisi bancaria e una nuova fase
di liquidazioni e acquisizioni, questa volta non più interne ai confini nazionali ma realizzate su scala
europea […]. Potremmo definirla, in sostanza, una forma particolarmente violenta di
“mezzogiornificazione europea”» (Brancaccio, 2014, pp.18-19).
Dalle due letture, Brancaccio deriva comunque una prima conclusione, anzi una conferma che
viene avvalorata oggi da un numero certo non sparuto di economisti, anche grandemente eterogenei
quanto ad approcci: «Potremmo dire, in un certo senso, che la tesi del monito degli economisti
secondo cui l’eurozona sta procedendo lungo un sentiero insostenibile costituisce ormai la posizione
prevalente, almeno tra gli studiosi. […] Bisogna riconoscere, infatti, che all’interno delle istituzioni
europee è risultato finora impossibile anche solo approssimarsi a un consenso diffuso nei confronti
di qualsiasi ipotesi di riforma, dalle più ambiziose come lo “standard retributivo europeo” a quelle
più blande come un allentamento almeno temporaneo dei vincoli di bilancio nazionali. […] Il
motivo in fin dei conti è semplice: perché mai la Germania e gli altri paesi che stanno traendo
vantaggi relativi dalle attuali dinamiche dovrebbero contribuire a modificarle? In altre parole, le
divergenze negli andamenti macroeconomici accentuano anche le divergenze politiche e riducono
ulteriormente le chances per una svolta negli indirizzi di politica economica. […] Ma l’idea che
quel paese abbandoni la propria storica strategia mercantilista appare oggi più che mai sganciata dai
fatti. In realtà, i portatori degli interessi prevalenti in Germania appaiono affezionati all’Unione
Monetaria Europea solo se e nella misura in cui la moneta unica agevoli il surplus tedesco e il
connesso, feroce processo di centralizzazione capitalistica. Il giorno in cui non risulti più funzionale
allo scopo sarà l’euro a dover soccombere, non il mercantilismo germanico» (Brancaccio, 2014,
pp.19-20).
4 “The Economists’ Warning: European governments repeat mistakes of the Treaty of Versailles”, Financial Times, 23 settembre 2013: www.theeconomistswarning.com.
4
Se questa è la prospettiva, invece di attendere l’ineluttabile implosione dell’eurozona, allora non
rimarrebbe altro che attrezzarsi per affrontarne le possibili implicazioni e scegliere tra modalità
alternative di uscita dall’euro. La questione è però che le opzioni di uscita rischiano di presentare
secondo molti difficoltà non inferiori alla conferma dell’euro come moneta di riferimento pur in una
Europa germanizzata5.
Una opzione preferibile sarebbe invece per altri quella di abbandonare l’austerità espansiva della
Commissione Europea, con tutte le implicazioni economiche dal lato della domanda e dell’offerta,
comunque presenti in molti documenti della stessa Commissione (Industrial Compact ed Europa
2020). D’altronde, l’austerità espansiva, ormai screditata dai più, tanto che “a modo loro” pure
molti degli artifici (gli austeriani) di questa assurda dottrina ne hanno preso le distanze6, sta
talmente restringendo la domanda interna dell’eurozona e portando l’intera Europa alla deflazione,
che la stessa Germania, pur paese creditore, sta patendo gli effetti reali sulla sua economia in
termini di bassa crescita. La prospettiva che la Germania recuperi comunque domanda estera sui
mercati extra-europei, in sostituzione di ciò che perde sul mercato interno europeo, appare smentita
dai fatti: sia perché il mercato interno europeo rimane strutturalmente per la Germania la principale
fonte delle sue esportazioni7, sia perché la crescita della domanda estera sui mercati extra-europei
non si dimostra così progressiva come si riteneva, ed al contempo causa la sua instabilità espone il
paese tedesco ad incertezze e rischi di notevole entità non controllabili e neppure assicurabili. Con il
progredire della stagnazione e deflazione, anche in Germania si rafforzano le tesi8 di coloro che
vedono sempre più l’austerità espansiva non come la cura ma come la causa dell’aggravarsi della
5 Con “Europa germanizzata” intendiamo quel modello che fonda la sua ridotta crescita sulla domanda esterna, con le esportazioni nelle aree geografiche mondiali che di volta in volta offrono le maggiori opportunità. Le svalutazioni competitive interne all’area europea, accompagnate dal contenimento della domanda interna, sono le condizioni che devono assicurare surplus commerciali nell’eurozona e per i singoli paesi, siano questi nordici-continentali oppure periferici che devono però conformarsi al modello tedesco o divenire funzionali ad esso. Saraceno (2014) illustra questo processo già in atto. 6 Vale citare Giavazzi, Tabellini (2014), ed anche Alesina, Favero, Giavazzi (2014).
Non dimentichiamo peraltro i numerosi ripensamenti del IMF sugli effetti “non previsti” e “non intenzionali” delle politiche di austerità, sui moltiplicatori fiscali in particolare. Si veda il noto paper dell’IMF Batini, Callegari, Melina (2012).
Si è giunti anche a porre in discussione la presunta robustezza della misurazione, ma anche del concetto stesso, di disoccupazione strutturale e output gap: Cottarelli, Giammusso, Porello (2014).
In precedenza vi è stato l’intervento di Draghi a Jackson Hole Symposium del 22 agosto 2014 (Draghi, 2014). 7 Questo è vero, anche se la quota dell’export tedesco sui mercati extra-europei è aumentata significativamente proprio negli anni della crisi dell’eurozona. La prospettiva per la Germania di costruire un’area commerciale che si estende ad est dell’Europa, include la Russia e soprattutto la Cina, è affascinante per una potenza economica che tradizionalmente è mercantilista. L’affermarsi di questa strategia renderebbe per i tedeschi meno importante il mercato interno europeo: l’industria tedesca si sentirebbe meno colpita dalla deflazione europea mentre la finanza tedesca continuerebbe a trarre vantaggio dall’essere creditrice in Europa e nel mondo con un euro che assicura contro i rischio di cambio nell’eurozona, ed al contempo non si apprezza troppo nei confronti delle altre valute. E se così fosse, la Germania non avrebbe incentivo a uscire dall’euro, e non avrebbe stimoli (neppure potrebbe convincerla) ad essere meno mercantile. Una implicazione questa da cui potrebbero essere tratte numerose importanti conseguenze….che lasciamo in sospeso. 8 Questa visione è presente ad esempio nel documento del DGB, Confederation of Germany Trade Unions (2012).
Ma soprattutto un recente volume del Direttore del DIW di Berlino, Marcel Fratzscher, richiama l’attenzione sulle debolezze dell’economia e della politica economica tedesca. Si veda Fratzscher (2014).
Il centro di ricerca IKW ha invece una impostazione più keynesiana. Qui troviamo il recente lavoro di Truger (2014), ed anche Tober (2014).
Su alcune dinamiche, recenti e contrastanti, del dibattito tedesco, si veda Comito (2014a, 2014b, 2015).
5
crisi iniziata nel 2008. Ciò rafforza le posizioni di quanti sostengono da anni la necessità di
predisporre piani di investimento tali da rafforzare la componente tecnologica-organizzativa
dell’industria e dei servizi, unitamente a una domanda pubblica che inverta il segno delle aspettative
sulla domanda interna dell’eurozona. Il semestre di presidenza italiano non ha sostenuto questa
prospettiva, preferendo invece il sostegno all’ectoplasma del piano Juncker. Si tratterebbe di
obiettivi di buon senso perché come sosteneva Sylos Labini: «L’obbiettivo di fondo deve essere
l’eguaglianza verso l’alto, non verso il basso: sul piano materiale, occorre socializzare il
benessere, non la miseria; sul piano intellettuale, occorre socializzare la cultura, non l’ignoranza.
E si tratta di battersi per preservare la libertà politica, soprattutto quando è difficile» (Sylos
Labini, 1987, p.155).
Dall’altra parte troviamo soluzioni tese alla riappropriazione del cambio (Bagnai, 2014)9.
Potrebbe anche accadere, ma la frantumazione dell’Unione Monetaria in vari tronconi (al limite
ciascuno col suo cambio, o per gruppi di paesi o la sola uscita dell’Italia), comporta non solo un
ritorno alla lira, ma un processo concordato e ordinato, fatto di trattative complesse, lunghe e
segretissime, come ci ricorda Salvatore Biasco (2015)10. Ma la questione va ben oltre le «exit
technicalities»11. Infatti come ci ricorda Dani Rodrik (2015), «The euro was something that had
never been tried before: monetary union among democracies that retained political sovereignty».
Questo fatto ha una grande implicazione per ogni strategia di uscita per una specifica nazione. Il
caso della Grecia avrebbe potuto, in caso di uscita nel 2011, e potrebbe essere, in caso di ipotetica
uscita nel 2015, esemplificativo dei rischi di deflagrazione dell’intera costruzione dell’euro. Le 9 L’ultimo volume di Bagnai (2014), a fronte di una analisi rigorosa e sarcastica dei problemi dell’euro, riproposta dopo il suo precedente (Bagnai, 2012), non lesina critiche sia agli austeriani che agli appellisti del “più (o del meno) Europa”, nella cui seconda categoria noi umilmente ci annoveriamo, senza però ritenere palesemente infondate le tesi di chi muove critiche anche feroci a queste posizioni. 10 Sull’analisi di Biasco (2015) non concordiamo su vari aspetti, ma l’articolo ha il merito di presentare alcune serie difficoltà di una eventuale uscita dall’euro. Un aspetto, a nostro parere, che appare sottovalutato. 11 Difficile prevedere gli esiti di una exit strategy dall’euro. Le esperienze storiche di uscita di un paese da un sistema valutario a cambi fissi possono però costituire preziosi riferimenti per valutare gli effetti della transizione sulle performance economiche del paese che decide di uscire e deprezzare la propria moneta. Questo è l’esercizio compiuto in Brancaccio, Garbellini (2014a, 2014b, 2015) ed in Realfonzo, Viscione (2015): gli esiti evidenziano i costi possibili in termini di occupazione-disoccupazione, retribuzioni e quote distributive. Ad esempio, Brancaccio, Garbellini (2014b) osservano: «Dal campione di episodi esaminato possiamo trarre le seguenti conclusioni. Le crisi dei regimi di cambio fisso e le connesse svalutazioni risultano correlate a riduzioni dei salari reali e della quota salari. La riduzione dei salari risulta essere temporanea nei paesi ad alto reddito, mentre nei paesi a basso reddito procapite persiste anche dopo cinque anni dalla crisi. La riduzione della quota salari risulta persistente in entrambi i gruppi di paesi. Dopo cinque anni dalla crisi sia i salari reali che le quote salari si situano a livelli inferiori rispetto ai livelli corrispondenti al trend pre-crisi. […] Qui preme soprattutto chiarire che l’eventuale prosecuzione di una politica deflattiva in seno all’Unione avrebbe anche delle conseguenze sulle valutazioni circa i potenziali effetti salariali e distributivi di un eventuale abbandono della moneta unica europea. Tali valutazioni, infatti, non andrebbero effettuate in astratto ma dovrebbero esser formulate in termini comparati con gli andamenti dei salari reali e delle quote salari che si stanno registrando dall’inizio della crisi dell’eurozona». Anche Realfonzo e Viscione (2015) concludono: «Insomma, a meno di un auspicabile cambiamento in senso espansivo e redistributivo delle politiche europee, con l’abbandono dell’austerità, l’uscita dall’euro potrebbe essere la soluzione scelta da alcuni paesi in un futuro non lontano. E ciò potrebbe anche rianimare l’economia. Ma non è sufficiente un ritorno alla sovranità monetaria e alle manovre di cambio per cancellare, come d’incanto, i problemi legati alle inadeguatezze degli apparati produttivi o alla sottodotazione di infrastrutture materiali e immateriali. La lezione più importante che possiamo trarre dall’esperienza storica è che i risultati in termini di crescita, distribuzione e occupazione dipendono da come si resta nell’euro e, più che dall’abbandono del vecchio sistema di cambio in sé, dalla qualità delle politiche economiche che si varano una volta tornati in possesso delle leve monetarie e fiscali».
6
minacce tedesche per indurre la Grecia a rispettare rigidamente i dettami della Troika oppure ad
uscire dall’euro, nell’eventualità di vittoria di Syriza, oppure l’idea che la crisi valutaria sia stata
definitivamente superata perché la BCE ha assicurato che avrebbe fatto, e farà, tutto ciò che è
necessario fare per salvaguardare l’euro, non mitigano l’incertezza, anzi la accrescono. Osserva
Rodrik: «A Grexit would set a precedent, and markets may sense Spain’s future in the euro is no
longer assured. Much will depend on the way the game will be played by all sides and on market
psychology. Which means there is huge uncertainty about the outcome» (Rodrik, 2015)12.
Brancaccio ha perfettamente ragione quando individua nella “riappropriazione del cambio” la
soluzione gattopardesca di chi vuol cambiare tutto, persino la moneta, per non cambiare nulla:
«ossia non mettere in discussione le politiche di austerity, di liberalizzazione dei mercati, di
flessibilità del lavoro e di deflazione salariale che stanno favorendo i processi di centralizzazione
dei capitali e di “mezzogiornificazione” europea» (Brancaccio, 2014, pp.19-20). L'altra opzione,
che pure Brancaccio stigmatizza, è quella del “patriottismo economico”, ed appare persino
peggiore, se oltre alla moneta unica, mette in discussione il mercato unico europeo (e questo appare
oggi quasi un percorso naturale per alcuni), e soprattutto il sistema dei diritti di cittadinanza
incardinati nelle regole comunitarie (e qui si avrebbe un salto di portata innaturale, perlomeno
oggi), prefigurando una deriva reazionaria-nazionalistica che purtroppo alcuni paesi in Europa
stanno sperimentando.
2. I problemi che l’uscita non affronta, quindi non risolve
Ma se queste sono le due opzioni di uscita dall’euro oggi in campo, esiste una terza via di uscita
(da costruire) oppure conviene lavorare su un altra prospettiva rimanendo nell’euro? Non abbiamo
la pretesa di avere una risposta, ma questo dilemma fa sorgere un quesito che forse prescinde
dall’euro, ma certo crediamo tocchi il cuore del problema. E da come rispondiamo a questo quesito,
deriva probabilmente anche la nostra risposta circa la rilevanza della ricerca di una terza via di
uscita dall’euro.
Dobbiamo porci una domanda: l’attuale crisi di struttura e istituzionale dell’Europa è risolvibile
con la riappropriazione del cambio? In altri termini: qualora dovesse accadere l’implosione
dell’euro, il divario di struttura dei diversi paesi europei sarebbe ricomponibile?
Se i problemi economici europei sono a livello di struttura, la risposta dovrebbe essere trovata
allo stesso livello. Una maggiore flessibilità aiuterebbe, ma le differenze di produttività, di
specializzazione produttiva e di qualità del lavoro, il cosiddetto “lavoro buono”, sarebbero risolte
solo per una minima frazione e a margine del tasso di svalutazione. A questo proposito è appena il
12 Si veda anche Rodrik (2014) per una discussione sulla democrazia in Europa.
7
caso di riprendere Sylos Labini (1993) quando scriveva che «in una analisi dinamica lo sviluppo
economico è da riguardare, non semplicemente come un aumento sistematico del prodotto
nazionale concepito come aggregato a composizione data ma, necessariamente, come un processo
di mutamento strutturale, che influisce sulla composizione della produzione e dell’occupazione e
che determina cambiamenti nelle forme di mercato, nella distribuzione del reddito e nel sistema dei
prezzi». Se il Pil non è mai uguale a se stesso, le politiche economiche, ad iniziare da quelle
industriali e del lavoro, sono un passo indispensabile per recuperare un minimo di capacità di
programmazione. Se si adotta questo approccio, politiche di domanda e di offerta sono due facce
della stessa medaglia. Lo ricordava con dovizia di particolari anche Augusto Graziani (1997) in “I
conti senza l’oste”, quando sosteneva che «è difficile inserire stabilmente in un contesto di paesi
avanzati un paese a struttura industriale tecnologicamente debole, che si regge nel mercato
soltanto per la compressione del costo del lavoro». In qualche modo lo sviluppo economico, sociale
e del reddito è legato alla capacità di agganciare i grandi cambiamenti di struttura, che sono per lo
più cambiamenti legati alla capacità di “generare” conoscenza. Se c’è un problema di struttura,
serve una politica di struttura.
La crisi dell’Italia ha radici lontane, spesso lo ricordiamo a noi stessi. La minore crescita del Pil
nazionale è solo in parte attribuibile all’introduzione dell’euro. Non vi è dubbio che la moneta unica
abbia concorso, ma la tendenza dell’impresa nazionale di misurarsi sul mercato internazionale via
svalutazioni della moneta o deflazione del lavoro sono un vecchio e mai risolto problema della
debolezza della politica dell’imprenditoria nazionale e del governo della politica economica in
particolare. La concentrazione della produzione industriale (Germania) ha tanti padri e madri, ma
l’aspetto più drammatico è l’inerzia dei paesi che più di altri avrebbero potuto e dovuto contrastarla
via politiche industriali e della massima occupazione, invece che affidarsi al mercato che seleziona i
players più efficienti data una struttura produttiva, ma lascia sguarnito il terreno della
programmazione economica e, in particolare, l’anticipo della domanda di beni e servizi. Occorreva
cambiare il motore della macchina senza fermarla, affermava Riccardo Lombardi vari decenni or
sono. In altri termini, quanto accade in Europa ha un retroterra di struttura che dovremo considerare
e porre al centro dell’analisi, da cui far discendere quindi opzioni conseguenti.
L’uscita da sinistra dell’euro, ma si applica in modo non molto diverso all’uscita da destra, si
scontra con un problema che la sovranità del cambio non può risolvere. Possiamo fare qui
riferimento all’accumulazione di conoscenza e saperi necessari per predisporre una qualsivoglia
politica economica. Nathan Rosenberg (2001) ci ricorda che: «[…] sia la sottostante base di
conoscenze scientifiche e tecnologiche in evoluzione, sia la struttura della domanda di mercato
svolgono un ruolo centrale nel processo innovativo interagendo fra di loro; trascurare uno
qualsiasi di questi elementi conduce inevitabilmente a conclusioni e politiche erronee». Spesso si
afferma che “dalla crisi non si esce come si è entrati”. Se ciò ha un senso, allora l’implicazione è
8
che il mercato seleziona le imprese efficienti, ma le competenze di partenza condizionano le
risposte delle imprese, dei sistemi economici e degli Stati. Tutte le imprese europee e gli Stati
nazionali sono stati interessati dalla crisi, ma l’impresa italiana ed il nostro Stato, in ragione di
debolezze pregresse, sono a rischio di crollo sotto il peso delle loro arretratezze (dimensionali, di
de-specializzazione, di bassa innovazione, ad ampio spettro declinata, dagli input per l’innovazione,
le risorse anzitutto, agli output innovativi, organizzativi e tecnologici), di aggressive politiche al
margine di flessibilizzazione del mercato del lavoro (l’ultimo esempio in negativo il jobs act del
Governo Renzi), per non aggiungere i fattori riconducibili alla non-gestione e mala-gestione dei
beni pubblici.
In particolare, se ci concentriamo sullo stato dell’arte dell’industria italiana, l’analisi
suggerirebbe la necessità di misure economiche coerenti che affrontino i nodi della arretratezza. La
dinamica della domanda e dei consumi incide sulle scelte di investimento delle imprese, ma
servirebbe anche una coerente capacità di offerta per soddisfare una domanda potenziale nonché
effettiva. Ad esempio, le misure adottate dal MISE (Ministero dello Sviluppo Economico)
continuano a muoversi nel solco delle politiche di sostegno agli investimenti ed alla ricerca e
sviluppo privata (contributi, credito di imposta, agevolazioni fiscali, finanziamenti agevolati),
disattendendo le politiche europee tese a sostenere progetti pre-commerciali. La politica industriale
e di ricerca e sviluppo è lasciata alla libera iniziativa privata, indipendentemente dalla de-
pauperizzazione complessiva del tessuto produttivo. La politica industriale di questo governo, forse
non diversamente peraltro da quelli che l’hanno preceduto, si traduce in politica (leva) fiscale, con
effetti misurabili in decimali, quindi trascurabili, nella migliore delle ipotesi. Prima e durante la
crisi non è stata predisposta nessuna misura capace di modificare l’intensità tecnologica degli
investimenti italiani. Crediamo che l’uscita dall’euro possa invertire il segno del nostro Pil? Ci pare
difficile, francamente. Ci troviamo nella spiacevole situazione in cui l’investimento delle imprese
italiane, e certo anche dello Stato, produrrebbe ben poca crescita, del reddito, della produttività, di
buon lavoro e del salario.
Questo ci pare un fenomeno inedito, almeno per le proporzioni e le implicazioni di politica
economica, industriale e del lavoro di oggi. Infatti, la conoscenza scientifica e l’innovazione
cumulata permettono di programmare le innovazioni da parte del sistema privato e pubblico. La
cumulabilità-programmabilità del sapere e del saper fare, presente nella ricerca applicata, si pensi
alla farmaceutica, alla biotecnologia, alla sfida dell’energia rinnovabile, muta il segno degli
investimenti. Può l’uscita da sinistra rimuovere questo vincolo di struttura? Sia lecito dubitarne.
Il recente rallentamento degli investimenti delle imprese italiane, che fino al 2011 erano rimasti
costanti o superiori alla media europea (in rapporto al Pil), segnala una ulteriore debolezza: perdita
di conoscenza di base e crescente inadeguatezza (impossibilità) nel selezionare i fornitori di beni
strumentali e tecnologici. Da un lato agisce la sfiducia delle imprese, e qui non possiamo non
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ricordare Keynes (2013): «non potete aspettarvi che gli imprenditori si mettano a varare
programmi di ampliamenti mentre stanno subendo perdite»). Ma la crisi di fiducia è oggi
ulteriormente aggravata dal fatto che una parte del così detto made in Italy è ormai prodotto da
paesi terzi, e dalla impossibilità di condizionare lo sviluppo tecnologico, forsanche il puro
apprendimento delle conoscenze tecniche prodotte all’estero. Non solo l’intensità tecnologica degli
investimenti delle imprese italiane è coerente con la produzione, ma la minore incidenza della spesa
privata in ricerca e sviluppo sul totale, nell’ambito peraltro di una quota complessiva dell’R&S sul
reddito tra le più basse in Europa ed in declino, ha contribuito a de-cumulare conoscenza e quindi
condizionare i processi di apprendimento e adattamento di tecnologia terza (importata). In questo
modo si può spiegare la minore crescita del Pil dell’Italia e, almeno in parte, la crisi nella crisi
dell’Italia.
Se ci spostiamo sul terreno delle politiche del lavoro, peraltro, l’analisi dei provvedimenti
realizzati dagli anni novanta non conduce a ricostruire un quadro meno problematico. Le
numerosissime riforme realizzate fin dalla prima legge Treu del 1997, a cui son seguiti interventi
quali il decreto legislativo 368 del 2001 sui contratti a tempo determinato, la riforma Biagi del 2003
che ha contribuito grandemente al supermarket delle forme contrattuali, la riforma Fornero del 2012
che era intervenuta significativamente anche sulle modalità dei licenziamenti individuali (e
collettivi), sino a giungere a quelle recenti del 2013 di Giovannini-Letta e del 2014 di Poletti-Renzi,
che hanno incentivato i contratti temporanei, hanno tutte contribuito con interventi al margine a
creare e quindi rafforzare un doppio mercato del lavoro, affiancando a quello in cui vige il contratto
di lavoro subordinato a tempo indeterminato, un mercato di rapporti di lavoro non standard
caratterizzato da basse tutele sia interne all’impresa sia esterne di mercato e da basse retribuzioni.
Per non menzionare la pratica delle deroghe in sede contrattuale, autentico fenomeno esploso ma
scarsamente misurato e difficilmente misurabile, supportata anche dall’intervento legislativo con la
legge 148 del 2011 sui contratti di prossimità. Queste riforme che proseguono da venti anni ormai
hanno contribuito alla progressiva crescita della flessibilità in entrata ed in uscita, senza alcun
intervento organico sul sistema delle protezioni sociali per estendere le tutele ai lavoratori
“flessibili”, e non hanno prodotto altro che più precarietà, più incertezza sulle condizioni lavorative,
meno motivazioni sul lavoro, mentre aumentano lo stress, la pressione sul lavoro, l’insicurezza.
Queste riforme non hanno favorito l’occupazione ma spesso una sostituzione di lavoro giustamente
retribuito e stabile, con lavoro instabile che si ripete “contratto dopo contratto” e con retribuzioni in
discesa. Al contempo, le persone con formazione ed istruite, i lavoratori qualificati, svolgono spesso
funzioni e compiti al di sotto delle competenze acquisite, molto più di quanto avvenga in altri paesi,
perché l’impresa italiana domanda lavoro a bassa produttività e con basse competenze. La
flessibilità di mercato ha prodotto effetti non virtuosi sulla motivazione del lavoratore, sulle
condizioni di lavoro, sul clima aziendale, riducendo “spirito di collaborazione” ed anche quindi
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disincentivando modelli partecipativi. Tutto ciò ha penalizzato gli investimenti sulla flessibilità
funzionale entro l’impresa, per l’adozione di innovazioni nell’organizzazione del lavoro, con effetti
negativi sulla crescita della produttività e conseguentemente delle retribuzioni.
Peraltro, la scarsa dinamica retributiva ha prodotto effetti distributivi ampiamente negativi per il
lavoro, tanto che con i processi di deregolamentazione dei rapporti di lavoro la quota del lavoro sul
reddito è diminuita di oltre 10 punti dagli anni novanta, e ciò non ha certo contribuito
favorevolmente alla crescita della domanda interna e quindi alla crescita del reddito, non solo
corrente ma anche di quello potenziale. Sostanzialmente le riforme del mercato del lavoro, sempre
che si possa parlare di mercato del lavoro (Solow, 1994), hanno creato lavoro a margine dello stesso
e alimentato la de-specializzazione produttiva. La polarizzazione del reddito e la contrazione del
reddito da lavoro dipendente sul reddito complessivo del Paese, la bassa crescita dell’Italia unita
alla crescita del tasso di occupazione, provano l’inadeguatezza delle misure adottate. Una modesta
crescita del reddito, congiunta a pressioni retributive molto contenute, appare aver innescato effetti
negativi su investimenti ed innovazione nelle imprese e tramite questo circolo vizioso sulla stessa
crescita di produttività e occupazione. Queste due variabili non presentano necessariamente
dinamiche contrapposte, a meno che un paese si muova lungo un sentiero di crescita nullo. Questo
appare proprio il caso italiano, esacerbato da un vuoto di domanda pubblica a sostegno della
crescita e da un vuoto di politica industriale e per l’innovazione indispensabili per la produttività.
Appare evidente che la flessibilità del cambio, che l’industria italiana ha ampiamente sfruttato negli
anni dei cambi flessibili sino alla crisi valutaria dei primi anni ’90, è stata sostituita con l’avvio del
processo che ha portato alla moneta comune europea alla low road map della flessibilità del lavoro
e delle retribuzioni verso il basso, con esiti però ben poco lungimiranti per la nostra industria,
mentre in altri paesi europei si è perseguita una high road map che ha coniugato riforme del
welfare, flessibilità funzionale interna alle imprese, istruzione e formazione, investimenti privati e
pubblici in innovazione tecnologica ed organizzativa. Non vi è dubbio che il gap tra dinamica della
produttività e dinamica delle retribuzioni reali non è solo una caratteristica italiana; è stata condivisa
infatti da tutti i paesi industriali dagli metà anni ’70 in poi, ha prodotto una perdita di svariati punti
percentuali nel rapporto quota del lavoro sul reddito complessivo, e marca il passaggio ad una
economia che è cresciuta a debito ed è entrata in una crisi strutturale a debito. Ma la specificità
italiana è duplice, ovvero quella di avere registrato questa involuzione delle quote distributive
soprattutto da metà anni ’90, e di averlo fatto con una dinamica della produttività che
progressivamente è andata verso la stagnazione. Come interpretare diversamente il caso italiano più
unico che raro nel panorama europeo di crescita zero della produttività del lavoro se non con un
preordinato e masochistico disinvestimento nella nostra base produttiva e nell’innovazione,
percorrendo scorciatoie di scarsa lungimiranza basate sul contenimento del costo del lavoro?
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La risposta che oggi si vuole dare per affrontare la disoccupazione, che riflette la condizione
depressa dell’economia e la stagnazione della produttività, è una ulteriore dose di flessibilità in
entrata, con un nuovo contratto, a tutele (indennità) progressive, solo perché con esso si
rimaneggiano anche le regole delle uscite, facilitando così licenziamenti e cancellando l’art.18. Con
questa politica nessun effetto positivo si è generato sulla produttività nell’ultimo decennio, perché
questa può crescere se si innova sui luoghi di lavoro e nell’organizzazione del lavoro, non certo
introducendo più precarietà. Ridurre il costo unitario del lavoro attraverso le riforme del lavoro,
come è avvenuto anche nei paesi periferici dell’Europa durante la crisi, ha sortito l’effetto di
rendere stagnanti le retribuzioni senza effetti positivi sull’occupazione e neppure sulla produttività
delle imprese. Stiglitz (2014) ci ha ricordato recentemente che «Oltre alle cose che andrebbero fatte
vi sono, però, anche cose che non vanno fatte. Per quanto riguarda il mercato del lavoro, ho già
detto che maggiore flessibilità non aiuterà a risolvere i problemi attuali, anzi li aggraverà
aumentando le disuguaglianze e deprimendo ulteriormente la domanda. La situazione italiana, ad
esempio, vede già presente un elevato grado di flessibilità; aumentarla ancora indebolirebbe
l'economia senza portare vantaggi».
Potrebbe l’implosione dell’euro permettere all’Italia di trovare un percorso autonomo e di
struttura per risolvere i problemi che si celano dietro la minore crescita del Pil nazionale?
Forse, ma potrebbero anche aggravarsi questi problemi. Se i problemi sono di struttura si
affrontano. Poco serve, crediamo, prospettare svalutazioni competitive, interne del lavoro, od
esterne della moneta.
In molti considerano le proposte della Commissione su Industrial Compact ed Europa 2020 utili
idee per distrarre il dibattito da quello che il Consiglio delibera in materia di austerità. Forse una
certa dose di verità c’è in questo. Ma osserviamo anche che alcune questioni sono toccate con
precisione e puntualità. Prima che l’euro imploda, sarebbe utile prevedere un bilancio europeo del
5% del Pil sostenuto da imposte autonome. Se liberassimo la Commissione dal vincolo dei
trasferimenti degli Stati sarebbe forse possibile che il Parlamento (europeo) divenisse soggetto del
cambiamento. Sappiamo che le politiche monetarie, ancorché indispensabili solo se la BCE fosse
liberata dai vincoli di intervento, non sono sufficienti a contrastare la depressione in Europa; le
politiche espansive di bilancio sono imprescindibili. Un obiettivo ritenuto irraggiungibile da molti.
Anche in ciò vi può senz’altro essere del vero, non lo disconosciamo di certo, ma osserviamo: fuori
da questa, in quale altra prospettiva dovrebbe o potrebbe muoversi la sinistra europea e quella
italiana? Forse verso la ricomposizione degli Stati-Nazione e delle sovranità monetarie nazionali in
una economia globale senza più confini?
Le sfide di struttura, per come conosciamo la struttura produttiva e la qualità del lavoro, con
difficoltà possono essere affrontate da un Paese solo, soprattutto per un Paese come l’Italia che vive
una crisi nella crisi. Piuttosto che lavorare in una prospettiva che sa molto di “vecchio”, o che cerca
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di recuperare anche quel poco di buono che nel vecchio vi era, non è forse preferibile affrontare i
nodi e le sfide su scala superiore? La scala superiore che vediamo è solo quella europea, altre
purtroppo non ne scorgiamo. E speriamo di non sbagliarci, perché il ritorno alle svalutazioni
competitive, interne od esterne che siano, non ci appaiono molto promettenti, economicamente,
socialmente e neppure politicamente.
3. E se invece rimanessimo, per cambiare?
Condividiamo con Brancaccio la sua preoccupazione verso soluzioni gattopardesche oppure di
patriottismo economico di uscita dalla crisi dell’euro. Questo rischio però è difficilmente
contrastabile con l’idea che la crisi dell’Unione Europea possa costituire un’opportunità per creare
consenso e partecipazione di massa intorno a una diversa ipotesi politica costruita su ciò che egli
indica come i due pilastri di questa politica, ovvero 1) da un lato, attribuire nuovamente ai poteri
pubblici un ruolo guida nei processi di centralizzazione del capitale nazionale; 2) dall’altro,
condizionare gli scambi necessari alla centralizzazione su scala internazionale al rispetto di un
nuovo “standard del lavoro”, che recuperi e rilanci la logica anti-deflattiva dello “standard
retributivo europeo”. Questi due pilastri, cosi declinati, presentano non solo una scarsa praticabilità
nelle attuali condizioni, ma soprattutto a noi sembrano contenere all’interno una contraddizione in
quanto mal si concilia con il principio di controllo pubblico dei capitali nazionali il richiamo, che
noi sottoscriviamo appieno13, circa la necessità di recuperare e rilanciare la proposta di uno standard
retributivo europeo a fini deflattivi, anzi diremmo meglio a favore di una crescita domestic-led su
scala europea contrapposta a quella export-led di impostazione mercantile “germano-centrica”.
Questo principio del controllo dei capitali implica un ruolo degli Stati-Nazione tradizionali che
appare incoerente con la regolamentazione sovranazionale di standard del lavoro e regole europee.
Crediamo invece che ciò possa essere perseguito solo superando a livello europeo il ruolo degli
Stati-Nazione. La nostra prospettiva è quella che Brancaccio definisce utopica, ma che crediamo sia
l’unica che possa contrastare l’implosione non solo economica ma civile dell’Europa. Ciò richiede
che le forze di sinistra lavorino per una nuova governance europea, che quindi intenda “riformare
l’euro” invece che “uscire dall’euro”, centrata su una pluralità di azioni:
1) ristrutturazione del debito dei paesi europei con ruolo di prestatore di ultima istanza della BCE
ed emissione di eurobonds per stabilizzare la gestione dei debiti pubblici nazionali e creare un
mercato ampio di titoli pubblici europei basati su garanzie reali;
2) introdurre meccanismi di stabilizzazione fiscale e monetaria che contrastino le asimmetrie
economiche, in primis surplus-deficit commerciali intra-europei, tramite il coordinamento delle
13 Si veda ad esempio Pini (2013a).
13
politiche economiche degli Stati membri per la riduzione degli squilibri dei flussi commerciali tra
gli Stati membri, e tramite l’individuazione di meccanismi monetari che operino non solo sui paesi
con deficit strutturali, ma soprattutto sui paesi con avanzi strutturali delle loro bilance commerciali,
per indurli a sostenere la domanda interna e non affidare la crescita all’espansione dei mercati
esteri;
3) realizzare un bilancio europeo con fondi propri pari al 5% del Pil dei paesi dell’Unione
Europea;
4) attivare politiche di domanda pubblica europea ed emissione di eurobonds a differenti
tipologie, dedicate a finanziare progetti europei per l’economia digitale, l’economia verde,
l’ economia della conoscenza, tesi all’anticipo della domanda “effettiva” e, quindi, alla dinamica di
struttura sottesa;
5) introdurre standard di dinamiche retributive reali in rapporto alla produttività14 che contrastino
le politiche di svalutazione competitiva interne ai singoli paesi e ristabiliscano una regola aurea tra
dinamica dei salari reali e dinamica della produttività del lavoro contrapposta alla regola di piombo
tra salari nominali e produttività15;
6) armonizzazione fiscale che contrasti l’elusione dei profitti su scala europea;
7) riformare il sistema bancario e finanziario, accrescendone il controllo, al fine di ridurre il
rischio sistemico con strumenti sia di tipo fiscale (tassando specifici strumenti finanziari e
transazioni) che di tipo regolativo (vietando specifiche attività e transazioni), facendo molto meno
affidamento sugli strumenti della “ponderazione del rischio” e della “capitalizzazione” che si
dimostrano non solo in gran parte inefficaci ma soprattutto controproducenti;
8) democratizzare le istituzioni europee, accrescendo i poteri delle istituzioni elettive e
sviluppando modelli di partecipazione coordinata della gestione dei beni pubblici.
Alcuni di queste azioni sono anche contenute in un appello promosso e sottoscritto nell’ottobre
2014 da numerosi economisti, dal titolo «L’Italia chieda una “Bretton Woods” per l’eurozona»16 ed
ancor prima delineate in Pini (2013c, 2013d, 2013e).
Le azioni sopra delineate sono parte della visione che viene etichettata come “utopica”. Stanti gli
attuali rapporti delle forze in campo, economiche, sociali e politiche, certamente lo è. Non vi è
14 Qui il riferimento è ai lavori di Brancaccio ed a quelli di Watt. Si veda: Brancaccio (2012) e Watt (2007). Si veda anche Antonioli, Pini (2014). 15 Su questo aspetto si veda oltre al già citato Pini (2013a), soprattutto Pini (2013b). 16 Il sito dove può essere letto e firmato l’Appello (2014) è questo: https://www.change.org/p/presidente-di-turno-nel-semestre-europeo-matteo-renzi-l-italia-chieda-una-bretton-woods-per-l-eurozona-italy-calls-for-a-bretton-woods-for-the-eurozone?recruiter=163631344&utm_campaign=mailto_link&utm_medium=email&utm_source=share_petition.
L’elenco degli economisti italiani firmatari l’appello alla data del 27 ottobre 2014 è qui: http://docente.unife.it/paolo.pini/l2019italia-chieda-una-nuova-bretton-woods-per-l2019eurozona/economisti-firmatari-lappello-universita-e-enti-di-ricerca/view.
L’appello è stato promosso da: Leonardo Becchetti (Università di Roma Tor Vergata), Roberto Cellini (Università di Catania), Paolo Pini (Università di Ferrara), Alberto Zazzaro (Università Politecnica delle Marche), con un comitato di garanzia internazionale composto da: Joerg Bibow, Ronald Dore, Giovanni Dosi, Jean-Paul Fitoussi, Victor Ginsburgh, Ronald Janssen, Branko Milanovic, Pascal Petit, Romano Prodi, Sergio Rossi, Jeffrey Sachs, Francesco Saraceno, Robert Skidelsky, Jordi Surinach, Andrea Terzi, Achim Truger, Charles Wyplosz, Andrew Watt.
14
dubbio però che il panorama non è statico, fortunatamente è in evoluzione per ragioni intrinseche
alla stessa attuale governance europea che appare sempre più insostenibile e le contraddizioni si
rendono tanto manifeste da portare molti a prefigurare lo scenario della crisi traumatica
dell’eurozona. Ciò comporta che quella governance è posta in discussione dagli stessi suoi
insuccessi se è vero che l’Europa rischia di apprestarsi a completare un decennio di non crescita con
deflazione stile giapponese. Come osserva Stiglitz: «Un mezzo decennio perduto si è rapidamente
trasformato in un intero decennio perduto. […] All’Europa serve più che una riforma strutturale
all’interno dei Paesi membri. All’Europa serve una riforma della struttura dell’eurozona stessa, e
l’inversione delle politiche di austerity, che non sono riuscite a riaccendere la crescita economica.
Coloro che pensavano che l’euro non avrebbe potuto sopravvivere si sono ripetutamente sbagliati.
Ma i critici hanno ragione su una cosa: a meno che non venga riformata la struttura dell’Eurozona, e
fermata l’austerity, l’Europa non si riprenderà» (Stiglitz, 2015). Vi sono poi da considerare
dinamiche politiche nei paesi periferici che possono accelerare il percorso di revisione radicale della
governance europea. Oggi si guarda alla Grecia; forse domani si guarderà alla Spagna. Ma «Il
problema non è la Grecia [neppure la Spagna]. È l’Europa. Se l’Europa non cambia – se non
riforma l’Eurozona e continua con l’austerity – una forte reazione popolare sarà inevitabile. Forse la
Grecia ce la farà questa volta. Ma questa follia economica non potrà continuare per sempre. La
democrazia non lo permetterà. Ma quanta altra sofferenza dovrà sopportare l’Europa prima che
torni a parlare la ragione?» (Stiglitz, 2015)17 Purtroppo questa prospettiva di cambiamento è ancora
debole in Europa. Difficile pensare che dalla crisi si esca con la pochezza del mantra di “più
flessibilità” nel rispetto delle regole dello Stability and Growth Pact18. La politica che governa
17 Si veda anche Wren-Lewis (2015) e De Grauwe (2015). 18 La dimostrazione che non si riesca ancora ad uscire da questo mantra è il “topolino” che ha prodotto nel gennaio 2015 la Commissione Europea (2015) in tema di miglior utilizzo delle flessibilità previste dai trattati. Per una critica rigorosa e ragionata del documento europeo si veda Boitani (2015) che così conclude: «Ha ragione Simon Wren Lewis (2014), una stagnazione dovuta a carenza di domanda aggregata è stupida. Purtroppo, la flessibilità “comunicata” dalla Commissione non aiuta molto a superare la stupidità».
La profondità della crisi economica europea, gli effetti (negativi) delle politiche di austerità imposte dalla Commissione Europea ai Paesi con un debito superiore al 60% del Pil o un indebitamento superiore o prossimo al 3% del Pil, per non parlare del così detto pareggio di bilancio strutturale, unitamente ai rischi di deflazione nell’area euro, hanno suggerito alla Commissione una esplicitazione dei livelli di flessibilità dei trattati europei, in particolare dei vincoli relativi agli obbiettivi di medio termine (MTO) e del rapporto debito/Pil.
Più che l’intransigenza della Presidenza italiana del Consiglio Europeo, nel secondo semestre 2014, nel perseguire azioni volte alla crescita economica dell’area euro, la persistente deflazione e la continua revisione al ribasso delle previsioni di crescita hanno costretto le autorità europee a tracciare un “labirinto” di opzioni di politica economica rintracciabili dai trattati europei per favorire almeno una qualche agibilità dei bilanci pubblici nazionali. Peraltro sappiamo che il piano Juncker (e Renzi) di 315 mld di nuovi investimenti è l’esatta fotografia dello scarso livello di consapevolezza della crisi europea che hanno i responsabili politici che governano la politica economica. Queste non sono risorse aggiuntive per il bilancio europeo che, in realtà, si vede sottrarre ulteriori 17 mld di euro per finanziare un piano che dovrebbe avere una leva irrealistica di 15. Nel dibattito non ha mai fatto peraltro capolino la necessità di dotare la Commissione Europea di un bilancio adeguato alla crisi alimentato da risorse proprie, sganciato dai trasferimenti degli Stati comunitari.
In verità, la Commissione Europea ha delineato alcune flessibilità nell’attuazione dei vincoli di bilancio pubblico, senza deviare dalle regole di fondo che hanno ispirato l’operato della Commissione stessa: «The Commission also announced that, in order to strengthen the link between investment, structural reforms and fiscal responsibility, it would provide further guidance on the best possible use of the flexibility that is built into the existing rules of the Stability and Growth Pact (hereafter “the Pact”),without changing these rules» (Commissione Europea, 2015).
15
l’Europa, ovvero l’alleanza tra i partiti popolari europei e quelli socialdemocratici, ha una agenda
politica ed economica di conservazione dell’esistente19, mentre le uniche forze che sembrano
consapevoli che l’uscita dalla crisi non può che passare per una revisioni dei fondamenti costitutivi
dell’attuale architettura europea possono essere trovate nelle aree più critiche del pensiero
dominante20. Non lavorare per rafforzare questa prospettiva di cambiamento, attendere la fine
traumatica dell’eurozona, dare per scontato questo esito, a noi sembra però avvalorare le opzioni
Se indaghiamo in dettaglio la flessibilità concessa agli Stati in tema di bilancio pubblico, scopriamo che la cosiddetta flessibilità è una corsa ad ostacoli o un labirinto per intercettare al massimo lo 0,25% di Pil di nuovi investimenti, comunque soggetti alla ri-programmazione dei tempi per conseguire sempre lo stesso risultato: il pareggio di bilancio strutturale. Rimane la stringente clausola del 3% e l’obiettivo di pareggio di medio termine, calcolati e valutati utilizzando sempre lo stesso modello predittivo fondato sull’output gap (tra Pil potenziale e Pil effettivo). Sappiamo però che se gli aggiuntivi investimenti sono direttamente proporzionali allo spread tra Pil potenziale e effettivo, la convergenza di questi realizzata dalla Commissione (riducendo l’output gap mediante riduzione del Pil potenziale ogniqualvolta il Pil effettivo diminuisce) riduce gli spazi per nuovi investimenti. Riprendendo la comunicazione della Commissione: «Member States in the preventive arm of the Pact can deviate temporarily from their MTO or adjustment path towards it to accommodate investment, provided that: their GDP growth is negative or GDP remains well below its potential; the deviation does not lead to an excess over the 3 % deficit reference value and an appropriate safety margin is preserved; investment levels are effectively increased as a result; the deviation is compensated within the timeframe of the Member State’s Stability or Convergence Programme».
Alle policy si conferiscono margini di flessibilità nella misura in cui vengono realizzate le riforme strutturali: «The Commission will take into account the positive fiscal impact of structural reforms under the preventive arm of the Pact, provided that such reforms (i) are major, (ii) have verifiable direct long-term positive budgetary effects, including by raising potential sustainable growth, and (iii) are fully implemented». Ancorate al procedure delle riforme, le policy però perdono qualsiasi valenza keynesiana. La deviazione temporanea dal rapporto indebitamento/Pil è infatti soggetta comunque all’austerità espansiva. Per la prima volta la Commissione, forse ancor di più il mainstream, accetta l’idea del deficit per finanziare le riforme, ma il segno non è certamente quello keynesiano in quanto mentre il deficit di stampo keynesiano concorre alla crescita del Pil, quello della Commissione ancorato a riforme regressive riduce il Pil facendo “temporaneamente” crescere il rapporto deficit/Pil. La crescita rimane “intrappolata” nella matrice dell’austerità e nell’idea che le forze di mercato trovano sempre nel lungo periodo il proprio equilibrio. 19 Krugman sostiene questa tesi da tempo: «In today’s column I am not nice to Francois Hollande, who has shown about as much strength in standing up to austerians as a wet Kleenex. But one does have to admit that he’s not alone in his haplessness; where, indeed, are the major political figures on the European left taking a stand against disastrous policies? Britain’s Labour Party has been almost surreally unwilling to challenge Cameron/Osborne’s core premises; is anyone doing better? You can complain — and I have, often — about President Obama’s willingness to go along with belt-tightening rhetoric, the years he wasted in pursuit of a Grand Bargain, and so on; still, the Obama administration, while it won’t use the word “stimulus”, favors the thing itself, and in general American liberals have taken a much more forthright stand against hard-money, balanced-budget orthodoxy than their counterparts in Europe. Economists, in particular, have taken a much stronger tand. […] Why the difference? […] Another hypothesis is that American liberals have been toughened up by the craziness of our right, and in particular by the experience of the Bush years. After seeing the Very Serious People lionize W, a fundamentally ludicrous figure, and cheer on a war that was obviously cooked up on false pretenses, US liberals are more ready than European Social Democrats to believe that the men in good suits have no idea what they’re talking about. Oh, and America does have a network of progressive think tanks that is vastly bigger and more effective than anything in Europe. The haplessness of the European left is still something I don’t fully understand» (Krugman, 2014). 20 Interessante che sia Münchau (2014) sulle colonne del Financial Times a far notare ciò. Scrive Münchau «Let us assume that you share the global consensus view on what the eurozone should do right now. Specifically, you want to see more public-sector investment and debt restructuring. Now ask yourself the following question: if you were a citizen of a eurozone country, which political party would you support for that to happen? You may be surprised to see that there is not much choice. In Germany, the only one that comes close to such an agenda is Die Linke, the former Communists. In Greece, it would be Syriza; and in Spain, it would be Podemos, which came out of nowhere and is now leading in the opinion polls.[…] What about Europe’s centre-left parties, the social democrats and socialists? Do they not support such an agenda? They may do so when they are in opposition. But once in government they feel the need to become respectable, at which point they discover their supply-side genes. Remember that, François Hollande, France’s president, explained the policy shift of his government by saying that supply creates demand. […]The tragedy of today’s eurozone is the sense of resignation with which the establishment parties of the centre-left and the centre-right are allowing Europe to drift into the economic equivalent of a nuclear winter. It is a particular tragedy that parties of the hard left are the only ones that support sensible policies such as debt restructuring. The rise of Podemos shows that there is a demand for alternative policy. Unless the established parties shift their position, they will leave a big opening to the likes of Podemos and Syriza».
16
gattopardesche o quelle persino peggiori del patriottismo economico, in attesa del realizzarsi di una
quarta opzione che appare ben più utopica della pur utopica terza opzione. Le conseguenze
dell’insuccesso sarebbero troppo grandi, lascando aperte le due peggiori prospettive, oltre a quella
del progressivo declino e stagnazione dei paesi periferici.
Per il momento l’uscita da sinistra o da destra dall’euro rimane un evento da studiare e
considerare. È un utile esercizio. Una eventualità però da scongiurare; alla fine la forza delle idee
devono prevalere sugli interessi costituiti.
17
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