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ALESSANDRO ERCOLI QUINDICI MESI DI VITA MILITARE APRILE 1964 LUGLIO 1965

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ALESSANDRO ERCOLI

QUINDICI MESI DI VITA MILITARE APRILE 1964 – LUGLIO 1965

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ALESSANDRO ERCOLI

QUINDICI MESI DI VITA MILITARE APRILE 1964 – LUGLIO 1965

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VIETATA LA RIPRODUZIONE, ANCHE PARZIALE, DI TESTI E FOTO.

PROPRIETÀ LETTERARIA DELL’AUTORE.

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A quanti ricordano con nostalgia questo periodo della loro gioventù, e a quelli che ci hanno messo una

pietra sopra per dimenticarlo!

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Ringraziamenti

Un particolare ringraziamento lo devo ad Elena ed Angelika: alla prima per aver speso parte del suo scarso tempo libero a rivedere la forma del testo, e alla seconda perché mi ha fatto notare alcuni passaggi poco comprensibili ed altri che erano da evitare. Sono contento che ambedue, dalla lettura di questi miei ricordi, abbiano tratto anche un certo piacere.

Devo inoltre esprimere la mia gratitudine ai colleghi Simonetta e Stefano, ai quali sono ricorso più volte per farmi aiutare nella formattazione del testo, specialmente nella sua veste finale, quando per me era diventata troppo complicata.

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PREFAZIONE

Questa mia seconda raccolta di ricordi, che ho iniziato a raccapezzare e scrivere a fine Dicembre 2014, contiene esperienze e fatti accaduti in un periodo piuttosto breve e molto lontano. Si riferisce, infatti, alle mie vicissitudini avvenute durante il servizio militare che ho svolto tra l’Aprile 1964 e il Luglio 1965, ossia esattamente 50 anni fa.

Per certi aspetti questi ricordi sono ancora integri e vivi, ma per molti altri mi appaiono frammentari, forse perché secondari e insignificanti; quello che è certo è che, fino al momento in cui mi sono dedicato a raccontarli, riuscivo a correlare solo pochissimi nomi con volti di persone fisiche, e viceversa, perché la maggior parte dei personaggi incontrati, ufficiali e sottufficiali, colleghi e soldati, fino a quel momento mi erano diventati completamente anonimi.

Fortunatamente, tra tutte le cose utili o meno che si accumulano nel corso della vita, ho ritrovato alcuni documenti che mi hanno aiutato in questi ricordi, come il libretto consegnatoci alla fine del 35° Corso Allievi Ufficiali di Complemento che riporta, tra l’altro, l’elenco di tutti i nomi degli istruttori e degli allievi della scuola, suddivisi nelle due compagnie AUC. E’ stato solo rileggendo quelle poche pagine, e ritrovando anche alcune fotografie relative a quel soggiorno, che finalmente ho potuto ricollegare delle fisionomie ai rispettivi nomi.

Purtroppo, le foto di cui parlo, e che ho in gran parte inserito nel testo, si riferiscono alla mia permanenza a Lecce e Villa Opicina, perché non sono riuscito a ritrovare alcun documento relativo al più lungo periodo trascorso a Gradisca d’Isonzo.

Ulteriori spunti che mi hanno aiutato a ricordare alcune circostanze particolari mi sono venuti rivedendo la Tabella Corredo, relativa a quanto ricevuto in dotazione alla scuola, il Menù del Pranzo di Corpo,

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PREFAZIONE

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svoltosi il 13 Aprile 1965, in concomitanza della festa del 183°Reggimento “Nembo”, e il libretto di cenni storici sullo stesso consegnatomi poco prima del congedo.

Ripensando a questo periodo mi sembra impossibile che in soli quindici mesi siano avvenuti così tanti fatti come quelli che ho raccontato in queste pagine, dove ho cercato di descriverli secondo la loro successione temporale e per argomento, rispetto al disordine del loro rincorrersi ed accavallarsi nella mia mente, che ha tuttavia portato a varie divagazioni dal tema principale trattato in ciascun capitolo.

Sinceramente, non ho idea se qualcuno troverà interessanti queste pagine. Lo potrebbero essere per alcuni compagni di quel periodo, che però nel frattempo ho quasi completamente perso di vista e non saprei rintracciare, oltre al fatto che qualcuno di loro se ne sarà sicuramente già andato. Forse, scriverle è servito soprattutto a me stesso per misurare ancora una volta le mie capacità mnemoniche. Ho avuto il piacere, tuttavia, di scoprire che mia moglie, attraverso questi ricordi che ha letto in una prima stesura, ha potuto conoscere una porzione della mia vita che le era completamente ignota e che le ha fatto comprendere il perché di alcuni aspetti del mio carattere. Così, spero che succeda anche per qualche altro dei miei famigliari e amici.

Alcuni lettori occasionali potranno forse trovare esagerate o addirittura paradossali alcune delle situazioni descritte, specialmente se non hanno vissuto l’esperienza del servizio militare, ma quanto ho raccontato è alla fine solo una parte di quello realmente vissuto o provato, anche se è risaputo che i ricordi spesso ingigantiscono dilatandosi nel tempo e talvolta, inconsapevolmente, possono alterare in parte la verità dei fatti.

Firenze, 22 Giugno 2015

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PRIMI APPROCCI CON IL MONDO MILITARE

Nella seconda metà degli anni ’50, come tutti gli italiani di sesso maschile all’approssimarsi dei diciotto anni, ho dovuto affrontare le varie visite mediche ed attitudinali, che noi fiorentini dovevamo subire e sostenere presso la caserma esistente tra Via del Tiratoio e Piazza di Cestello; mentre in quelli successivi ho dovuto svolgere le varie pratiche burocratiche presso il Distretto Militare di Piazza S. Spirito per rinviare ogni anno la partenza per motivi di studio.

Avevo rimandato, come ho appena detto, la partenza per il servizio di leva, ma all’età di 26 anni era prevista la fine della tregua e, poiché non avevo intenzione di partire prima di avere conseguito la laurea, mi ero iscritto al corso in Scienze Geologiche della durata teorica di quattro anni, avendo così la possibilità di farcela entro i cinque che avevo ancora a disposizione, avendone persi due per strada durante il mio disastroso curriculum di studente delle medie superiori.

Non mi ricordo in quale momento avevo fatto domanda per svolgere il servizio come ufficiale di complemento, ma evidentemente questa richiesta aveva innescato un iter investigativo, o meglio una raccolta di note informative, che di routine era effettuata sulla vita privata di tutti i richiamati ma sicuramente in maniera più approfondita su quella degli aspiranti ufficiali.

Un giorno, mio padre ebbe la visita a casa da parte di un Maresciallo dei C.C. in borghese, che si presentò con la motivazione di chiedere alcune informazioni personali su di me; ma la richiesta, piuttosto ridicola come gli fu fatto notare, aveva in realtà un secondo scopo. Egli precisò, infatti, che le informazioni che gli interessavano erano state già raccolte per altre vie, tra le quali probabilmente anche intervistando il parrucchiere chiacchierone e il personale del bar di Viale Mazzini, ma che la questione riguardava più il babbo stesso e suo padre Ugo (deceduto nel 1955), poiché era emerso che ambedue

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PRIMI APPROCCI CON IL MONDO MILITARE

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avevano qualche scheletro nell’armadio che risaliva a fatti accaduti anni prima.

Mio padre seppe così che era registrato nel casellario giudiziario per un’infrazione sulla circolazione stradale poiché, durante una trasferta di lavoro legata all’attività di rappresentante per la sua industria, era stato fermato dalla Polizia Stradale ad Ancona alla guida di un’auto di nuova immatricolazione con targa provvisoria di cartone, con la quale avrebbe potuto circolare solo nella Provincia di Firenze fino al momento della consegna di quella metallica definitiva.

Il nonno Ugo, invece, che era stato per tutta la sua vita un personaggio politicamente attivo nel Partito Socialista, di quelli veri e per certi aspetti romantici, rimasto fedele agli ideali del partito alla scissione avvenuta durante il Congresso di Livorno del gennaio del 1921 e che aveva combattuto e subito le repressioni della dittatura fascista durante il ventennio, era stato invece schedato come “Nemico dello Stato” proprio per i suddetti motivi e tale ancora così risultava, sebbene avesse successivamente partecipato al Comitato di Liberazione Nazionale di Firenze e avesse ricoperto la carica di segretario amministrativo del PSI durante la segreteria politica di Pietro Nenni.

Il babbo mi parlò di quest’incontro e di come, una volta superata la sorpresa, esso si fosse svolto in maniera simpatica, raccontando al maresciallo che per quanto riguardava la sua situazione era stato costretto a muoversi in auto poiché i mezzi di comunicazione di quel periodo erano piuttosto carenti per visitare in breve tempo i vari clienti che aveva in quella regione, ma che il suo tentativo di farla franca gli era andato male. Riguardo al nonno mi riferì che gli era bastato dire: «Ma Maresciallo, lo sa che i tempi sono cambiati e che oggi il Presidente della Repubblica è Giovanni Gronchi; indovini di che partito?». Al che lui gli aveva risposto sorridendo che lo sapeva benissimo, ma che quelle inchieste doveva farle per servizio e che in fondo, come in quel caso, potevano diventare anche piacevoli!

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GLI ULTIMI GIORNI DI LIBERTÀ

Nel periodo che precedette la partenza, quello compreso tra la seconda metà del mese di Marzo e la prima metà di quello di Aprile 1964, ci furono tre fatti importanti e degni di essere festeggiati.

Il primo fu il conseguimento della laurea, avvenuto il 17 Marzo, giorno in cui il babbo ed io finalmente inaugurammo la speciale bottiglia di cognac Courvoisier (montata come un cannone inclinabile sul suo affusto per poterla versare più facilmente) che su una libreria del soggiorno aveva aspettato da lungo tempo quel momento. Verso la fine dello stesso mese fu completata la copertura del tetto della villetta a Castiglioncello, evento che fu onorato con un pranzo offerto a tutte le maestranze presso l’Albergo Roma (oggi Hotel Corallo). Il 3 Aprile, infine, cadde il mio ventiseiesimo compleanno di cui non ho alcun ricordo particolare preso da tante altre cose. Una settimana dopo, infatti, arrivò il 10 Aprile, giorno della partenza per Lecce dove, secondo quanto scritto nella cartolina precetto, avrei dovuto trascorrere i successivi mesi quale Allievo Ufficiale di Complemento (AUC) alla Scuola delle Truppe Meccanizzate.

Il giorno della partenza fui costretto, con gran dispiacere, a lasciare a casa la mia piccola 950 Innocenti spider gialla (un colore che all’epoca era quasi scandaloso), che il babbo di lì a breve riconsegnò al concessionario per metterla in vendita. Il motivo di questa rinuncia dipese dalla previsione che non avrei potuto utilizzarla per lungo tempo, ma in realtà questa si dimostrò in gran parte sbagliata, perché il suo fermo forzato sarebbe stato limitato al solo periodo da trascorrere alla scuola e sapendolo prima, se avessi fatto il furbo, anche per meno.

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APRILE – SETTEMBRE 1964 35° CORSO AUC DELLE TRUPPE MECCANIZZATE A LECCE

CASERMA RAFFAELE PICO

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L’ARRIVO A LECCE

Ricordo l’arrivo alla Stazione di Lecce dove, assieme a qualche altro, si evitò di farci prelevare da una specie di ronda che era lì in nostra attesa, pronta ad individuare facilmente i suoi obiettivi per le espressioni di smarrimento dei richiamati e anche perché durante la giornata i treni in arrivo da Foggia in coincidenza con quelli a lunga percorrenza erano molto pochi. Per caso, tuttavia, se esisteva un’incertezza sull’identità di un individuo bastava che il suo capo gli rivolgesse un improvviso e perentorio «Allievo!» e la risposta titubante sarebbe stata naturalmente «Si?».

Io ed alcuni altri, nonostante la predetta situazione, riuscimmo ad evitare l’ostacolo e ad andare a mangiare l’ultimo pasto da uomini liberi, cosa che però ci costò il primo rimprovero al nostro ingresso in caserma, sebbene lo avessimo fatto alla spicciolata proprio per evitare di far vedere che la nostra evasione era stata premeditata.

Il 35° Corso AUC doveva svolgersi nella Caserma Raffaele Pico, fortunatamente situata molto vicino al centro città, dove ero stato assegnato alla 1A Compagnia dell’VIII Battaglione Allievi, comandato dal Ten.Col. Antonio Tessitore, del quale mantengo ancora oggi l’immagine di un ufficiale che ebbe sempre un comportamento molto paterno verso tutti noi.

La prima cosa che ricordo appena superato il portone d’ingresso fu la mia presentazione all’Ufficiale di Picchetto il quale mi assegnò ad un giovane soldato semplice, molto alto e di origine chiaramente piemontese, perché mi accompagnasse al mio posto letto nella camerata situata al primo piano. Poco dopo compresi che anche lui era un allievo nella mia stessa situazione, ma arrivato alla scuola solo il giorno precedente e già rivestito della divisa ed inquadrato nello svolgimento di alcune funzioni.

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I PRIMI GIORNI IN CASERMA

Per quanto successe in seguito faccio confusione tra i vari eventi e non riesco a dar loro una posizione temporale precisa, ma tra i fatti che ho maggiormente presenti ci sono il taglio corto e rapido dei capelli, operazione durante la quale si provò la sensazione di essere trattati come un gregge di pecore alla tosatura, e la consegna delle divise con la conseguente eliminazione di tutti gli indumenti civili, tranne forse alcuni di quelli intimi, che dovemmo sistemare nelle nostre valigie apponendovi l’indirizzo perché potessero essere rispedite alle rispettive famiglie.

Le divise, in quel periodo di tipo invernale, ci furono distribuite da un Maresciallo che sceglieva la taglia basandosi su una valutazione ad occhio. Alla prima prova queste ci apparvero nella maggior parte dei casi più informi che uniformi, e qualcuno dovette per forza richiederne il cambio perché troppo corte di gamba o di braccio, ma ci fu assicurato che avevamo la possibilità di farle riadattare dal sarto interno. I tempi previsti per quest’operazione si dimostrarono purtroppo molto lunghi, dato che quel pover’uomo doveva far fronte ad una quantità enorme di richieste, e così gran parte di noi preferì aspettare la prima libera uscita per passare la serata da uno dei numerosi sarti privati, che in poco tempo e con una spesa modesta ce la ricucivano addosso su misura. Questa soluzione ci avrebbe sollevato anche dall’incombenza di dover pensare alle mostrine ed altri orpelli, come la fettuccia dorata attorno al colletto, le mostrine sul bavero, lo scudetto e le lettere AUC sulle spalline, che noi stessi avevamo dovuto cucire o fissare con un risultato non sempre apprezzabile.

La distribuzione della dotazione fondamentale per affrontare i primi momenti di vita interna avvenne subito dopo, ma fu completata anche nei giorni successivi affrontando alcune problematiche individuali come l’essenziale prova dei vari tipi di scarpe, in particolar modo degli anfibi, e del cappotto di panno senza orlo, che poi è stato

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I PRIMI GIOPRNI IN CASERMA

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inutilizzato per mesi, la cui lunghezza era intoccabile e marcata con bolli e date varie.

Altro materiale comprendeva lo zaino, la borsa-valigia (che da vuota per assumere la forma di un parallelepipedo rettangolo aveva bisogno di una struttura leggera interna che a pagamento ci procurammo dal falegname), lo zainetto tattico, ossia da combattimento, che consisteva in un contenitore floscio, anch’esso di tela canapa color kaki, che anche se ben riempito assumeva sempre un aspetto bozzoloso e che, non possedendo alcuna caratteristica anatomica per adattarsi al dorso, sentivamo sempre presente durante la corsa per l’effetto di un continuo e noioso ballonzolare.

A conclusione di tutta la trafila, completa anche della dotazione estiva, compilammo sotto dettatura la Tabella Corredo nella quale fu registrato quanto datoci in dotazione, apponendo a mano la quantità e il relativo stato d’uso (tutti N = nuovo) accanto alla denominazione prestampata degli oggetti di vestiario e d’altro tipo di materiale, ai quali era attribuito anche la durata orientativa in mesi. Questo documento, datato 13 Aprile, timbrato e controfirmato dal Sottufficiale ai Materiali (Mar. Ord. Eugenio Maiorano), lo posseggo ancora, ma non ho mai capito perché in duplice copia dato che sul retro della tabella è riportata testualmente la seguente avvertenza: “La tabella corredo è compilata in duplice esemplare di cui uno è custodito dal Reparto e l’altro viene lasciato in personale consegna al militare interessato. Il suo smarrimento od alterazione, quando non rivestono carattere di reato, danno luogo a punizione disciplinare….”.

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L’ORGANIZZAZIONE INTERNA

Una caratteristica particolare della nostra specialità di fanteria meccanizzata, che imparammo subito, era che ogni spostamento doveva essere fatto di corsa, e quest’azione era richiesta senza alcuna deroga, salvo fosse comandato di andare al passo. Di conseguenza era un gran brulicare di gente, anche se molto ordinato, specialmente quando a muoversi era l’intera compagnia nello scendere e salire le scale per andare all’alzabandiera, a mensa o a lezione, ossia per partecipare a qualsiasi attività singola o collettiva.

L’organico della Compagnia era costituito dal comandante, un Capitano, e da tre Tenenti, due Sottotenenti e quattro Marescialli. Mancavano sottufficiali inferiori al maresciallo e di graduati, ossia di sergenti e caporali, poiché, come ci accorgemmo presto, le responsabilità normalmente di loro competenza dovevano, invece, essere svolte da alcuni di noi.

Fu così che all’incirca nella prima decade di Maggio avvenne la nomina di un gruppo di Allievi Scelti, formato da un Capo Compagnia, quattro Capi Plotone e dodici Capi Squadra, contraddistinti da un diverso simbolo in fettuccia dorata cucita sulle spalle del giubbetto o sul volantino del tubolare dello spallino sinistro della camicia e di quello della tuta mimetica.

Io ebbi la carica di Capo Plotone, contraddistinta da una V, senza saperne il motivo preciso, ma molto probabile credo che la selezione fosse stata basata sull’età, sul grado d’istruzione e forse anche sulla prestanza fisica di ciascun allievo. Capo Compagnia fu nominato il collega Giuseppe Nassa, quello incontrato per primo al mio ingresso in caserma, anch’egli già laureato in fisica.

Giornalmente un certo numero di allievi era selezionato per svolgere i vari servizi interni, secondo una lista preparata in fureria e basata sulla rotazione, tra i quali la guardia e il suo capoposto, gli addetti alle varie corvè per la pulizia delle camerate, dei bagni e degli

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L’ORGANIZZAZIONE INTERNA

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spazi comuni, gli aiuti in cucina e al servizio di mensa, oltre quelli di caporale e sergente di giornata cui spettavano mansioni di supervisione che di norma erano assegnate ad allievi scelti.

Per quanto riguarda la guardia, il cui capoposto era anche in questo caso un allievo scelto, mi ricordo che era veramente tragica l’esecuzione del cambio della sentinella in garitta, non tanto per la questione formale quanto nel recitare la complicata formula di rito per dare le consegne. Non era raro, inoltre, che la sentinella dovesse sopportare le prese di giro di qualche ragazzino senza poter reagire, soffrendo nell’aspettare l’intervento di un collega o dell’ufficiale di picchetto stesso.

Tavolata a mensa: secondo da sinistra M. Fadini, quarto M. Parotto e a

seguire A. Andrei, io, G.F. Meacci e P. Pampaloni.

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LA VITA QUOTIDIANA

La vita di ogni giorno era cadenzata da operazioni di varia durata che si susseguivano invariate e ininterrottamente per tutto l’arco delle ventiquattro ore, ma dopo poco tempo eravamo ormai abituati a svolgerle così facilmente che non le sentivamo più né particolarmente gravose né monotone. Certo qualcuna di queste operazioni, specie agli inizi, costituì una terribile ossessione, come quella di dover rifare ogni giorno la branda ripiegando cuscino, materasso, lenzuoli e coperte ottenendo alla fine un cubo perfetto, che se al controllo non era ritenuto tale veniva disfatto sotto i nostri occhi e impotenti dovevamo ricominciare a costruirlo da capo.

Le operazioni consistevano nelle stesse che erano svolte in qualsiasi altra caserma dell’esercito, con la differenza che nella nostra, essendo appunto una scuola, molte ore erano riservate a lezioni ed istruzioni pratiche, salvo per quelli impegnati nei servizi. La giornata iniziava con la sveglia alle 6:00, data con i classici squilli di tromba, cui seguiva immediatamente l’irruzione dell’ufficiale di servizio, con il sergente e il caporale di giornata, che spronava ad alta voce ad alzarsi e talvolta usava la forza per ribaltare il materasso di qualcuno un po’ lento. Seguivano la pulizia personale, l’adunata nel piazzale e una mezz’ora di ginnastica a corpo libero (la così detta reazione fisica) e di corsa ininterrotta al suono della Fanfara dei Bersaglieri. Alle 7:00 l’alzabandiera, la presentazione della forza del battaglione (nella quale ciascun capo plotone doveva riferire del numero dei presenti al rispettivo capo compagnia e questi, a sua volta, all’ufficiale di servizio, e di seguito per via gerarchica fino al Comandante) e, infine, la prima colazione, che era servita nella vasta sala adibita a refettorio dove sedevamo intorno a tavoli da otto posti.

Il resto della mattinata trascorreva di solito tra studio obbligatorio, istruzione formale e lezioni in aula fino alle 13:30, quando al segnale della tromba, sempre inquadrati e di corsa, raggiungevamo la mensa per il pranzo (2° rancio) che dovevamo consumare in mezz’ora. Il cibo non era per niente male e piuttosto abbondante, perché a richiesta

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LA VITA QUOTIDIANA

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potevamo avere una seconda aggiunta di contorno, e presto ci adattammo alla differente cucina rispetto a quella cui eravamo abituati a casa. Va tenuto anche conto del fatto che, specialmente in certi giorni, quando si arrivava a tavola eravamo piuttosto affamati e pronti a divorare tutto quanto ci fosse messo nel piatto per sopperire alle energie spese nella mattinata. Solo di venerdì, ogni tanto, avevamo un po’ da protestare tra noi. In quel giorno, infatti, era abitualmente servito pesce, per lo più cernia, ma talvolta era sostituito da pezzi abbastanza duri di polpo in umido. Al mio tavolo questa pietanza era conosciuta come la piovra, soprannome da me assegnatogli perché era facilmente immaginabile la loro dimensione e perché, pur avendo una discreta esperienza come pescatore subacqueo, non avevo mai avuto occasione di vederne di simili dimensioni, sia da vivi che da morti, tranne che in documentari cinematografici.

I pomeriggi li passavamo all’incirca nella stessa maniera, tra studio e lezioni pratiche e teoriche, fino alle 18:20, orario in cui veniva effettuato l’ammaina bandiera, e a cui seguiva la cena (3°rancio), alla quale dovevamo partecipare ma che alcuni non sempre consumavano preferendo frequentare nella libera uscita, che sarebbe seguita di lì a breve, un ristorante come La Borsa, dove io di solito ordinavo totani alla griglia, o una delle numerose e più simpatiche trattorie popolari. Infatti, dalle 19:00 alle 21:30, liberi da impegni, potevamo frequentare lo spaccio e la sala lettura o andare in libera uscita.

Le lunghe giornate terminavano alle 21:45 con l’appello serale in camerata, con le spalle rivolte alla branda e la fronte al proprio armadietto (soggetto ad eventuale ispezione), e alle 22:00 con il segnale del silenzio che poneva veramente fine a tutto, con la sua melodia, se così si può definire, piacevole all’ascolto ma con un sottofondo di tristezza che invece di conciliare il sonno poteva far sorgere pensieri lontani. Non parliamo poi dell’effetto che poteva produrre quello fuori ordinanza, che però ho avuto occasione di sentire suonare poche volte e solo in circostanze speciali.

A proposito della ginnastica mattutina non ricordo esattamente se comprendeva anche la corsa a suon di fanfara o se questa era eseguita in un altro momento; ma riguardo alla ginnastica sono sicuro che la

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LA VITA QUOTIDIANA

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dovevamo fare indossando pantaloni corti, corpetto di lana e quelle strane e scomode scarpe ginniche. Alle lezioni dovevamo, invece, presentarci in normale divisa di fatica, e devo ammettere che alcune di queste per me erano proprio incomprensibili, come quelle che riguardavano i mezzi di comunicazione radio, svolte in apposite aule, altre noiose e talvolta difficili da seguire, tipo quelle sulla dottrina e le tattiche, mentre trovavo più interessanti quelle sulle armi individuali e di reparto.

Tra le varie attività svolte all’aperto, come ho già detto, c’era l’istruzione formale, il cui scopo era di insegnare le posizioni e i movimenti, senza e con le armi, che il plotone o la compagnia dovevano assumere in formazione seguendo una serie di bruschi comandi impartiti con tempi ben precisi. E poiché la velocità d’esecuzione dipendeva dalla brevità del comando stesso, molti di questi subivano una contrazione, se non addirittura un’alterazione, che sarebbe interessante ma troppo lungo da spiegare con esempi. Dopo poco tempo questa forma d’istruzione divenne una norma di comportamento costante e la sua applicazione passò di mano agli allievi scelti. Il fatto che a me piacesse impartire quel tipo di ordini e di vederne gli effetti mi è successivamente servito quando ho dovuto impartire tale forma d’istruzione ai soldati del reggimento.

L’attività atletica e l’addestramento sul percorso di guerra erano svolti in alcuni giorni prestabiliti al campo sportivo, situato abbastanza lontano dalla caserma, che si doveva raggiungere di corsa con il fucile Garand portato a bilanciere e cantando canzoni militari o quasi, alcune delle quali anche piacevoli e che oltretutto ci aiutavano a mantenere il ritmo. Qualche volta, se il nostro tenente ci precedeva o ci raggiungeva in auto al campo, il trasferimento del plotone avveniva sotto il mio comando, ma la sua assenza poteva creare dei problemi sia all’interno del plotone, dal quale potevano partire mugugni di alcuni nei miei confronti, perché avrebbero preferito andare al passo, sia per altre cause dipendenti dall’esterno di cui in seguito racconterò il caso più rappresentativo.

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LE LIBERE USCITE

La libera uscita serale era un diritto che spettava agli allievi che non erano impegnati in servizi o consegnati in caserma per punizione. Tuttavia, fino all’ultimo momento non esisteva la certezza di poterne usufruire, perché la consegna poteva ancora arrivare a giudizio insindacabile dell’ufficiale addetto al controllo, che poteva dipendere dal taglio dei capelli troppo lungo o da qualche imperfezione della divisa (scarpe sporche, nodo della cravatta fatto male, camicia sgualcita, un taschino non abbottonato, ed altre questioni formali per noi abbastanza discutibili).

Per arrivare alla prima libera uscita passarono più di due settimane, perché non eravamo preparati per poterne godere da un punto di vista puramente estetico. Le divise di molti di noi, come ho già detto, erano informi e fummo costretti a risistemarle un po’ alla meglio con le nostre mani utilizzando il materiale della borsa per cucire. Qualcuno addirittura, come successe a Parotto, dovette aspettare che riuscissero a procurarne una della sua misura! Alla fine però arrivò quel benedetto giorno, nel quale si dovette ammettere che i nostri ufficiali furono veramente di manica larga, ma in realtà ben sapevano che molti di noi non si sarebbero azzardati ad andare tanto in giro e che le nostre mète sarebbero state le sartorie che ci aspettavano a gloria per ricucircele su misura.

Il sarto, dal quale capitai su indicazione di qualcuno, fu di poche parole e dopo prese le misure mi rivestì con una divisa accettabile da indossare nell’attesa che mi fosse restituita finita la mia. Qualche giorno dopo, quando passai per ritirarla non potei credere ai miei occhi: era perfetta in tutti i sensi, con il giubbotto imbottito che non faceva una grinza, le abbottonature sostituite con comodi automatici, e nastrini, mostrine e scudetto cuciti al posto giusto! Cambiati i gradi e le distinzioni attinenti alle nuove destinazioni quella stessa divisa mi ha servito egregiamente per tutto il periodo di servizio successivo.

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LE LIBERE USCITE

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Sistemata la questione del nostro aspetto esteriore si cominciò a sentirci un po’ più a nostro agio per frequentare piacevolmente il centro della città, dove godevamo da parte di negozianti in genere e di gestori di ristoranti e locali pubblici di una particolare attenzione, poiché eravamo considerati dei buoni clienti contribuendo in maniera consistente all’economia locale.

Non altrettanto ben visti lo eravamo dalla gioventù maschile che ci vedeva come dei possibili antagonisti nel pollaio, che in realtà era difficile se non impossibile da razzolare, e quasi detestati da alcuni genitori con figlie che sapevano come nel passato alcuni di loro avessero subito brutte esperienze con allievi ufficiali di corsi precedenti. Qualche volta è addirittura successo che degli allievi siano stati costretti a difendersi dall’aggressione di gruppetti di coetanei che li aspettavano per provocarli. La prima volta che un fatto di questo genere fu riferito al rientro in caserma ci furono date delle precise istruzioni di comportamento per mettersi dalla parte del giusto: difendersi, e magari cercare di dargliele, ma rientrare immediatamente e denunciare l’offesa alla divisa.

Un mio tentativo di approccio, l’unico che ho fatto in vita mia per strada, lo rivolsi ad una ragazza che avevo visto più di una volta passeggiando in centro e per la quale provai fin dal primo momento una certa attrazione. Un giorno, con un po’ di coraggio, l’affiancai e una volta presentatomi le chiesi se esisteva la possibilità di poterci frequentare ogni tanto, magari per parlare un po’ insieme del più e del meno o passare una serata al cinema (neanche a pensare all’idea di un invito a cena che all’epoca era inammissibile). In fondo questo era il mio desiderio principale e di cui sentivo necessità: quello di passare qualche ora scambiando un discorso di parole sensate con una ragazza dopo un bel po’ di tempo di compagnia esclusivamente maschile i cui rapporti erano basati per lo più sullo scherzo, talvolta anche pesante.

Nel frattempo avevamo raggiunto il portone di casa sua e lì lei mi fece capire chiaro e tondo che era meglio mi togliessi qualsiasi idea in proposito e di non disturbarla più, perché altrimenti avrebbe riferito il mio comportamento a suo padre, maresciallo della Pico di cui mi fece il nome e che io ben conoscevo. Fu così che si concluse questa mia prima ed unica esperienza sulla piazza di Lecce.

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LE LIBERE USCITE

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Dopo questo fatto, per scherzare e sentire una voce femminile, mi rimase solo di tanto in tanto a far visita con il collega Franco Battagli ad una povera giovane prostituta che, al nostro arrivo, per passare anch’essa qualche ora diversa dal solito tran tran chiudeva la porta della sua misera casa/bottega e si metteva a cucinarci un’ottima pasta asciutta. Solo una volta siamo riusciti a farle accettare con insistenza del denaro in cambio della sua piacevole e casta compagnia.

Per alcuni giorni del mese di Luglio fummo consegnati in caserma senza sapere l’esatto motivo. Scoprimmo solo successivamente che alcuni corpi militari, come i Bersaglieri di stanza a Persano e la Scuola di Fanteria di Cesano, erano stati messi in stato d’allarme per l’ipotesi di un probabile colpo di stato (caso SIFAR - Gen. De Lorenzo?).

Pronti per la libera uscita: a sinistra P. Pampaloni, alla mia destra F. Busoni e

alla sinistra C. Ariani.

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IL GIORNO DEL GIURAMENTO

La cerimonia del giuramento è stata sempre sentita intimamente da ogni soldato per l’importanza dell’impegno che ciascuno assume di fronte a se stesso e alla Patria, anche se intorno alla formulazione del giuramento sono da sempre esistite varie forme di risposta scherzose, e talora offensive, ma che nel momento cruciale ben pochi credo abbiano veramente sostituito a quel «lo giuro!».

Il nostro giuramento avvenne l’ultima domenica di Maggio, ma confesso di non ricordare assolutamente niente di quella giornata, a parte la tensione dovuta alla lunghezza dello schieramento in armi e ad un certo sentimento di commozione. Soprattutto, e mi dispiace molto, di non ricordare neanche la presenza dei miei genitori, tanto è vero che quando ho chiesto a mio fratello Ugo a proposito di quest’evento non mi ha saputo dare neanche lui una risposta precisa, mentre il loro soggiorno a Lecce in quell’occasione mi è stato confermato da sua moglie Graziella, che evidentemente ha una memoria migliore della nostra. Questo buio di memoria mi è proprio inspiegabile, perché oltre a quella domenica passata insieme ci saranno stati altri momenti d’incontro sia nel giorno precedente che in quello successivo, sicuramente inclusi nella loro trasferta, e perché avrò pur pensato io stesso a prenotargli l’albergo una volta che avevano deciso di venire.

Ho appena detto del giuramento da allievo, ma durante il periodo del mio servizio militare ne ho fatti altri due: il secondo da Sergente AUC sulla pistola d’ordinanza, e il terzo da Sottotenente sulla spada, ambedue preceduti da esercitazioni pratiche per imparare la formula e come eseguire esattamente gli atti formali delle cerimonie che erano svolte individualmente davanti ai rispettivi comandanti di battaglione. Nel corso di queste cerimonie, che si prestavano ad errori per la tensione del momento, ciascuno di noi era sottoposto al giudizio dei diretti superiori, ma nello stesso tempo anche dei colleghi che, sebbene timorosi nell’attesa del loro turno come studenti di fronte ad un esame orale, in realtà non aspettavano altro che la fine del

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IL GIORNO DEL GIURAMENTO

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cerimoniale per sfottere pesantemente chi avesse avuto un comportamento poco marziale.

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I PERMESSI GIORNALIERI

La domenica, esclusi al solito quelli che erano consegnati o impegnasti nei vari servizi, potevano richiedere per tempo un permesso per l’intera giornata, che però limitavano gli spostamenti all’interno del distretto e, come per quelli serali, all’epoca era ancora proibito cambiarsi e indossare abiti civili.

Ben presto, stanchi di visitare monumenti o vagare strasciconi per la città, cominciammo ad allargare i nostri orizzonti e a puntare a località più lontane. Tra queste un paio di volte ci fu una bella masseria situata nella campagna di Galatina, circa venti chilometri a sud di Lecce, di proprietà di conoscenti di un nostro compagno e che raggiungevamo con la sua auto (era stato più furbo di altri), dove passavamo la giornata con un simpatico gruppo di amici dei loro figli. Un’altra mèta furono le Grotte di Castellana, facilmente raggiungibili con il treno delle Ferrovie del Sud-Est, che qualche anno dopo ho rivisitato con maggior interesse professionale durante il rilevamento del Foglio Monopoli della Carta Geologica d’Italia.

Questo tipo di permesso cominciò ad essere più interessante verso fine primavera e inizio estate, quando, mettendosi d’accordo in due o tre, potemmo fare qualche trasferta per goderci il sole in spiaggia e un bagno in mare, scansando naturalmente la zona di San Cataldo, troppo vicina e più facilmente frequentata anche dai nostri superiori.

Per gli spostamenti usavamo auto prese a nolo presso un garage vicino alla caserma, ed usavamo lo stesso ambiente per cambiarci in abiti civili, operazione che con l’adozione delle divise estive diventò molto più semplice. Talvolta lo facevamo anche nelle zone più impensabili, come in qualche uliveto o nei ruderi di torri costiere che trovavamo disseminate lungo la costa adriatica.

Tra tutti i posti visitati la zona più interessante e bella risultò quella di Gallipoli che, pur avendo il difetto di essere più lontana di altre, offriva la comodità di stabilimenti ben attrezzati con ombrelloni, cabine e docce, cosa che era abbastanza rara nella Puglia dell’epoca.

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I PERMESSI GIORNALIERI

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Fu su quella spiaggia che un giorno, mentre accaldato per la troppa esposizione al sole andavo verso le docce, mi scontrai con il S.Ten. Pelosini (pisano!); ma ambedue, data la situazione completamente fuori ambiente, non avemmo la prontezza di riconoscerci a vicenda, e scusatomi ciascuno proseguì per la propria strada. Pensai subito che l’incidente fosse finito lì, ma mi ero illuso perché al controllo serale in camerata me lo ritrovai di servizio e quando arrivò di fronte a me, immobile sull’attenti, mi dette una gran pacca sulle spalle infuocate domandandomi, con tono a presa di giro, se avevo passato una bella giornata. Naturalmente, con immensa sofferenza e a denti stretti, dovetti rispondere che lo era stata.

Una volta mi volli levare la voglia di vedere Santa Maria di Leuca, il cui capo omonimo è la punta estrema della Puglia, sebbene la località si trovasse molto distante da Lecce. Lo specchio di mare che scegliemmo per fare il bagno non mi pare che fosse particolarmente attraente, ma mi ricordo di avere assistito ad uno spettacolo piuttosto raro, perché ad un certo momento udii il rumore di uno scroscio d’acqua proveniente da terra dietro alle mie spalle, che successivamente seppi che era lo scarico finale dell’Acquedotto Pugliese.

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IL POLIGONO DI TORRE VENERI

Il poligono per le esercitazioni a fuoco si trovava, ed esiste tuttora sebbene non sappia se sia ancora in uso, sulla costa adriatica nei pressi di San Cataldo, a poco più di dieci chilometri in linea d’aria a nord-est di Lecce. Questa zona, costituita da calcari friabili che i cingoli dei carri frantumavano producendo grandi nuvole di polvere, ha una quota media elevata pochi metri sul livello del mare ed è caratterizzata dalla presenza di qualche sacca di sabbie mobili, dovute alla dissoluzione dei calcari e alla superficialità della falda freatica salmastra, e da alcune zone acquitrinose localizzate nella sua porzione più meridionale.

In questo poligono eravamo addestrati ad usare tutti i tipi di armi in dotazione, individuali e di reparto, oltre a quelle più pesanti come le mitragliatrici Browning dei nostri veloci M113 in lega leggera, e i carristi della 2A cp. addirittura anche all’uso dei cannoni dei pesanti carri M47. I giorni in cui erano previste esercitazioni a fuoco la popolazione locale era avvisata per tempo tramite varie forme di comunicazione, ma dovevano essere comunque attuate tutte quelle operazioni di sgombero dell’area del poligono necessarie a verificare l’assenza di uomini ed animali.

Le operazioni di controllo sul terreno erano svolte e concluse velocemente prima delle esercitazioni percorrendo l’area con i mezzi cingolati, con una corsa finale anche lungo la spiaggia, ma successivamente era necessario che fosse tenuto sotto controllo continuo anche l’eventuale movimento di navi e imbarcazioni minori nel tratto di mare prospiciente il poligono, sebbene anche la Capitaneria ne fosse informata. Ciò dipendeva dal fatto che i proiettili sparati dai cannoni dei carri rimbalzavano più volte e per lunga misura sulla superficie marina, come avviene nel gioco del lancio a mano delle piastrelle, con un effetto molto evidente e spettacolare, mentre lo era meno o per niente l’effetto prodotto dai proiettili delle mitragliatrici pesanti, sebbene anch’essi si comportassero nella stessa

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IL POLIGONO DI TORRE VENERI

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maniera. Di conseguenza due mezzi dovevano, infine, appostarsi sulla costa agli estremi del poligono per avvistare e comunicare via radio eventuali avvicinamenti di natanti, in modo che le esercitazioni potessero essere momentaneamente sospese.

Per alcune volte ho partecipato come responsabile a questo tipo di operazione, usando un M113 con equipaggio ridotto e prendendo infine posizione sulla costa in corrispondenza dello spigolo meridionale del poligono, mentre un altro collega faceva altrettanto su quello settentrionale. Questo mio settore, a differenza della maggior parte dell’area che era occupata da suolo nudo, roccia affiorante e da vegetazione arbustiva, si trovava sul margine di estese coltivazioni di cocomeri, che non mancammo mai di mangiare sul posto e di prelevare per un consumo successivo, anche se una volta si fu colti sul fatto da un comprensivo contadino che ripagammo abbondantemente dandogli più di quanto aveva preteso.

In una di quelle occasioni, ad esercitazione conclusa, trovai tutti consenzienti (per la verità mi pare che il pilota in principio non lo fosse proprio) nel voler provare le declamate potenzialità anfibie del mezzo delle quali non avevamo mai avuto una dimostrazione, e così, sbloccato lo stabilizzatore anteriore, fu fatto entrare in acqua fino a non toccare più il fondo e, spento il motore, facemmo un bel bagno completo di ripetuti tuffi; e così verificammo le sue effettive qualità.

Le esercitazioni pratiche in bianco con i mezzi da trasporto M113 consistevano nella simulazione di un attacco, durante il quale la squadra veniva trasportata in posizione avanzata per proseguire da sola fino a raggiungere l’obiettivo, ed era poi recuperata dallo stesso mezzo ad azione conclusa. La questione sembra semplice a dirsi ma in pratica non lo era affatto, perché sia la discesa per prendere posizione sul terreno che la salita di rientro dovevano essere eseguite attraverso il portellone posteriore abbassato mentre il mezzo era in corsa, e questa specie di ponte levatoio si comportava come un trampolino perché seguendo il movimento del mezzo sul terreno sconnesso ne esaltava oltretutto le oscillazioni. Di conseguenza, per l’imprevedibile situazione del momento, qualcuno poteva trovarsi sbalzato in aria durante il salto della discesa o lanciato in avanti di testa contro la

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IL POLIGONO DI TORRE VENERI

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parete in fondo all’abitacolo durante il suo rientro, e in questo secondo caso gli elmetti si rivelavano veramente utili.

Nel poligono di Torre Veneri abbiamo trascorso il campo estivo, dormendo in tenda e vivendo per giorni completamente all’aria aperta. Lo raggiungemmo sovraccarichi con una marcia più faticosa che lunga, perché costretti con un gran caldo dentro le tute mimetiche che permettevano poca traspirazione, e molti di noi anche sofferenti per irritazioni all’interno delle cosce, non avendo pensato di indossare le mutande in dotazione che ci avrebbero sicuramente evitato quel tipo d'inconveniente. Il periodo lì trascorso fu piuttosto piacevole perché nei momenti di libertà potemmo godere anche del sole e del mare. Unici inconvenienti furono i frequenti e inaspettati incontri con biacchi, bisce ed altri tipi di rettili, e quello di dovere stare attenti a dove si metteva i piedi andando verso la duna costiera, perché nelle zone spoglie di vegetazione e apparentemente asciutte era molto facile sprofondare nel fango sottostante lasciandoci dentro qualsiasi tipo di calzatura.

Riallacciandomi ai cocomeri di cui parlavo sopra mi ricordo che durante il campo fu trovato il modo di consumarne in maggior numero, perché una volta tassellati e sforacchiata la polpa interna con la baionetta si poteva fargli assorbire qualche dose di cordiale, che era distribuito individualmente in confezioni di plastica trasparenti a forma di cuscinetti, identici a quelli di un tipo di shampoo che si trovava allora comunemente in commercio.

In quel periodo accaddero un paio di fatti molto imbarazzanti per qualcuno. Il primo fu che un M47 si ritrovò bloccato semisepolto nel fango di una zona paludosa, dove non doveva andare a finire perché chiaramente dichiarata off limits, situazione che creò notevoli problemi per il recupero del mezzo e per chi era al suo comando. L’altro avvenne durante l’esercitazione a fuoco conclusiva perché, per un’errata interpretazione degli ordini, alcuni carri armati iniziarono la carica finale in anticipo, costringendo parte di noi ancora disseminati sul terreno a trovare un riparo per non essere travolti. Io ed altri della mia squadra riuscimmo a buttarci dentro un canale di drenaggio tagliato profondamente nella roccia, da dove vedemmo passarci sopra le teste un carro in corsa. Forse anche altri si ritrovarono in quella

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IL POLIGONO DI TORRE VENERI

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stessa situazione, ma al momento eravamo così timorosi che noi stessi potessimo essere corresponsabili dell’accaduto che non abbiamo neanche pensato di verificarlo, mentre dopo ci siamo chiesti più volte come l’esercitazione avesse potuto concludersi senza incidenti.

Delle poche esercitazioni fatte fuori dell’area del poligono mi ricordo quella di orientamento notturno che si svolse in una zona di aperta campagna vicina alla città, la cui preparazione iniziò già a cena con una razione di carote crude, perché le loro proprietà avrebbero dovuto favorire la nostra vista al buio. L’esercitazione era in teoria piuttosto semplice svolgendosi in un ambiente pianeggiante, pressoché pulito e disseminato da ulivi secolari, dove varie squadre partite da una base dovevano raggiungere quella di arrivo loro assegnata nel più breve tempo possibile, servendosi di bussola e carta topografica. Per la mia pattuglia le cose però non andarono proprio lisce, perché ci ritrovammo intrappolati dentro una tufara abbandonata (cava in fossa per la coltivazione del calcare tenero tipico della zona di Lecce, da cui prende il nome) non segnalata sull’obsoleta carta che ci costò un gran ritardo per trovare una via d’uscita.

Momento di libertà durante il campo estivo al poligono di Torre Veneri

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LE TRASFERTE FUORI SEDE

Per partecipare a dei festeggiamenti connessi ad importanti anniversari per due volte abbiamo lasciato con armi e bagagli la sede di Lecce; la prima volta per trasferirci a Caserta, in occasione dell’anniversario della fondazione della Scuola Truppe Corazzate, e la seconda a Foggia, per altra ricorrenza di cui non ricordo il motivo preciso.

A Caserta si fu sistemati all’interno della nostra scuola madre, dove non trovammo sostanziali differenze rispetto al nostro ambiente abituale, ma si dovette convivere per alcuni giorni con altri numerosi AUC appartenenti ai corpi dei Bersaglieri, Carristi, Lagunari e Cavalleggeri, con i quali non sempre trovammo un‘intesa, perché ognuno aveva un proprio spirito di corpo che esplodeva nella volontà di emergere in qualsiasi circostanza, specialmente durante le esercitazioni formali per prepararsi alla parata conclusiva che si svolse all’interno della scuola.

Durante queste esercitazioni ci destava una certa ilarità, ed era motivo di continue prese di giro nei loro confronti, il comando verbale che i cavalleggeri utilizzavano per dare l’alt («alt..., piscia il cavallo!»), e in queste circostanze trovavamo gran solidarietà da parte di tutti, ma in particolare dai bersaglieri con i quali noi meccanizzati legavamo maggiormente per la notevole affinità di comportamento, come loro sempre di corsa, e per la preparazione all’azione di combattimento.

A Foggia fummo, invece, acquartierati all’interno di un’ex caserma, mi pare fosse di artiglieria, il cui stato generale ci apparve immediatamente di completo abbandono, e che poco dopo ci fece provare un gran senso di sconforto, quando prendemmo contatto con i letti traballanti a castello sistemati su pavimenti di nuda terra delle camerate, la presenza di semplici cannelle allineate su lunghi lavatoi, posti naturalmente a cielo aperto, il rancio servito in gavette e costretti a pulire le stesse con una manciata di sabbia che era presente ovunque. Insomma, in quell’occasione ci ritrovammo a vivere peggio che in un

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LE TRASFERTE FUORI SEDE

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campo male attrezzato e questa situazione ci fece rimpiangere ed apprezzare molto la nostra residenza abituale.

Alla libera uscita, per ridurre il lungo tragitto che avremmo dovuto fare per raggiungere il centro città, qualcuno scoprì che si poteva attraversare la ferrovia all’altezza della stazione centrale passando tra vagoni e carri merci. Io fui uno di quelli che tentarono quella strada, ma quando guadagnai un posto ben illuminato mi accorsi subito di avere la divisa sporca di vernice di colore marrone rossastro, sicuramente raccattata da un carro merci e di conseguenza fui costretto a passare la serata in mutande e canottiera dentro un salone di parrucchiere con diurno e lavanderia, situato nel viale dirimpetto alla stazione. Negli anni successivi ho visitato Foggia più volte, dovendo svolgere indagini e rilievi geologici in zone vicine, ma in quel brevissimo periodo di permanenza, e dopo quest’avventura, preferii rinunciare alla seconda ed ultima possibilità di libera uscita

Rancio con un gruppetto del mio plotone durante un’esercitazione esterna

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I RACCOMANDATI E NON

Durante la permanenza alla caserma Pico ogni tanto qualche allievo spariva. Poi si veniva a sapere che era andato a casa in permesso o breve licenza. Dopo tre mesi mi domandai se anch’io avessi potuto usufruire di questa possibilità e chiesi di conferire con il comandante di compagnia, Capitano Sabato, per provare a chiederglielo. Naturalmente mi fu detto che ciò era impossibile perché non previsto dal regolamento e, quindi, il colloquio terminò così, non lasciandomi spazio per controbattere.

Verso la metà del quarto mese, continuando a verificarsi la stessa situazione, tornai alla carica facendo notare al capitano che molti miei colleghi nel frattempo aveva usufruito di ciò che anch’io ritenevo un mio diritto; e questa volta la risposta fu in forma interrogativa: «Ha qualcuno che lo può raccomandare?», e così mi fece capire la situazione ponendo fine anche al secondo tentativo, con la conseguenza che da quel momento in poi il mio animo trovò definitivamente la pace.

In effetti, così sarebbe andata se un provvidenziale ordine ministeriale non avesse previsto per tutti noi una licenza di cinque giorni (3+2) a cavallo di metà Agosto, che tenendo conto della distanza del viaggio si riduceva a ben poca cosa. Tuttavia, dopo i miei tentativi infruttuosi di ottenere una licenza personale, così come quelli di altri allievi non raccomandati, questa era meglio di niente e come tale fu accolta con immenso piacere.

Inutile stare a domandarsi quale dovesse essere in quel periodo la destinazione da dichiarare in fureria per preparare il foglio di viaggio. Viaggio piuttosto lungo e noioso, che iniziò alla stazione di Lecce e si concluse in quella di Livorno con vari cambi, prima a Foggia, poi a Napoli e Roma, durante il quale contavo il passare delle ore domandandomi quanto la stanchezza avrebbe influenzato sui tre giorni di licenza effettiva.

Mi ricordo che poco dopo la penultima fermata del treno alla stazione di Cecina, intravidi dal finestrino una panoramica notturna

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I RACCOMANDATI E NON

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della Baia del Quercetano e che quando infine arrivai alla stazione di Livorno mi ritrovai accolto da un gran numero di amici, con mia madre in testa, che non aspettavo assolutamente di vedere perché, date tutte le incertezze del caso, non avevo indicato un orario preciso per il mio arrivo.

In fondo, i giorni che trascorsi in licenza furono effettivamente tre, passati molto piacevolmente come ho avuto già occasione di raccontare nel capitolo La licenza ministeriale della mia precedente raccolta di ricordi, ma che si conclusero con una sofferta partenza notturna dalla stessa stazione d’arrivo. Il viaggio nel suo insieme fu tuttavia meno noioso, perché mi scorrevano davanti i recenti avvenimenti, pieni di spensieratezza e completamente estranei alla rigida cadenza della vita militare. Il ricordo di quei pochi giorni mi fu poi di grande aiuto anche per affrontare la successiva lunga e ininterrotta lontananza da casa, compresa tra la conclusione del corso a Lecce e il successivo periodo da sergente, che avrei dovuto trascorrere presso un’ignota destinazione, prima della sicura licenza ordinaria in attesa di nomina.

In tuta mimetica: alla mia destra F. Battagli e chinato G. Nassa.

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IL TEN. CUTRI’ ROCCO

Il vice comandante di compagnia e comandante del mio plotone era il Tenente Cutrì, Rocco di nome, poco più anziano di me per età anagrafica, non alto ma con un fisico molto atletico e la struttura di un pugilatore, verso il quale provai da subito una certa simpatia. Col tempo questo mio sentimento mi fu ricambiato nei brevi discorsi di carattere personale che secondo le circostanze capitava di scambiarci, o alle mie battute scherzose che ogni tanto mi uscivano spontanee a proposito di qualche situazione particolare, rimanendo però sempre nei limiti del rispetto dovutogli. Inoltre, era una persona che meritava tutta la nostra ammirazione perché ci dimostrava sempre l’esecuzione di qualsiasi esercizio ci richiedesse di fare ed era veramente impressionante vedere con quale disinvoltura li riuscisse a fare.

Certo è il fatto che nei miei riguardi alcune volte chiudeva un occhio se capiva che avevo poca o nessuna voglia di sottopormi a qualche esercizio nel quale non mi sentivo sicuro o che ritenevo troppo pericoloso da affrontare, come il salto in lungo del cavallo, dove era facile rimetterci alla fine gli attributi maschili, o il salto con capriola su una serie di baionette nude innestate sui fucili tenuti in posizione da alcuni colleghi, nella cui esecuzione pretesi, e non solo io, che fossero almeno protette dalle guaine (e fummo accontentati!). Una volta, durante l’esercitazione sul percorso di guerra in tenuta da combattimento, dove si doveva superare un ampio tratto avanzando a forza di braccia lungo un cavo sospeso tra due torri, io mollai la prova a metà facendo un volo verticale di alcuni metri, fortunatamente senza nessuna conseguenza; ma in quella circostanza, appena appurato il mio stato fisico, non ci passò sopra e mi fece mettere nuovamente in fila per ripeterla.

In un capitolo precedente ho raccontato dei nostri trasferimenti verso il campo sportivo sotto il mio comando e di come, qualche volta, potevano capitarci dei fatti sgradevoli. Prima di arrivare al nostro campo, infatti, eravamo costretti a passare dinanzi a quello di atletica di una società sportiva, dietro la cui rete alcuni ragazzi

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IL TEN. CUTRI’ ROCCO

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aspettavano il nostro passaggio per sfotterci ed offenderci. Dato che la questione si ripeteva e che il numero di partecipanti aumentava sempre più, avvisai di quanto stava accadendo il tenente che, la volta successiva, si mise al comando del plotone. Arrivati sul posto ci accolsero le solite manifestazioni, ma inaspettatamente ricevemmo l’ordine di fermare la corsa del plotone e di fare il fascio d’armi. In realtà non avemmo neanche il tempo di eseguirli che il tenente aveva già scavalcato l’alta rete e steso per terra a suon di pugni due o tre di quegli individui e, a chi di noi riuscì di seguirlo per la stessa strada o entrando dal cancello, non rimase che rincorrerne qualcuno a vuoto. Quella fu l’ultima volta che fummo disturbati.

Verso la fine del corso sposò la sua fidanzata, una vispa e piacevole morettina, che alcuni di noi ebbero occasione di conoscere quando al rientro del loro breve viaggio di nozze invitarono a cena a casa loro il capo compagnia e i quattro capi plotone, quale forma di ringraziamento per l’importante e utile regalo (una lavatrice) che era stato acquistato con una colletta promossa in compagnia.

La durata effettiva del corso fu di cinque mesi e mezzo e, poco prima del suo termine, fummo esaminati sulle varie materie da una commissione composta dagli Ufficiali Insegnanti e Sottufficiali Istruttori. Una volta superate positivamente le prove si fu autorizzati a fregiarci dei gradi di Sergente, la cui cucitura sulle divise fu l’ultimo servizio richiesto ai nostri sarti di fiducia.

Fu in occasione dei festeggiamenti di fine corso che il Ten. Cutrì mi confidò che nella stesura delle mie note caratteristiche mi aveva definito “temerario”, attributo che mi sembrò per niente attinente ad alcuni miei comportamenti in occasione di prove di coraggio. Gli domandai se sapeva quale fosse il significato preciso di tale parola e mi rispose di sì, ma non ho mai capito se lo conosceva davvero e, in tal caso, perché me lo avesse attribuito.

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A LECCE

Per noi, che lasciammo colline verdi legate alla pianura e lacrime di donne lungo le rotaie, questi muri assordanti di sole c’impregnarono il cuore d’una angoscia muta dentro questi mattini che sgorgavano uguali da quelle case basse là verso Oriente. Adesso che sappiamo il meccanismo della cicala e il canto del grano fra le pietre lungo il vento giallo di questa estate leccese, da questa terra che credevamo sterile sentiamo nascere il seme fertile d’un nuovo Amore che innalza le bandiere dei nostri spiriti sopra queste zolle imbevute di sudore e di lacrime.

AUC Pampaloni Paolo 1a Compagnia

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LA “TRADOTTA” LECCE-TRIESTE

Il viaggio di trasferimento per le varie destinazioni di tutti gli allievi avvenne per ferrovia, con un normale treno e non una tradotta vera e propria. Per molti di noi si sviluppò lungo la linea adriatica dove nelle principali stazioni alcuni gruppetti venivano di volta in volta smistati dai sottufficiali che ci accompagnavano, perché avevano già raggiunto la loro futura sede o il punto di scambio per raggiungere con altro mezzo una situata nell’entroterra. Dopo di che il convoglio riprendeva la sua corsa verso Nord, la cui mèta finale fu la stazione di Trieste.

I pochi, me compreso, che scesero all’ultima fermata erano attesi e fummo prelevati alla stazione per essere trasportati in camion con i propri bagagli direttamente nella caserma Brunner, che in realtà non si trovava a Trieste, come pensavamo, ma nell’immediata periferia di Villa Opicina, assolato e ventoso paese esteso sull’altopiano carsico a poca distanza dal capoluogo, che raggiungemmo percorrendo una bella strada con ampio panorama sulla città e il suo golfo.

In primo piano da sinistra M. Fadini, G.F. Meacci., il Ten. R. Cutrì, io, e

all’estrema destra il futuro Capo Compagnia G. Nassa

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1A Compagnia dell’VIII Battaglione - 35° Corso AUC delle Truppe Meccanizzate a Lecce

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OTTOBRE – DICEMBRE 1964 82° REGGIMENTO “TORINO” A VILLA OPICINA

CASERMA GUIDO BRUNNER

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LA XIV COMPAGNIA DEL IV BTG. MECCANIZZATO

Arrivati a destinazione si venne subito a sapere che appartenevamo ad uno dei tre reggimenti di fanteria facenti parte della Divisione “Folgore”, oggi Brigata Paracadutista, il cui motto “Come Folgore dal cielo…..Come Nembo di tempesta….” è costituito da due versi del suo inno. Di conseguenza dovemmo cucire il nuovo scudetto divisionale sulle nostre divise, che però una volta fatto rimase lo stesso anche per la successiva destinazione.

Questi tre mesi furono un periodo di transizione che trascorse velocemente e del quale mi restano pochi ricordi, anche se alcuni di loro mi sono ancora impressi per motivi particolari. Fui destinato alla XIV Compagnia del IV btg. meccanizzato e mi ritrovai ad essere uno di quattordici Sergenti AUC, tutti abbastanza impreparati su quelle che sarebbero state le nostre funzioni, ma con una prerogativa poco invidiabile rispetto agli altri: quella di essere il più anziano per età e quindi ritenuto il responsabile di tutti loro di fronte ai superiori.

Le nostre brande erano sistemate in fondo, nell’ultima delle camerate, dove, non so per quale motivo, eravamo esposti ad un freddo terribile tanto che per difenderci si doveva utilizzare l’intera dotazione di coperte (mi pare fossero nove tra sotto e sopra) e, durante le nottate più rigide, capitava che all’interno delle finestre si formassero lunghe stalattiti di ghiaccio prodotte dalla condensa della nostra respirazione. Con queste condizioni climatiche, ben presto, chi non era astemio iniziò a tenere a portata di mano la borraccia piena di grappa, e tra questi anch’io sebbene avessi preferito del brandy o altri liquori, perché all’inizio mi veniva la nausea solo a sentirne l’odore dopo tutte quelle più diverse che avevano girato sul tavolo del poker in casa di Furio Bigogno (la cui famiglia era originaria di Udine); ma quello era il prodotto alcolico più sano e facilmente reperibile sulla piazza.

Al momento che Ugo decise di venirmi a trovare, poco dopo il suo congedo, oltre a portarmi una 500 Fiat da parte del babbo arrivò anche

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LA XIV COMPAGNIA DEL IV BTG. MECCANIZZATO

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con il sacco a pelo dell’Air Force USA, da me acquistato tempo avanti al mercatino americano di Livorno, e che avevo richiesto in quell’occasione pensando che mi potesse essere utile. Questo sacco aveva una forma a sarcofago di mummia, con un’apertura circolare che lasciava scoperto solo parte del viso, e una volta chiusi al suo interno lasciava poco spazio di movimento. Lo provai una sola volta e questo mi costò una bella bronchite, perché durante la notte per il troppo caldo ne ero uscito fuori rimanendo con il corpo in parte scoperto. Per rendermi conto di questo fatto qualche giorno dopo controllai le scritte delle varie etichette cucite sul sacco, e così trovai l’avvertenza che quell’oggetto era stato testato per la sopravvivenza degli aviatori a temperature polari!

L’edificio della mensa era una vasta baracca di legno, sicuramente costruita durante il periodo dell’Amministrazione del Governo Militare Alleato sulla Zona A del Territorio Libero di Trieste, all’esterno della quale, con qualsiasi tempo, la truppa doveva aspettare inquadrata il proprio turno per entrare con un certo ordine. Questa non è stata l’unica struttura di quel tipo che allora vidi, perché altre più piccole, utilizzate per uffici, camere e magazzini, talune con una tettoia sovrastante un ballatoio esterno, esistevano anche nella caserma dell’artiglieria a Banne e in una polveriera situata sulle colline retrostanti Bagnoli. In quest’ultima, che dovetti visitare per un servizio d’ispezione, rimasi sorpreso nello scoprire che anche i due cani lupo da guardia erano registrati nel ruolino come qualsiasi altro militare.

Un giorno, andando per qualche motivo nella cantina del nostro edificio, trovai alcuni resti di barattoli di vernice e della juta che pensai di poter utilizzare per un quadro, realizzando la struttura della tela con alcuni listelli di legno grezzo e dei chiodi reperiti anch’essi sempre sul posto. Non disponendo di pennelli, creai l’opera artistica colando le vernici direttamente dai barattoli, utilizzando i soli colori disponibili che erano giallo, rosso e nero. Alcuni giorni dopo, quando si furono seccati, mi resi conto che rigirando il quadro si otteneva un’immagine che simulava un bell’effetto di fiamme e di conseguenza gli detti il titolo “Inferno ‘64”. Questo quadro lo posseggo ancora e si trova appeso al muro vicino alla caldaia dell’impianto di riscaldamento nella cantina a Castiglioncello.

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LA XIV COMPAGNIA DEL IV BTG. MECCANIZZATO

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Un fatto che mi è rimasto particolarmente impresso di quel periodo è che uno dei soldati dimostrò di aver bisogno d’aiuto, perché essendo quasi analfabeta non poteva leggere le lettere che riceveva dalla fidanzata, né tanto meno risponderle. Questo ragazzo fu in un certo senso adottato dal mio collega Filippini, mi pare fosse diplomato maestro o iscritto alla Facoltà di Lettere, che gli si dedicò con costanza fino al punto di fargli scrivere la sua prima lettera. Quello che ci meravigliò molto fu che le lettere che lui riceveva erano ben scritte e in buon italiano, e che oltretutto la sua ragazza era una gran bella figliola, come potemmo apprezzare da una fotografia che ci mostrò. Ricordo anche la commozione del mio collega quando, allegato alla successiva posta indirizzata al soldato, gli arrivò un ringraziamento personale da parte della fidanzata.

Momento di riposo in camerata

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LA GRAPPA DELLA LAVANDAIA POLIGLOTTA

La mia fornitrice personale di grappa era una donna molto anziana che conosceva bene quattro lingue (italiano, tedesco, slavo e inglese) per una vita passata sotto altrettante bandiere, che conobbi come lavandaia appena ne ricercai una per farmi lavare la biancheria all’esterno della caserma. Nella sua cucina, su fornelli a carbone, da un lato c’era il pentolone per bollire l’acqua calda e dall’altra il distillatore. Il suo prodotto era rinomato e lo vendeva a 900 lire al litro, piuttosto caro rispetto alle 700 della slivovitz prodotta con le prugne e venduta dalle donne frontaliere jugoslave, di cui però non sapevamo bene l’origine.

La grappa nelle borracce, se sopravviveva alle ricorrenti ispezioni, era oltremodo utile anche durante gli allarmi NATO, in realtà delle esercitazioni generalmente notturne che coinvolgevano tutta la caserma, durante le quali la compagnia era costretta a passare anche ore a terra o più spesso all’interno dei veicoli per trasporto truppa AMX12. Questi carri, più adatti all’ambiente carsico, perché in acciaio, in poco tempo si trasformavano in vere e proprie celle frigorifere per il formarsi di uno strato di ghiaccio spesso e continuo sulle pareti interne dovuto alla condensa del respiro della squadra che l’occupava, ma in quelle occasioni io potevo almeno rallegrarmi per il mio posto di capo carro in torretta, con il dorso o il fondo schiena lambiti dal tepore emesso dal vicino ventilatore.

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LA PRIMA ESPERIENZA CON LA BORA

La prima esperienza con la bora, seguita poi da altre, ma che fu certamente la peggiore di tutte, la feci una notte in cui ero di servizio come Sergente d’Ispezione. Al silenzio mi ero ritirato all’interno del posto di guardia con un tempo abbastanza normale, anche se molto fresco, e stavo pisolando sulla branda aspettando che l’Ufficiale di Picchetto mi comunicasse l’ora per fare il giro all’interno della caserma. Quando arrivò il momento di farlo e mi avviavo verso la bicicletta, indossando ancora la divisa estiva, mi accorsi subito che la temperatura era notevolmente abbassata e appena girato l’angolo dell’edificio fui accolto da delle improvvise raffiche di vento. Purtroppo era ormai troppo tardi per prendere una diversa decisione, poiché avevo già inforcato il mezzo e imboccata la lunga discesa che iniziava dal cancello d’ingresso e proseguiva per tutta la lunghezza della caserma.

Nello stesso momento che la mia velocità iniziò ad aumentare cominciò a mancarmi anche la sicurezza della stabilità per via degli improvvisi colpi di vento che mi facevano sbandare lateralmente, perché la sua direzione principale subiva delle variazioni locali dovute al gioco sulle pareti delle costruzioni. A quel punto cominciai ad avere veramente paura di fare un volo con risultati disastrosi, ma trovai la forza di sterzare imboccando una zona aperta compresa tra due edifici dove trovai momentaneo riparo e potei riprendere fiato.

Dopodiché cercai di terminare a piedi il mio percorso d’ispezione, portando la bicicletta a mano di fianco e questo, bene o male, riuscii a farlo per tutto il percorso dell’andata, ma quando iniziai a fare in salita quello di ritorno diventò quasi impossibile avanzare contro vento e fui quindi costretto ad abbandonarla. Per contrastare la forza delle raffiche, infatti, dovevo camminare molto piegato in avanti spingendo la bicicletta con il corpo completamente fuori baricentro, e non riuscendo sempre a controbilanciare lo sforzo all’improvvisa calma tra l’una e l’altra raffica, più di una volta eravamo andati ambedue a finire distesi per terra.

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LA PRIMA ESPERIENZA CON LA BORA

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Voglio precisare, per pura curiosità, che la durata media delle bandiere durante questi periodi ventosi, ossia il tempo della loro durata fino al momento di doverle sostituire per la quasi totale sparizione del color rosso, era inferiore ad una settimana, sebbene il loro orlo esterno fosse rinforzato per renderle più durature a queste condizioni estreme.

Sul Colle Sant’Elia a Redipuglia

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TRIESTE E DINTORNI

Villa Opicina non offriva particolari svaghi, ma la sua vicinanza alla caserma era comoda per trascorrervi i brevi momenti di libertà, come cenare in un buon ristorante, vedere un film o svolgere qualche normale incombenza, tipo l’acquisto di qualcosa di necessario o la consegna e il ritiro della biancheria.

Nei momenti con maggior disponibilità di tempo abbiamo avuto la possibilità di visitare alcuni luoghi famosi per i loro fenomeni naturali, come le Bocche del Timavo e la Grotta Gigante, enorme cavità carsica situata a poca distanza dalla caserma, e importanti monumenti dedicati ai caduti della Grande Guerra, come quelli di Redipuglia. Ma la mèta più frequente era Trieste, dove si poteva trovare tutto quanto può offrire una città, con le sue opere d’arte, musei, cinema e ristoranti, facilmente raggiungibile in breve tempo con la tranvia o per strada con auto, i cui tracciati panoramici si snodano circa paralleli tra loro.

Un tardo pomeriggio, mentre gia a buio percorrevo in auto proprio quella strada per rientrare in caserma, ricordo di essere stato fermato da una pattuglia motociclista della Polizia Stradale che mi contestò di non avere acceso le luci di posizione (fatto che era vero perché ingannato dall’illuminazione pubblica), ma quando l’agente si rese conto che ero un sergente mise via il blocchetto dei verbali e salutandomi mi fece proseguire dandomi come spiegazione «...tra colleghi…».

Oltre a visitare San Giusto e il Castello omonimo, vari musei, i resti archeologici romani e il porto, tra le sue attrattive c’era anche l’Acquario con un suo simpatico ospite, un pinguino cui mi pare fosse stato imposto il nome di Marco, che se prendeva un visitatore in simpatia lo seguiva per lunghi tratti. Lungo la costa, verso NO, si trovava il Castello di Miramare e verso SE il caratteristico paese di Muggia. Inoltre, in centro città si trovava anche la sede dell’Unione Militare che per alcune volte noi sergenti AUC si dovette frequentare per sottoporci alle prove della divisa diagonale con la quale avremmo dovuto presentaci alle future destinazioni.

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TRIESTE E DINTORNI

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In quel periodo permaneva, non credo che esista ancora in una forma così spinta, un evidente attrito tra una parte della popolazione d’origine slava verso l’italiana, specialmente se in divisa. Questo si manifestava abbastanza evidente nelle risposte che si potevano ottenevano rivolgendosi ad un passante per chiedere un’informazione. Non sempre ottenevi una risposta gentile, infatti, perché nel migliore dei casi eri ignorato e nel peggiore eri oggetto di offesa o mandato a quel paese con l’augurio di un accidente in una lingua incomprensibile. Notai anche come abbastanza di frequente gran parte dei conduttori dei tram e di altri mezzi pubblici parlassero comunemente in slavo, mentre se avevano da protestare per un’infrazione al traffico commessa da un autista o da un pedone lanciavano invettive o imprecavano con bestemmie esclusivamente in italiano.

Quanto appena detto, di cui mi sono ricordato improvvisamente, ho voluto riportarlo solo per mostrare un aspetto dei non sempre facili rapporti con una parte della popolazione locale, ma non vorrei che ciò fosse preso come una mia particolare avversione nei loro confronti. Questa era la situazione allora esistente e in manifestazioni anti-italiane, molto più evidenti e indiscutibili, mi sono imbattuto anche in alcune altre occasioni che racconterò qui di seguito.

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LE MARCE E LE RONDE

Ogni tanto l’addestramento prevedeva l’uscita del plotone per delle brevi marce, che iniziavano appunto dalla caserma e dovevano seguire percorsi prestabiliti per raggiungere località situate nei dintorni, tra le quali ricordo Monrupino, Borgo Grotta Gigante o Banne. Queste uscite, in numero abbastanza limitato, costituivano, in realtà, un piacevole diversivo alla vita quotidiana perché poco impegnative e anche perché una volta raggiunta la mèta si poteva un po’ riposare prima di iniziare il viaggio di rientro, magari sostando vicino ad un locale pubblico dove era possibile che a turno i ragazzi si rifocillassero.

Tra i servizi che mi è capitato di fare come sergente c’è stato anche quello di ronda, per formare la quale avevo bisogno di una coppia di soldati, scelta che non è stata mai difficile da fare perché molti di loro facevano a gara per parteciparvi, specialmente tra quelli di origine toscana e in particolare di due amici di Prato. Il territorio da controllare era abbastanza vasto e oltre Villa Opicina comprendeva i paesi del circondario che raggiungevamo spostandoci con una macchina di servizio.

Tra le varie tappe c’era anche Prosecco, dove una sera fummo affrontati e offesi da un ragazzino di neanche dieci anni che ci definì «sporchi italiani», nascondendosi subito dopo dietro l’angolo di una casa. Fummo tuttavia costretti a far finta di nulla e tirare diritto per la nostra strada ben sapendo che se avessimo fatto una sola mossa falsa sarebbero saltati fuori suoi vari parenti, e forse anche amici degli stessi, che non aspettavano altro per attaccare briga.

Durante i giri di ronda erano effettuati normalmente anche controlli all’interno di locali pubblici per verificare il comportamento di eventuali militari presenti, e questi posti, spesso bar o mescite, erano normalmente frequentati da avventori che passavano il tempo giocando a carte con un bicchiere davanti. Per noi era naturalmente fatto assoluto divieto di consumare durante il servizio ma, sempre a

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LE MARCE E LE RONDE

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Prosecco, la stessa sera del fatto precedente, c’imbattemmo in un tavolo occupato da alcuni anziani ex-combattenti che mi chiesero di brindare all’Italia. Tentai in tutti i modi di rifiutare, in particolare alle insistenze di uno di loro, ma quando questi mi mostrò la sua decorazione al Valor Militare ricevuta nella Grande Guerra, mi resi conto che la mia mancata consegna sarebbe stata ben poca cosa di fronte all’offesa che avrei fatto nel non accettare il suo invito, e così bevvi un sorso di vino.

Il mattino successivo fui convocato alla palazzina comando senza rendermi conto del motivo, ma questo mi fu subito chiaro quando il Comandante del Reggimento, senza dire una parola, mi porse un foglio che riconobbi subito come una tipica lettera anonima composta con ritagli di giornale, la quale denunciava il capo ronda di servizio la sera precedente a Prosecco perché si era permesso di bere in servizio! Scusandomi detti la spiegazione del mio gesto, che fu accettata perché compresa nel giusto senso, ma mi fu suggerito per il futuro di stare molto attento al mio comportamento esterno come il fatto aveva chiaramente dimostrato e aggiunse, inoltre, che quella lettera non era l’unica, ma una delle tante che aveva ricevuto nel tempo.

Il gruppo dei Sergenti AUC della XIV Compagnia. Da sinistra: primo G.C.

Antonello, sesto V. Simoni, nono io, penultimo C. Filippini.

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LA LEZIONE DI CACCIA AI CARRI

La caccia ai carri consiste in una tattica particolare e individuale utilizzata per mettere fuori uso mezzi corazzati nemici mediante l’uso di esplosivi, tipo mine e bombe a mano. Ma devo precisare che alla Scuola di Lecce non avevo mai partecipato ad esercitazioni pratiche di questo tipo, perché in alcuni casi ero riuscito a scansare alcune di quelle più rischiose essendo talora incaricato di svolgere altre funzioni attinenti alla mia carica di allievo scelto.

Un giorno, però, dovetti affrontare questo tema di fronte ai miei uomini, come era previsto dal programma di addestramento, e spesi diverso tempo per spiegare nel migliore dei modi la teoria di come esistessero tre tipi di approccio nell’affrontare il carro. Di fronte, mantenendo una posizione sdraiata e orientata rispetto al suo movimento, adeguandola nel caso mediante rotolamenti o spostamenti laterali del corpo; di fianco, affrontando di corsa la salita sul mezzo una volta arrivato all’altezza della posizione di partenza opportuna (forse il tipo di approccio più pericoloso avendo pochi appigli e l’ostacolo del movimento dei cingoli); dal retro, affrontando di corsa la salita sul mezzo facendo in questo caso attenzione alle griglie dei motori che avrebbero potuto provocare forti ustioni alle mani. Quest’ultimo tipo poteva essere una variante di quello frontale nel caso non fossero utilizzate mine magnetiche da applicare sotto lo scafo.

Conclusa la mia lezione si doveva passare all’esercitazione pratica con il carro M47 pronto a distanza con il motore acceso, con il pilota che aspettava l’ordine per muoversi poiché aveva già ricevuto precedentemente le opportune istruzioni. Fu allora che dal gruppo si fece avanti un caporale che così mi disse: «Sergente, Lei ha spiegato benissimo la teoria dell’assalto, ma se ci desse una dimostrazione forse lo capiremmo ancora meglio». Questa richiesta, plausibile e giusta, non mi sorprese molto sebbene avessi sperato fino all’ultimo momento di evitare di sottopormi all’esercitazione pratica, ma oramai essendo stato messo con le spalle al muro, e soprattutto per non

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LA LEZIONE DI CACCIA AI CARRI

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rimetterci la faccia, presi il coraggio di affrontarla con tutte le conseguenze del caso.

Iniziai dalla posizione frontale, con una certa preoccupazione anche se naturalmente il carro avanzava ad una velocità moderata e costante, mantenendomi in asse con il suo percorso facendo quei movimenti che avevo spiegato, e una volta superatomi affrontai la salita dal retro arrampicandomi fino alla torretta facendo la mossa di gettare la bomba al suo interno, e infine tornare a terra lanciandomi lateralmente da quell’altezza impressionante. Conclusi tutte le dimostrazioni con gran piacere e soddisfazione, sensazioni provate specialmente nella fase di abbandono del carro, dopo il salto che si concludeva con una capriola finale prima di riprendere la posizione distesa.

Una volta terminata la dimostrazione domandai se essa era stata esauriente o se fosse stato necessario ripeterla in qualche sua parte (mi era piaciuta a tal punto che sarei stato pronto anche a rifarla da capo), ma dato che la risposta fu affermativa si passò all’esercitazione vera e propria. Essa si concluse con un certo divertimento da parte di tutti e, soprattutto, con un solo uomo dolorante in infermeria per un brutto colpo ad un ginocchio procuratosi durante il suo assalto laterale.

Quest’esperienza la ricordo non solo come una bella lezione di pratica militare, ma soprattutto perché per me rappresentò un’importante lezione di comportamento, ossia quella di dare l’esempio quando si pretende dal prossimo l’esecuzione di un impegno; principio che in fondo il Tenente Cutrì aveva sempre dimostrato, ma che io avevo già dimenticato. Questo principio ho cercato poi di applicarlo anche nei rapporti della vita civile e di lavoro ma, purtroppo, essendo per carattere un accentratore non so se e in quali occasioni sono riuscito veramente a metterlo in pratica.

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I CONTATTI CON I FAMIGLIARI

La prima persona di famiglia che venne a trovarmi ad Opicina fu Ugo, come ho già ricordato in precedenza, il quale affrontò questo viaggio poco dopo il mio arrivo e il suo congedo, provenendo da Milano dove era andato a trovare Graziella. Lo scopo fu duplice: il primo per rivederci dopo parecchi mesi, dato che le nostre esistenze erano state dirottate per identici motivi (prima la sua a Cesano e poi la mia a Lecce), il secondo per consegnarmi quella piccola 500 che poi ho potuto felicemente utilizzare per tutta la durata del restante periodo del mio servizio militare.

Passammo insieme poco meno di due giorni, perché arrivò di pomeriggio e ripartì quello dopo dalla stazione di Trieste per il suo rientro a Firenze. Tra i posti che frequentammo e che anche lui ricorda ancora c’è il ristorante Malalan, un locale proibito o perlomeno sconsigliato a noi militari per motivi nazionalistici slavi, ma dove andammo a cena perché la cucina caratteristica era ottima, e Muggia, piccolo paese rivierasco con caratteristico porticciolo prossimo al confine di stato con l’allora Jugoslavia, dove mangiammo pesce in un locale un po’ particolare (una specie di capannone).

I miei genitori vennero in un secondo tempo ed essendo rimasti per qualche giorno, non mi ricordo però in quale albergo risedettero così come non mi ricordo a proposito di Ugo, ci furono più occasioni di fargli rivisitare o conoscere posti e locali di Trieste, come il Castello di Miramare e la trattoria il caìcio (nome di una piccola barca da pesca della laguna veneta), che non avevo scoperto da solo ma che mi era stata consigliata da Nino, un rappresentante milanese amico di famiglia. Non mancai anche in questo caso di portarli al Malalan, dove il babbo gustò talmente tanto il loro pollo fritto che volle tornare a mangiarlo una seconda volta.

Il 6 Dicembre mi fu concesso un permesso di 48 ore per Milano in occasione del fidanzamento ufficiale di Ugo con Graziella. Nel libro di ricordi su Castiglioncello ho raccontato questo stesso fatto come se

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I CONTATTI CON I FAMIGLIARI

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fosse avvenuto in occasione del loro matrimonio, forse perché questa era stata la vera motivazione con la quale lo avevo richiesto, mentre in realtà esso è avvenuto sempre a Milano, ma il 25 Giugno 1966. Ricorderò per sempre quel terribile viaggio d’andata che trascorsi completamente in piedi su un treno stracolmo, dove non si liberò neanche uno strapuntino, per di più in posizione disagiata e accanto ad una porta piena di spifferi.

Finalmente, terminato il periodo con il grado di Sergente AUC, arrivò il momento tanto atteso dell’unica e vera licenza, la licenza ordinaria in attesa della nomina, che trascorsi per lo più in una Firenze umida dopo un lungo viaggio, altrettanto umido e nebbioso.

Alla mia partenza da Trieste avevo già con me la nuova divisa d’ordinanza con i gradi di sottotenente. Il tessuto diagonale era stato fornito gratuitamente dal Maresciallo addetto ai materiali, ma era stata a nostro carico la fattura per la sua realizzazione presso la sartoria dell’Unione Militare, dove mi sottoposi a misure e prove. La spada, completa di pendaglio e dragona, e la sciarpa azzurra mi furono regalate (o le acquistai a prezzo stracciato?) a Firenze dall’amico Giorgio Giorgi, che aveva appena terminato il suo servizio. La sciarpa la sostituii successivamente con un’altra, con nappa più ricca, che era stata dimenticata in guardaroba da un generale ospite per un solo giorno del nostro circolo.

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GENNAIO – LUGLIO 1965 183° REGGIMENTO “NEMBO” A GRADISCA D’ISONZO

CASERMA UGO POLONIO

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LA X COMPAGNIA DEL III BATTAGLIONE

Quando arrivai alla mia nuova destinazione presso il distaccamento del rgt. “Nembo” nella Caserma Guido Polonio di Gradisca d’Isonzo, mentre il comando era di stanza a Cervignano del Friuli, ebbi subito due sorprese. La prima, in un certo senso gradevole, fu che dovevo trovarmi una sistemazione esterna non esistendo la possibilità di alloggio all’interno della struttura; la seconda, che invece mi fece molto arrabbiare, fu che ero stato destinato alla X Compagnia del III Battaglione, ossia che ero stato di fatto appiedato, in barba alla mia specializzazione.

Quando mi presentai al comandante di compagnia, che mi dette alcuni consigli pratici e m’introdusse in quelle che sarebbero state le mie future incombenze, gli feci presente che non capivo come mai ero stato assegnato alla sua compagnia e non ad una del IV Battaglione Meccanizzato. A seguito di queste mie rimostranze, in base ad una breve ricerca, venne fuori che era stato effettivamente commesso un errore al quale sarebbe stato posto rimedio al più presto.

La sistemazione esterna fu facilmente trovata con l’aiuto di colleghi di complemento anziani, quelli del precedente corso, e in particolare di un tenente dei “Cavalleggeri di Saluzzo”, Gruppo che all’epoca occupava una piccola parte della vasta caserma. Per quanto riguardò la destinazione finale ebbi abbastanza tempo per potermi ambientare e conoscere i miei superiori diretti e così, quando incontrai il comandante del IV btg., che mi assicurò un suo diretto interessamento per risolvere la questione, mi resi conto che in fondo mi sarei trovato meglio dove ero e rifiutai la possibilità del trasferimento.

Ripensandoci, oggi mi viene in mente che la principale causa del rifiuto dipese dal fatto che la mia compagnia era costituita da soldati dello stesso ciclo di addestramento, ossia appartenenti allo stesso scaglione di leva e, quindi, senza i così detti nonni e i conseguenti loro sgradevoli comportamenti, mentre nel battaglione meccanizzato mi

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LA X COMPAGNIA DEL III BATTAGLIONE

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sarei trovato molto probabilmente in una compagnia promiscua, dove avrei avuto una vita meno tranquilla e con minori soddisfazioni.

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LA LOCANDA “IL FRIULI”

Tra le possibilità di accomodamento la più comoda risultò la Locanda il Friuli perché offriva un bar, aperto praticamente a tutte le ore e attrezzato per fare colazione, un buon ristorante, e dove poteva essere utilizzato anche il sevizio di lavanderia, tutte cose che permettevano di essere liberi e indipendenti da qualsiasi obbligo si presentasse. Inoltre, sul retro dell’edificio esisteva un ampio cortile interno, molto utile per parcheggiare la 500 che oramai utilizzavo abbastanza raramente e solo nei giorni di libertà, perché per raggiungere la caserma potevamo usufruire di una macchina di servizio.

Dopo aver valutato la predetta situazione con Giancarlo Antonello, con il quale avevo sempre condiviso le stesse destinazioni, ci trovammo d’accordo nel prendere insieme una camera doppia presso questa locanda, che poi abbiamo mantenuto per tutta la durata della nostra permanenza a Gradisca. Nella stanza avevamo un lavandino, mentre dovevamo utilizzare un bagno con doccia comune, ma posto nel corridoio proprio di fronte alla nostra camera. Col passare del tempo apprezzammo ancora di più la posizione centrale della locanda, a due passi dalla piazza dove eravamo soliti fare due passi o sostare in un caffè, oppure andare al cinema, e dove oltretutto potevamo essere raccattati dalla macchina di servizio per andare in caserma di mattino e tornare alla pensione di sera, una volta liberati da impegni.

Gli inconvenienti di questa sistemazione erano molto pochi. Uno era la rara eventualità della mancanza temporanea dell’acqua corrente, che non abbiamo mai capito se dipendeva dall’impianto privato o dall’acquedotto, alla quale sopperivamo sciacquandoci la bocca dal dentifricio con del Pinot grigio, e rinviando la barba e il resto una volta arrivati in caserma. La presenza di un cartone di bottiglie di vino sotto il lavandino dipendeva dal fatto che non ci dispiaceva qualche volta berne un bicchiere, ma era dettato soprattutto dal fatto che costava meno dell’acqua minerale, anche perché lo prendevo alla cantina sociale di Farra d’Isonzo, dove ogni tanto facevo una scappata

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LA LOCANDA “IL FRIULI”

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per acquistare e far spedire a mio padre una scelta di vini locali. Un secondo inconveniente era di dover trovare un altro bagno libero nell’evenienza di sedute prolungate in quello che ritenevamo nostro. Un terzo inconveniente, notevolmente più grave, era che anche alle 5 del mattino ero costretto, ma penso anche altri colleghi, a fare delle peripezie per uscire dalla locanda dovendo attraversare il bar dove immancabilmente c’era qualcuno, della famiglia o cliente, che mi voleva per forza offrire una grappa!

C’è stato un periodo che avendo litigato con l’ufficiale gestore della mensa ho frequentato più assiduamente del solito il ristorante della locanda. In quelle occasioni mi sono tolto la voglia di mangiare cacciagione in tutte le salse, ma la carne era soprattutto di capriolo. All’epoca andavo ancora a caccia e con il figlio dei proprietari, cacciatore anche lui, nacque una certa amicizia che portò al fatto che quando mi rimaneva qualche cartuccia dalle esercitazioni a fuoco gliele regalavo poiché aveva un fucile dello stesso calibro. Un giorno, però, ringraziandomi mi disse di no, che bastavano, perché le munizioni che già aveva ricevuto sarebbero state sufficienti per molto tempo. Mi spiegò, infatti, che secondo le regole locali gli toccava normalmente un capriolo e mezzo ogni anno, il che voleva dire, che se tirava giusto, avrebbe sparato uno o due colpi a stagione venatoria.

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GRADISCA E DINTORNI

Appena mi fui un po’ ambientato nella nuova destinazione mi accorsi la diversa aria che tirava. In particolare trovai molto diversi i rapporti con la popolazione locale rispetto a quelli avuti precedentemente. Qui, infatti, i sentimenti patriottici erano molto spinti, specialmente nella zona di Gorizia, dove una parte della città era stata assegnata alla Jugoslavia, e dove la manifestazione più evidente era rappresentata dalla scritta W L’ITALIA, situata sul versante del Monte Sabotino poco sotto la casermetta, in contrapposizione a NAS TITO situata oltre confine, ambedue composte con blocchi di calcari bianchi e ben visibili sul terreno anche da molta distanza. Da quanto detto si capisce che Gorizia è stata una tra le località che ho visitato in quel periodo.

Durante la bella stagione le giornate completamente libere le ho trascorse quasi sempre in compagnia di Giancarlo, generalmente a Duino o Sistiana, località ambedue sul mare e caratterizzate da costa rocciosa che mi ricordava lontanamente quella di Castiglioncello. Ma non sono mancate le visite agli scavi archeologici di Aquileia e alla vicina e caratteristica cittadina di Grado, raggiungibile con un lungo tratto di strada attraverso la laguna, ma per me poco attraente per fare bagni in quel mare che mi sembrava tanto fangoso. Una volta mi volli togliere anche la curiosità di vedere Palmanova, della quale rimasi molto deluso per la parte urbana interna alla cittadella, mentre mi piacquero molto le sue strutture difensive.

La gita più lunga che abbiamo fatto insieme fu quella di un intero giorno a Tarvisio; non ricordo perché fu scelta quella località, ma forse fu Giancarlo a proporla perché lui sentiva più di me attrazione per l’ambiente alpino, e ci spingemmo fino ai Laghi di Fusine che era una delle maggiori attrattive locali. Facemmo pic-nic sul posto e girellando lì intorno ad un certo punto mi colpirono alcune rocce un po’ particolari che affioravano dal terreno e che volli andare a controllare da vicino per capire di che tipo fossero. Con sorpresa scoprii che in realtà erano delle postazioni fisse, costruite a regola

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GRADISCA E DINTORNI

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d’arte in cemento e acciaio, e mi resi solo allora conto che ci trovavamo molto vicini al confine jugoslavo.

A proposito di postazioni fisse: in tutta la zona del confine orientale ne esistevano molte che erano gestite da Battaglioni d’arresto, come quello di stanza a Farra d’Isonzo. Nella zona di pianura passavano completamente inosservate, mentre erano più evidenti le opere di sbarramento anticarro, perché le postazioni fisse erano mascherate sotto covoni e pagliai o in casotti tipo quelli di manutenzione stradale dell’ANAS. Bastava tuttavia chiedersi come i primi due potessero mantenersi così integri in tutte le stagioni e, d’altra parte, poteva capitare di passare nel momento della manutenzione di una postazione del terzo tipo, quando le pareti del casotto erano ribaltate come una scatola a sorpresa e dei soldati con scovolo e pezze pulivano il cannone di una torretta di carro armato interrata.

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LA BERETTA 22 LR

In una delle visite fatte a Gorizia acquistai da un armaiolo una pistola Beretta calibro 22 LR per evitare di portare quella d’ordinanza che temevo di perdere, poiché in qualche circostanza mi era capitato che fosse uscita dalla fondina, anche se era quasi impossibile che si sganciasse dal cordino in tela. Questa sostituzione mi costò un rimbrotto, fatto per la verità sotto voce e in forma amichevole, da parte di un generale che risiedeva saltuariamente in caserma e che una notte, come ufficiale di picchetto, dovetti accogliere di persona perché essendo in borghese non fu riconosciuto dalla guardia che lo lasciò fuori dell’ingresso. Si accorse che la mia pistola non era quella d’ordinanza nel momento in cui io mi scusavo per l’accaduto, mentre lui mi faceva i complimenti per il comportamento del militare. Evidentemente, aveva posato gli occhi proprio su quel punto ed era facile capire la sostituzione perché il moschettone del cordino era attaccato alla tela della fondina e non al calcio dell’arma. L’occasione mi servì a ricordarmi per il futuro di lasciarla in armeria, come in genere avevo sempre fatto, e di portarla a spasso solo durante le uscite sull’altopiano.

Un altro motivo del suo acquisto, in verità, era proprio quello di poterla usare sul Carso per prendere un fagiano o qualcosa d’altro, se mi fosse capitato a tiro, ma che non mi è mai successo tranne una sola volta. Quell’unico approccio ravvicinato che ho avuto con della vera selvaggina avvenne il giorno che vidi un capriolo entrare in un boschetto di noccioli sul fondo di una piccola dolina che si trovava poco distante dal punto dove il nostro gruppo si stava riposando. Spinto dal mio istinto di cacciatore, ma sollecitato anche da qualcuno dei ragazzi che lo avevano visto, mi avvicinai ed entrai tra gli arbusti con la pistola in pugno, trovandomi dopo solo pochi passi a meno di due metri dagli occhi languidi di una femmina con il suo cucciolo che mi guardavano apparentemente per niente impauriti. Questo sguardo mi fece un’enorme impressione e, dopo qualche attimo d’immobilità assoluta, mi girai su me stesso e iniziai a tornare indietro, pieno di

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LA BERETTA 22 LR

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vergogna per il solo fatto di aver pensato di volere abbattere quella stupenda creatura. Poco dopo, quando raggiunsi il gruppo che non aveva visto né udito più nulla, raccontai che il capriolo doveva essere scappato sul retro, perché non ero riuscito a rintracciarlo.

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ALCUNI ASPETTI DELLA VITA IN COMPAGNIA

I militari della X cp. appartenevano allo stesso scaglione ed erano arrivati dai Centri Addestramento Reclute (CAR) al reggimento da poco tempo; pertanto eravamo tutti quanti, truppa, sottufficiali e ufficiali, molto impegnati in un ciclo di addestramento piuttosto complesso che contemplava tra lezioni ed esercitazioni, interne ed esterne, quello che in pratica anche noi avevamo dovuto fare alle scuole allievi ufficiali di complemento. Nel mio caso, però, è da tener presente che essendo stato addestrato per istruire e comandare truppe meccanizzate mi trovavo talora impreparato nello svolgere i compiti attuali, che di conseguenza mi potevano diventare più faticosi.

I periodi più piacevoli erano quelli trascorsi sul Carso dove effettuavamo spesso esercitazioni in bianco, sfruttando anche opere difensive risalenti per lo più al periodo della Grande Guerra. Durante queste uscite abbastanza frequentemente capitava di imbattersi in ordigni inesplosi e, talvolta, all’interno di trincee addirittura in ossa umane calcinate, perché era lì che qualche soldato andava a cercare asparagi selvatici da regalarmi e con i quali poi mi facevo fare dalla cuoca delle gustose frittate. In ambedue i casi, i punti di ritrovamento si evidenziavano nel migliore dei modi, in genere con pinnacoli fatti di pietre, e successivamente li segnalavamo agli uffici competenti dando le relative coordinate. Gli ordigni erano recuperati da una squadra di due strani individui in abiti borghesi e trasferiti in un poligono dove erano fatti esplodere, mentre i resti umani dal personale di una sezione apposita dipendente dal Sacrario di Redipuglia.

Ricordo ancora il giorno in cui quella strana coppia di guastatori era a pranzo vicino al mio tavolo al ristorante della locanda e quando, andando a prendere nel cortile la 500, mi trovai il loro furgone parcheggiato proprio lì accanto, con nel cassone un bel mucchio di materiale bellico inesploso semicoperto da un telone cerato. Rientrato dentro, abbastanza arrabbiato di questo fatto, feci notare in modo brusco che non trovavo per niente sicuro lasciare incustodito quel tipo di materiale, ma la risposta impertinente che ricevetti fu che non c’era

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alcun pericolo, salvo che qualcuno non si mettesse a prendere a martellate le spolette!

Una delle mansioni che mi capitava assai spesso era quella di sovrintendere anche al rancio, che al Nembo si svolgeva in condizioni veramente invidiabili rispetto ad altri reggimenti. I soldati, infatti, sedevano a tavoli coperti con tovaglie bianche, serviti in piatti e scodelle di porcellana, con bicchieri di vetro e posate d’acciaio, una bottiglia da mezzo litro di vino a pasto ogni due e formaggio grattugiato in tavola. Questo che ho appena descritto sembrerebbe una condizione normale per gente con una certa educazione e livello di vita civile, ma vi sarebbe apparso fuori del tempo se aveste potuto vedere il comportamento, per lo meno per i primi tempi, di alcuni degli avventori. In pratica, per farvi un paio di esempi, ho dovuto insegnare ad usare le posate a chi era abituato a addentare una braciola e tagliarne un boccone con il coltello; proibire di bere direttamente dalla bottiglia e convincere ad usare il bicchiere, facendo oltretutto presente che il suo collega non lo beveva perché astemio, ma perché non se ne giovava. La mia sorpresa fu che tra questi individui non c’erano solo pastori calabresi della Sila, ma anche diversi veneti, che fino a quel momento avevo ritenuto più civili.

L’orario del rancio era fisso, sia per le attività svolte in caserma che per le esercitazioni svolte all’esterno, per questa ragione, se ero di servizio, esso non concordava mai con gli orari della mensa ufficiali. Di conseguenza era abbastanza frequente che per soddisfare anche la mia fame dovevo approfittare di mangiare al volo un piatto di pasta o di lasagne insieme ai soldati, fatto che non sfuggiva mai agli occhi dei soliti impertinenti e che era sempre rimarcato in maniera scherzosa con la frase «qualcuno s’abbuffa al Nembo!».

Durante questo servizio mi capitò di notare come ad uno dei caporali piacesse tanto non solo fare il suo, ma offrirsi anche in sostituzione di altri per svolgere il servizio di caporale di giornata. Per questo motivo mi misi a controllarlo, e in un paio di volte riuscii a capire che lo scopo era esclusivamente quello di scolare i resti di vino nelle bottiglie alla fine dei pasti. Come avevo già fatto in altri casi, nei quali non avevo saputo che pesci pigliare, anche per questo mi consigliai con il Maggiore aiutante di campo il quale mi assicurò che

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gli avrebbe fatto passare il vizio. «Come?»: trasferendolo temporaneamente in una Compagnia di disciplina, di cui non immaginavo neanche l’esistenza. Dopo un paio di mesi, al suo rientro, quel ragazzo venne a ringraziarmi, mentre io mi aspettavo chi sa quale astio potesse aver accumulato per quel mio intervento.

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I SERVIZI SALTUARI E ALTRE INCOMBENZE

Oltre alle mansioni che noi ufficiali subalterni dovevano normalmente sbrigare nelle proprie compagnie, esistevano vari altri servizi che dovevamo svolgere a turno che riguardavano il battaglione o la caserma, e che potevano impegnarci anche al di fuori delle sue mura.

Uno di questi era quello di Ufficiale di Picchetto, della durata di ventiquattro ore, al quale spettavano varie mansioni tra le quali il controllo della sicurezza della caserma, in particolare dell’entrata e l’uscita di qualsiasi persona e mezzo. Per svolgere questo servizio l’ufficiale aveva alle sue dipendenze la guardia, ossia una squadra di soldati comandata da un capoposto che doveva schierare il picchetto all’ingresso di ufficiali superiori e, a orari prestabiliti, doveva effettuare giri di ispezione e sostituire le varie sentinelle distribuite all’interno della caserma, tra le quali l’addetta al deposito carburanti. Il servizio, che prevedeva anche il controllo formale dei soldati in libera uscita, non era in genere particolarmente oneroso, ma semmai piuttosto noioso, specialmente durante le ore notturne.

Una volta, tuttavia, successe un fatto molto grave proprio mentre Giancarlo era di servizio. Al mattino presto, mentre uscivo dall’edificio della compagnia, fui richiamato dalle urla incomprensibili di un cameriere del circolo che veniva correndo dalla cappella che si trovava di fronte e che scappò via senza darmi la possibilità di capire il motivo del suo comportamento. Poiché ero riuscito a comprendere solo qualche parola sconnessa tra cui «…altare…» mi precipitai in quella direzione senza vedere nulla, finché, affacciatomi dietro lo stesso, mi trovai di fronte il corpo di un caporal maggiore dei Cavalleggeri di Saluzzo suicidatosi da poco con un colpo della sua arma di ordinanza. Questo fatto, scatenato da motivi famigliari come il ragazzo aveva scritto nella breve lettera che aveva lasciato posata sull’altare, nella quale per prima cosa chiedeva scusa del suo comportamento al comandante del Gruppo, fu molto sentito da tutti in caserma, ma in particolare da Giancarlo che durante

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I SEVIZI SALTUARI E ALTRE INCOMBENZE

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l’inchiesta che seguì si ritrovò a dover spiegare come mai non si fosse accorto di quanto successo a quel capoposto.

Il servizio di Ufficiale di Vigilanza in città era un altro incarico saltuario che consisteva nella semplice mansione di frequentare in divisa gli ambienti urbani pubblici, sia all’aperto che al chiuso, per controllare il buon comportamento dei militari in libera uscita e ricorrere, se necessario, alla ronda la quale era alle sue dipendenze. Di fatto questo servizio era abbastanza piacevole e bastava la sola presenza dell’ufficiale perché la vita cittadina scorresse tranquilla.

Un servizio invece abbastanza delicato e impegnativo era quello svolto dall’Ufficiale d’Ispezione in polveriera, generalmente effettuato di notte, con accesso all’interno della struttura condizionato dalla conoscenza di una formula di riconoscimento (parola d’ordine) che era trasmessa tramite lettera con indicati anche la località e l’orario dell’ispezione stessa. Ricordo quella che ho eseguito a notte fonda nella polveriera di Cormòns, situata in una zona ricca di selvaggina che non era solita fermarsi, e tanto meno avrebbe potuto rispondere, all’intimazione dell’altolà di una sentinella nervosa e timorosa. In quell’occasione, avendo saputo da altri colleghi come gli fosse capitato di trovare alcune sentinelle con qualche colpo in meno nella dotazione, proprio perché sparati in momenti di tensione per rumori prodotti da caprioli ed altri animali di grossa taglia, mi premunii portandomi dietro alcune cartucce di fucile. Ed effettivamente mi ritrovai due casi di questo genere che piuttosto di registrarli, creando magari qualche problema ai soldati, risolvetti la questione sostituendo i colpi mancanti nei caricatori e scrivendo nell’apposito registro “Niente da segnalare”.

L’incarico di Comandante di pattuglia sul confine per fortuna ho dovuto svolgerlo una sola volta, per di più anch’esso in orario notturno, e posso dire sinceramente che mi è bastata quell’unica occasione. Il servizio consisteva nel controllare un tratto di confine con una pattuglia in assetto di combattimento (anche se i caricatori delle munizioni e le bombe a mano erano sigillati in sacchetti di stoffa) composta da una squadra con un ufficiale medico, due infermieri e radiotelegrafista al seguito. Fummo trasportati con più mezzi al punto di partenza e ripresi successivamente dagli stessi in

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I SEVIZI SALTUARI E ALTRE INCOMBENZE

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quello stabilito d’arrivo. Il compito consisteva nel percorrere il tratto assegnatoci segnalando eventuali anomalie, con l’ordine tassativo di stare però a debita distanza dal confine per non correre il rischio di superarlo, dato che dall’altra parte lo stesso controllo era effettuato da militari jugoslavi (coscritti per tre anni) da postazioni fisse e con una preparazione psicologica che non li avrebbe certamente fatti dubitare se era il caso di spararci o meno.

Il motivo perché ritengo che quell’unica volta sia stata per me più che sufficiente è il seguente. Tra i miei uomini c’erano due sardi che erano rientrati in compagnia dopo aver fatto un corso di sopravvivenza, i quali mancarono ad un primo controllo, ma che poi mi ritrovai presenti ad un secondo. La vera causa della loro temporanea assenza, che giustificarono con un’impellente necessità corporale, in realtà riuscii a capirla solo il giorno dopo facendo un’ispezione nelle camerate e trovando delle cacche di pecora all’interno di una latrina. Questi due farabutti avevano avuto il coraggio di andare a prenderne una da un gregge che all’imbrunire si era visto pascolare oltre confine e, non ho mai capito come, a portarsela in caserma dove evidentemente l’avevano parcheggiata. In effetti, ho ricostruito tutto ciò basandomi sui fatti, ma non sono mai riuscito a fargli sputare la verità e a sapere che fine avesse fatto la pecora, nonostante minacce di punizioni che però non gli ho mai inflitto, perché in fondo ho provato una certa ammirazione per le loro gesta.

Nel IV Battaglione, di stanza nella stessa caserma, c’era un mio collega fiorentino che era sempre stato fin da studente noto per le sue simpatie politiche di sinistra, e a causa di ciò gli erano preclusi alcuni servizi coperti da una certa riservatezza, come le ispezioni in polveriera, la pulizia delle postazioni, le pattuglie sul confine, ecc. In pratica poteva fare l’ufficiale di complemento ma non in quella zona! E poiché il Comandante Pacini aveva ben fisso nella sua testa il principio che i panni sporchi si lavano in famiglia, intendendo con questo tra toscani, talvolta mi veniva recapitata la famosa busta di colore rossastro sigillata, con gli ordini di servizio e l’eventuale parola d’ordine, anche quando questi servizi e ispezioni non mi sarebbero toccati per turno.

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I SEVIZI SALTUARI E ALTRE INCOMBENZE

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Nel periodo trascorso al Nembo ho dovuto assolvere anche due incombenze. La prima, particolare, è stata di accompagnare alla scuola comunale di Gradisca il gruppetto di soldati che avevano seguito i corsi scolastici interni, in modo che potessero sostenere gli esami di licenza elementare di fronte ad un’apposita commissione. Gli esami si conclusero felicemente per tutti, anche se qualcuno ebbe bisogno di un po’ d’aiuto.

L’altra, imprevedibile, fu quella di dover accompagnare un militare per una convocazione presso la caserma dei Carabinieri, di cui almeno io non ero a conoscenza del motivo e a suo dire neanche lui. Questa seconda circostanza fu per me un’esperienza molto impressionante, perché mi trovai in mezzo alle fasi di un interrogatorio vero e proprio, condotto ad arte dal maresciallo, che portò alla confessione di un furto. Il fatto si riferiva a dei barattoli di vernice prelevati da una cantoniera ANAS che il ragazzo, di mestiere imbianchino, aveva commesso prima di essere richiamato assieme ad un suo amico, già arrestato. Mi ricordo che all’inizio, dopo i convenevoli, ascoltavo distrattamente i discorsi tra i due che mi sembravano molto generici e che non facevano presagire neanche lontanamente dove volessero arrivare, tanto che me ne stavo appartato, addirittura a guardare fuori della finestra per dare una parvenza di voler rimanere estraneo alle loro questioni. Poco dopo però mi accorsi di un cambiamento d’atmosfera, dovuto al diverso tono di voce e all’incalzare delle domande del maresciallo, che mi coinvolse sempre più lasciandomi senza fiato fino alla conclusione dell’interrogatorio. Rimasi così impressionato da non sapere come comportarmi con il ragazzo durante il rientro in caserma, pensando solo al fatto che al suo congedo ci sarebbe stato un cellulare ad aspettarlo fuori del cancello, e ciò mi dispiaceva moltissimo perché lo avevo sempre ritenuto a posto.

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LA SCELTA DEI CANDIDATI PER IL CORSO CAPORALI

Venne un giorno in cui mi fu richiesto di stilare una lista di soldati ritenuti meritevoli di essere promossi al grado di caporali. Li scelsi basandomi sulle personali conoscenze che avevo acquisito su quei ragazzi, compreso l’armiere (un tipo in gamba ma molto riservato) che considerava la sua permanenza obbligata al Nembo paragonabile ad una vacanza in un albergo di lusso rispetto ai tre anni che aveva trascorso nella Legione Straniera.

Dopo un po’ di tempo, a corso ormai iniziato, fui convocato dall’aiutante di campo (che svolgeva anche mansioni di servizio informazioni) che criticò le scelte che avevo fatto dicendomi: «tu n’avessi azzeccato uno giusto!». Insomma, pur non essendo d’origini toscane, mi volle far capire chiaramente che avevo fatto una grande bischerata per non aver controllato il libretto nero in cassaforte dove erano registrati i militari di certe tendenze politiche, o con familiari ritenuti tali, i quali erano sottoposti a delle restrizioni.

Trovai varie motivazioni per spiegare le mie scelte, tra cui quella per me più importante, ossia che in caso di necessità avrei preferito avere alle spalle gente di cui fidarmi, e aggiunsi anche che ormai ritenevo troppo tardi per ritirare dal corso quelli ritenuti inidonei e che se lo avessi fatto ci avrei rimesso sicuramente la faccia dinanzi alla truppa. Evidentemente fui abbastanza convincente e le cose restarono com’erano, con il consiglio di consultare quel libretto se si fosse presentata in futuro un’eventuale altra occasione di selezione. Non me ne ricapitarono, ma restai convinto del mio parere, ossia che l’applicazione di quella regola era molto limitativa e talora anche profondamente ingiusta.

Solo in un caso mi sono pentito di averne scelto uno che non si dimostrò all’altezza del suo compito. Questo fatto avvenne in occasione di un rancio distribuito durante un’esercitazione sul Carso dove, per un inconveniente alla cucina da campo che avrebbe fatto perdere troppo tempo, detti l’ordine di distribuire per primo il secondo già pronto e viceversa, con la conseguenza che alcuni soldati ritennero

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inammissibile la mia scelta e si misero a protestare apertamente, con la conseguenza di doverli punire con la consegna.

Quel caporale prese la loro parte e sebbene lo avessi richiamato alle sue responsabilità, dopo un po’ di tempo, mentre ci spostavamo separati da una siepe, sentii che lui continuava a discutere con altri di quel fatto. Allora persi completamente il controllo, e sfondata la siepe lo agguantai e strattonandolo gli dissi a brutto muso che quel comportamento non poteva essere assolutamente scusato in un graduato che doveva dare il buon esempio e, strappatogli i gradi, che lui non meritava di portarli.

Non so come sarebbe andata a finire se un collega non fosse intervenuto a fermarmi, ma ho ancora talmente ben presente questo fatto, e il mio comportamento di cui non sono stato per niente fiero, che ricordo persino quale fosse il rancio di quel giorno: lasagne al forno per primo e pollo arrosto con patate per secondo. Quell’esercitazione evidentemente doveva servire anche per i cucinieri, perché normalmente, se dovevamo passare fuori l’intera giornata, erano distribuite le razioni da combattimento contenute nel Pacco K che dividevamo in due.

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IL CAMPO MOBILE INVERNALE

In prossimità dell’esecuzione del campo invernale mi fu comandato di eseguire una serie di sopralluoghi lungo il tracciato prescelto per verificare quali strutture ricettive potevano essere utilizzate per i vari campi mobili durante le marce di avvicinamento a quello stabile finale, nei cui pressi si sarebbero svolte le esercitazioni a fuoco. Il tracciato, che sinceramente ricordo con poca precisione, si snodava per gran parte lungo la fascia pedemontana tra Meduno, Maniago, Aviano e Budòia, per poi affrontare la zona collinare e montana attraversando il Bosco del Cansiglio fino ai piccoli paesi di Broz, Tambre e Tambruz nella zona di Alpago. Nel fare questa ricerca ero tuttavia abbastanza facilitato dal fatto di conoscere alcune strutture già utilizzate in precedenza, ma in ogni caso dovevo verificare se i proprietari sarebbero stati ancora disponibili a cederle per quello scopo.

Dopo i miei primi sopralluoghi, durante i quali dovetti prendere in considerazione più possibilità in funzione delle varie tappe e sondare soprattutto la disponibilità degli altri proprietari, ne seguì uno con il Ten.Col. Pacini e due marescialli di fureria che, rifacendo tutto quel percorso, decisero le basi definitive e presero gli accordi per il rimborso dei danni.

Queste strutture erano dei più diversi tipi, perché dovendosi trovare a distanze ben definite secondo il programma di marcia, non sempre erano ottimali per accogliere un’intera compagnia e tutto il personale ausiliario, composto anche da autisti, cuochi ed altri specialisti. Così la tipologia era molto varia e comprendeva magazzini, agglomerati rurali, edifici residenziali sparsi, grandi stalle, gruppi di malghe e, a Tambre, addirittura anche un malandato albergo chiuso per il periodo invernale.

Concluso il precedente incarico mi fu assegnato quello di comandante del campo, ossia quello di responsabile dell’organizzazione delle complesse operazioni connesse alla predisposizione di ciascun campo mobile e di quello stabile, oltre a

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IL CAMPO MOBILE INVERNALE

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vari altri servizi. La prima delle operazioni fu quella svolta in caserma che prevedeva il controllo e la presa in carico di tutta la dotazione di prodotti non deperibili e dei cosiddetti generi di conforto per tutto il personale (oltre 140 uomini) e per la durata dell’intero campo invernale (poco meno di due settimane), che furono stivati su un camion adibito a dispensa che avrebbe seguito la colonna in tutti i suoi trasferimenti, sempre sorvegliato da guardia fissa.

Questi prodotti comprendevano vari tipi di pasta, formaggi, olio d’oliva, salumi diversi, caffè, cioccolato, cordiale Branca in razioni singole e sfuso, ed altri, mentre gli alimenti deperibili come pane, carne, vino, verdure e frutta dovevano essere prelevati presso centri militari o civili convenzionati in base alle necessità, così come il rifornimento di carburanti. La cosa più sorprendente fu che secondo il metodo di valutazione delle esigenze dietetiche, calcolate in base alle presumibili peggiori condizioni climatiche e ambientali che avremmo potuto incontrare, mi ritrovai assegnata una quantità apparentemente esorbitante d'olio d’oliva e di cordiale, ambedue in damigiane, mentre altri prodotti più correnti ed economici furono veramente valutati a grammi/uomo, senza lasciare spazio ad eventuali errori nel loro utilizzo. Il poter disporre senza ristrettezze di alcune materie prime, soprattutto quella del cordiale, mi fu molto utile perché lo potei fortunatamente utilizzare come merce di scambio per risolvere alcuni problemi pratici, come la volta che dopo una lunga trattativa con un benzinaio ottenni del carburante (non mi ricordo in che rapporto), perché mi ero deciso a rifornirmi tardi e troppo lontano dal punto convenzionato, e soprattutto perché non avevo intenzione di pagarlo di tasca mia.

Quando lasciai la caserma con l’autocolonna ero stato avvisato dal maresciallo addetto ai servizi di approvvigionamento e alla gestione delle cucine che per i primi due giorni avrei dovuto sbrigarmela da solo, perché lui non poteva raggiungerci prima del tardo pomeriggio del giorno successivo. Sebbene mi avesse impartito tutte le istruzioni e spiegato dove rifornirmi durante la sua breve (per lui!) assenza, combinai un gran casino nell’acquisto della carne, lasciandomi infinocchiare dal proprietario di un modernissimo mattatoio (dal quale non vedevo l’ora di uscire per motivi che preferisco non ricordare né

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descrivere) che mi suggerì un determinato quantitativo di ottimo spezzatino di vitello.

Al momento che il maresciallo ci raggiunse, fatti i suoi conti, mi fece notare che la dotazione di carne che avevo fatto distribuire in un solo rancio era quella che avrebbe dovuto servire per tre, ma mi confortai perché non si preoccupò più di tanto; infatti, a suo dire, avrebbe trovato facilmente il modo di rimediare ricorrendo alle scorte che avevamo al seguito. Andò meglio con il rifornimento del vino, che prelevai in un magazzino militare presso la caserma di Bersaglieri accanto (o dentro?) alla base aerea di Aviano, perché sul suo quantitativo non c’era verso di sbagliare.

La mia incombenza principale era quella di raggiungere la base prescelta con l’autocolonna durante la marcia di trasferimento della compagnia e di attrezzarla prima che la truppa arrivasse a destinazione, in modo che ciascun militare trovasse già preparato il proprio posto letto, costituito da materassini già gonfiati, coperte e zaino personale con il nome. Ultimata questa fase seguiva l’impegno di percorrere a ritroso il tracciato di marcia, sia in caso di trasferimento diurno che notturno, per ricollegarmi alla coda della colonna e poi raccattare e trasportare i militari infortunati, generalmente impediti da problemi di vesciche ai piedi.

Queste operazioni erano abbastanza impegnative, soprattutto per il tempismo che era richiesto nella loro esecuzione, e non davano un attimo di respiro perché si susseguivano di giorno in giorno, abbandonando l’uno e andando a predisporre il successivo. L’unico periodo di riposo, almeno per noi che gestivamo i campi mobili, sarebbe stato quello finale nella zona di Alpago, dove erano previste le esercitazioni a fuoco. Questo campo stabile, tuttavia, dovette essere abbandonato dopo un paio di giorni che era stato organizzato a seguito di forti nevicate che resero molto difficoltosi i movimenti di mezzi e uomini e, soprattutto, impedirono di eseguire le esercitazioni. Infatti, la maggior parte delle bombe a mano e dei proiettili di mortaio non sarebbero esplosi, come fu verificato eseguendo alcune prove, poiché il loro impatto era ammortizzato dallo spesso manto nevoso. Nell’occasione di verificare lo stato di praticabilità del poligono mi capitò di riconoscere nella neve delle inconfondibili orme fresche

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d’orso, ma quando lo dissi a colleghi e superiori a mensa nessuno mi volle credere.

La compagnia, di conseguenza, dovette trasferirsi altrove e gli fu trovata ospitalità presso una ex filanda, costituita da più edifici dei quali il più interessante era quello completamente costruito in legno su più piani e con ballatoi esterni, ma utilizzabile per i nostri scopi solo al piano terreno perché gli altri erano tutti attrezzati con stuoie per l’allevamento dei bachi da seta. Questo campo si trovava nella campagna nei pressi di Cappella, mentre le esercitazioni a fuoco furono eseguite in un poligono situato sul versante idrografico destro della valle del Fiume Soligo, località situate rispettivamente qualche chilometro ad Est e ad Ovest di Vittorio Veneto.

Qui, come previsto, ebbi un po’ di respiro e potei trascorrere qualche giorno tranquillo assieme a degli autisti ed altri soldati impegnati nelle mansioni del campo che si prestavano, per non annoiarsi, chi a fare barba e capelli, chi a svolgere piccole incombenze come andare ad acquistare sigarette o qualche genere alimentare presso uno spaccio poco distante, tra cui aringhe affumicate che riscaldavamo alle fiamme di un piccolo fuoco e annaffiavamo con vino della stessa provenienza verso metà mattinata.

All’incirca a quell’ora di mattina di uno di quei giorni arrivò improvvisamente un generale che cercava informazioni per raggiungere l’ospedale da campo del reggimento, che doveva trovarsi da quelle parti. Questo successe mentre il mio collega Rodighiero, invece di starsene in riposo per la dichiarata indisposizione, se n’andava come di solito in giro per le basse colline a caccia di lepri con il MAB, senza averne mai presa una anche se spesso si sentivano dei colpi; ed io, d’altra parte, mi rilassavo, godendomi la rasatura mattutina e attendendo che fosse pronta la solita aringa stando sbracato su una sedia e in tenuta poco formale, senza giacca a vento e con il solo giubbotto imbottito con la conseguenza che la fondina della pistola mi ciondolava da un lato per il cinturone troppo lento. Fortunatamente il MAB in quel momento tacque, ma la situazione al contorno e la mia tenuta in particolare non mancarono di sorprendere il generale che, quasi senza parole, riuscì a richiamarmi per il mio

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aspetto che trovava, a suo parere, più simile a quello di un cowboy e sicuramente non conforme a quello di un ufficiale.

Tra i ricordi più chiari di questo periodo c’è quello della notte trascorsa in una grande e moderna stalla, che poi alla fine delle manovre fu ritenuta dai soldati la sistemazione più confortevole e gradita fra tutte quelle usate. Il motivo era stato il calore emanato dal numeroso bestiame, costituito da mucche e prole, e forse anche da una certa aria di casa per molti di loro, come per quel ragazzo che fu trovato addormentato addirittura abbracciato ad un vitellino. In quella stessa occasione io usufruii invece di un vero letto sistemato in una stanza all’inizio della stalla, di solito utilizzata da un guardiano, mentre alcuni autisti e qualche soldato preferirono trovare ricovero in un fienile accessibile solo con una lunga scala a pioli, dove bisognava ben ricordarsi dove uno si trovava per non correre il rischio di cascare di sotto e rompersi il collo.

Un altro fatto che ho molto presente è quello che successe in un piccolo paese di poche case dove facemmo tappa poco dopo aver iniziato il percorso montano, di cui non ricordo il nome, dove le cucine da campo furono sistemate in uno spiazzo sterrato con una parvenza di piazza. Avvenne, come se ci fosse stato un invito formale, che dopo aver servito il primo alla coda dei militari i cucinieri si trovarono davanti una nuova fila formata da paesani di tutte le età, che con scodelle e forchette in mano aspettavano pazientemente il loro turno. Per il primo piatto, come di solito, non c’erano in genere ristrettezze e la truppa fece a meno di riprenderne, ma per il secondo si notò chiaramente l’intenzione di molti di farsi ridurre la razione in modo che potessero goderne anche quei poveretti.

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I PICCHETTI D’ONORE

In ricorrenza di celebrazioni relative ad eventi avvenuti durante la guerra del 1915/18, o di altre festività nazionali e delle Forze Armate, erano di solito svolte delle parate e manifestazioni con schieramenti di forze più o meno grandiose, secondo la loro importanza e la località dove si dovevano svolgere.

Nei casi più semplici si trattava di partecipare a cerimonie di carattere prevalentemente civile con la presenza di un Picchetto d’onore, come mi accadde di fare nel caso della commemorazione dei Caduti del Monte San Michele, battaglia avvenuta nel giugno 1916 nella quale morirono alcune migliaia di uomini a seguito di attacco da parte delle truppe austriache dopo il lancio di gas venefici. Quella cerimonia, mi pare, si sia svolta di fronte ad una lapide nei pressi della stazione ferroviaria ai piedi del monte omonimo.

Le manifestazioni più importanti erano però quelle che si svolgevano al Sacrario di Redipuglia dove gli schieramenti di uomini e armamenti erano veramente imponenti. In quella località ho partecipato a due eventi, in ambedue i casi come comandante del picchetto d’onore per accogliere le bandiere e le autorità militari e politiche. Tra queste ultime la più importante era quella del Ministro della Difesa, incarico che in quel periodo era coperto dall’indistruttibile Onorevole Giulio Andreotti.

La prima volta che dovetti svolgere questo tipo d’incarico, subito dopo le prove generali che furono fatte prima dell’inizio della cerimonia vera e propria, mi fu detto chiaramente di limitarmi nel tono di voce nell’impartire gli ordini al mio picchetto, perché questi raggiungevano tutte le forze schierate, compresa l’artiglieria che occupava le posizioni più elevate dell’enorme piazzale antistante il sacrario, obbligandole ad assumere le posizioni di attenti e di presentat’arm molto tempo prima del dovuto. Di questa lezione dovetti tener conto anche nella seconda occasione.

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I PICCHETTI D’ONORE

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Ugo mi ha ricordato recentemente che una di queste due manifestazioni fu trasmessa in televisione e seguita da lui e il babbo, che a un certo punto disse: «questo è Sandro!», avendo riconosciuto la mia voce ancor prima di vedermi.

Un’altra volta mi fu ordinato di organizzare sul Colle Sant’Elia, che si trova proprio di fronte al Sacrario di Redipuglia e dove è eretta una colonna commemorativa, una squadra di mitraglieri che ad un determinato momento, mi pare all’alzabandiera ma non ne sono sicuro, dovevano sparare all’unisono dietro mio comando un caricatore a salve da ognuna delle quattro Breda. Al momento opportuno accadde però che una s’inceppasse e nonostante i miei segnali di non riprendere il fuoco il mitragliere riattivò l’arma e completò la sua scarica che a quel punto fu solitaria e fuori tempo, facendo fare a tutti noi, ma a me per primo, una gran brutta figura. Quel mitragliere si chiamava Vinciguerra, un ragazzo tarchiato e piuttosto grezzo, che mi ricordo bene perché era resistentissimo nella corsa e nell’eseguire il percorso di guerra, e per queste sue caratteristiche consigliai di inserirlo nella squadra che avrebbe dovuto rappresentare il reggimento in delle gare sportive militari a Roma, dove riportò un buon successo.

l Sacrario di Redipuglia

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LA PREPARAZIONE DI COMPAGNIE DI FORMAZIONE

La potenza della voce, contestatami da tutta una vita soprattutto da mia moglie, e la padronanza nell’addestramento formale, che avevo dimostrato già da allievo, furono i motivi essenziali per i quali ricevetti l’incarico di selezionare e preparare compagnie di formazione adatte a rappresentare il Nembo in importanti parate e manifestazioni, non solo in ambito locale ma anche in altre regioni.

Questo tipo d’incarico, che partiva direttamente dal comando del reggimento, riguardava l’addestramento nel periodo di tre/quattro giorni di una compagnia messa insieme tenendo conto della prestanza fisica e mi concedeva piena libertà di scelta degli uomini secondo il mio parere. Di conseguenza, nel fare le selezioni, avveniva che mi potessi anche divertire perché li andavo a pescare persino nelle furerie e tra gli autisti, con conseguenti discussioni con i loro diretti superiori che però di fronte agli ordini non potevano che accettare il fatto.

In quei brevi periodi dovevo trascorrere intere giornate nella Caserma Monte Pasubio a Cervignano, dove mi trasferivo con i soldati selezionati in quella di Gradisca, anche se questi in realtà erano più numerosi di quelli scelti localmente. Il motivo della trasferta dipendeva dal fatto che nell’addestramento doveva essere presente anche la Banda Reggimentale, il cui trasferimento sarebbe stato molto più complesso, la quale era necessaria per cadenzare con inni marziali la corsa o il passo, fino a farci martellare la testa in capo alla giornata.

Questo tipo d’incarico ho dovuto assolverlo con soddisfazione per ben tre volte, tutte relative a manifestazioni che si svolsero senza la mia partecipazione a Milano, Modena (?) e Filottrano. Quella di Filottrano, paese nell’immediato entroterra marchigiano, che preparai addirittura con un giorno d’anticipo, riguardava in particolare la commemorazione di eventi bellici avvenuti nell’estate del 1944, dove i reparti paracadutisti dell’allora Divisione Nembo parteciparono inquadrati nel Corpo Italiano di Liberazione.

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LA PREPARAZIONE DI COMPAGNIE DI FORMAZIONE

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L’unica manifestazione con sfilata alla quale ho partecipato fu quella che si svolse a Trieste, in occasione di un’importante ricorrenza della città, dove la mia compagnia partecipò senza apporto di forze esterne insieme ad altre compagnie del nostro e di altri reggimenti. In questa circostanza dovetti solo sostituire il nostro Capitano nel dare i comandi dei vari movimenti, perché avendo avuto un abbassamento di voce non poteva essere udito da tutti, e non c’è niente di peggio per 120 uomini inquadrati e di corsa che il comando di «Compagnia…, alt» sia udito solo dalle prime righe!!

Forse non tutti sanno che pur avendo in dotazione l’elmetto dovevamo portarlo solo durante le esercitazioni a fuoco e non durante le parate. Il motivo era che allora Nembo e Torino facevano parte di quei corpi dotati di copricapo speciale, e questo fatto fortunatamente ci favoriva molto nella nostra libertà di movimento.

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Cartolina storica del 183° Reggimento “Nembo”

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L’ADOZIONE DELLE NUOVE ARMI

Un giorno, anche in questo caso mi domando quando ciò sia avvenuto, mi fu ordinato di guidare una colonna di carri CP con destinazione la caserma di Cervignano allo scopo di prelevare le nuove armi in distribuzione al Nembo, in particolare quelle in dotazione al III Battaglione, e al rientro a Gradisca di distribuirle alle varie compagnie che le avrebbero prese in carico.

Le nuove armi consistevano nei fucili FAL (Fucile Automatico Leggero), senza le corte baionette che arrivarono in seguito, e nelle mitragliatrici MG 42/59. Queste due armi avevano in comune lo stesso calibro (7,62x51 NATO) e la loro adozione avrebbe semplificato il munizionamento sostituendo le varie armi individuali e di reparto con calibri diversi tra loro, tra cui il fucile Garand, il moschetto MAB, il mitragliatore BAR e la mitragliatrice Breda, con la conseguenza che tutte queste sarebbero state mandate in pensione.

Il percorso tra le due caserme era poco meno di una quindicina di chilometri, abbastanza diritto ma con numerosi ponti e ponticelli per superare alcuni corsi d’acqua naturali, affluenti di destra dell’Isonzo, e vari canali e rogge, che nell’insieme costituivano l’ambiente ideale per le esercitazioni dei Lagunari del Battaglione San Marco stanziati nella vicina Villa Vicentina.

Durante il viaggio d’andata la colonna, che era preceduta dalla Campagnola FIAT (o Matta AR?) su cui viaggiavo io, non incontrò alcun inconveniente. Al ritorno, invece c’imbattemmo in un’esercitazione dei lagunari che in gruppuscoli grondanti d’acqua uscivano allo scoperto per attraversarci di corsa la strada e rituffarsi immediatamente dopo nel canale attiguo. Il fatto che in quei momenti colpì di più la mia attenzione fu il vedere lo zampillio che a forza usciva dai fori delle loro calzature speciali in tela ai primi passi sull’asfalto ma, evidentemente, nel mio subcosciente rimasero anche altre impressioni più profonde. Queste visioni di uomini che in assetto da combattimento mi apparivano davanti, infatti, sono stati il tema ricorrente di sogni ed incubi protrattisi per un bel po’ di tempo vari

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anni dopo, durante il periodo in cui l’Italia dovette affrontare l’ossessione delle Brigate Rosse, perché m’immaginavo di trovarmi in quella situazione e di essere assaltato e depredato di tutte le armi da gruppi appartenenti a quei delinquenti. Ma quelli erano veramente altri tempi se pensate che quell’operazione, sia nel viaggio d’andata che di ritorno, si svolse senza una scorta armata al seguito!

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LA PRESENTAZIONE DELLA MG 42/59

Pochi giorni dopo la predetta distribuzione di armi, il Colonnello Pacini programmò una riunione per presentare ai suoi ufficiali e sottufficiali la nuova MG, arma abbastanza complicata e destinata a sostituire alcune di quelle individuali e di reparto, e incaricò un giovane mio collega di prepararsi per quell’occasione. Il giorno previsto questo sottotenente dimostrò subito di non aver preso sul serio l’incarico facendo una figura veramente meschina, al punto di costringere lo stesso Pacini ad intervenire furioso e a sostituirlo di persona, dando una dimostrazione teorica e pratica di conoscere molto bene quell’arma.

Incuriosito di questo fatto, mi ripromisi che alla prima occasione di trovarci soli avrei cercato di domandargli sfacciatamente come mai fosse stato in grado di fare quella dimostrazione senza averla avuta prima tra le mani. Quell’occasione venne poco dopo, in un trasferimento di servizio in auto, lui davanti con l’autista ed io dietro sulla panchetta, durante il quale mi raccontò le sue tragiche vicissitudini cominciate quando l’8 Settembre 1943 lo colse in Bosnia al comando di un reparto tedesco, già allora dotato di quest’arma, soprannominata “la sega di Hitler”. Poi, dopo un periodo di prigionia era rientrato in Italia, ma nel frattempo era stato sospeso dal servizio militare ed era sopravvissuto facendo il minatore a Saline di Volterra, fino alla conclusione del suo ricorso e al reintegro definitivo nei ranghi dell’esercito.

Non potevo immaginare neanche lontanamente che questo fosse il motivo della sua esperienza, ma la cosa più importante che emerse da queste sue confidenze fu che da quel momento in poi provai un maggior rispetto verso quest’uomo, anche se continuai a battagliarci, seppur inutilmente, ogni qual volta mi trovavo in contrasto con sue decisioni che appellavano alla nostra comune origine toscana.

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IL POLIGONO SUL MONTE CIAURLEC

Il poligono divisionale dove eseguivamo le esercitazioni a fuoco si trovava sul Monte Ciaurlec. Un rilievo di poco più di mille metri situato a Nord del Torrente Meduna e facente parte delle Prealpi Carniche, che si raggiungeva in colonna passando da Udine, attraversando il Fiume Tagliamento, lambendo successivamente le cittadine di Spilinbergo e Sequàls in pianura, per poi affrontare l’ultimo breve tratto di montagna.

A termine di un’importante esercitazione a fuoco, eseguita in una giornata molto fredda nella quale era impegnato l’intero reggimento, il comando aveva organizzato una vasta tenda dove offrire un rinfresco agli ufficiali che avevano partecipato o assistito alla manifestazione. Purtroppo quanto era disponibile, anche se caldo, non fu in grado di eliminare il freddo che era entrato fino alle ossa, specialmente agli osservatori che avevano passato alcune ore su una gradinata esposta al vento, e siccome il Ten. Col. Pacini evidentemente aveva già provato simili esperienze si era premunito di portare con se un genere di conforto personale.

Ad un certo punto, infatti, tirò fuori una bottiglia di Fuoco di Russia, un liquore di colore rosso rubino e di ben 70 gradi che io già conoscevo, che offrì in maniera riservata solo al suo aiutante di campo e a me, servendocelo in bicchieri da bibite usa e getta. L’effetto che almeno io provai nell’inghiottire il primo sorso fu di sentire la laringe dilatarsi come se incisa da tagli verticali molto dolorosi, ma poco dopo questa sensazione sparì e iniziò un certo piacevole calore corporeo. In pratica non so bene quanto ci mettemmo a finire l’intera bottiglia, ma ricordo che quando noi tre montammo sulla Campagnola per il ritorno a Gradisca era già finita.

L’effetto vero dell’alcol si cominciò a sentirlo scendendo di quota, riparati dal freddo e dal vento, al calduccio e trastullati dai movimenti del mezzo. In pratica ci ritrovammo ubriachi, ma il buon senso di ciascuno impedì di manifestare il proprio stato e il viaggio avvenne

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IL POLIGONO SUL MONTE CIAURLEC

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nel silenzio più assoluto. Il giorno dopo, ancora con la testa stordita e con lo stomaco fuori posto, mi detti malato e rimasi in camera alla locanda, ma venni poi a sapere che anche il comandante e il suo aiutante di campo erano stati dati per dispersi per l’intera mattinata. (Proprio tra parentesi voglio ricordare che un altro liquore dagli effetti terribili che si trovava sul mercato locale era il Mistrà di Brescia, incolore, ottenuto per distillazione dell’anice e anch’esso ad elevata gradazione alcolica).

Una seconda volta che ho frequentato il poligono del Monte Ciaurlec è stato per addestrare i ragazzi all’uso dei FAL e delle polivalenti MG42/59, sparando da postazioni fisse su sagome, esercitazione che fu effettuata poco dopo la loro adozione e in un periodo stagionale molto più piacevole rispetto a quello della precedente esercitazione a fuoco. In quella occasione anch’io volli provare ad usare la nuova mitragliatrice montata su treppiede e lo feci mirando non alle sagome ma ai loro supporti verticali di legno per verificare meglio la precisione di tiro e gli effetti prodotti dalle brevi raffiche. Abbattuta la terza sagoma fui richiamato all’ordine dal direttore di tiro e dovetti per forza rinunciare a quel divertimento e lasciare di nuovo il posto a chi spettava.

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UFFICIALE ADDETTO ALLA MENSA

Pochi giorni prima del cambio dell’ufficiale di turno addetto alla mensa e in prossimità del congedo degli ufficiali di complemento del precedente corso, il Ten. Col. Pacini scoprì che i conti della gestione autonoma del circolo ufficiali non tornavano e che esisteva un elevato debito, documentato dalle fatture non saldate e il cui pagamento era reclamato da vari fornitori, tra cui anche quello del gasolio per l’impianto di riscaldamento.

A quel punto dovette prendere immediatamente i provvedimenti del caso e, poiché aveva sempre presente il solito principio (i panni sporchi…..), m’incaricò, o meglio mi comandò, di risolvere la situazione fallimentare del circolo pareggiando i conti passivi della mensa e del bar, evidentemente dovute a cattive gestioni precedenti. Alle mie contestazioni che io ero lì per fare il servizio militare e non il gestore di una mensa mi fu rinfacciato che ero un volontario, cosa che mi fece arrabbiare ancora di più perché ritenevo ingiusta questa definizione, anche se in fondo aveva ragione lui, e che quindi avevo solo il dovere di ubbidire e poco da discutere.

Così mi ritrovai esentato dai normali servizi di compagnia e a dover affrontare di malavoglia una situazione completamente nuova. I due o tre giorni seguenti, sul mezzo di servizio a disposizione della mensa (una specie di grossa jeep), accompagnai nel suo giro il collega ancora in carica che mi presentò come suo successore ai vari fornitori, prendendo così confidenza con le mie mansioni esterne, mentre durante il resto del giorno e di sera dovevo controllare il servizio di cucina e del bar e tenere i conti dei pasti e delle consumazioni, che venivano registrati al momento su una rubrica e di solito riscossi alla fine del mese.

La prima cosa che mi capitò nei giorni successivi, quando da solo ebbi concluso il giro completo dei fornitori, fu che tutti quanti, nessuno escluso, mi fecero capire chiaramente che avrei goduto lo stesso trattamento dei miei predecessori, ossia la percentuale sul costo della spesa, che variava tra il 5 e il 10 %. Questa questione, dopo

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UFFICIALE ADDETTO ALLA MENSA

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l’iniziale sorpresa che mi spiegò il recente acquisto di una macchina sportiva da parte di quel mio collega, riuscii a risolverla immediatamente, perché garantii a ciascuno di loro che se da quel momento non avessero applicato uno sconto superiore del doppio di quella regalia avrei cambiato fornitore.

Successivamente fu una sorpresa continua, perché per un certo periodo non passava giorno che venissero fuori delle irregolarità abbastanza rilevanti dal punto di vista economico. Ve ne racconto solo alcune.

Un capitano, molto spesso per pranzo e cena, si presentava con la sua auto sul retro della cucina e prelevava quattro pasti completi da portare a casa senza registrarli. Chiesi consiglio di come comportarmi al maggiore aiutante di campo per risolvere questa questione, il quale mi promise che ci avrebbe pensato direttamente lui senza farmi apparire, e così ebbe fine la storia.

Tutti i giorni nella lista della spesa preparata dalla cuoca trovavo da acquistare diverse confezioni di dadi per brodo. Fui costretto a dirle chiaro e tondo che capivo come questi potessero servire per minestre e insaporire altre pietanze, ma che era un consumo oltremodo esagerato. Mi confessò che li ordinava per i punti premio e questo fatto, mettendo insieme anche quello che non avevo ancora con lei affrontato a proposito del capitano, mi fece andar di fuori fino a minacciare il suo licenziamento. Da quel momento tenne un comportamento corretto e controllando la lista mi accorsi che oltre al numero di dadi diminuì anche l’acquisto d’altri prodotti in quantità esagerata.

In prossimità del congedo dei colleghi anziani cominciai a controllare attentamente la loro posizione perché la partenza sarebbe avvenuta prima della fine del mese. Per ricordare loro di passare a saldare i sospesi affissi un avviso nella vetrinetta dell’albo e sulla vetrata d’ingresso al circolo. Alcuni passarono a versare il dovuto in anticipo, riservandosi di pagare le eventuali altre consumazioni al momento, altri promisero di farlo con l’ultimo pasto, ma alcuni altri mostrarono di voler fare i furbi. Così, anche in questo caso, dovetti trovare una soluzione e pensai che la migliore era di fare una lista dei morosi da consegnare al posto di guardia in modo che l’ufficiale di

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picchetto di turno bloccasse all’uscita chi non era in regola con i pagamenti. Il metodo funzionò e dette dei risultati inattesi.

Dovetti inoltre affrontare anche il comportamento non sempre corretto di qualche soldato che svolgeva servizio in cucina, ai tavoli e al bar, che sfacciatamente approfittava della sua posizione. In questo caso fui tuttavia di manica larga, perché permisi alla cuoca di lasciargli la possibilità di servirsi a volontà del cibo in eccesso, ma proibii loro in modo assoluto di portarne all’esterno.

Dopo poco più di un mese di questa vita, limitando le spese superflue e soprattutto con i recuperi finali, riuscii a saldare tutti i debiti e a mettere in cassa anche una bella cifra che avevo raccolto e stivato di volta in volta nel cassettone di camera. Per trasportare e consegnare i resoconti e il denaro avanzato mi aiutò Giancarlo, perché era un insieme abbastanza ingombrante anche per la quantità di monete metalliche che avevo accumulato senza mai cambiarle (all’epoca non esistevano ancora i comodi sacchetti di plastica e si usavano quelli di carta), ma forse anche perché volevo avere un testimone. Mi ricordo che dopo aver depositato sulla scrivania del Pacini i documenti e consegnato tutto il denaro, e dopo aver fatto un breve resoconto della situazione, gli dissi con tono deciso che con quell’operazione avevo terminato il mio mandato e che da subito avrei ripreso servizio in compagnia. Non mi ricordo di aver passato le consegne ad un altro collega, ma sono sicuro che per un certo periodo ho evitato il circolo e ho preferito consumare i pasti al ristorante della locanda.

Per tutta la durata di questo servizio ci furono continue schermaglie tra me e il Ten.Col. Pacini, perché in particolare non sopportavo di trovarmi in coda dai fornitori insieme a consorti di ufficiali che mi conoscevano, o peggio ancora di loro personale domestico, e d’altra parte lui aveva ben motivo di avercela con me, perché la compagnia e in particolare il mio plotone se avevano l’occasione non mancavano di manifestargli la loro contrarietà al mio allontanamento.

Un giorno, mentre il mio plotone sfilava tra noi due fermi sui lati opposti del viale, successe che chi lo comandava impartisse come di regola l’ordine di «attenti a …..» verso la sua direzione, mentre i

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UFFICIALE ADDETTO ALLA MENSA

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soldati, disobbedendo, rivolsero la testa verso la mia, e questo fatto lo fece veramente indispettire moltissimo, promettendomi di dare a tutti una punizione esemplare che però alla fine non mise in pratica.

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IL CAMPO ESTIVO TRASCORSO IN CASERMA

In prossimità del campo estivo mi si presentò un problema abbastanza noioso; infatti, mi si manifestò una fastidiosa fistola sacro-coccigea, formatasi per dei peli incarnati, che probabilmente esisteva già da qualche tempo ma che infiammatasi m’impediva di muovermi e sedere correttamente. Questo fatto mi costrinse a sottopormi ad una visita specialistica presso l’Ospedale Militare di Udine, e il giudizio del medico fu che per la sua eliminazione avrei dovuto sottopormi ad intervento chirurgico una volta completamente sfiammata.

La visita, eseguita anche con una sonda, purtroppo non fece altro che peggiorare la situazione di dolore, tanto che sulla via del ritorno per il sobbalzo su una buca persi completamente il controllo dell’auto e mi ritrovai fermo e semisvenuto sul bordo della strada. D’altra parte quello strumento aveva aperto il condotto, e così, appena arrivato in camera, mi organizzai e trovai il sistema di strizzarmi con forza questa specie di foruncolo fino ad eliminare sotto forma di spaghetto tutto il marciume che conteneva; e chi fosse morbosamente curioso sappia che non mi sono mai sottoposto a quel tipo d’intervento e che neanche ho più sofferto per quella causa.

Per questo motivo fui, quindi, esentato dal partecipare alle operazioni preparatorie, nelle quali avevo maturato l’esperienza fatta per quello invernale, e al campo stesso, e il giorno in cui il reparto partì mi ritrovai unico ufficiale e comandante del battaglione, che in quel momento era costituito da una trentina di soldati e un paio di caporali, tutti quanti dichiarati momentaneamente inabili per i motivi più disparati.

Oltre alle normali consegne alle quali dovevo attenermi durante quel periodo di comando ebbi da rispondere anche a diverse richieste personali da parte di alcuni comandanti di altre compagnie, che nei giorni precedenti mi fecero vedere le necessarie opere di manutenzione ai loro edifici e agli infissi, in particolare a quello della compagnia mortai, che era veramente in uno stato pietoso.

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IL CAMPO ESTIVO TRASCORSO IN CASERMA

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Già al secondo giorno, dopo aver provato in tutte le maniere come far passar il tempo a quell’accozzaglia, facendo anche interminabili esercizi ginnici e formali, mi ricordai che avrei potuto utilizzarli effettivamente per le opere di manutenzione e chiesi ad ognuno di loro il mestiere che facevano da civili, prendendone nota. Venni così a scoprire che disponevo di una formidabile forza lavoro costituita soprattutto da muratori, falegnami, elettricisti, imbianchini e da qualche contadino.

Logicamente, alla mia proposta di utilizzarli per quello scopo, la maggior parte di loro ebbe a protestare, primo perché esentati dal servizio per malattia e secondo perché quello che chiedevo era fuori norma. Ma quando proposi che alla conclusione dei lavori avrei premiato i volontari con una licenza breve vennero fuori i veri malati e quelli che lo erano per convenienza, e questi ultimi costituivano la stragrande maggioranza.

Con l’aiuto di un maresciallo riuscii immediatamente a procurare le attrezzature e gli utensili, come pure i materiali necessari, e così cominciarono i lavori che giornalmente dirigevo e controllavo, accettando talora anche quei consigli che potevano far ottenere dei risultati migliori. Dopo una sola settimana rimasi veramente sorpreso di quanto quella squadra fosse riuscita a fare in così breve tempo, perché in pratica i lavori programmati erano quasi terminati, compresi quelli di potatura e giardinaggio (assegnati ai soldati più malandati di salute o inesperti), ed erano stati eseguiti con molta cura anche se le condizioni di lavoro non erano state ottimali.

Il successo dell’operazione dipese naturalmente dal fatto che quei ragazzi contavano che avrei mantenuto la mia promessa a lavori conclusi, non sapendo però che per tutti quei giorni mi ero scervellato per capire come avrei potuto mantenerla. Ma a quel punto mi convinsi che a tutti gli effetti ero l’ufficiale facente funzione di Comandante del III Battaglione e che quindi mi potevo permettere quello ed altro. Naturalmente per la preparazione dei fogli di viaggio e delle licenze dovetti ricorrere ai servizi di un altro maresciallo, in questo caso di fureria, il quale, dopo qualche dubbio e dandomi tutta la responsabilità della questione, acconsentì a farlo; e così la mia unica incombenza fu quella di firmarle e di consegnarle personalmente, raccomandando

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IL CAMPO ESTIVO TRASCORSO IN CASERMA

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l’assoluta puntualità nel rientro in caserma che fu stabilito per due giorni prima di quello dei reparti.

Al rientro dal campo estivo i vari comandanti di compagnia rimasero esterrefatti nel ritrovare i loro edifici in uno stato completamente diverso da come lo avevano lasciato, e per questo motivo ricevetti numerosi complimenti e congratulazioni, ma alla domanda di come avessi fatto trovai sempre il modo di evitare di dare una risposta precisa. Quando alcuni giorni dopo si venne a sapere la verità fui chiamato a rapporto dal solito Pacini, ma alla fine dei suoi rimbrotti anche lui riconobbe il risultato ottenuto e perdonò la mia intraprendente iniziativa.

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IN PROSSIMITÀ DEL CONGEDO

Un giorno, tra fine Giugno e inizio Luglio 1965, arrivò una circolare che richiedeva di comunicare al Comando i nominativi di tutti gli ufficiali in possesso di laurea in geologia, probabilmente perché c’era l’intenzione di destinarli a qualche corpo particolare. Questa richiesta nella mia compagnia non fu presa minimamente in considerazione, perché in quel periodo la mansione di evaderla dipendeva esclusivamente da me, ed io non avevo nessuna voglia di complicarmi ulteriormente la vita.

Il 12 Luglio, pochi giorni prima del mio congedo, mi fu ordinato di presentarmi alla Caserma Monte Pasubio di Cervignano, invitato a pranzo al tavolo del Comandante del Nembo, Col. G. Ambrosi De Magistris. Questi inviti, come seppi poco dopo, facevano parte di una consuetudine che interessava di solito anche altri ufficiali di complemento con lo scopo di sondare l’eventualità di una loro rafferma. Ricordo benissimo il piacevole colloquio durante tutta la durata dell’incontro e, infine, la sua domanda diretta, senza tanti fronzoli, alla quale risposi altrettanto direttamente che se avessi avuto ventuno anni forse sarei stato attratto dall’idea, ma che avendone diversi di più ed essendo fresco di laurea preferivo tentare un futuro diverso, anche se molto incerto.

In quella stessa occasione, raggiungendo la caserma con un certo anticipo, presi il coraggio di riconsegnare in polveriera delle munizioni e una cassetta di bombe a mano SRCM avanzate dalla mia ultima esercitazione a fuoco. Avevo depositato questo materiale sotto la branda a disposizione dell’ufficiale di servizio e me n’ero completamente dimenticato, dato che in pratica ero il solo ad utilizzare quel buchetto. Ho appena detto che presi il coraggio perché, come mi fu fatto notare abbastanza pesantemente dall’addetto del deposito, quel materiale lo avrei dovuto scaricare subito dopo l’esercitazione, che in realtà era avvenuta un bel po’ di tempo prima.

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IN PROSSIMITA’ DEL CONGEDO

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Negli ultimi giorni di permanenza ci fu una breve cerimonia di commiato con la consegna della tessera associativa all’UNUCI (Unione Ufficiali in Congedo), di cui sono tuttora membro, e subito dopo cominciai a riconsegnare al maresciallo addetto quei materiali della dotazione la cui durata era prevista superiore ai 15/18 mesi nella famosa tabella, purché non fossero indumenti od oggetti strettamente personali. Al posto del mio cappotto, della durata di 36, consegnai quello di un mio soldato che mi faceva da qualche tempo la corte per averlo, dal quale però recuperai le mie belle mostrine fuori ordinanza che lui non avrebbe potuto portare. Quel maresciallo mi fece fino all’ultimo momento la caccia per riavere il coltello a serramanico, la cui durata era di 30 mesi e che mi dimenticavo ogni giorno di prendere in camera, e la cintura in tela con la fibbia metallica con l’emblema dell’esercito. Quest’ultima, che non avevo intenzione di tenerla anche perché avrei potuto facilmente acquistarla in qualsiasi negozio di oggetti militari, faceva parte della divisa estiva e mi preoccupava il fatto che consegnandola sarei stato costretto a sostituirla con la correggia in cuoio che usavamo con i pantaloni corti nella ginnastica, terribile a vedersi perché deformata, macchiata di sudore e in piena vista tra pantaloni e camicia. Per questo motivo rimanemmo d’accordo che me ne sarei separato all’ultimo momento, dopo i doverosi saluti di commiato, e così fu che il maresciallo mi aspettò al cancello proprio fino a quando arrivò il momento di lasciare definitivamente la caserma.

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APPENDICE

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FINALMENTE A CASA

Dopo aver caricato in auto lo scarso bagaglio e salutato quella gente cordiale che per circa sette mesi mi aveva ospitato, Il viaggio di ritorno alla vita civile fu diritto filato dal cortile della locanda fino a Castiglioncello, con solo qualche brevissima sosta intermedia dettata da esigenze di prima necessità.

Là trovai la casa oramai completata e in gran parte arredata, che avevo lasciato nell’Aprile del ‘64 con la copertura del tetto appena terminata e rivista nel breve permesso di Agosto dello stesso anno e forse, ma non lo ricordo, durante la licenza ordinaria in attesa di nomina. Poiché in quel periodo era completamente occupata da tutta la famiglia, compreso il nonno Giovanni e naturalmente la fedele Teresa, per qualche notte mi adattai a dormire nel fresco della cantina, dove mi trovai perfettamente a mio agio.

Ricordo che trascorsi la prima settimana gustandomi la piena libertà riacquistata, grogiolandomi passivamente al sole, in completa pigrizia e facendo solo quello di cui avevo proprio voglia, senza dipendere da regole e imposizioni. Questo mio comportamento dovette sembrare veramente fuori della norma alla madre di un caro amico che mi conosceva come un ragazzo abbastanza sveglio e irrequieto, perché una mattina, vedendomi in questo stato sdraiato sulla sabbia vicino al suo ombrellone, non riuscì a trattenersi dal dirmi: «Povero Sandro, come ti hanno ridotto!». Mi sembrò che quest’impressione dovettero provarla anche altri amici e conoscenti, ma capii, anche se avessi avuto la pazienza e la buona volontà di spiegare loro il mio stato d’animo, che sarebbe stato molto difficile potessero comprenderlo non avendo fatto una simile esperienza e non avendo un carattere indipendente come il mio.

L’amico Giancarlo, che avevo ripetutamente invitato a raggiungermi quando eravamo ancora in servizio, si decise

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FINALMENTE A CASA

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finalmente verso metà Agosto a venire per trascorrere con la mia famiglia una decina di giorni. Arrivò con vestiario completamente inadeguato all’ambiente, per tipo, pesantezza e colori, con scarpe autunnali e addirittura con un costume da bagno veramente sorpassato; insomma, si dovette rivestire completamente, prendendo a prestito da me qualche capo e comprandosene dei nuovi.

Dopo qualche giorno, quando oramai si fu adattato all’ambiente partecipando a tutte le possibilità di divertimento che gli erano offerte, mi confidò che si era dovuto ricredere su un suo giudizio negativo nei miei riguardi, ossia che aveva sempre ritenuto enormemente esagerati tutti i miei discorsi e racconti a proposito della vita che conducevo a Castiglioncello.

Al momento della sua partenza, oltre che essere dispiaciuto del fatto in se stesso, ricordo che era molto preoccupato di cosa avrebbe fatto di alcuni dei comunissimi indumenti che aveva comprato e stava riponendo in valigia, perché secondo lui non avrebbe sicuramente più avuto l’occasione di indossarli nella sua fredda e conservatrice Merano!

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RICORDI ENOGASTRONOMICI

Durante il mio servizio militare ho avuto occasione di apprezzare le caratteristiche di due regioni italiane molto diverse e lontane tra loro, non solo per collocazione fisica ma soprattutto per tradizioni e mentalità, e tra queste caratteristiche anche quelle connesse ai piaceri della tavola.

La cucina pugliese non mi ha particolarmente attratto, prediligendo frutti di mare o del buon pesce fresco alle orecchiette e melanzane in salse varie ed altri piatti tradizionali, ma un prodotto locale che ho trovato veramente fantastico è stata la mozzarella. Mi riferisco in particolare a quelle di piccolo formato, non più grandi di un boccone, che i loro produttori/venditori offrivano a poche decine di lire ai probabili acquirenti presentandole a bagno nel loro siero in grandi vassoi rettangolari, che ho acquistato soprattutto nelle stazioni ferroviarie di Lecce e Foggia. Ottime erano anche quelle di formato tradizionale che, talvolta, noi allievi abbiamo comprato nelle masserie incontrate durante esercitazioni di marcia e orientamento nelle campagne circostanti Lecce.

Ripensandoci oggi mi meraviglio che all’epoca nessuno di noi abbia avuto un minimo scrupolo di carattere igienico/sanitario sui metodi di produzione e conservazione di quelle mozzarelle, ma forse ciò è dipeso dal fatto che ci sentivamo molto sicuri e protetti dagli intrugli che ci avevano iniettati nel petto con quelle siringhe fuori misura.

Della cucina friulana e della Venezia Giulia ho apprezzato alcuni piatti tipici, soprattutto a base di caccia, ma in ambedue le regioni mi ricordo di aver soprattutto gustato i vini, preferendo senza dubbio quelli del nord ai robusti pugliesi, dei quali prediligevo i bianchi e i rosati freschi per quel periodo di mia permanenza nella zona. Oltretutto, mi ricordo di aver visto e frequentato a Gradisca la mia prima vera enoteca, situata nella stessa strada della locanda dove

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RICORDI ENOGASTRONOMICI

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risedevo, e visitato un’importante mostra enologica annuale che si svolse in un parco pubblico.

Ma, il giorno che a Castiglioncello, poco dopo il congedo, decisi di aprire una bottiglia di Merlot (una di quelle che avevo acquistato alla cantina sociale di Farra d’Isonzo ed inviato a mio padre) rimasi veramente male; perché, oramai, mi ero riabituato velocemente al gusto dei vini nostrani, in particolare di quello della fattoria Della Gherardesca che allora Arnaldo vendeva infiascato nel suo negozio in piazza, ma che dopo pochi anni diventò introvabile, perché reso famoso come Rosato di Bolgheri tra i vini commercializzati direttamente da quella casa.

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LA PAGA DEL SOLDATO

E’ abbastanza strano come a un certo punto del mio vagare tra i ricordi mi sia venuto in mente anche la questione economica, che evidentemente ha avuto una certa importanza per noi tutti. Pertanto la voglio descrivere brevemente qui di seguito perché mi sembra che sia piuttosto interessante per comprendere meglio quel periodo.

Da AUC, per far fronte alle spese delle libere uscite, dovevo contare sui vaglia che periodicamente mi arrivavano da casa, perché quello che passava la fureria (la cosiddetta decade) era veramente misero e non lasciava spazio per togliersi alcuna soddisfazione, tranne il contribuire all’acquisto di qualche sigaretta.

La situazione migliorò molto nel periodo che trascorsi da Sergente AUC perché, se non erro, percepivo circa 75.000 lire mensili sulle quali pesava solo la modesta spesa della mensa sottufficiali. Stando così le cose potevo permettermi senza alcuna remora di frequentare ristoranti e visitare località turistiche nei dintorni di Opicina e di Trieste usando la mia auto. Una cosa che all’epoca mi rimase sul gozzo fu di non poter visitare le Grotte di Postumia, tanto declamate dai miei genitori che le avevano viste durante il viaggio di nozze, le quali erano piuttosto vicine, ma assolutamente irraggiungibili per un militare cui era precluso superare qualsiasi frontiera, in particolare quella jugoslava.

Da Sottotenente mi erano corrisposte circa 114.000 lire mensili, comprensive d’alcune indennità delle quali non mi sono mai interessato di conoscerne il motivo, ma che probabilmente tenevano conto del fatto di non poter risiedere in caserma e del servizio prestato sul confine orientale.

Ripensando a quest’aspetto della vita militare, devo ammettere che ho provato solo oggi un certo senso di disagio quando tra le altre cose mi sono ricordato che alcuni soldati che ho conosciuto spedivano a

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LA PAGA DEL SOLDATO

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casa per vaglia la loro decade, di cui evidentemente c’era un gran bisogno.

Per avere dei termini di paragone circa i costi che all’epoca dovevo sostenere riporto alcuni esempi: la camera doppia alla locanda costava 24.000 lire al mese, cifra che dividevamo tra me e Giancarlo; la mensa ufficiali si aggirava anch’essa intorno alle 12.000 lire, mentre un pasto completo al ristorante della stessa locanda si aggirava tra le 700 e 900, vino compreso; un litro di benzina super 120, un caffè al bar 60 e un giornale 50 lire. I modelli di automobili Fiat più economici costavano circa 1.000 lire al Kg.

Subito dopo essermi congedato, con la somma di denaro di cui disponevo ancora e con parte di quello accumulatosi con l’assegno mensile che mio padre aveva continuato a versarmi per sua magnanimità, acquistai una nuova 500 Fiat, che purtroppo restò completamente sommersa dalle acque dell’Arno davanti a casa, in viale Mazzini, durante l’alluvione del Novembre 1966.

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GLI INCONTRI DOPO IL CONGEDO

Dopo il servizio militare mi è capitato di rincontrare casualmente alcuni ex colleghi, per strada o in ritrovi pubblici, essendo anch’essi fiorentini, ma poi li ho persi nuovamente di vista, come Paolo Pampaloni (letterato e titolare di una libreria antiquaria, che compose una poesia pubblicata nel libretto ricordo della scuola e che ho riportato in queste pagine) e Gian Franco Meacci (mi pare fosse figlio di un maresciallo d’Aviazione).

Un altro fiorentino che già conoscevo dall’ambiente universitario e che rincontrai a Lecce è stato Vincenzo Simoni, un personaggio già allora molto particolare e caratteristico, che però fu assegnato alla 2A

Compagnia e poi destinato da sottotenente al Nembo a Gradisca d’Isonzo, ma al IV Battaglione. Lui, ho rincontrato più volte di sabato mattina al mercato di S. Ambrogio e, per motivi contrattuali, anche nella sede dell’Unione Inquilini, nel quale sindacato ha ricoperto la carica di dirigente locale e successivamente quella di Presidente Nazionale.

Un altro fiorentino che rincontrai a Lecce è stato Ferruccio Busoni, che già conoscevo da Piazza San Marco ed altri ambienti frequentati da universitari, anch’esso però assegnato alla 2A cp. allievi, che non ho ritrovato nel percorso successivo e che a Firenze avrò rivisto forse un paio di volte. Mi ricordo come da studente fosse sempre in cerca di qualcuno che gli prestasse qualche soldo, perché i suoi genitori lo tenevano piuttosto a stecchetto.

Di Giancarlo Antonello di Merano ho già raccontato come sia stato mio compagno di camera alla Locanda il Friuli per tutto il periodo di permanenza a Gradisca d’Isonzo e della sua visita al mare subito dopo il congedo. Ma da quel momento, tranne qualche scambio di auguri natalizi negli anni immediatamente successivi, non ho avuto più notizie, forse anche per mia colpa.

Di Maurizio Parotto, altro AUC di origine romana e anch’esso geologo, ho avuto per anni notizie indirette sulla sua attività tramite

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GLI INCONTRI DOPO IL CONGEDO

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varie pubblicazioni di carattere scientifico. Pochi anni fa ho cercato di incontrarlo di persona trovandomi per motivi di lavoro nel suo dipartimento all’Università Roma Tre, ma purtroppo proprio quel giorno si trovava fuori sede e ho potuto lasciargli solo un saluto scritto, ma non ho avuto conferma che lo abbia ricevuto.

Solo con Andrea Andrei, anch’esso fiorentino, di cui persi le tracce una volta lasciata Lecce, ho avuto per diversi anni e fino a tempi recenti un’assidua frequentazione, poiché ci siamo ritrovati a cantare affiancati nel coro della Certosa del Galluzzo, ambedue spinti dalla stessa passione per il canto gregoriano. Quando avevo quasi concluso di scrivere questi miei ricordi gli ho chiesto di incontrarci per vedere se poteva aiutarmi nel ricostruire una giornata tipo alla Caserma Pico. Lo ha fatto ricorrendo alla descrizione minuziosa scritta in una sua lettera inviata a casa, così come mi ha potuto fornire, attraverso altre, le date del giuramento e della nomina degli allievi scelti, oltre a ricordarmi come quel gruppetto riuscì a sfuggire alla “cattura” nella stazione di Lecce.

Uno dei miei soldati del Nembo, di cui non ricordo il nome, mi riconobbe alla fine degli anni ’60 all’ingresso del Pronto Soccorso dell’Ospedale di Careggi, mentre mio fratello Ugo ed io accompagnavamo nostro padre per fermare un’emorragia nasale, incidenti di cui soffriva frequentemente nell’ultimo periodo della sua vita a causa del prolungato uso di cortisone. Quel ragazzo lavorava lì come infermiere e si prodigò molto per facilitarci l’ingresso, e in quell’unica occasione d’incontro dovetti più volte ripetergli di non rivolgersi a me precedendo il cognome con il grado militare, perché oramai eravamo ambedue tornati alla vita civile. Mi fece, tuttavia, molto piacere che mi ricordasse così bene e tenesse un comportamento rispettoso, poiché ciò denotava una certa stima che evidentemente avevo guadagnato sul campo.

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LE RIVISITAZIONI AMBIENTALI

Oltre gli incontri con persone fisiche di cui ho appena raccontato ho avuto qualche altra occasione di ritrovarmi di fronte a situazioni che avevano a che fare con questo mio passato, soprattutto legate ai luoghi allora frequentati.

In un breve viaggio, nel quale prima toccammo Venezia e successivamente ci spostammo verso Trieste, città che desideravo far conoscere anche superficialmente a mia moglie per la sua architettura mitteleuropea, volli risalire sull’altopiano per rivedere la caserma di Villa Opicina. Per arrivarci davanti incontrai però molte difficoltà, perché la ricordavo non lontano dall’abitato e facilmente raggiungibile, mentre la trovai compressa all’interno di un groviglio costituito dal nodo ferroviario e un raccordo autostradale, di cui ai miei tempi si sentiva parlare per il motivo che il suo tracciato avrebbe distrutto molte postazioni difensive che dipendevano dal nostro reggimento e di cui curavamo la manutenzione.

Logicamente mi ero illuso pensando di trovare una situazione immutata. La caserma, infatti, era occupata da un reggimento che a giudicare dal basco nero era probabilmente di carristi, e parlando brevemente con l’Ufficiale di Picchetto della mia permanenza nel rgt. Torino, allora di guarnigione lì, e successivamente nel Nembo a Gradisca, seppi che del primo non poteva fornirmi informazioni mentre, riguardo al Nembo, che bastava andassi a Pistoia dove al momento era acquartierato. Fu così che quest’informazione mi tolse oggi voglia di proseguire nella mia ricerca ed evitai di andare a Gradisca.

In un altro viaggio turistico, piuttosto lungo attraverso Basilicata e Puglia, soggiornammo un paio di giorni a Lecce; durante la nostra permanenza si visitò la città e incontrammo un amico che vi si era da poco trasferito da Firenze con tutta la famiglia essendo originario di quella città. Ho quindi rivisto luoghi e locali che noi allievi frequentavamo di solito, ma per non avere disillusioni evitai di passare davanti alla Pico, non sapendo cosa vi avrei trovato.

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LE RIVISITAZIONI AMBIENTALI

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Anni fa una circolare dell’UNUCI di Firenze fece appello perché in ricorrenza della festa delle Forze Armate ci fosse un’alta rappresentanza di ufficiali in congedo ed io, per quell’unica volta pur essendo ancora oggi inscritto all’ente, risposi all’appello. In Piazza Santa Maria Novella fu celebrata la Messa da campo con l’altare montato sul sagrato, celebrata da un cappellano militare, e successivamente il gruppo abbastanza numeroso di partecipanti sfilò con bandiere e labari di associazioni varie fino in piazza dell’Unità dove si svolse la cerimonia ufficiale in memoria dei caduti.

In quell’occasione, dove io mi presentai con il mio basco verde fuori ordinanza (il Cangol) con il fregio del Nembo, notai che vari presenti mi guardavano con curiosità, come se fossi stato un estraneo e perché evidentemente non conoscevano quel reggimento. Successivamente, finita la Messa, mentre eravamo in preparazione di dare una forma dignitosa al corteo, ma c’era ancora una po’ di via vai e confusione, un giovane ufficiale in congedo riconobbe immediatamente il fregio sul basco e mi disse indicando con l’indice «Nembo!». Alla mia domanda come mai lo conoscesse mi rispose che lui era addirittura cresciuto nella caserma di Gradisca, presso la quale suo padre aveva svolto per anni servizio come maresciallo. Quando disse il suo cognome, pensandoci un po’ sopra, mi ricordai della figura di suo padre e della presenza di questo bambino che girellava per la caserma, qualche volta anche d’intralcio perché uno se lo poteva ritrovare tra i piedi quando meno se lo aspettava. Ricordo, infine, che quel giovane ufficiale in congedo fu la seconda persona che mi parlò del Nembo a Pistoia.

Dopo questa scenetta i vicini che vi avevano assistito cominciarono a guardarmi con altro occhio e qualcuno mi avvicinò addirittura per scambiare qualche frase. E così, in quel momento mi sentii molto orgoglioso!

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CONSIDERAZIONI SULL’ABOLIZIONE DELLA LEVA

L’obbligo del servizio militare di leva, previsto dall’art. 52 della Costituzione della Repubblica Italiana, è sostanzialmente inattivo dal 1° gennaio 2005, come stabilito dalla Legge 23 agosto 2004 n°226, sebbene sia ancora vigente non essendo stato mai formalmente abolito.

Quando questo fatto fu deciso, ossia che le nuove esigenze delle Forze Armate richiedevano un esercito costituito da soli professionisti volontari, mi trovai naturalmente d’accordo sui principi, ma per esperienza personale mi resi subito conto che ciò avrebbe portato all’immediata sparizione di almeno tre aspetti del vecchio sistema, che fino a quel momento avevano avuto una notevole importanza per la vita sociale e civile.

- Le visite mediche, contestate ed oggetto di scherno perché ritenute superficiali ed inutili, costituivano invece un importante screening sullo stato di salute dell’intera gioventù maschile, operazione che ad oggi non è stata sostituita da nessun altro metodo d’indagine e che ha precluso l’acquisizione di conoscenze e di dati statistici fondamentali a livello sanitario nazionale.

- Ho considerato e continuo tuttora a considerare ridicole le notevoli opposizioni, da una parte di civili e politici, che periodicamente insorgono contro le proposte di prelievo delle impronte digitali, fatto che ritengo sia molto importante per la sicurezza e per altri vari aspetti che possono verificarsi nella vita. Mi ricordo benissimo, infatti, il momento (anche se non riesco a collocarlo con precisione) in cui sono stato costretto a sporcarmi d’inchiostro i polpastrelli delle dieci dita per imprimere le mie su una cartella segnaletica. Di conseguenza, com’è successo a me, le impronte di gran parte degli italiani soggetti alla leva sono state registrate. Non so dove siano andate a finire, ma sicuramente in qualche archivio esistono

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CONSIDERAZIONI SULL’ABOLIZIONE DELLA LEVA

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ancora, come si può dedurre dall’esempio su mio nonno paterno Ugo raccontato all’inizio di queste pagine.

- Il servizio di leva, fino a quando è diventato di fatto regionale (in parte anche per colpa delle mamme che hanno sempre sofferto della lontananza dei propri figli), è stato l’unico mezzo, con un prodotto paragonabile ad un fantastico cocktail umano, che ha fatto conoscere il proprio Paese e i vari caratteri regionali agli italiani, perché i trasferimenti in località lontane da quella di origine, la vita in comune e la promiscuità tra individui di estrazione sociale diversa, sono stati per alcuni l’unico modo di uscire dal loro isolamento territoriale e dalla conseguente ignoranza. In alcuni casi è stato addirittura il mezzo per acquisire le competenze per esercitare un mestiere nella vita civile e, in alcuni casi più rari, per avere addirittura la possibilità di imparare i primi rudimenti per leggere e scrivere o talvolta conseguire addirittura la licenza elementare seguendo volontariamente corsi interni, che almeno negli anni ’60 erano ancora svolti. Non è da sottovalutare, infine, l’insegnamento derivante dal dover sottostare ad una forma di rigida disciplina, che a qualcuno può essere servita o è stata necessaria per formare il proprio carattere e ad altri per affrontare e superare casi avversi della vita.

Dopo tutti gli anni che avevo trascorso in collegio, sottoposto anche in questo caso ad una forma di disciplina, non avrei avuto alcun bisogno del servizio militare di leva per formare il mio carattere, ma, dovendolo espletare, ho trascorso questo periodo cercando di farlo nel migliore dei modi, grazie anche alle fortunate destinazioni dove la serietà e la continuità dei vari impegni lasciavano ben poco tempo per annoiarsi. In fondo, come più volte nel tempo ho pensato, quel periodo ha rappresentato la più lunga vacanza della mia vita!

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INDICE

Prefazione 5 Primi approcci con il mondo militare. 7 Gli ultimi giorni di libertà 9

Aprile - Settembre 1964 35°Corso AUC delle Truppe Meccanizzate a Lecce

Caserma Raffaele Pico L’arrivo a Lecce 13 I primi giorni in caserma 14 L’organizzazione interna 17 La vita quotidiana 19 Le libere 22 Il giorno del giuramento 25 I permessi giornalieri 27 Il poligono di Torre Veneri 29 Le trasferte fuori sede 33 I raccomandati e non 35 Il Ten. Cutrì Rocco 37 A Lecce 39 La “tradotta” Lecce-Trieste 40

Ottobre – Dicembre 1964 82° Reggimento “Torino” a Villa Opicina

Caserma Guido Brunner

La XIV Compagnia del IV Btg.Meccanizzato 45 La grappa della lavandaia poliglotta 48 La prima esperienza con la bora 49 Trieste e dintorni 51 Le marce e le ronde 53 La lezione di caccia ai carri 55 I contatti con i famigliari 57

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Gennaio – Luglio 1965 183° Reggimento “Nembo” a Gradisca d’Isonzo

Caserma Ugo Polonio La X Compagnia del III Battaglione 61 La Locanda “Il Friuli” 63 Gradisca e dintorni 65 La Beretta 22LR 67 Alcuni aspetti della vita in Compagnia 69 I servizi saltuari e altre incombenze 72 La scelta dei candidati per il Corso Caporali 76 Il campo mobile invernale 78 I picchetti d’onore 83 La preparazione di compagnie di formazione 85 L’adozione delle nuove armi 88 La presentazione della MG 42/59 90 Il poligono sul Monte Ciaurlec 91 Ufficiale addetto alla mensa 93 Il campo estivo trascorso in caserma 97 In prossimità del congedo 100

Appendice Finalmente a casa 105 Ricordi enogastronomici 107 La paga del soldato 109 Gli incontri dopo il congedo 111 Le rivisitazioni ambientali 113 Considerazioni sull’abolizione della leva 115

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