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Rassegna bibliografica
Gli ultimi incompiuti contributi di Renzo De Felice alla biografia di Mussolini
Massimo Legnani
Non è possibile riferire e discutere di quest’ultimo volume della biografia mussoliniana di Renzo De Felice (R. De Felice, Mussolini l’alleato 1940-1945. II. La guerra civile 1943-1945, Torino, Einaudi, 1997, pp. X-— 768, lire 100.000), senza riferirsi preliminarmente al suo carattere anomalo di opera rimasta incompiuta per la morte dell’autore. Il libro si compone di quattro capitoli che coprono i mesi che vanno dal 25 luglio alla primavera del 1944. Con qualche approssimazione, ché il terzo capitolo, dedicato a “Il dramma del popolo italiano tra fascisti e partigiani”, contiene ampi squarci su situazioni e sviluppi successivi, che in qualche modo giungono a lambire il periodo della liberazione, mentre le parti riservate a Mussolini restano rigorosamente entro i confini cronologici ricordati. D’altro canto, tra le carte dello studioso, come avverte la premessa, non è stato rinvenuto alcun progetto o indice analitico che permetta di intravvedere su quali linee si sarebbero articolati i restanti capitoli, secondo quale impostazione e distribuzione della materia. Resta così insoddisfatto il desidero di sapere se aspetti appena sfiorati sarebbero stati in seguito approfonditi. Né si tratta di elementi marginali, ma direttamente incidenti sulla struttura del libro. Ad esempio, non viene tracciato un quadro quantomeno di massima delle articolazioni istituzionali, politiche e organizzative della repubblica fascista, che sembra vivere esclusiva- mente attraverso i vertici del partito e del governo. Altrettanto si può dire delle strutture dell’occupazione tedesca, su cui mai ci si sofferma con la dovuta larghezza e sistematicità, mentre la nar
razione indugia a lungo (specialmente nel quarto capitolo) sui rapporti tra i rappresentanti del Reich e gli esponenti di Salò, fornendo spunti sicuramente utili, ma anche di breve raggio, tutti interni alle molte controversie innescate dalla memorialistica. Non è dato sapere se e in qual misura De Felice si proponesse di colmare tali lacune nel seguito del lavoro. Di certo la loro esistenza orienta la lettura in una unica direzione, nella quale il centro della scena è costantemente occupato dalla ragnatela dei rapporti interni ad un gruppo molto ristretto di personaggi. Di qui il carattere fortemente affabulatorio soprattutto dei due capitoli dedicati all’attività politica di Mussolini e del suo entourage. Gli interrogativi circa la volontarietà di queste scelte sono destinati, s’è detto, a restare senza risposta, ma anch’essi inducono a chiedersi— dato naturalmente per scontato che sia i tre capitoli licenziati dall’autore, sia il quarto, troncato prima della fine, meritano di essere conosciuti e discussi — se non sarebbe stato preferibile una veste editoriale diversa, più aderente al carattere parziale del testo.
Il libro intreccia due percorsi, entrambi scanditi con chiarezza: da un lato, nel primo e ultimo capitolo, la vicenda politica e personale di Mussolini; dall’altro, nei capitoli centrali, quelle che De Felice considera le due coordinate di fondo di ogni cornice esplicativa, la “catastrofe nazionale dell’8 settembre” e il già ricordato “dramma del popolo italiano tra fascisti e partigiani”. È risaputo come negli ultimi anni l’attenzione di De Felice si sia ripetutamente rivolta all’8 settembre e come essa si sia prevalentemente espres-
‘Italia contemporanea”, settembre 1997, n. 208
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sa, più che in contributi originali di ricerca, in interventi di tipo pubblicistico di cui la lunga intervita edita nel 1995 (Rosso e nero, a cura di Pasquale Chessa, Milano, Baldini & Castoldi), fornisce la sintesi più completa. La lettura dell’intervista lasciava supporre che il volume in gestazione, cui di continuo l’intervista rimanda, avrebbe sviluppato analiticamente, e comunque corredato dei dovuti riscontri documentari, le tesi affacciate in quella sede. E però un’attesa in gran parte delusa. De Felice fornisce bensì una esposizione più distesa e ricca di particolari, ma l’impalcatura concettuale resta sostanzialmente ferma a quelle sommarie enunciazioni, che qui vengono reiterate più come formule storiografi- che che come esiti di un’indagine. La “catastrofe dell’8 settembre”, ripete De Felice, scava una voragine ben più profonda di quanto non spieghi il collasso dello Stato reso in tutta la sua ampiezza dalla dissoluzione dell’esercito; equivale alla “morte della patria” e “con essa della nazione come vincolo di appartenenza ad una realtà etico-politica consapevole della propria ‘ragione storica’” (p. 87). Quanto alla “guerra civile”, De Felice toma a ribadire che fu effetto di due ristrette minoranze, entrambe prevaricatrici della volontà della grande maggioranza degli italiani, preoccupata solo di “sopravvivere” e di sottrarsi all’incubo della guerra distruggitrice. La migliore conferma, sempre secondo De Felice, verrebbe dal fatto che, nonostante la responsabilità della guerra civile ricadesse principalmente sui fascisti per non essersi, questi, “resi conto dell’abisso che si era frapposto tra loro e la gran maggioranza degli italiani e per essersi schierati con i tedeschi”, la reazione di gran lunga prevalente nel paese non fu “quella di unirsi a chi combatteva i fascisti e i tedeschi o, almeno, di identificarsi con essi e con la loro causa, ma quella, come abbiamo già detto più e più volte, di estraniarsi non solo materialmente ma anche moralmente dalla lotta, di non compromettersi né con i fascisti né con i partigiani e di pensare solo a sé stessi, tutto riportando nell’ottica della sopravvivenza”. E prosegue affermando che quella appena descritta non fu la sola reazione, “ché
un’altra risposta fu quella — per forti che fossero l’ostilità nei confronti dei fascisti e la riprovazione per le loro violenze e per Tessersi messi con i tedeschi — di porli talvolta sullo stesso piano e persino di attribuire le maggiori responsabilità ai partigiani per avere con la loro presenza innescato un conflitto di cui pagavano le spese coloro che venivano a trovarcisi in mezzo senza aver nulla a che fare con esso e sentendosi per di più estranei agli ideali, alle motivazioni di entrambe le parti” (p. 300). Abbiamo riportato per intero i passaggi salienti di una pagina che riveste un ruolo strategico nella costruzione del libro perché ci sembra che essi rendano con immediatezza, al di là della apparente linearità del giudizio, le asimmetrie e le incon- guenze della interpretazione che De Felice propone. Su un punto essenziale soprattutto, relativo al nesso da porre tra la “morte della patria” e il chiamarsi fuori dalle alternative della guerra civile. Mentre infatti la “vera spiegazione” dell’8 settembre, per citare ancora le parole di De Felice, va cercata, senza indulgere a “schematizzazioni più o meno classiste”, “nella condizione culturale e morale dell’Italia” (p. 89), il successivo estraniarsi risulta dettato piuttosto dalle pulsioni esistenziali legate alla eccezionalità della situazione, dalla volontà di comunque sopravvivere. Che è concetto ben lontano da quello che De Felice, dichiarando di condividerlo appieno, ricava da Vittorio De Caprariis, laddove questi osserva che i comportamenti più diffusi nel 1943- 1944 rispecchiavano l’atteggiamento “di chi, dopo aver combattuto invano contro forze soverchiami, si disanima al fine e si ritira dalla lotta per lasciarsi morire” (p. 93). Lo scarto tra i due giudizi non potrebbe essere più stridente. Il deficit morale cui De Felice rimanda (e su cui a lungo si era trattenuto nel precedente volume della biografia mussoliniana) per motivare il tracollo del paese ben prima dell’8 settembre e la sotto- lineatura di De Caprariis dell’aver “combattuto invano contro forze soverchiami”, introducono infatti a due conclusioni lontane se non opposte: la ricerca della “sopravvivenza” in De Felice, il “lasciarsi morire” in De Caprariis (che De Feli
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ce forza sino a renderlo equivalente al “lasciarsi vivere estraniandosi da tutto”, p. 98).
Tuttavia, vale ribadirlo, il filo del discorso non esce mai dalFambito della controversia storiografica. I molti riferimenti bibliografici di cui è intessuto recuperano una parte rilevante della letteratura, soprattutto memorialistica, sul periodo, il che consente di accumulare un’ampia messe di giudizi che De Felice ritiene facciano in varia misura da supporto alla sua tesi, ma che non consentono in ogni caso di oltrepassare i limiti di un panorama impressionistico. Quel “popolo italiano” che campeggia nel titolo del terzo capitolo non è mai un soggetto, ma solo l’oggetto cui le forze in lotta costantemente si riferiscono per analizzare le reazioni della popolazione alla loro presenza e iniziativa. La scena sociale resta vuota, come trasfigurata dall’imperativo biologico della “sopravvivenza”, tale da cancellare differenziazioni sociali e matrici culturali a favore dello stereotipo “gente”, di cui non casualmente De Felice fa largo uso. Lo stesso De Felice, del resto, sembra percepire la fragilità della propria argomentazione quando, ad esempio, accompagna la definizione di “zona grigia” con la considerazione che “così dicendo non usiamo un termine di riferimento generico, ma ben preciso” e soprattutto laddove afferma che, sulla scia degli avvenimenti, “coloro che col passare del tempo riuscirono realmente a non prendere assolutamente posizione furono solo una minoranza” (p. 292). L’iniziale estraneità della grande maggioranza non è dunque un dato immobile, ma la tappa di un percorso evolutivo che obbedisce a contesti e tempi diversi e che De Felice in parte esplora con considerazioni che giustamente ricusano un utilizzo rigido della contrapposizione fascismo/an- tifascismo, o comunque di una spiegazione puramente politica dei comportamenti individuali e di gruppo (e v’è da lamentare, a quest’ultimo proposito, che gli spunti sul cangiante atteggiamento delle popolazioni verso la guerra partigiana non siano affiancati da altrettante indicazioni su intensità e motivazioni dei fenomeni di collaborazionismo). Si può dire, in definitiva, che non appena De Felice cerca di calare la propria tesi nel
flusso degli avvenimenti la unilateralità della enunciazione iniziale si stempera, anche se il versante più esplorato resta quello di una dimensione psicologica e morale largamente disancorata da ogni riferimento incisivo al tessuto sociale.
Con il quarto capitolo, come già nel primo, si toma nell’alveo dell’operato di Mussolini. De Felice ripercorre passo passo le tracce della memorialistica e illumina il tentativo di Mussolini di costruire una realtà politica e statuale che, legittimata dal ritorno di unità italiane sul fronte di guerra, potesse guadagnarsi qualche spazio di autonomia nei confronti della Germania. Il disegno si inceppa rapidamente e di fatto si esaurisce, nel giudizio di De Felice, con la primavera del 1944 sia per le soffocanti interferenze tedesche sia, non meno, per le dinamiche interne al gruppo dirigente fascista, frantumato in clan che si contendono le residue posizioni di potere miscelando continuamente eredità del regime e velleitarie pulsioni al rinnovamento. Non mancano in questa parte le pagine convincenti, come dimostra la ricostruzione della parabola del Partito fascista repubblicano dalla “provvisoria” attribuzione della segreteria a Pavolini all’assemblea di Verona, dalla decisiva questione della “politicità” delle forze armate alla mancata sostituzione, nel gennaio 1944, di Pavolini con Fulvio Balisti. Il caleidoscopio dell’universo fascista ne esce adeguatamente illuminato, così come l’incapacità di Mussolini — sempre oscillante tra rassegnazione e fiammate di attivismo — a governarlo, a riproporsi non solo come capo ma come simbolo unificante di quel mondo. Proprio per questo è difficile condividere la risposta che De Felice fornisce all’interrogativo sulle ragioni che inducono Mussolini a correre l’avventura della Repubblica sociale. Mussolini, scrive De Felice, “riassunse il potere perché solo a questa condizione Hitler non avrebbe fatto dell’Italia da lui occupata una sorta di Polonia e perché sperava di potere con la sua presenza rendere meno pesante il regime di occupazione, in particolare di impedire che i tedeschi avessero carta bianca nelle ‘zone d’operazione’ delle Prealpi e del Litorale Adriatico e se le annettessero” (p. 66). Al di là
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del fatto che Prealpi e Litorale Adriatico non compariranno mai nel corso del libro — così che il riferimento citato assume un puro valore retorico —, ciò che appare storicamente inattendibile è la considerazione del personaggio Mussolini come di un’entità separabile dalla restante realtà fascista del dopo 8 settembre. Di quella realtà Mussolini resta l’immagine più prestigiosa, ma il suo ruolo di comando è stato intaccato in modo irreparabile. Tanto è vero che quando annuncia il suo ritorno deve accettare una serie di scelte che in parte, restando a De Felice, sono in urto con la sua visione (Pavolini alla testa del Partito, la Milizia come cellula di un futuro “esercito politico”, una lista di ministri largamente imposta), in parte rimandano confusamente alla possibile identità di uno stato repubblicano che non
realizzerà nemmeno le sue più elementari impalcature (si pensi alla questione della mancata Costituente). Mussolini non è scindibile, quali che siano i suoi personali stati d’animo (a cominciare dalla peraltro ambigua resipiscenza patriottica di cui De Felice gli fa credito), da questo intreccio di fattori, che altro non sono che eredità del regime in cerca di trapianto nella situazione creata daH’armistizio e dall’occupazione tedesca. Immaginare soluzioni alternative equivale, per involontaria ironia, a ipotizzare che anche Mussolini potesse entrare a far parte di quella grande maggioranza di italiani che, secondo l’opinione di De Felice, si dichiararono egualmente estranei al fascismo e all’antifascismo.
Massimo Legnani
Socialismo e capitalismo in Europa occidentale
Simone Neri Serneri
“Il socialismo è morto, viva il socialismo” potrebbe essere l’epitaffio da apporre alle quasi mille pagine dedicate da Donald Sassoon al socialismo europeo di questo secolo, One HundredYears ofSocialism. The West European Left in thè Twen- tieth Century, London-New York, Tauris, 1996, pp. 966,36 sterline. Un’opera ponderosa, di cui si attende la traduzione italiana (soltanto le conclusioni sono state tradotte e pubblicate in “Italia contemporanea”, 1995, pp. 581-605, con il titolo L'ombra del capitalismo. Storia e prospettive del capitalismo europeo), sorretta da un interrogativo ancor più ponderoso: cosa ha realizzato il socialismo in Europa? Dove è riuscito? Dove è fallito? Non è, perciò, una storia del movimento, né dei partiti socialisti, quanto piuttosto una ricerca delle ragioni storiche della crisi attuale del socialismo europeo. Ecco perché Sassoon adotta una particolare profondità di campo, che dilata l’attenzione e la narrazione con ravvicinarsi al tempo presente e fa sì che, dei “cent’anni di socialismo”
menzionati nel titolo, la prima metà resti assai poco considerata. Questa impostazione, fonte di un certo disagio per chi non disprezza i tradizionali canoni storiografici, rivela i suoi pregi via via che, di capitolo in capitolo, le chiavi interpretative proposte si rivelano interessanti e solide.
In effetti, il volume offre un’approfondita e informata trattazione delle maggiori questioni politiche ed economiche che hanno scandito la storia d’Europa nella seconda metà del secolo, di solito considerandole dapprima nei loro termini generali e, poi, verificandole in modo analitico e comparativo nei diversi paesi europei, anche se, forse, maggiore attenzione è rivolta a Gran Bretagna, Germania e Svezia (mentre, per esempio, la vicenda italiana risente di un certo schematismo). Ne risulta, perciò, una ricostruzione pressoché unica per l’arco cronologico e l’ampiezza della comparazione adottati e assai valida anche per un uso manualistico. D’altro canto, per l’impostazione di cui si è detto, essa risulta chiaramente ordinata e
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intelligentemente innervata da alcuni assunti prioritari: relativa omogeneità e comparabilità delle vicende déll’Europa occidentale, distinta da quella orientale, oltreché dal resto del mondo; stretta compenetrazione, almeno nella seconda metà del secolo, tra sviluppo del capitalismo europeo ed esperienza della sinistra continentale (compresi i partiti comunisti, a partire da quello italiano); rilevanza decisiva della dimensione nazionale oppure intemazionale del campo di azione dei partiti e, rispettivamente, delle forze economiche con cui questi si confrontano.
Essendo ovviamente impossibile dar conto, anche per campioni, delle innumerevoli questioni affrontate da Sassoon, e limitandosi perciò soltanto alle linee portanti del saggio, va comunque sottolineato come, in generale, la narrazione sia condotta con mano sicura e scrittura piacevole, e fonda con discreto equilibrio esposizione dei fatti e giudizi di merito, gli uni e gli altri sorretti da un’ampia ricognizione delle fonti edite disponibili (per lo più pubblicistica coeva e raccolte di documenti) e da un ’approfondita conoscenza della letteratura storica e sociologica, soprattutto anglosassone, mentre minore è il riferimento a ricerche e tematiche politologiche.
Si è detto che Sassoon intende misurare il socialismo europeo essenzialmente sul metro dei suoi obiettivi dichiarati, a cominciare da quello massimo: il superamento o l’abbattimento dell’economia capitalistica. Nei fatti, ciò porta a valutarne soprattutto l’opera di governo, dell’economia e della società, lasciando in ombra le dimensioni sociali dei partiti in quanto attori politici collettivi, e a concentrarsi sui decenni successivi al 1945. Quel che precede è trattato poco più che come un antefatto, di cui si sottolinea soprattutto la contraddizione tra dichiarazioni programmatiche e debolezza delle scelte pratiche, che avrebbe paralizzato i partiti dell’epoca. Appare, invero, un approccio forse troppo ideologico e ingeneroso, perché — a differenza di quanto Sassoon stesso fa per il periodo successivo — omette di cercare, dietro quelle contraddizioni, l’incidenza, tutt’altro che trascurabile, dei movimenti socialisti organizzati sullo sviluppo e gli
esiti dei sistemi politici e sociali della prima metà del nostro secolo.
In realtà, a Sassoon preme sottolineare la frattura con il periodo successivo alla seconda guerra mondiale, quando, per una serie di contingenze, la sinistra europea riuscì, talora da posizioni di governo, a imporre un carattere sociale al necessario compromesso che consentì la ripresa e la modernizzazione dell’economia capitalistica, ponendo le basi del consolidamento simbiotico del capitalismo e del socialismo europeo. In tal modo, però, restano nell’ombra la disparità delle condizioni economiche e sociali e dei livelli di sviluppo e di integrazione nazionale, che non poco contribuirono a determinare la natura e il ruolo dei partiti di sinistra all’interno dei vari paesi europei, nonché il loro grado di adesione alla causa del proprio stato-nazione. Proprio quella adesione, si noti, che per Sassoon qualifica la fase politica apertasi dopo il conflitto mondiale.
Difatti, egli insiste nel ricordare che la nascita del welfare state, le politiche di piena occupazione e di alti salari, le stesse nazionalizzazioni- che gradualmente avrebbero caratterizzato negli anni successivi lo sviluppo di diversi paesi europei, scaturirono dalla egemonia politica dei socialisti, ma comportarono la sostanziale accettazione delle istituzioni statali e delle necessità delle varie economie nazionali, a cominciare daquel- Ia della loro modernizzazione. In definitiva, come dimostrarono anche le scelte concrete di politica estera, al di là del fatto che fossero in difesa degli imperi coloniali o, invece, a sostegno della cooperazione europea, tutti i panili socialisti si identificarono con i rispettivi stati nazionali e accettarono il quadro generale della polìtica 'americana’, basata sulla crescita della produttività e dei consumi, pur dovendo necessariamente mantenere bassi i salari (p. 207). Nel decennio successivo, il ‘disinteresse’ per la polìtica estera e il revisionismo ideologico, con la rinuncia esplìcita al finalismo socialista e alle concezioni eata- strofiste del capitalismo, testimoniarono ulteriormente lo sforzo per adeguarsi, anche tatticamente, alle condizioni della competizione polìtica nei singoli contesti nazionali.
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Questa chiave di lettura, accompagnata da un giudizio critico che tende a stemperarsi con il procedere della narrazione, porta Sassoon a spiegare l’eclisse dei socialisti negli anni cinquanta con il benessere prodotto dalla ripresa economica da loro stessi impostata e, ancora, a spiegare il loro ritorno al governo in molti paesi europei, nei sessanta, con l’aprirsi di un nuovo ciclo politico, segnato dalla necessità di affrontare la crisi congiunturale, rilanciare il welfare e dialogare con le rafforzate organizzazioni sindacali. Fu la stagione delle politiche riformiste, che, seppur di solito assai poco incisive e di scarso respiro, contribuirono a modernizzare e stabilizzare le economie nazionali, nonché a favorire, finalmente, la crescita dei salari. I risultati, comunque, dipesero dal combinarsi di condizioni strutturali e scelte politiche diverse da paese a paese: se i laburisti pagarono l’ostinata e tradizionalistica difesa della sterlina e dell’impero, la socialdemocrazia tedesca tentò una più innovativa politica dei redditi, basata sulla concertazione sindacale e sul contenimento della disoccupazione, anche se il successo politico derivò soprattutto dagli alti tassi di crescita economica e le riforme più significative giunsero solo dopo il 1969, una volta abbandonata la Grosse Koalition. La stessa socialdemocrazia svedese, che pure a molti pareva riuscire nel comune intento di coniugare le esigenze della crescita capitalistica con gli ideali della redistribuzione socialista o, altrimenti, di raggiungere l’efficienza economica necessaria a sostenere il pieno impiego e il welfare state (pp. 320-322), rappresentava tutt’altro che un ‘modello’ esportabile, basata com’era su peculiari condizioni sociali e non meno peculiari caratteri del proprio capitalismo nazionale (pp. 43 sg., 157-158, 203- 207). D’altronde, anche in politica estera restò difficile definire un comune indirizzo ‘ socialista’. Pur con alcune parziali eccezioni (il graduale disimpegno laburista dalle colonie, V Ostpolitik, il policentrismo teorizzato da Togliatti), prevalsero i vincoli intemazionali e la fedeltà al bipolarismo, come dimostrarono eloquentemente il caso del Vietnam e della ‘primavera di Praga’. La stessa scelta europeista, per quanto talora sostenuta con
entusiasmo, non fu integrata con la politica interna: in effetti, “le fortune del socialismo furono inesorabilmente legate a quelle della nazione (capitalistica) in cui operava” (p. 343).
E già ben evidente come Sassoon insista su tre principali considerazioni. Anzitutto, anticipando un giudizio positivo che egli esplicita soltanto nelle pagine conclusive, riconosce al socialismo il merito di aver ‘civilizzato’ il capitalismo europeo, rendendolo meno gerarchico e più umano, ovvero socialmente meno oneroso di quello americano o giapponese (pp. 763 sg.). Ciò si è concretizzato nella politica di welfare, nella ricerca della piena occupazione e nel graduale innalzamento dei salari, ma sempre in una prospettiva di sostegno e di modernizzazione capitalistica: in altri termini, le fortune del socialismo non si sono legate alla crisi, bensì alla crescita del capitalismo, che ha consentito di reperire le risorse per quelle politiche sociali. Infine, egli sottolinea come il vincolo dell’accettazione dell’economia capitalistica abbia trascinato con sé quello dell’accettazione degli interessi politici ed economici nazionali e, quindi, della collocazione intemazionale del proprio paese, inducendo una sostanziale identificazione tra socialismo e stato-nazione, destinata a rivelarsi di corto respiro strategico. E stato in larga misura questo insieme di vincoli o, meglio, la capacità di ciascun partito di farli propri e, se necessario, di modificarli a decretare il successo o il fallimento delle politiche socialiste nei vari paesi europei.
Come li avevano sostenuti nei decenni del consolidamento, questi vincoli condizionarono i partiti socialisti nella crisi che, dagli anni settanta, concluse F‘età dell’oro’ del capitalismo europeo. Già sul finire del decennio precedente, invero, la ripresa del radicalismo operaio, la ribellione studentesca e, di lì a poco, la rinascita del femminismo — cui Sassoon dedica ampio spazio — avevano mostrato i limiti e, ad un tempo, le sfide che quel modello di sviluppo andava incontrando, sia sul piano economico, per la tensione tra alti salari e crescita della produttività, segnalata dalla ripresa dell’inflazione, sia sul piano sociale e culturale, per effetto del maggior be
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nessere e dei nuovi stili di vita. Tuttavia, la crisi e la sconfitta dei partiti socialisti e, con loro, dei sindacati, che pure proprio in quegli anni parvero acquisire un proprio autonomo potere sulla base della concertazione neocorporativa, scaturirono da un capovolgimento ben più radicale.
La fine del ciclo espansivo e, quindi, della regolazione politica del capitalismo si manifestò con la ripresa dell’inflazione e, di lì a poco, della disoccupazione, concomitanza che impedì le tradizionali ricette keynesiane e indusse a ricorrere prima alla politica dei redditi e, poi, al neoliberismo e al monetarismo, assurti — come è largamente noto — a ideologia dominante degli anni ottanta. I conservatori tornarono a imporre la propria agenda politica, imperniata non più sulla redistribuzione del surplus, bensì sul drastico ridimensionamento del ruolo dello Stato, accusato di impedire la ristrutturazione industriale e irrigidire i mercati. Peraltro, nota Sassoon, almeno fino ai primi anni novanta la deregulation dei mercati non sarebbe servita a contenere l’inflazione e, per questa via, a favorire la ripresa e l’occupazione. Peraltro, dovendo scegliere, prevalse il fatto che erano più numerosi gli elettori colpiti dall’inflazione che dalla disoccupazione.
Dove Sassoon appare particolarmente convincente, tuttavia, è nell’imputare il declino politico dei partiti socialisti allo sgretolarsi di quella divisione intemazionale del lavoro basata sulla tendenziale identificazione tra capitalismo e stato-nazionale, che aveva sorretto l’espansione postbellica e di cui èssi erano stati leali sostenitori. La recessione apertasi negli anni settanta, difatti, scaturì da un molteplicità di cause, tra le quali la rigidità del welfare state non fu più gravosa degli shock indotti dalle crisi petrolifere e dall’abbandono del sistema di cambi fissi (p. 458). Pesò, piuttosto, il fatto che, per l’entità raggiunta dal commercio intemazionale, i cambi fluttuanti resero le economie nazionali fortemente dipendenti dal rapporto tra i prezzi relativi e, quindi, dai differenziali d’inflazione: in sostanza, anche la socialdemocrazia si trovò a dipendere, come ogni forza nazionale, dall’equilibrio della bi
lancia dei pagamenti e non potè perciò procedere a una politica espansiva, perché avrebbe accresciuto le importazioni meno costose, favorendo la ripresa dell’inflazione e diminuendo la competitività delle industrie nazionali. La sola possibile alternativa sarebbe stata un coordinamento delle politiche espansive, in una prospettiva di medio termine e, soprattutto, nella consapevolezza dell’incipiente erosione della sovranità economica nazionale (pp. 459-460).
Analizzando in dettaglio le risposte e i risultati dei socialisti nei piccoli come nei grandi stati, Sassoon mostra che anche laddove, come in Austria e Svezia, fu possibile contenere gli effetti della crisi con l’intervento pubblico e la politica dei redditi, il successo dipese da un insieme di condizioni specifiche, dalle peculiari risorse di quei sistemi sociali ed economici e dal sostegno delle esigenze del capitalismo nazionale. Anche lì, comunque, nel corso degli anni ottanta si dovettero ridimensionare le prestazioni del welfare, il settore pubblico e il molo dei sindacati, proprio perché l’insufficienza del mercato interno e l’accresciuta internazionalizzazione di quelle economie rendevano destabilizzanti e inefficaci le tradizionali ricette espansive. Se in questi paesi si imparò gradualmente a convivere con un’economia sempre più intemazionalmente interdipendente, altrove, come in Olanda e Belgio, le differenti condizioni politiche e, soprattutto, la già matura internazionalizzazione del sistema economico ridimensionarono bruscamente molo e proposte dei socialisti. Ad analoghe conclusioni porta il raffronto tra il caso della Gran Bretagna — dove il rifiuto di una politica di programmazione e la mancata concertazione tra governo e sindacato esaltarono le pressioni finanziarie intemazionali e accentuarono le disparità salariali, aprendo la strada al thatcherismo — e quello della Germania,- ove i maggiori poteri di indirizzo del governo, la tradizione della “economia sociale di mercato”, la consapevolezza della necessaria integrazione intemazionale dell’economia tedesca, nonché, non ultima, la sua maggiore solidità, consentirono di limitare il ridimensionamento delle politiche sociali e di gestire gli effetti sociali del
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la ristrutturazione. Non meno eloquenti paiono, infine, le esperienze della Francia — ove soltanto sul finire degli anni ottanta, ormai troppo tardi, il nazionalismo economico lasciò il posto all’europeismo — e dei paesi mediterranei (Spagna, Italia, Grecia), pure essi guidati nei primi anni ottanta da governi socialisti che, tuttavia, non furono in grado di promuovere un’inversione di tendenza su scala continentale: ciò avrebbe richiesto — è questo un passaggio cruciale dell’interpretazione di Sassoon — non il susseguirsi delle vittorie nelle singole nazioni, ma condizioni economiche favorevoli, invero all’epoca inesistenti, e, comunque, un coordinamento delle politiche espansive. Al contrario, mentre partiti e nazioni proseguivano su strade separate, reagendo a impulsi locali, i vari capitalismi continuavano a svilupparsi e ristrutturarsi, “inarrestabili, nella loro cieca corsa, come acqua che cerca il piano più basso, reclamando l’abolizione dei limiti e delle regole che lo stato-nazione aveva eretto nel corso del secolo” (p. 619).
In conclusione, Sassoon fa scaturire la crisi del socialismo europeo e, in particolare, la rottura del favorevole compromesso imposto al capitalismo continentale dopo il 1945 anzitutto dalla trasformazione strutturale di quello stesso capitalismo, ormai uscito dal suo guscio nazionale e divenuto sistema di accumulazione a base mondiale, cosicché ne risultavano profondamente alterate le formazioni sociali con cui i socialisti si erano fino ad allora confrontati (p. 644). Proprio quella trasformazione, oltreché il venir meno del sistema di Bret- ton Woods, sottrasse alle istituzioni politiche — le cui risposte, comunque, tuttora spiegano le diverse condizioni nazionali — la possibilità di controllare pienamente le dinamiche economiche interne e di coordinare quelle intemazionali (p. 460).
L’internazionalizzazione del capitalismo, il venir meno di quella identificazione tra capitalismo e stato nazionale, cui i socialisti restavano ancora legati, perché su di essa avevano fondato le proprie fortune politiche, è, dunque, il fattore stmtturale che, imponendo la svolta neoliberista degli anni ottanta, ha aperto la strada al ritorno egemonico dei conservatori e chiuso l’epoca d’o
ro del capitalismo sociale europeo e, al tempo stesso, una fase storica del movimento socialista. Come si vede, Sassoon affronta in modo assai articolato il nesso tra economia e politica e ne deduce una periodizzazione che, per quanto riprenda quella de 11 secolo breve di Hobsbawm (Milano, Rizzoli, 1995), di questa appare più solida e convincente. Del resto, l’ampiezza e l’efficacia della ricostruzione storica che sorregge l’analisi del declino o, almeno, del marcato arretramento dei movimenti socialisti nell’ultimo decennio distingue il giudizio di Sassoon da quelli che, in modo altrettanto epocale, ma assai più generico, chiamano in causa i processi di modernizzazione, forieri di valori e codici comportamentali individualistici, e perciò antitetici alla cultura solidaristica e tendenzialmente statalista dei partiti socialisti, oppure, in modo più circo- scritto, responsabili dell’erosione dei loro tradizionali referenti sociali ed elettorali.
Non che in Sassoon non vi sia, ancorché meno approfondito, il richiamo al mutamento di valori e alle trasformazioni sociali e culturali (dalla cosiddetta fine del taylorismo alla femmini- lizzazione del lavoro, alla diffusione del part-time, alla questione ambientale, ecc.) che, pur non necessariamente avverse ai socialisti, impongono un rinnovamento profondo delle proposte e dei programmi. Ma il rilievo di queste tematiche è da intendersi in riferimento alla improcrastinabile elaborazione di una nuova agenda socialista, più che al loro impatto diretto sugli equilibri politici ed elettorali (pp. 655-656 e 690).
Gli anni ottanta, difatti, si sono chiusi con la stipula di un secondo compromesso tra socialdemocrazia e capitalismo, questa volta, però, alle condizioni poste dal neoliberismo, e non è dato sapere se esso costituisca la resa de facto del socialismo o solo la fine della sua preistoria (p. 692). E pur vero, comunque, che, come sostiene con una buona dose di ragioni Sassoon, il cosiddetto “neorevisionismo” da allora dominante la cultura dei partiti socialisti europei è un ineludibile punto di partenza, la cui meta, tuttavia, resta largamente incerta. Alla fine di quel decennio, il drastico ridimensionamento delle Trade Unions in
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Gran Bretagna e il fallimento del progetto di democrazia economica delineato nel piano Meidner in Svezia, dei quali il volume offre una approfondita disamina, segnarono emblematicamente la sconfitta storica di due tra le più forti tradizioni del socialismo continentale e aprirono la strada a una svolta politica che, in tutta Europa, portò i socialisti ad abbandonare il keynesismo e, con esso, il paradigma della piena occupazione e dell’intervento pubblico quali strumenti primari di regolazione del mercato; a rinunciare ai valori del produttivismo e della programmazione; a riconsiderare il carattere universalista del welfare state e la finalità stessa della redistribuzione dei redditi, fino ad allora distintivi della politica socialista; perfino a dismettere il riferimento prioritario ai lavoratori industriali e ai sindacati; ad accontentarsi di una più limitata regolazione legislativa dell’economia e del mercato capitalistici; ad abbandonare l’ipotesi di una ‘via nazionale al socialismo’, per scegliere senza incertezze la Cee e, poi, l’Europa di Maastricht e tentare una concertazione intemazionale delle politiche economiche (pp. 734 sg.). Tutto questo perché, se muoversi in avanti non è garanzia di successo, rimanere fermi dà certezza della sconfitta (p. 754).
Tuttavia, le ricette del ‘neorevisionismo’ servono per la navigazione a vista, ma non bastano a dettare l’agenda di un eventuale socialismo del secolo venturo. Non spetta allo storico, peraltro, riempire quei vuoti, ma, tutt’al più, ricordare la strada percorsa e, alla luce dell’esperienza, additare gli ostacoli che costringono il cammino. E, allora, quali consapevolezze restano in questa fine di secolo? Anzitutto, che il welfare state non solo ha opportunamente temperato la crudità sociale del capitalismo, ma, verosimilmente, ha contribuito non poco a stabilizzarlo, da ultimo nella recente crisi degli anni ottanta (p. 797). Un altro motivo, dunque, per non sbarazzarsene a cuor leggero, benché — a differenza di quanto scrive Sas- soon (p. 773) — anche in questo campo appaia assai limitata l’autonomia d’azione dello stato nazionale. D’altra parte, se indubbiamente l’azione politica può ritrovare obiettivi ed efficacia soltanto acquisendo una dimensione continentale, non
si può non concordare con Sassoon che ancora debole è una possibile identità ‘nazionale’ europea e che l’Unione europea appare profondamente segnata dal marchio d’origine liberista, mentre gli Stati nazionali godono di una ben più salda legittimazione democratica e non a torto, perciò, sono difesi dai loro cittadini elettori, oltreché dai loro governi. Ma proprio qui nasce l’altro corno del dilemma: poiché, nonostante tutto, lo stato nazionale resta relativamente solido, nella competizione globale esso serve, in primo luogo, a difendere gli interessi ‘nazionali’. Un compito che, sia sul piano ideologico, sia su quello delle prestazioni politiche ed elettorali, inevitabilmente avvantaggia i partiti conservatori, anziché l’europeismo dei socialisti: globalizzazione del capitale e nazionalismo vanno di pari passo (pp. 775-776).
E allora segnato il destino del socialismo? In verità, se la coesione e la congruenza dell’analisi e della prognosi di Sassoon mostrano un limite di, per così dire, eccessiva coerenza, questo scaturisce dalla scelta metodologica di privilegiare decisamente e unilateralmente la dimensione politica e, quindi, l’azione istituzionale e di governo dei partiti socialisti. Tralasciando quanto attiene ai partiti nella loro qualità di forze sociali organizzate, quanto rende ragione del loro costituirsi e ricostituirsi come strumento di proiezione delle fratture e delle aggregazioni sociali sulla sfera del conflitto politico, Sassoon finisce per precludersi — al di là di alcune occasionali annotazioni — un’analisi ‘dal basso’ delle forme storicamente assunte dai nessi tra partiti e società, al punto che questi, almeno implicitamente, paiono essere costituiti per lo più dall’alto. Invece, le sorti dello Stato nazionale e, sulle spalle di questo, dell’Europa paiono non poco dipendere dalla capacità di farne il terminale istituzionale di gerarchie o reti di aggregazione politica che, lungi dall’essere mero rispecchiamento di vincoli comunitari e fratture territoriali, procedano, secondo l’antica ispirazione socialista, dal disvelamento — dentro le forme nuove del lavoro e del consumo — di poteri e bisogni sociali ineguali.
Simone Neri Serneri
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La sfera pubblica femminile nella Germania hitleriana
Helga Dittrich-Johansen
Frutto di ricerche, basate su fonti archivistiche e orali, iniziate nei tardi anni settanta sull’onda della sensazione di “catturare la storia perduta di un’era remota e finita per sempre” (p. 5), il libro che Claudia Koonz ha dedicato alle Donne del Terzo Reich (Firenze, Giunti, 1996, pp. 431, lire45.000) è uscito nel nostro paese a ben dieci anni di distanza dalla prima edizione americana, il cui titolo originale— Mothers in thè Fatherland. Women, thè Family and Nazi Politics (New York, St. Martin’s Press, 1986) — consente, assai meglio di quello della versione italiana, di apprezzare il tentativo compiuto dall’autrice di andare ben oltre la semplice ricostruzione di una storia del nazismo al femminile, nell’intento di ridisegnare la presenza delle donne (e i ruoli da loro ricoperti) in un periodo molto complesso e problematico quale fu quello vissuto dalla Germania a partire dagli ultimi anni di agonia della repubblica di Weimar fino al drammatico e fatale tracollo del folle sistema politico hitleriano.
Non si tratta —- avverte subito l’autrice — di una vicenda caratterizzata da spettacolari colpi di scena. A ben vedere, la storia delle donne nel Terzo Reich procede, in larga misura, sui tranquilli e collaudati binari della normalità e della quotidianità, è “banale e poco appariscente” (p. 52), ed è in ciò che risiede il suo fascino. Attraverso un’analisi incisiva e serrata delle motivazioni sociali, psicologiche e culturali, e ben ricostruendo il convulso clima politico di quegli anni, caratterizzato dalle attese palingenetiche che animavano buona parte della popolazione tedesca dopo l’umiliante diktat imposto dal Trattato di Versailles, l’autrice ripercorre le vicende che condussero le numerose associazioni femminili tedesche, sorte ben prima della stabilizzazione del regime nazionalsocialista, a rinnegare le rivendicazioni di un tempo e ad apportare un fattivo contributo al successo elettorale del futuro Führer, alla messa in pratica dei suoi programmi
di purificazione razziale e, in ultimo, alla costruzione di quel “nuovo ordine europeo” interamente subordinato alle esigenze economico-militari e ai piani di conquista tedeschi.
Capire come sia stato possibile per le donne esercitare un ruolo attivo all’intemo di uno Stato tanto misogino come quello nazionalsocialista, sottolineando l’ambiguità dell’atteggiamento tenuto dalla classe dirigente nei loro confronti, non è però il solo motivo ad aver spinto la Koonz a interrogarsi sul complicato intreccio esistente tra totalitarismi e sesso femminile. Il libro tenta, infatti, anche di fornire delle spiegazioni che rendano ragione del perché migliaia di donne “perbene”, incluse quelle più emancipate che avevano in precedenza militato nei movimenti di rivendicazione dei diritti femminili, scelsero volontariamente di servire un regime che sin dall’inizio si era mostrato chiaramente intenzionato ad escluderle dall’accesso alla sfera pubblica e a valersi della loro collaborazione esclusivamente nell’ambito di una politica natalista tesa al potenziamento e all’affermazione di un’utopistica “razza pura”. Certo, in questa adesione consensuale al nazionalsocialismo esercitarono una larghissima influenza le innegabili doti carismatiche di Hitler, da molte addirittura venerato fanaticamente, nonostante nei suoi scritti e interventi ufficiali egli non avesse mai fatto mistero delle proprie personali convinzioni circa i caratteri e i limiti della natura femminile. Ma, secondo Koonz, le contraddizioni, per quanto non esasperate e laceranti come nella Germania del periodo tra le due guerre, sono presenti e ben visibili ancora oggi, in un’Europa pericolosamente e nuovamente attraversata da venti reazionari. Nell’introduzione scritta all’edizione italiana, l’autrice fa notare che non vi è poi una così marcata differenza tra le dirigenti naziste e le donne della destra italiana affermatesi dopo le elezioni del 1994, donne che, ora come allora, condanna
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no l’emancipazione femminile avvalendosi di una condotta politica moderna e dinamica. La storia si ripete: le reazionarie si avvantaggiano delle conquiste compiute dal movimento femminista, che non esitano però a condannare.
Ricostruendo il clima politico e culturale della Germania prima e durante il regime nazionalsocialista, Koonz offre un quadro della realtà femminile dell’epoca molto più complesso e assai meno monolitico di quanto, sino a non molti anni fa, si era indotti a pensare. Supportando le proprie argomentazioni con il ricorso a puntuali citazioni desunte da testi di propaganda nazista, e avvalendosi di un ampio repertorio di materiale orale, senza ignorare le più recenti acquisizioni storiografiche sul tema — a partire dagli studi compiuti da Tim Mason a metà degli anni settanta (cfr. Women in Germany, 1925-1940, “History Workshop. A Journal of Socialist Hi- storians”, 1976, n. 1-2), fino ai più vicini contributi di Dagmar Reese sulle donne impiegate alla Siemens nel lager di Ravensbrück (cfr. Homo homini lupus. Frauen als Taeterinnen, “IWK. Internationale wissenschaftliche Korrispondenz zur Geschichte der deutschen Arbeiterbewegung”, 1991, n. 1; Coinvolgimento e responsabilità. Le adolescenti alla guida della Lega delle fanciulle tedesche, intervento al seminario internazionale “Donne, guerra, Resistenza nell’Europa occupata”, sul quale si veda “Italia contemporanea”, 1995, pp. 343-347) e di Gudrun Schwarz sul ruolo ricoperto dalle donne nella esecuzione pratica delle leggi razziali (cfr. Die nationalsozialistischen Lager, Frankfurt am Main, 1990 e Donne SS addette alla sorveglianza nei campi di concentramento nazisti 1933-1945, intervento al seminario sopra citato) — l’opera si caratterizza per l’essere un vero e proprio specchio delle molteplici componenti della società femminile dell’epoca. Polemizzando apertamente con le tesi della storica tedesca Gisela Bock, secondo la quale il fatto che le misure di sterilizzazione coatta abbiano colpito anche circa 150.000 donne “ariane” non può che portare alla conclusione che le donne furono unicamente delle vittime del razzismo nazista (cfr. Zwang-
sterilisation im Dritten Reich. Studien zur Ras- senpolitik und Frauenpolitik, Opladen, 1986 e Antinatalism, Maternity and Paternity in National Socialist Racism, in Maternity and Gender Policies. Women and thè Rise of thè European Welfare States, 1880-1950, London, Routledge, 1994), l’autrice compie un’analisi puntuale delle numerose responsabilità che le dirigenti delle principali associazioni femminili tedesche ebbero nel determinare e favorire l’avvento di Hitler al potere e il consolidamento del suo regime nei successivi dodici anni.
L’opera si apre con l’intervista rilasciata nel 1981 all’autrice da Gertrud Scholtz-Klink, la donna più potente del Reich, colei che, esercitando una influenza trasversale in uno Stato di soli uomini, giunse a dirigere nel 1941 circa trenta milioni di tedesche. Un incontro che, però, si è rivelato sotto molti aspetti deludente, risolvendosi nel vuoto e inconcludente chiacchiericcio di una ex-funzio- naria e burocrate che del proprio passato non ha mai rinnegato nulla. Passando in rassegna le esponenti più carismatiche del mondo femminile tedesco — le donne del ceto medio riunite nel Bund Deutscher Hausfrauen (l’Associazione delle casalinghe tedesche), le evangeliche e le cattoliche — emerge, al di là delle differenze esistenti in materia di politica familiare e di educazione della donna, il profondo risentimento che accomunava queste donne nei confronti di ebrei e comunisti, la delusione per il sistema weimariano, 1 ’ impellente necessità di poter legarsi a una nuova fede intrisa di nazionalismo e temi palingenetici. Donne che scesero a compromessi con il partito nazista, da cui scelsero di lasciarsi cooptare e assorbire, nella illusoria speranza di riuscire a difendere una loro sfera privata di azione e di conservare un certo grado di autonomia organizzativa. Una illusione, basata su di una irrealistica percezione del proprio potere, che le indusse ad aderire persino alla politica antisemita, ad accettare l’espulsione delle “non ariane” dalle loro organizzazioni e infine a collaborare al programma della “soluzione finale” della questione ebraica. Koonz individua le molteplici ragioni che portarono migliaia di tedesche a partecipare alla grande crociata nazista, ma non le giu
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stifica e non risparmia accuse durissime nei confronti di quante, “anziché costituire un argine contro l’incorporazione delle donne da parte del nazismo [...] ne furono esse stesse il vettore” (p. 76). Parole altrettanto dure vengono pronunciate dall’autrice verso le istituzioni, in primo luogo ecclesiastiche, colpevolmente cieche e indifferenti di fronte alla sterilizzazione imposta ai minorati fisici e psichici, alla propaganda antisemita e all’ordine del terrore instaurato nei lager. Se va riconosciuto che vi furono molte persone che singolarmente si adoperarono, a rischio anche della propria vita, per la salvezza degli ebrei, “le istituzioni — e soprattutto le chiese — continuarono a ta
cere. Le organizzazioni ebraiche, in mezzo a questa apatia collettiva, erano impotenti” (p. 367).
L’opera, che si configura come un significativo contributo nella pur vasta storiografia esistente sul nazionalsocialismo, si chiude con la trascrizione dell’intervista, rilasciata all’autrice, nell’estate del 1983, dalla dottoressa Jolana Katz Roth, un’ebrea sopravvissuta ad Auschwitz. Come un cerchio, il libro, apertosi con la deludente testimonianza di Scholtz-Klink, termina con le parole di una delle tante vittime di quella ideologia e politica cui la Fiihrerin aveva votato la propria esistenza.
Helga Dittrich-Johansen
Dai mestieri artigiani alla fabbrica capitalistica
Maurizio Bettini
Il libro di Simonetta Ortaggi Cammarosano, Libertà e servitù. Il mondo del lavoro dall’ancien régime alla fabbrica capitalistica (Napoli, Esi, 1995, pp. X-238, lire 35.000), costituisce un’ampia ricostruzione della proletarizzazione dei maestri artigiani urbani in relazione al processo di industrializzazione capitalistica. Il fenomeno viene osservato sul lungo periodo (dal Trecento al principio del Novecento), con particolare riguardo alla fase che comprende la fine del Settecento e i primi decenni dell’Ottocento, all’interno dei confini geografici dell’Europa occidentale. La vasta articolazione della sintesi storica è completata da analisi approfondite di alcune vicende locali, presentate come casi tipici, e che servono a mantenere l’orientamento nella interpretazione di un processo che ebbe, in Europa, tratti comuni benché sfasati temporalmente.
All’interno del sistema di produzione capitalistico l’attenzione è rivolta alla transizione dalla manifattura artigiana decentrata, organizzata su consuetudini e regole corporative, alla fabbrica capitalistica. Nel mezzo di questa transizione ci sono i maestri artigiani, destinati a perdere il
duplice status di padroni-operai, per diventare da un lato dei “fabbricatori” (esclusivamente proprietari) e dall’altro — come tendenza prevalente — dei salariati dipendenti. Lo studio mette, perciò, in evidenza l’attacco alle posizioni economiche e al ruolo sociale dei maestri artigiani portato sia dall’alto, dai mercanti-imprenditori, sia dal basso, dalle categorie dei lavoranti e dei garzoni. In relazione con la proletarizzazione dei maestri artigiani urbani viene studiata l’evoluzione dei rapporti sociali che determinano le condizioni del lavoro della classe operaia in formazione, tenendo presente gli elementi di lungo periodo che vanno dalle consuetudini corporative ai regolamenti vigenti all’interno degli “opifici”. Da questo punto di vista, per un paradosso solo apparente, il passaggio dall’“età corporativa” a quella del “lavoro libero” è segnato da una nuova attribuzione e da un inasprimento dei vincoli servili.
I corpi mercantili, trasferendo agli artigiani obblighi (come quello di eseguire tutto il lavoro prima di poter rescindere il contratto) analoghi a quelli che già avevano legato i garzoni e i lavo
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ranti ai loro maestri, intendevano imporre, prima ancora dell’abolizione delle corporazioni, una condizione di dipendenza. E alla metà del Settecento che i mercanti cercano di trasformare la loro posizione di creditori in quella di padroni effettivi dei mezzi di produzione degli artigiani. Attraverso la riduzione dei prezzi dei prodotti finiti e delle tariffe di cottimo i corpi mercantili cercarono, a Lione come a Torino, a Roma come nel Vicariato di Ala, di incrementare, insieme con una politica di anticipazioni sulla materia prima e sugli strumenti di lavoro, il debito dei maestri artigiani, per monopolizzare i lavoro su commissione costringendo di conseguenza gli artigiani a limitare il proprio variegato circuito commerciale privato. Si comprende, quindi, come l’obbligo servile del maestro di finire il lavoro avuto dal mercante, associato a imposizioni nel livello dei prezzi, impedissero al primo di svincolarsi dalla stretta dipendenza economica in quanto incapace di far fronte a un indebitamento crescente.
Questi vincoli di lavoro pii! duri, che trovarono fondamento giuridico, peggiorandola, nella legislazione corporativa, furono acquisiti dalla legislazione pubblica intesa a regolare, alla metà del Settecento, la disciplina degli operai dell’“in- dustria libera”. Nella fattispecie, degli operai presenti nelle imprese sorte con capitale pubblico. In sostanza, all’organizzazione della manifattura su scala industriale, dominata dalla centralizzazione dei mezzi di produzione e dalla concentrazione di cospicue masse di lavoratori salariati e caratterizzata sia dalla rottura degli intralci corporativi nella gestione delle risorse produttive sia dalla divisione del lavoro, corrispondeva l’instaurazione di rapporti di lavoro fondati sull’inasprimento unilaterale dei vincoli servili che rispettavano la “libertà del lavoro” solo della parte padronale (come nel caso dell’editto del 1764 dell’imperatrice Maria Teresa, “Per la disciplina degli operai”). Alla proletarizzazione dei maestri artigiani corrispose la polarizzazione sociale (li due classi, quella dei fabbricatori e quella dei salariati dipendenti. In quest’ultima si sovrapposero categorie che erano diverse nella loro colloca
zione gerarchica nell’ordinamento corporativo, ma che svolgevano mansioni simili per abilità professionale. Da una parte i maestri artigiani, che avevano perso lo status dovuto alla loro condizione di proprietari, si trovarono a svolgere funzioni di operai qualificati o di controllori del lavoro di altri, ma pur sempre in posizione di dipendenza, dall’altra i garzoni e i lavoranti che — a causa dalla divisione del lavoro e del minore salario — occupavano il posto di lavoro degli artigiani.
Dalla fine del Seicento — del resto — si diffuse la violazione delle norme sull’apprendistato di garzoni e lavoranti, che aveva permesso ai maestri artigiani più ricchi di vincere la concorrenza assumendo più manodopera per aumentare il volume della produzione, e ai lavoranti di incrementare i salari grazie a un tasso di mobilità maggiore rispetto a quello garantito dai vincoli corporativi che regolavano l’accesso al mercato del lavoro. Ma la crisi dell’istituto dell’apprendistato era testimonianza pure del carattere di eccezionalità con cui i lavoranti approdavano alla condizione di padrone-maestro. L’analisi di lungo periodo sulla proletarizzazione dei maestri artigiani richiama da vicino la lezione di Harry Bra- verman (Lavoro e capitale monopolistico. La degradazione del lavoro nel XX secolo, Torino, Einaudi, 1978, ed. orig. New York — Londra, Monthly Review Press, 1974) sulla “degradazione del lavoro” nell’industria del Novecento. Lo studio di Simonetta Ortaggi Cammarosano, quindi, con un percorso a ritroso, da un lato indica l’origine del processo di dequalificazione del lavoro operato dal sistema di produzione capitalistico, dall’altro mette in luce le conseguenze di lungo periodo della divisone del lavoro e della meccanizzazione, tendenti ad abbassare i costi del salario e a contenere la domanda di lavoro. Nel libro, tuttavia, non sono sottovalutate le congiunture che, nel breve periodo, comportano un incremento della domanda di lavoro e del salario: aumento della produzione già esistente o avvio di nuovi processi produttivi. Come del resto non sono taciuti i fenomeni di “riqualificazione” (up-grading) che caratterizzano il processo di di-
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lution e che si verificano soprattutto nel passaggio da un settore all’altro dell’economia o da un ramo all’altro della produzione nel medesimo settore. La dequalificazione del lavoro, perciò, non viene associata meccanicamente, sul breve periodo, alla dequalificazione del lavoratore, come dimostra la promozione sociale dei garzoni che lavorano, alla fine del Seicento, per l’arte dei Ferrari a Roma. Ma l’impostazione di lunga durata dello studio impone, in ultima analisi come fenomeno prevalente, l’aspetto di progressiva sostituzione della manodopera più costosa con manodopera meno costosa per effetto della semplificazione dei mestieri. Se la posizione sociale ed economica dei maestri artigiani era indebolita dalla divisione del lavoro che permetteva la sostituzione della manodopera qualificata, l’aspetto opposto era costituito dalla privazione dei mezzi di produzione operata dai corpi mercantili. Tuttavia assieme ai mercanti diventavano padroni, senza partecipare più alla produzione, quella parte di artigiani ricchi che, per aspirazioni concorrenziali, avevano contribuito a demolire già alla fine del Seicento le limitazioni imposte al mercato del lavoro dalle regole sull’apprendistato dei lavoranti. Altre figure sociali, comunque, si elevarono alla metà del Settecento, nella fase di massima differenziazione all’interno dell’artigiana- to urbano prodotto dalla crisi economica, per inserirsi in una posizione intermedia tra il mercante e il maestro.
Un caso esemplificativo è citato nel libro in riferimento alla vicenda dei maestri tessitori in seta di Lucca. Intorno alla metà del Settecento, in concomitanza con una crisi dell’industria serica che colpiva allora l’Italia e tutta l’Europa, il ceto mercantile aristocratico dette autonomia di gestione delle proprie attività manifatturiere ai “ministri di negozio” chiamandoli ora a partecipare agli utili. Si trattava di amministratori, di estrazione popolare, che condussero una drastica concorrenza nei confronti dei maestri artigiani, assegnando la conduzione dei telai ai lavoranti e ribassando spregiudicatamente il livello dei prezzi finali dei prodotti, ribasso consentito dai minori salari erogati e dal maggiore sfruttamento
perpetrato. La vicenda dei maestri tessitori di Lucca, inquadrata nel contesto della frantumazione delle regole delle corporazioni artigiane contemporaneamente allo sviluppo della fabbrica, fornisce elementi di valutazione da inserire nel dibattito sui modelli di sviluppo economico prevalsi nell’Europa occidentale e negli Stati Uniti. Come è noto Charles F. Sabel e Jonathan Zei- tlin — cfr. Alternative storiche alla produzione di massa. Politica, mercati e tecnologia nell’industrializzazione del diciannovesimo secolo, in David S. Landes (a cura di), A che servono i padroni? Le alternative storiche dell’ industrializzazione, Torino, Bollati Boringhieri, 1987— hanno contrapposto il sistema di manifattura definito della “specializzazione flessibile”, sviluppatosi in alcune regioni industriali sul finire del Settecento e caratterizzato dall’alta flessibilità della manodopera e della tecnologia e dalla grande specializzazione produttiva, a quello della “produzione di massa”, che non costituirebbe il percorso obbligato dello sviluppo capitalistico. Il presupposto, affinché la manifattura fondata sulla “specializzazione flessibile” non entri in stagnazione, è che la concorrenza tra le imprese artigiane non si verifichi sui prezzi o sulla riduzione dei salari bensì sulla creazione di nuovi prodotti e sulla capacità di adattare nuove tecnologie alla variabilità della domanda del mercato dei beni. L’assetto istituzionale assume, quindi, la rilevante funzione di garantire che la concorrenza sia condotta sul piano della qualità produttiva e non dei prezzi. I teorizzatori della “specializzazione flessibile” hanno individuato, in relazione con la base economica e la tecnologia impiegata, sistemi istituzionali fondati sulle municipalità (unità produttive piccole e ridotti investimenti di capitale), sul paternalismo e assistenzialismo capitalistico (produttori artigiani riuniti all’interno di una stessa fabbrica a elevata intensità di capitale) e, infine, sulla confederazione delle aziende familiari. Ora, l’esempio dei tessitori di seta di Lucca dimostra che, quando una crisi economica minaccia la sopravvivenza delle aziende artigiane, la lotta si verifica sul piano dei prezzi e della riduzione dei salari, evadendo proprio le
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norme corporative che ne stabiliscono l’entità. In questo senso lo studio converge con l’analisi di David S. Landes (Piccolo è bello. Ma è bello davvero?, in A che servono i padroni?, cit.) che sottolinea che i 1 model lo della “specializzazioni flessibile” funziona fino a quando l’economia tira, mentre l’instabilità economica che domina il mercato (a partire dal mercato del lavoro) costringe le piccole imprese nell’Ottocento e nel Novecento a condurre la concorrenza puntando al risparmio sul prezzo del lavoro e sulle materie prime.
Del resto Libertà e servitù, avendo come tema principale la proletarizzazione dei maestri artigiani, mette in evidenza — in opposizione allo schema proposto dal sistema di manifattura definito della “specializzazione flessibile” — il processo di centralizzazione e di concentrazione dei mezzi di produzione in grandi fabbriche, in rapporto con il processo di divisione del lavoro che, semplificando le mansioni, riduce in parte il potere contrattuale della manodopera qualificata. In sintesi, considerando sia le modalità con cui si svolse il conflitto tra i mercanti e i maestri artigiani per la proprietà dei mezzi di produzione, sia le conseguenze dell’evasione dalle regole corporative in materia di accesso al mercato del lavoro per i lavoranti e i garzoni, dallo studio risulta proprio la scarsa probabilità, se non l’impossibilità, di mantenere inalterati i salari e i prezzi dei prodotti finiti. Evidenzia, al contrario, che, proprio attraverso la variazione dei prezzi, dei salari e l’incapacità delle corporazioni artigiane e della legislazione cittadina di controllare la concorrenza, si inasprirono gli obblighi servili dei maestri artigiani, obblighi che costituirono i presupposti della loro degradazione a operai dipendenti.
Una smentita implicita alla teoria della “specializzazione flessibile” emerge, oltre che dalla trattazione sulla scomparsa della manifattura artigiana urbana indipendente, anche dall’analisi della proletarizzazione delle famiglie contadine dedite al lavoro di tessitura in alcune vallate trentine, biellesi e comasche in cui particolarmente attiva era l’economia protoindustriale. Nel libro infatti viene sottolineato come la protoindustria fosse, non di rado, esercitata in Italia in aree collina
ri o montuose dove era difficile ottenere un reddito sufficiente dalla terra. Per questa ragione l’industria a domicilio divenne una fonte insostituibile di reddito e molti contadini privi di terra o in eccesso furono indotti a emigrare verso i centri manifatturieri attivi su scala industriale. Da questo punto di vista il libro mostra un percorso che diverge dalla tesi sulla gradualità e originalità dello sviluppo economico italiano, rispetto al modello inglese, e accoglie, sottolineando la fragilità della figura del contadino-operaio, la tesi sugli effetti sociali della rivoluzione industriale che si esercitano anche alla periferia del sistema. Estrema- mente significativo, da questo punto di vista, è il censimento milanese del 1790 dove appare fiorente la piccola impresa. Tuttavia a una lettura attenta si scorge che essa non è rappresentata da produttori indipendenti bensì costituisce il reparto esterno della grande fabbrica capitalistica.
Nel porre in risalto, infine, la lunga durata nella storia della proletarizzazione degli artigiani di ancien règime, lo studio prende in considerazione anche laquestione delle rivendicazioni sui tempi e i ritmi di lavoro tra Ottocento e Novecento. Viene evidenziato, in particolare, l’affiorare nei comportamenti sociali degli operai qualificati di abitudini che risalgono alla tradizione degli antichi artigiani. Le tolleranze in entrata e uscita dalla fabbrica, il prolungamento della festa domenicale al lunedì e martedì e l’autolimitazione nella produzione non costituirebbero altro che atteggiamenti aggiornati di quella tradizionale autonomia dell’artigiano indipendente nello stabilire i tempi e i modi del proprio lavoro. In origine, l’affermazione della industrializzazione comportò, insieme alla (o nonostante la) meccanizzazione e all’aumento della produttività, l’allungamento della giornata lavorativa che non era più svolta a domicilio, o nella manifattura artigiana, ma in fabbrica. Così gli operai qualificati reagirono allo sfruttamento estensivo con l’imposizione di tolleranze sull’orario, con la pratica del ritardo al lavoro, con le feste prolungate; mentre reagirono allo sfruttamento intensivo con T autolimitazione produttiva o con la distruzione delle macchine. Successivamente la lotta per la ridu
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zione dell’orario giornaliero o settimanale di lavoro a parità di salario, sovrapponendosi ai persistenti atteggiamenti di resistenza allo sfruttamento, costituì la rivendicazione comune degli operai qualificati organizzati sindacalmente per il mantenimento del livello del salario e del tempo libero. Rispetto alle reazioni che riflettevano l’antica indipendenza artigiana, la novità insita nella rivendicazione sindacale sull’orario di lavoro consisteva, però, nella sostanziale accettazione dello scambio tra giornata breve e incremento della produttività oraria procapite. Questo non significava ancora, per gli operai qualificati di molti rami di industria, la perdita di spazi di autonomia nell’esecuzione del proprio lavoro al
l’interno della fabbrica organizzata secondo la concezione dell’Arbeitsplatz. Infatti rimanevano i tempi da dedicare alla preparazione del lavoro, secondo valutazioni discrezionali basate sulla conoscenza del mestiere, delle materie prime e degli attrezzi da utilizzare; al prelevamento, allama- nutenzione e alla affilatura degli utensili; all’allestimento della macchina e alla valutazione immediata del lavoro finito. Solo con la rivoluzione taylorista e fordista l’operaio qualificato viene privato drasticamente di quei margini di autonomia, che gli permettevano di bilanciare le pressanti richieste di aumenti di produttività da parte della direzione.
Maurizio Bettini
Il secolo breve della rivoluzione sovietica
Eligió Vitale
Victor Zaslavsky, autore della Storia del sistema sovietico. L’ascesa, la stabilità, il crollo (Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1995, pp. 290, lire 33.000), è il noto sociologo russo emigrato dall’Urss nel periodo dell’epoca brezne- viana che va dal 1971 al 1982, in cui il regime sovietico fu costretto a concedere, per poi revocare appunto nel 1982 alla morte di Breznev, il permesso di “fuggire dall’impero” ad alcune centinaia di migliaia di persone, soprattutto ebrei. Zaslavsky, oltre che all’Università di Leningrado, ha insegnato molti anni in diverse università straniere, in particolare in Canada, ed è ora docente alla Luiss di Roma. L’aver vissuto direttamente gli avvenimenti, o almeno una parte di essi, segnatamente nel periodo della “destalinizzazione” e del “consenso organizzato”, mentre gli conferisce una attenta sensibilità e una grande padronanza delle fonti, non fa velo ad una lucida intelligenza della ricostruzione storica, condotta con un equilibrio che dà conto delle varie interpretazioni storiografiche, per proporre poi puntualmente le proprie analisi e
conclusioni, su cui si può o meno convenire, ma che sono sempre problematiche e aperte.
E questa l’opera di sintesi di uno studioso che ha già dedicato lunghe ricerche ai diversi momenti della “storia del sistema sovietico”: si vedano Il consenso organizzato (Bologna, Il Mulino, 1981), Fuga dall’impero: l’emigrazione ebraica e la politica della nazionalità in Unione Sovietica (scritto in collaborazione con Robert Brym, Napoli, Esi, 1985), Dopo l’Unione Sovietica. La perestrojka e il problema delle nazionalità (Bologna, Il Mulino, 1991), The Neostalinist State. Class, Ethnicity and Con- sensus in Soviet Society (New York, Sharpe, 1994, seconda ed.). Il suo è un approccio interdisciplinare che utilizza i modelli di interpretazione sociologica per l’analisi dell’evoluzione storica delle principali componenti politiche, economiche e sociali di questo impero multinazionale.
Fra i due modelli esplicativi della società sovietica — il primo che ne assimila lo sviluppo a quello delle società industriali occidentali, e il se
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condo, il modello “totalitario”, in auge soprattutto dall’epoca della guerra fredda, che al contrario pone l’accento sulle sue differenze rispetto a queste ultime e piuttosto l’avvicina, in quanto dittatura, al nazismo e al fascismo — l’autore sembra propendere per il secondo, aderendo al revisionismo storiografico alla Nolte, che, considerando il totalitarismo nazista come una reazione a quello bolscevico, tende a porre sullo stesso piano antifascismo e anticomunismo, se non addirittura a privilegiare l’anticomunismo sull’antifascismo: revisionismo a cui, com’è noto, si oppone, fra gli altri, ci pare a buon diritto, Habermas, il quale entra invece nel merito delle differenze ideologiche ed etico-politiche fra i due tipi di “dittatura”.
Ancora una dicotomia per quanto riguarda il problema se il sistema sovietico abbia dato luogo a una “modernizzazione”: l’autore spiega sia l’iniziale modernizzazione sia l’involuzione e il crollo, con la caratterizzazione del sistema stesso come “militare-industriale”, o meglio “fondamentalmente militare piuttosto che industriale”. Sulla base dei nuovi dati resi disponibili dopo l’abolizione della censura e grazie alla possibilità di effettuare ricerche sul campo, il libro intende dimostrare che nel caso sovietico decenni di sviluppo estensivo dell’economia, sostenuto da tecnologie arretrate e aggravato dalle priorità del complesso militare-industriale, hanno portato al progressivo esaurimento delle risorse e a un rovesciamento delle principali tendenze di sviluppo che caratterizzano tutte le società industriali conosciute.
La rivoluzione bolscevica ha stroncato il tentativo attuato dopo la rivoluzione del 1905 di sviluppare una industrializzazione di tipo occidentale con un ruolo primario svolto dalle banche e dagli imprenditori privati, ma c’è da chiedersi se questo tentativo di raggiungere i paesi sviluppati, ricalcandone le orme, non fosse comunque destinato all’insuccesso, interrotto brutalmente anche dal primo conflitto mondiale, la guerra che imprime alla rivoluzione la sua struttura di emergenza: ma anche a proposito della natura di que
sto “comuniSmo di guerra” si pone il problema di quanto di esso fosse dovuto, appunto, all’emergenza bellica e quanto non sia da attribuire alla stessa dottrina bolscevica, considerato che quelle riforme rimasero in vigore ben oltre il periodo di guerra e caratterizzarono le istituzioni e la società sovietica per tutta la durata della loro storia.
Non è il caso di seguire l’autore nella sua ri- costruzione delle varie fasi dello sviluppo e della crisi del sistema sovietico, dalla guerra civile e dal comuniSmo di guerra, con l’instaurazione della dittatura monopartitica leninista, alla Nuova politica economica, al sistema totalitario staliniano fondato sul terrore della polizia segreta e dei gulag, con la collettivizzazione forzata delle campagne e l ’industrializzazione militarizzata, e sulla “guerra fredda” e la politica im perialistica, nella convinzione della inevitabilità di una terza guerra mondiale che avrebbe visto il trionfo del comuniSmo a livello mondiale; alla “destalinizzazione” da Chruscev a Breznev che al terrore sostituisce 1’ “organizzazione del consenso” e alla guerra fredda la “coesistenza pacifica” per l’impossibilità di una guerra nell’era della bomba atomica, mantenendo il sistema del partito-stato e dell’industrializzazione militare; alla sclero- tizzazione della produzione e al crescente esaurimento delle risorse economiche; finalmente alla perestrojka gorbacioviana, tentativo di riforme nell’ambito del sistema comunista monopartitico; a ll’esplodere dei nazionalismi a causa dell’impossibilità del proseguimento della “politica delle nazionalità” del regime sovietico e alla fine deH’Urss; alla democratizzazione, alla nascita del mercato con tutte le sue contraddizioni, i suoi rischi e le sue prospettive.
Vanno però rilevati alcuni punti chiave che segnano l’originalità di questa ricostruzione storico-sociologica. A proposito di Stalin e dello stalinismo l’autore di dissocia dal giudizio partigiano di Trotzki, secondo cui Stalin, “l’insigne mediocrità” del partito, avrebbe instaurato un “centralismo burocratico senza principi”: il “boi-
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scevismo imperiale” di Stalin e la sua idea di appoggiare la rivoluzione non nei paesi evoluti, ma in quelli vicini, confinanti con l’Unione Sovietica, era funzionale alla nuova società sovietica e in particolare ai nuovi iscritti del partito, che ignoravano la teoria marxista classica e a cui erano estranei il programma e gli slogan dell ’internazionalismo; “negli anni dell’industrializza- zione staliniana si diffuse il fenomeno della stabilità sociale, cioè la promozione a posizioni amministrative e manageriali sulla base della lealtà e della provenienza da classi inferiori”: le “grandi purghe” degli anni trenta sostituivano ormai le vecchie classi istruite. Se le strutture e la disciplina gerarchica sono in contraddizione con Finiziativa e l’indipendenza indispensabili al lavoro degli specialisti e degli operai altamente qualificati, il partito-stato permette però di conseguire successi nel campo della modernizzazione tecnologica accelerata, nella creazione del- l’industria pesante, nell’organizzazione di un moderno sistema di ricerca scientifica. Lo stesso terrore staliniano non va considerato solo arbitrio insensato, ma freddo calcolo razionale ed espressione della ragion di stato in quanto strumento efficacissimo per le trasformazioni rivoluzionarie della società.
A sostegno del regime staliniano operò anche la “politica delle nazionalità”, a proposito della quale c’è da rilevare che se un vero federalismo era precluso dall’economia pianificata centralmente e dal regime monopartitico dominato dall’esercito e dalla polizia segreta, “le repubbliche dell’Unione costituivano le tessere del mosaico della pianificazione centrale e allo stesso tempo un valido strumento per la scelta dei quadri addetti all’amministrazione e alla gestione del paese”.
La destalinizzazione è vista come il passaggio da un regime totalitario guidato da un tiranno carismatico a un regime oligarchico totalitario, in cui gli aspetti terroristici dello stalinismo furono razionalizzati ed edulcorati, ma gli elementi fondamentali e i caratteri strutturali rimasero intatti, con la priorità comunque conferita dallo Stato al complesso militare-industria
le, che determina l’arretratezza tecnologia dell’industria civile, soprattutto quella dei beni e dei servizi. È assicurata in tal modo la pace sociale, garantendo la sicurezza del lavoro e bassi livelli dei prezzi dei beni di prima necessità, mentre i salari operai aumentano: la contropartita è costituita dalla bassa produttività, dall’organizzazione di un sistema di “imprese chiuse” e di “città chiuse”, in ragione del rilievo dei settori di produzione e dell’importanza politica dei centri urbani. Si forma un tipo di lavoratore “sostanzialmente passivo” e “assolutamente estraneo ai valori socialisti”, caratterizzato dalla bassa qualità del lavoro: Yhomo sovieticus stato-di- pendente.
Il sistema del consenso organizzato funziona soddisfacentemente fino alla prima metà degli anni settanta, ma il regime brezneviano, incapace di introdurre serie riforme strutturali, resiste svendendo all ’estero le ricchezze naturali in cambio di generi alimentari, così da avviarne l’esaurimento innescando al contempo uno dei fondamentali fattori di crisi. Né lo sviluppo prioritario del settore militare trascina quello dell’industria civile, come avviene nei paesi occidentali, a causa della sua segretezza e del suo abnorme sviluppo.
La perestrojka di Gorbacev non può che tentare un approccio democratico alle riforme, poiché un intervento autoritario, gestito dall’alto del partito-stato col suo apparato coercitivo, sarebbe stato incompatibile con l’apertura alla concorrenza di mercato e alla decentralizzazione. Ma Gorbacev rimane prigioniero della sua continuità comunista, per nulla ripagato del resto dal suo partito che ne mina la posizione col tentativo di colpo di Stato antiriformista, ed è travolto dalla sua politica democratica nei confronti della diaspora dei paesi dell’Europa orientale. Suo grande merito storico è certamente quello di non averla ostacolata, ma anzi di aver rifiutato l’aiuto militare a quei leader, come Honecker o Ceaucescu, che, per dirla con l’autore, “venivano assediati dai loro stessi popoli”. Ma è la fine dell’Urss che non gli verrà perdonata dal popolo sovietico, il quale preferirà la contrapposizione dirompente
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col passato rappresentata da Eltsin e dal suo “partito democratico”.
A proposito dei nazionalismi che ora risorgono sulle ceneri dell’impero sovietico l’autore non è d’accordo con l’osservazione generale di Hobsbawm secondo cui “i movimenti nazionalisti del la fine del XX secolo sono essenzialmente negativi e divisivi”, adducendo al contrario un esempio che sembra convincente: quello del nazionalismo baltico, con cui le repubbliche baltiche non si limitano al recupero della sovranità perduta come conseguenza dell’annessione effettuata da Stalin nel 1940, ma, insieme alle repubbliche slave, nonché ai paesi dell’Europa orientale postcomunista, “condividono un nuovo mito nazionalista — il mito del ritorno alle radici europee, reali o immaginarie, il mito dello sviluppo normale interrotto brutalmente dal- l’esperimento bolscevico o dall’aggressione russa o da entrambi”.
Il giudizio di Zaslavsky sulla situazione attuale e sulle prospettive future è moderatamente ottimista. Pur consapevole delle enormi difficoltà e dei conflitti etnici e sociali, dei feno
meni di corruzione e di disfacimento dei ceti colpiti dalla disfatta dello stato redistributivo, egli rileva maggiori possibilità di cooperazione intemazionale e soluzione dei conflitti di quante non ce ne siano mai state in passato, e, con particolare riferimento alla Russia, la creazione di un nuovo tipo di relazioni tra lo Stato e la società in condizioni di libertà e di democrazia, “sconosciute all’intera storia della Russia”: i giovani sono in gran maggioranza favorevoli alla smilitarizzazione e alle riforme che introducono il mercato; sta nascendo una nuova classe di giovani imprenditori.
In conclusione, questa sintesi storico-sociologica, se confrontata con le grandi opere ormai “classiche”, come quella di Edward Carr, che analizzano con una qualche pretesa di esaustività le infinite vicende dello sviluppo della rivoluzione sovietica, ha il vantaggio di uno sguardo retrospettivo nella piena consapevolezza del “dopo 1989”, da parte di un ex oppositore del regime, come si è detto, che ben conosce però le regole della mediazione storiografica.
Eligio Vitale
Strumenti
Direction des archives de Fran- C E , La seconde guerre mondiale. Guide des sources conservées en Frane e 1939-1945, Paris, Archives Nationales, 1994, pp. 1209, sip.
Risultato del lavoro congiunto della sezione contemporanea degli Archives nationales, sotto la direzione del suo conservatore capo, Brigitte Blanc, e del conservatore generale agli stessi Archives, Chantal de Tourtier-Bonazzi, e di una équipe dell’Institut d’Histoire du Temps Présents (del Cnrs), capeggiata dal suo direttore, lo storico Henry Rousso (con componenti quali Robert Frank, Denis Pe-
schanski, Dominque Veillon), questa guida rappresenta in forma ottimale gli esiti di un’impresa per svariati aspetti eccezionale. Nel volgere di un breve arco di anni (dal 1991), infatti, i curatori - coadiuvati da più di trecento archivisti - hanno classificato in modo sistematico i materiali concernenti le vicende della Francia dal 1939 al 1945, vale a dire dall’inizio del secondo conflitto mondiale, il 3 settembre 1939,allacapitolazionedel Giappone, il 2 settembre 1945, che ne segnò la fine. Grazie alla legge del gennaio 1979 sulla comunicabilità dei documenti degli archivi pubblici a datare dal 3 settembre dello stesso anno (che metteva fine al regime per cui la libera co
municazione di quei documenti era limitata al 10 luglio 1940), sono state censite e presentate le fonti degli archivi pubblici nazionali del periodo menzionato; ma si è andati ben oltre: la ricognizione delle fonti medesime è stata estesa agli archivi pubblici dipartimentali e comunali, mentre si è provveduto a offrire ai ricercatori ì referenti di numerosi organismi e istilli ."ioni di carattere pubblico e privato condendone note le giacente «tee» mentane relative sempre agli awnìi del conflitto, ivi compresi t ivwtói filmici, delle emissioni radtoe Ortografici.
È stato, in tal nmto, appcesita«© uno strumento d'ìndaguto di p r illano valore, fiotto di umasttezter-
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ne accurata non in funzione - come chiarisce Chantal de Tourtier- Bonazzi - dell’importanza delle fonti, ma dell’obiettivo di raggiungerle dovunque conservate e quale che sia la loro funzione di supporto, per assicurare agli studiosi il più ampio margine di opportunità di confronti e integrazioni.
L’opera è divisa in quattro grandi parti. La prima, consacrata agli archivi nazionali, ossia i fondi custoditi a Parigi a Fontainebleau e, per l’Oltremare, ad Aix-en Pro- vence. La seconda, comprendente la descrizione - fornita dai loro responsabili - degli archivi del ministero degli Affari Esteri, di quello della Difesa nei suoi tre servizi storici di Terra, Mare ed Aria, e di quello del ministero della Giustizia (per la parte non ancora versata agli archivi nazionali), con annessa - eccezionalmente - la rilevazione inerente tre centri esistenti all’estero, il Berlin Document Center, gli archivi Wast berlinesi e il Centro intemazionale di ricerche d’Arolsen (land di Hesse), utili per studiare le vicende degli alsaziani e lorenesi annessi al Terzo Reich, i deportati, i lavoratori forzati ed i dispersi durante il conflitto. La terza parte, infine, intitolata “Archives des collectivités territoriales”, raccoglie (ed è la sezione della guida a maggior densità di pagine) le indicazioni di tutti gli archivi dipartimentali del paese e di una quarantina di città, dai grandi centri di Lilla, Marsiglia, Bordeaux e Strasburgo, ad altri di dimensione più modesta come Angers o La Teste- de-Buch, passando attraverso agglomerati di alta significazione storica per gli avvenimenti della seconda guerra mondiale in Francia come Dunkerque o Lione. A ragione, Chantal de Tourtier ne segnala la specificità dell’interesse,
soprattutto per il carattere inedito delle informazioni che contengono, ma anche perché essi sono suscettibili di apportare contributi fondamentali sia agli studi di storia locale, sia ai loro collegamenti con i dati più generali della storia nazionale rinviando alla ricognizione degli archivi nazionali.
Non si è voluto, né potuto, avvertono i curatori, raccogliere tutto; tanto più che il flusso delle carte è continuo, i ritrovamenti proseguono e fondi importanti sono pervenuti in ritardo alla redazione (per esempio, documenti del Commissariato all’Informazione dell’ultimo governo della III Repubblica, abbandonati a Tours, nel giugno 1940, al momento del ripiegamento su Bordeaux, sono stati avviati agli Archivi nazionali soltanto nel 1989, i registri delle sentenze emesse dalla corte di giustizia della Senna sono stati integrati ai loro fascicoli d’istruttoria degli anni sessanta nel 1991, ecc.). E, tuttavia, la guida offre un panorama ineguagliato finora delle risorse documentarie alle quali gli studiosi possono attingere, indirizzandoli ai patrimoni di enti pubblici e di associazioni private che, in pratica, coprono tutto lo scacchiere delle istituzioni note.
Basterà ancora accennare al fatto che la pubblicazione contiene i dati su di un fondo della Banca di Francia, su quelli di alcune camere di commercio e d’industria fra le maggiori del paese (Parigi, Mar- siglia-Provenza, Tolosa) ed una completa rassegna di materiali conservati presso i Musei di storia della Resistenza.
La proficuità della collaborazione archivisti-storici, la bontà del metodo seguito, soprattutto, ripetiamo, affrontando il problema della presentazione degli archivi del
le “comunità territoriali”, e l’impianto, essenziale nella sua funzionalità, della pubblicazione da mettere al servizio dei ricercatori, fanno, in sostanza, di questa guida un evento che studiosi francesi e di ogni paese possono salutare come oltremodo felice; vuoi sotto il profilo dell’aiuto che essa reca alle loro fatiche, vuoi sotto quello degli stimoli che essa introduce, recuperando anche ritardi e reticenze in mezzo a cui ci si è mossi nel- l’affrontare le realtà di alcuni passaggi nodali della storia contemporanea francese, specialmente per quanto concerne la tormentata fase del governo di Vichy, risvolti inquietanti dei fenomeni di collaborazionismo e le modalità di svolgimento dei processi resistenziali.
Mario Giovana
Ministero per i Beni Culturali e Ambientali - Ufficio centrale per i Beni Archivistici, Le fonti diplomatiche in età moderna e contemporanea. Atti del convegno internazionale, Lucca, 20-25 gennaio 1989, Roma, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali - Ufficio centrale per i Beni Archivisti, 1995, pp. 631, sip.
Indice: Ennio Di Nolfo, Idocumenti diplomatici: metodologia e storiografia; Charles Kecskeméti, Les archives des organisations internationales: esquisse d'une problématique', Klaus Jaitner, Diplomatie Documents in the Historical Archives o f the European Communities in Florence.
1.1 documenti diplomatici e la storia delle relazioni intemazionali: Paola Canicci, La documentazione degli Archivi di Stato per la storia delle relazioni internazionali', Viaceslav S. Chilov, Les documents diplomatiques pour une étude en histoire générale: la guerre d ’Espagne nepoléonienne et l 'o- pinion russe', Raffaele della Vecchia, La
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questione d’Oriente nella prima metà dell'Ottocento', Franco Rossi, L’edizione di una fonte della diplomazia tardo quattrocentesca: aspetti e problemi', S.R. Ashton, The British Transfer o f Power in Asia: a Viewfrom thè Editorial Sidelines', Aldo Agosto, La diplomazia genovese in età moderna: documenti e problemi', Pietro Pastorelli, / criteri di pubblicazione dei documenti diplomatici: Roger Bullen, Margaret Pelly, Documents on British Policy Overseas: Editorial Principies and Practice', Maria Concepción Contei Barea, Presentación de la publicación de las actas del Consejo de ministros de España de 1824 a 1930; Maurice Degras, Les documents diplomatiques français; Jens Petersen, La pubblicazione dei documenti diplomatici tedeschi; Nina D. Smimova, Les documents des Archives de la politique extérieure de l'Empire russe (AVPRI) concernantes la situation de T Albaine en 1912- 1914.
II. I documenti non diplomatici per la storia delle relazioni intemazionali: Fulvio D’Amoja, Le fonti "non diplomatiche"; Antonello Biagini, Gli archivi militari per la storia diplomatica; Viaceslav S. Chilov, L'utilisation des documents non diplomatiques lors de l’étude de la politique extérieure de la V République; C. Oudin-Doglioni, Deux sources peu connues de l'histoire des relations internationales au Ministèrefrançais des affaires étrangères; Marek Sedek, Les archives de familles en tant que source pour l’histoire des relations internationales de Pologne du XVIe au XVIIIe siècle; Antonio Fiori, Una iniziativa in corso: la pubblicazione di documenti sui rapporti italo- polacchi (1918-1940).
III. Documenti diplomatici per la storia non diplomatica: Domenico Caccamo, I documenti diplomatici veneziani; Fabio Grassi, Le relazioni consolari come fonti per la storia dell’emigrazione e del movimento operaio italiano all’estero (1861-1915); Giorgio Mori, Luciano Segreto, Le fonti per la storia economica dell’Italia unita nei documenti diplomatici. Note ed approssimazioni; Giorgio Petracchi, Le
carte del Ministero degli Affari Esteri per la storia politico-sociale della Russia e dell’ Urss (1861-1950); Salvatore Bono, Fonti diplomatiche per la storia della conoscenza europea del mondo arabo; Alfonso Bogge, I rapporti dei consoli francesi a Torino come fonte per la storia economica piemontese. Primi appunti per una ricerca; Antoine Fleury, L’apport des Documents diplomatiques suisses à l’histoire non diplomatique.
IV. I carteggi personali. I protagonisti: Luigi Vittorio Ferraris, La memoria diplomatica. Appunti critici; Sergio Romano, Memorialistica della seconda guerra mondiale e del dopoguerra; Tomaso De Vergottini, Fulvio Suvich e la difesa dell' indipendenza austriaca, con appendice di Stefania Rug- geri; Costantinos Svolopoulos, Les papiers d'Eleuthère Vénizèlos; Paolo Cherubini, L’epistolario del cardinale Iacopo Ammannati Piccolomini; Manuela Cacioli, L’archivio di Primo Levi; Carlo Bitossi, L’ambasciatore alla Bastiglia. Note sulla corrispondenza privata di Paolo De Marini, inviato genovese in Francia (1681 -1685); Vito Ti- relli, L’archivio di Elisa Bonaparte Ba- ciocchi presso le Archives Nationales di Parigi.
V. Fonti diplomatiche e non diplomatiche per la storia dei paesi balcanici: Domna Dontas, Les documents diplomatiques et l’histoire non diplomatique de la Grèce; Rita Tolomeo, Le carte della nunziatura di Vienna per la storia politica dei paesi danubiano- balcanici in età contemporanea; Giu- stiniana Migliardi O’Riordan, La documentazione consolare e le funzioni del bailo veneziano a Costantinopoli; Francesco Guida, Le carte diplomatiche italiane per la storia politico-sociale dei Balcani dal 1878 al 1914: il caso bulgaro; Veselin Trajkov, L’utilisation des documents diplomatiques concernant T histoire non diplomatique de la Bulgarie jusqu’en 1878. Aspects communs et particularités; Ignacio Ruiz Alcain, Fuentes diplomáticas para la historia de los países balcánicos en el Archivo general de la administración civil del Estado español; Tho-
ma Murzaku, Les fonds personnels et leur importance comme source pour T histoire de T Albaine et d'autrespays.
La riflessione sulle fonti è, per ogni storico, un passo obbligato della propria ricerca. Essa comprende questioni eterogenee che vanno dall’ubicazione e disponibilità dei documenti ricercati, al rapporto fra fonte e storia, ovvero a come il giudizio dello storico sulla questione studiata sia profondamente influenzato dal tipo di fonte che sta consultando.
Questa eterogeneità è ben riprodotta nel volume Le fonti diplomatiche in età moderna e contemporanea, esito felice di un convegno sul tema svoltosi a Lucca nel gennaio 1989, che ospita molti contributi diversi per impostazione e spessore, alcuni dei quali utili riprese e aggiornamenti di parti del classico volume di Mario Toscano, Storia dei trattati e politica internazionale. I, Parte generale. Le fonti documentarie e memorialistiche, Torino, Giappichelli, 1963 (seconda ed.).
Responsabili d’archivio, assistenti editoriali per la pubblicazione di documenti diplomatici e, per la maggior parte, storici, intervengono su temi che spaziano, cronologicamente, dal tardo Quattro- cento al nostro secolo.
Molti di questi quarantatre interventi meriterebbero un commento ma, per mancanza di spazio, ci limiteremo a una breve nota a margine della relazione d’apertura del convegno, fatta da Di Nolfo, relazione dall’esito non scontato. Suggerisce infatti Fautore di intraprendere lo studio delle fonti diplomatiche secondo un metodo nuovo, considerandole come un codice in senso semiologico. La semiologia presuppone una comuni
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cazione biunivoca fra emittente e destinatario, inteso, quest’ultimo, come corpus sociale, una categoria che influenza 1’emittente e ne è influenzata. L’oggetto della comunicazione, che sia un vestito o un quadro, acquista determinate caratteristiche artistiche e formali che sono, spesso, al centro dell’interesse di tali studi (perché la minigonna? Perché la Flagellazione di Cristo di Piero della Francesca?). Ma questo metodo ci pare ironicamente mettere in luce i limiti più che la ricchezza dei documenti diplomatici. Perfezionando in senso semiologico lo studio delle fonti si arriverebbe infatti a scandagliare non ciò che, per esempio, le relazioni degli ambasciatori veneziani ci dicono riguardo ai paesi visitati e alla politica estera della Serenissima; il risultato sarebbe piuttosto un claustrofobico esame del “discorso diplomatico”. Sarebbe solo l’utilizzo brillante di un più elaborato metodo indiziario (ma quanti fra noi sono preparati ad intraprenderlo?) a permettere, forse, di giungere alla ricostruzione della visione del mondo di questi funzionari e dei loro interlocutori. Ma non sarebbe questo risultato affine a quelli auspicati dalla “nuova storia”, tanto aspramente criticata nel- Papertura dell’intervento?
Ciò di cui la storia delle relazioni internazionali ha bisogno sembra piuttosto, oggi, un allargamento dell ’ analisi ad altre fonti che permettano di valutare l’influenza di quelle meramente diplomatiche e, d’altro canto, di associare l’elaborazione della politica intemazionale a quella interna, secondo la lezione delle premesse alla Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896 di Federico Chabod (1951!). Questo è tanto più vero quanto più ci addentriamo nel No
vecento, dove molti elementi, fra cui l’accresciuta interdipendenza economica, lo sviluppo della democrazia parlamentare e quello della tecnologia (già ricordato da Toscano negli anni sessanta) hanno indebolito il molo del ministero degli Esteri quale unico attore della politica intemazionale di uno Stato. Il peso di questi mutamenti, d ’altronde, viene spesso riconosciuto dallo stesso Di Nolfo.
Ci piace infine notare l’ottima cura editoriale del volume alla quale avrebbe forse giovato, per ulteriore chiarezza, un’appendice biografica degli autori.
Lorenza Sebesta
Maria Teresa Piano Mortari, Isotta Scandaliato C iciani (a cura di), Le fonti archivistiche. Catalogo delle guide e degli inventari editi (1861-1991). Introduzione e indice dei fondi a cura di Paola Canicci, Roma, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali-Ufficio centrale per i Beni Archivistici, 1995, pp. 537, sip.
Il catalogo censisce guide e inventari di fonti archivistiche della penisola, comprese quelle della Città del Vaticano e della Repubblica di San Marino. Esso rientra in un più vasto ed ambizioso progetto dell’ Ufficio centrale per ¡Beni Archivistici del ministero per i Beni Culturali e Ambientali, concepito nel 1983 con lo scopo di realizzare un censimento complessivo degli strumenti di ricerca editi a partire dall’Unità d’Italia, comprendente anche edizioni di fonti, regesti e cataloghi di mostre.
Il presente Catalogo delle guide e degli inventari editi è dunque la prima importante realizzazione del progetto. Compilato da Maria
Teresa Piano Mortari e Isotta Scandaliato Ciciani sulla base della ricca bibliografia della Guida generale degli archivi di Stato italiani (Roma, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, 1981-1994, 4 voli.); dello spoglio della “Rassegna degli Archivi di Stato” e di altri 279 periodici italiani e stranieri; delle carte d’archivio conservate in biblioteche italiane segnalate nei più importanti cataloghi di manoscritti (Mazzatinti, Kristeller), nella Guida storico-bibliografica dello Schiapparelli, nell’“Annua- rio delle biblioteche italiane”, nella Bibliografia storica nazionale e nella “Bibliographische Informationen zur italienischen Geschichte im 19. und 20. Jahrhundert”, comprende quasi duemila titoli. Ci permettiamo di segnalare qui l’opportunità d’includere nello spoglio, in vista di una nuova edizione del catalogo, gli importanti periodici di medievistica “Studi medievali”, “Italia medievale e umanistica”, “Scriptorium” e la “Revue bénédictine”. Le due curatrici danno conto delle tappe di svolgimento del lavoro e del metodo seguito, delle difficoltà e dei limiti dell’indagine nell’Introduzione al volume (pp. 27-31).
L’Introduzione generale di Paola Canicci (pp. 7-23) descrive la complessità della ricerca sulle fonti archivistiche italiane (esistenza dei fondi, sede di conservazione, stato dell’ordinamento, strumenti per la ricerca), tenuto conto dell’ampio arco cronologico dei documenti, della varia natura delle istituzioni che hanno prodotto documentazione, delle mutazioni politico-istituzionali, giuridiche e amministrative intervenute nella storia della penisola e dei suoi Stati nel periodo preunitario e nella più recente storia unitaria, nonché
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del variare nei tempi e nei luoghi delle metodologie e dei criteri di ordinamento dei fondi archivistici.
Le notizie sulla storia degli interventi per uniformare l’ordinamento degli archivi italiani, sull’organizzazione vigente, sullo sforzo della Divisione V-Studi e Pubblicazioni dell’Ufficio centrale per i Beni Archivistici volti a fornire appropriati strumenti conoscitivi dell’inestimabile patrimonio storico-documentario italiano, infine sui criteri innovativi seguiti da Claudio Pavone e Piero d’Angio- lini per la descrizione dei fondi nella Guida generale, sono delineati con chiarezza e sinteticità nei primi due paragrafi dell’introduzione. Seguono la descrizione delle tappe del progetto che hanno condotto all’elaborazione del catalogo e dei suoi indici, l’enunciazione dei problemi metodologici inerenti alla sua compilazione e, nell’ultimo paragrafo a cura di Claudio Torcila, una breve descrizione del progetto informatico.
Il Catalogo (pp. 33-319) è suddiviso in quattro sezioni. La prima concerne le guide generali, “che descrivono l’insieme dei fondi conservati in una rete di istituti”, e comprende 19 titoli. La seconda elenca 118 titoli di guide settoriali e territoriali, che descrivono cioè “una determinata tipologia di archivi conservati in sedi diverse e di massima rilevati su base territoriale”. La terza comprende circa 2.000 titoli di guide particolari e inventari, “che descrivono l’insieme dei fondi conservati in un determinato archivio”, e guide tematiche comprendenti “una pluralità di fondi, conservati in uno o più istituti, limitatamente però alle serie e alle unità archivistiche relative a un determinato tema di ricerca” (citiamo dall’Introduzione generale di
Canicci). Completano il catalogo l’indice degli autori e curatori delle opere citate, l’indice degli enti curatori, promotori o editori, l’indice cronologico.
L’indice dei fondi archivistici, curato da Canicci, costituisce la seconda parte del volume (pp. 321- 525). E diviso a sua volta in cinque sezioni: 1. Indice delle guide generali, particolari e settoriali-territo- riali (a livello provinciale le seconde, a livello regionale e provinciale le ultime); 2. Indice dei fondi per località e sede di conservazione; 3. Indice generale dei fondi (completato dalla sede e dalla località di conservazione); 4. Indice dei fondi per tipologia, nel quale sono state individuate 35 categorie (per esempio Archivi fascisti; Archivi sindacali; Comitati di liberazione nazionali; Corpi militari e documenti della Resistenza; Fotografie e Archivi fotografici; Scuole).
In conclusione il volume appare un’importante guida alla conoscenza di ciò che è stato fatto in 130 anni per la conservazione, 1 ’ ordinamento e lo studio del patrimonio archivistico della penisola, una guida elaborata con grande consapevolezza metodologica e coscienza dei limiti e della provvisorietà che comporta ogni ricognizione in questo campo.
Riccardo Bottoni
Banca commerciale italiana- Archivio storico, Segreteria del- l’amministratore delegato Giuseppe Toeplitz (1916-1934), a cura di Alberto Gottarelli e Guido Montanari, Milano, Banca commerciale italiana, 1995, ili, pp.LIX-210,sip.
Dopo la pubblicazione degli inventari della Presidenza e Consiglio di amministrazione, della Se
gretaria generale e dell’Archivio Sofindit, l’Archivio storico della Banca commerciale italiana mette a disposizione degli studiosi di storia economica dell’Italia contemporanea un altro preziosissimo strumento di lavoro. Anche a quanti non si interessino sistematica- mente di queste vicende non può passare inosservata l’importanza che le banche miste - e la Comit in primo luogo - ebbero nello sviluppo e nel governo del settore industriale italiano fino alla crisi dei primi anni trenta. Si comprende dunque facilmente come la pubblicazione dell’inventario dell’archivio di Giuseppe Toeplitz rappresenti un ausilio di estrema importanza per un più facile utilizzo di questo interessantissimo materiale.
Il volume è aperto da un agile profilo biografico di Toeplitz- dall’infanzia in Polonia alle prime esperienze presso la filiale genovese della Banca d’Italia, dall’ingresso alla Commerciale fino agli anni di governo pressoché assoluto dell’Istituto - tracciato da Guido Montanari, che offre anche alcune informazioni sulla storia del fondo, dalla sua costituzione al suo riodinamento definitivo
L’archivio della segreteria Toeplitz comprende 84 cartelle e 73 copialettere (la serie completa ne contava 82, ma alcuni sono andati perduti, assieme a gran parte del materiale che costituiva l’archivio della segreteria, nel corso dell’incendio che nel 1973 devastò l’Archivio centrale del Centro contabile di Parma), che coprono grossomodo gli anni in cui Toeplitz fu amministratore delegato della Comit.
Il materiale delle cartelle è diviso in nove gruppi: Corrispondenza con funzionari, dirigenti e filiali della Bei (Cartt. 1 -6, ordina
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te alfabeticamente); Corrispondenza con diversi (Cartt. 7-23, relative al periodo 1916-1923); Pratiche varie (Cartt. 24-25, con materiali del periodo 1916-1923); Raccoglitori numerati (Cartt. 26- 55, che conservano documentazione degli anni 1923-1926); Pratiche alfabetiche (persone e società, Cartt. 56-63, anni 1927-1931); Corrispondenza con funzionari della Bei e pratiche d’affari (Cartt. 64-73, con carte del periodo 1930- 1933); Pratiche varie (Cartt. 74-75, degli anni 1930-1934); Segretari deH’amministratore delegato (Cartt. 76-77, con corrispondenza di Enrico Marchesano ed Emilio Brusa degli anni 1925-1930); Carte personali e familiari di Giuseppe Toeplitz (Cartt. 78-84, con documenti tanto di carattere personale, quanto relativi a questioni d ’affari, relativi agli anni 1900- 1931). All’archivio di Toeplitz sono aggregati anche una decina di copialettere dei segretari dell’amministratore delegato. Fra questi si debbono segnalare i cinque volumi di Raffaele Mattioli (relativi al periodo 1925-1933), futuro amministratore delegato e presidente della Commerciale.
Estremamente utile è poi l’in- terventario, curato e rivisto da Alberto Gottarelli, dei copialettere, l’unico fondo della segreteria ad avere conservato, fortunatamente, una sua compattezza, sia pure con qualche lacuna iniziale. I copialettere, integralmente microfilmati, sono ordinati alfabeticamente sulla base del nome del destinatario, e sono suddivisi fra persone e società ed enti diversi. Per ogni nominativo sono indicati i luoghi in cui le missive venivano indirizzate, l’arco cronologico della corrispondenza e la consistenza numerica dei vari carteggi.
Sarebbe impossibile rendere ragione, in queste poche righe, del materiale disponibile per i più diversi filoni di ricerca, tanto nel settore della finanza quanto in quello dell’industria, soprattutto dei settori di punta: basti in questo senso un richiamo ai lavori di Antonio Confalonieri. Vogliamo tuttavia ricordare almeno un aspetto, e precisamente la dimensione veramente europea, per non dire mondiale, che Toeplitz intese sempre dare al- l’attività dell’istituto che dirigeva: un nuovo invito - se ancora ce ne fosse bisogno - ad allargare sempre più lo studio della storia economica del nostro paese alla trama dei rapporti - vitali - con il contesto intemazionale.
Fabio Degli Esposti
Fedele Lampertico, Carteggi e diari 1842-1906, Volume I, A-E, a cura di Emilio Franzina, Venezia, Marsilio, 1996, pp. XXXIX-895, lire 120.000.
Con il volume che raccoglie una selezione di oltre 500 lettere di 202 corrispondenti tra i 3.480 compresi tra le prime cinque lettere dell’alfabeto è iniziata la pubblicazione dei carteggi del senatore vicentino. Il programma editoriale prevede quattro volumi e si concluderà - contestualmente alla an- tologizzazione di passi del Diario - con la presentazione di una selezione di missive inviate da Lampertico ad alcuni dei corrispondenti presi in considerazione, e recuperate in biblioteche e archivi pubblici e privati.
Da parecchi lustri ormai il rinnovamento degli studi sul moderatismo veneto e sulle sue connessioni non solo con le espressioni emiliane ma con la dimensione na
zionale del fenomeno ha portato in primo piano l’interesse per parecchi degli artefici di quella che Emilio Franzina - con espressione felice - ha definito la transizione dolce. Le caratteristiche e la ricchezza del fondo archivistico personale allestito da Lampertico stesso - emerse in pieno attraverso il lavoro di inventariazione e di schedatura ancora in corso presso la Biblioteca Bertoliana di Vicenza - lo hanno inevitabilmente reso un punto obbligato per la ricostruzione di e la riflessione su un modello di azione.
Franzina-che da anni lavora su queste carte - ha in parecchie occasioni già avuto modo di notare come la gran parte di esse rifletta l’impressionante dimensione del patronage esercitato con scrupolo e sapienza dal senatore vicentino nell’ambiente urbano e rurale e la capillarità dei rapporti intessuti con tutti i gangli della amministrazione centrale e periferica dell’Italia liberale. Ma, data per scontata questa impronta, ciò che emerge da questo primo volume del carteggio e che sicuramente sarà confermata dai prossimi, è la molteplicità, la polivalenza e la interscambiabilità dei ruoli ricoperti dal personagg- gio: una molteplicità, polivalenza e interscambiabilità che contribuiscono a caratterizzarlo come vero notabile della nuova Italia e che offrono infiniti spunti per la definizione della specie e della categoria interpretativa con cui gli storici si misurano con crescente interesse. Attraverso le missive di uomini politici, amministratori, parlamentari, prelati e sacerdoti, economisti, professori universitari, emergono e risultano compenetrate le dimensioni di Lampertico letterato ed erudito, economista e cultore di studi giuridici, collaboratore di ri
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viste e giornali, uomo d’accademia e naturalmente politico in grado di muoversi sul piano parlamentare e non e attento a mantenere e garantire un equilibrio tra compiti dello Stato ed esigenze della società civile.
Scegliere tra i corrispondenti inseriti nel volume pochi esempi calzanti per restituire trame e temi di colloquio non è facile. Ma vale la pena di richiamare l’assiduità del dialogo con il vescovo di Cremona Geremia Bonomelli all’insegna del “trovar modo di comporre l’Italia e la Santa Sede e far cessare il fiero contrasto tra il cittadino e il cattolico” e di armonizzare insieme i due nobilissimi amori della religione e della patria. Il colloquio con parecchi sacerdoti non tralascia- tra conversari di carattere storico ed erudito - lo scambio di informazioni di tipo politico a dispetto della affermazione del mittente di aver giurato a sé medesimo di non volersi più impicciare di fazioni elettorali e di limitarsi “ad adempiere il debito di cittadino col portare unicamente all’urna quel voto che avrebbe consigliato un ’ onesta coscienza, ed il bene della Patria”; con buona pace naturalmente della osservanza del non expedid.
Già questo primo volume raccoglie un manipolo qualificatissimo di economisti, statistici, studiosi del pensiero economico e di scienza delle finanze: da Luigi Bo- dio che discute del futuro della statistica ed offre al senatore informazioni - tratte anche da pubblicazioni straniere - utili anche dal punto di vista politico; a Salvatore Cognetti De Martiis che illustra il progetto d’un “Gabinetto d’applicazione agli studi economici”, ossia quello che diventerà il celebre laboratorio torinese; a Vito Cusu
mano - di cui sono qui pubblicate una quindicina di lettere - che illustra a Lampertico da Berlino all’inizio degli anni settanta le caratteristiche fondamentali della nuova scuola economica tedesca cui poi avrebbero fatto riferimento i “socialisti della cattedra” italiani, secondo la definizione di Francesco Ferrara; e tralascio gli Errerà, i Cossa e altri ancora.
Quanto ai politici ‘eccellenti’ non si può ignorare Francesco Cri- spi, che nel 1881 discute di riforma del Senato, nel quadro più generale della ammissibilità della riforma dello Statuto, con il futuro autore de Lo Statuto e il Senato, pregandolo tra l’altro di “adoperarsi con la sua influenza e l’autorità del suo nome alla riforma”, e assicurandolo che “renderà così un grande servizio all’Italia e al Re”.
Un elemento di fondo che emerge dalla lettura del carteggio è la costante compresenza e interscam- biabilità di registri di scrittura, tra il pubblico e il privato; una spia eloquente della compresenza e inter- scambiabilità di ruoli dei corrispondenti - e dunque dell’interlo- cutore-destinatario - tra uomini di cultura e uomini di potere all’interno di reti di relazione estesissime e intersecate.
Molte osservazioni questo volume solleciterebbe sul problema storico e storiografico dei carteggi, sul rapporto tra epistolario e carteggio come genere e come problema editoriale; ma su tutto ciò varrà la pena forse di tornare al termine di questa avventura editoriale, richiamando per ora l’attenzione dei lettori sulle penetranti annotazioni del curatore sull’epistolografia in età contemporanea, contenute nell’ampio saggio introduttivo.
Emma Mana
Paola Carucci, Fabrizio Dolci, Mario Missori (a cura di), Volantini antifascisti nelle carte della Pubblica sicurezza (1926-1943), Roma, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali - Ufficio centrale per ¡Beni Archivistici, 1995, pp. 241, sip.
Questa raccolta di volantini, conservati presso l’Archivio centrale dello Stato, si presenta come una fonte sulla propaganda antifascista di notevole interesse, sia per il mezzo, che, insieme alla comunicazione verbale, costituiva uno dei modi principali di veicolare l’opposizione al regime fascista, sia per i contenuti, da seguire anno per anno, al mutare delle condizioni politiche interne e intemazionali. Gli estremi cronologici coprono il periodo in cui il fascismo fu regime, dal novembre 1926, data d’approvazione delle leggi sulla pubblica sicurezza e dell’istituzione del Tribunale speciale per la difesa dello Stato, al 25 luglio 1943. L’attività antifascista si sviluppò nei primi tempi, soprattutto nei suoi centri esteri, in particolar modo in Francia (ma la documentazione qui proposta mostra anche una certa vi- talità dell’emigrazione politica in altri paesi come Argentina, Svizzera, Stati Uniti), ma anche in patria, per opera principalmente del Partito comunista, che si era attrezzato per la clandestinità ancor prima della messa fuori legge dei partiti politici.
Il materiale propagandistico di questo partito, ma anche la presenza di Giustizia e libertà, è abbastanza ricorrente nei primi anni presi in considerazione. Balza agli occhi l’estrema precarietà di questa battaglia, condotta con povertà di mezzi, basti far caso alla stampa dei volantini riprodotti e alla
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presenza di manoscritti. Tra i destinatari prevalgono gli operai; i partiti di sinistra, in particolare, non dimenticavano di accompagnare, alla contestazione del regime, anche rivendicazioni salariali. Se questa attività risulta interessante nei suoi contenuti ma è nota, un certo stupore deriva dall’attenzione posta ai metodi dell’acquisizione del consenso da parte del fascismo. Già nel materiale del 1929 si registrano appelli alle famiglie perché non mandassero i propri figli alle colonie estive organizzate dal regime, cosi come alcuni manifestini, tra cui uno manoscritto, molto interessante, mettevano in guardia verso l’attività di propaganda condotta dai fascisti nei confronti degli emigrati. Sembra così emergere la coscienza, tra gli antifascisti, della possibilità e della capacità di penetrazione ideologica dei loro avversari tra le masse; si può percepire la preoccupazione per una progressiva fascistizzazione della società.
Il Concordato venne “assorbito” lentamente; le reazioni più vive sono identificabili nei volantini e nelle vignette che ponevano il Papa al servizio del regime e lo contrapponevano, come modello, alla scelta dei soviet, già peraltro esaltata in precedenti occasioni. Altro punto nodale è la guerra di Spagna e l’allarme che generò l’alleanza italo-tedesca.
I curatori fanno presente, nel- VIntroduzione, che tra il 1927 e il 1935 gli autori dei volantini sono ben identificabili e conosciuti, mentre dopo il 1935 compaiono nuovi soggetti, o addirittura proteste di semplici cittadini. Dal 1935 si può notare, in effetti, un’impennata nella consistenza del materiale in cui predominano l’opposizione alla guerra in Etiopia e l’esortazione a
non arruolarsi. Di particolare rilievo è un volantino del 1936 (n. 351 ) in cui i comunisti invitavano le masse cattoliche alla fraternità e alla collaborazione fra tutti i lavoratori. Sembra così attenuarsi, se non spegnersi, quella forte spinta critica che, nella propaganda, aveva opposto i comunisti al Concordato coinvolgendo non solo le gerarchie ecclesiastiche, ma un intero modo di concepire la società.
Se deludente risulta, nel 1939, la mancanza (tranne che per un solo volantino) di sensibilizzazione contro le leggi razziali, desolante è il quadro generale dell’attività nell’anno successivo. I soli quattro volantini raccolti, a prescindere dalla reperibilità archivistica, indicano chiaramente uno stato di crisi, dovuto all’occupazione della Francia, che generò lo scompaginamento delle forze antifasciste ivi rifugiate, e allo stato di guerra. Il disorientamento è evidente anche nell’anno successivo; mentre nel 1942, le stesse vicende belliche, stavolta favorevoli agli alleati, e il tempo speso per la riorganizzazione delle attività e delle strutture, fanno assistere a una più intensa opera di propaganda che, nell’anno successivo, sarebbe divenuta ancora più consistente nel numero e più elevata nel tono.
Oltre al lavoro compiuto sui documenti, di reperimento, di schedatura, di collocazione entro precisi ambiti cronologici e di attribuzione di autori incerti, l ’impegno dei curatori si fa apprezzare per l’organizzazione del volume: l’ordine e l’omogeneità nell’impostazione delle schede, l ’indicazione, redatta anno per anno, dei dati più salienti dell’attività antifascista, consentono una facile lettura e comparazione, mentre l’organizzazione dell’indice, che raggruppa partiti, enti, luoghi e cose notevo
li, fornisce al lettore la possibilità di un’agevole fruibilità.
L’iniziativa di comporre un repertorio di queste fonti ha evitato la dispersione di una documentazione importante; renderla nella forma più efficace ha significato valorizzare quella che fu una scelta di libertà.
Marco De Nicolò
Elena Giacanelli Boriosi, Diana Ascari, Guida alle ricerche bibliografiche. Dalla biblioteca alle banche dati, alle reti telematiche, Bologna, Zanichelli, 1995,pp. 254, lire 20.000.
Nell’ambito della letteratura dedicata alla ricerca bibliografica, questa guida si rivolge specificamente a studenti delle scuole superiori, studenti universitari e ricercatori ancora inesperti. Come infatti sottolineano le stesse autrici, si è voluto “prendere per mano” chi per la prima volta intenda frequentare una biblioteca e usufruire dei suoi servizi e chi si trovi a contatto con l’informatica, i suoi strumenti e metodi. Il pregio del volumetto, infatti, consiste nell’avvicinare e introdurre i giovani ricercatori non soltanto ai tradizionali strumenti di ricerca bibliografica, ma anche a quelli più recenti quali il computer, banche dati, reti e Internet, argomenti che, come d’altronde i precedenti, raramente vengono oggi affrontati nelle scuole medie superiori e nelle università.
La struttura di questa guida tascabile presenta come primo argomento l’esame dei preliminari alle ricerche bibliografiche. Si indica infatti come scegliere un argomento di ricerca, secondo quali criteri, dove reperire le prime infor-
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inazioni e gli strumenti di lavoro (dalle tradizionali schede bibliografiche a righe, al PC portatile). La biblioteca viene indicata come luogo privilegiato delle ricerche bibliografiche: vengono infatti esaminate sia le diverse tipologie di biblioteca (nazionale, di conservazione, specializzate, annesse ai monumenti nazionali, universitarie), sia gli strumenti (annuari, guide, elenchi, ecc.) per individuare quelle che meglio corrispondono alla ricerca prescelta.
11 secondo capitolo è dedicato alla descrizione della biblioteca: dalla sala di consultazione, agli strumenti bibliografici e ai cataloghi; dalla sala di lettura al servizio fotocopie; dalla consultazione del volume alle pratiche per ottenerne il prestito. Se questo percorso, in cui il lettore è letteralmente condotto per mano attraverso i luoghi della biblioteca, può apparire a tratti banale, dal momento che è sufficiente recarvisi per capirne il funzionamento, risulta tuttavia utile per l’approfondimento con il quale informa sull’organizzazione dei cataloghi e delle schede per poterli utilizzare al meglio; esaustivo risulta, infine, il paragrafo dedicato alla gamma delle bibliografie possibili.
Il terzo capitolo tratta degli archivi (pubblici, privati ed ecclesiastici), soffermandosi sui manoscritti e sulla storia del papiro, della pergamena e della carta attraverso brevi schede che consentono di avere un inquadramento generale sulla storia del libro e della scrittura, dando anche precise indicazioni bibliografiche a chi voglia approfondire la materia. Il capitolo prende in esame anche altri argomenti, quali la cosiddetta letteratura minore e gli strumenti di ricerca legati ai “non- book materials” (dai manifesti al
le locandine, dalle fotografie ai film, dai dischi ai nastri e alle videocassette); infine si affrontano alcuni particolari campi di ricerca bibliografica quale quella musicale, fornendo utili e pratiche indicazioni di repertori, cataloghi telematici e bibliografie delle edizioni a stampa.
Il quarto capitolo è, forse, quello che interessa maggiormente il ricercatore di oggi a cui si chiede la conoscenza e l’utilizzo dei nuovi sistemi telematici in un mondo che diventa sempre più “virtuale”. Anche in biblioteca è entrato il computer e l’applicazione delle tecnologie informatiche sta modificando radicalmente la raccolta delle informazioni e quindi le modalità della ricerca bibliografica. Lo scopo del capitolo non è certo quello di dare un’informazione completa e approfondita della materia, dal momento che sono a disposizione dell’utente manuali ben più adatti a tale scopo, quanto di introdurre ai nuovi strumenti tecnologici. Si parla infatti del computer, delle parti che lo compongono (CPU, memoria RAM, hard disk), dei meccanismi di base delle operazioni compiute da un calcolatore e dei concetti fondamentali del software (file, programma), per poi passare a illustrare come può essere utilizzato in una biblioteca, dalla semplice ricerca di un libro al collegamento in rete con banche dati di altre biblioteche o istituti.
Successivamente l’autore del capitolo, Federico Giacanelli, concentra il discorso sulle banche dati su CD-ROM e sulle reti, in particolare su Internet e sul modo in cui funziona questa grande “autostrada informatica” e sui servizi che può offrire. Il capito
lo si conclude con un paragrafo dedicato all’editoria elettronica in cui si fa riferimento al catalogo CD-ROM (aggiornato al maggio 1994) delle informazioni editoriali, una società sorta nel 1985 e specializzatasi nella progettazione e gestione di grandi data-base.
L’ultimo capitolo è dedicato all’analisi, catalogazione e uso del materiale bibliografico raccolto. Si parla quindi della compilazione delle schede bibliografiche, delle schede di lavoro, del loro ordinamento e dell’elaborazione del materiale raccolto.
La guida si conclude con un glossario relativo agli argomenti trattati e con un elenco delle opere consultate (che, in verità, avrebbe potuto essere sviluppato in una più ampia bibliografia). Nel complesso dunque un ma- nualetto utile, pratico, di facile consultazione, che evita tecnicismi e rivela un’approfondita ricerca sul campo, introducendo al mondo della documentazione con indicazioni semplici e chiare.
Luisa Lombardi
Piero Del Negro (a cura di), Guida alla storia militare italiana, Napoli, Edizioni scientifiche italiane, 1997, pp. 279, lire 50.000.
Serie di rassegne bibliografiche settorialidi 14 autori, impostatene! 1989 da Raimondo Luraghi e Michele Nones, riprese e pubblicate da Piero Del Negro, aggiornate al 1992 (e in parte agli anni seguenti), con un elenco di 350 titoli editi successivamente curato da Nicola Labanca. Per un totale complessivo di 4.000 opere, non poche delle quali citate in due o più sezioni.
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Una rassegna bibliografica di tale ampiezza pone problemi irresolubili di completezza e di ripartizione, di coordinamento e di selezione, e non può non lasciare lacune anche notevoli e affiancare studi e memorie di valore a pubblicazioni agiografiche o giornalistiche. Una valutazione complessiva deve tenere conto di questi inevitabili limiti di partenza e apprezzare (oltre al grosso impegno dei curatori) quanto di utile e interessante offrono le diverse sezioni. Con l’ovvia avvertenza che quelle che trattano periodi e problemi per i quali la produzione è limitata e può essere tenuta sotto controllo riescono certamente meglio di quelle che devono fare i conti con una produzione sterminata e di livello quanto mai vario.
Segnaliamo in primo luogo le sezioni dedicate al Medioevo (Roberto Perelli Cippo, 277 titoli con una buona nota introduttiva), alla guerra nel Mediterraneo dal Cinquecento all’Ottocento (Salvatore Bono, 100 titoli), all’età moderna (Piero Del Negro, 368 titoli con una buona nota introduttiva e una lodevole attenzione agli studi stranieri) e al Risorgimento (Alberto Maria Arpino, 199 titoli, con scarso interesse per gli anni post-1870). Per il periodo successivo, in cui la produzione cresce a dismisura, possono avvalersi di una concreta delimitazione di campo e di un’impostazione giustamente e vivacemente critica le sezioni dedicate alla marina e all’aeronautica italiane dalle origini alla seconda guerra mondiale curate da Alberto Santoni (280 titoli) e Andrea Curami (321 titoli).
Nel valutare le altre sezioni bisogna tener conto dei problemi irresolubili di selezione e ripartizione, oltre che del ritardo degli studi
pernon pochi settori. Come avverte Michele Nones, non è realmente possibile separare le vicende del- l’industria militare (cui dedica 274 titoli) da quelli dell’industria in generale (con tutte le sue implicazioni politico-sociali). Così Leopoldo Nuti conduce una rigorosa ricognizione dei contributi sulle forze armate dopo il 1945 (220 titoli, con una puntuale denuncia della insufficienza delle fonti), ma è costretto a sacrificare temi come la politica Nato, il dibattito sulle armi atomiche, le varie forme di antimilitarismo e le “deviazioni” dei servizi segreti. La sezione sulla storia militare coloniale di Luigi Goglia (240 titoli) ci sembra poi insufficiente, sia nella rinuncia a distinguere le opere edite prima e dopo la seconda guerra mondale, sia nel- l’incapacità di cogliere e valorizzare tutte le aperture problematiche degli ultimi decenni. Del tutto inutile la sezione sull’esercito italiano nella prima e nella seconda guerra mondiale di Antonello Bia- gini e Filippo Stefani, che si risolve in due elenchi di 170 e 140 titoli senza alcuna ripartizione tra studi, documentazione, agiografia e memorie (con una scelta casuale di queste ultime); la grande difficoltà di un approccio a una produzione vastissima non giustifica la rinuncia a qualsiasi tentativo di inquadramento critico. Lo stesso si può dire per la sezione sulla guerra di liberazione di Giuseppe Conti (208 titoli), di qualche utilità per l’operato delle forze armate e della Rsi, ma non per la prigionia dei militari italiani e ancor meno per la guerra partigiana (a che serve un semplice elenco di 83 titoli in parte casuali dinanzi a una produzione così vasta?).
Rispetto alle dimensioni delle sezioni citate, 200-300 titoli, assu
me rilievo particolare la sezione dedicata alla storia del pensiero, delle istituzioni e della storiografia militare curata da Virgilio Ilari, di ben 920 titoli articolati in 17 sottosezioni. La sua straordinaria conoscenza della produzione degli ultimi cinquantanni (ma non mancano riferimenti a quella del periodo fascista) porta l'autore a spaziare sui temi più diversi, dai manuali di storia militare alla politica, dalla sociologia al pacifismo, dalla logistica al cinema, dalla censura ai monumenti ai caduti. Sono parzialmente coperte alcune delle lacune dell’opera (come la politica militare dell’Italia liberale e fascista), ma, malgrado l’interesse di molte segnalazioni, l’effetto complessivo è di una notevole dispersione e, quando l’autore esce dai tracciati più battuti, di scelte occasionali o discutibili; per esempio l’autore dedica una sottosezione di 40 titoli alla Miliziae alle forze della Rsi, ma nella sottosezione sui corpi volontari dal Risorgimento alla Resistenza riserva a quest’ul- tima non più di 7 titoli abbastanza casuali. Sarebbe stato opportuno calibrare meglio questa sezione nell’economia generale dell’ opera.
Giorgio Rochat
Il catalogo tematico dei piccoli editori 1995, Milano, Associazione italiana piccoli editori, 1995, 446 pagine + floppy disk, lire 18.000.
Per evitare la dispersione delle proprie pubblicazioni aH’intemo della vasta produzione nazionale l’Aipe, ente che raggruppa oltre un centinaio di piccole case editrici italiane, aggiorna periodicamente un interessante Catalogo tematico, giunto ormai alla sua quarta edizione.
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Mantenere separato questo particolare repertorio dai tre grossi tomi che costituiscono il noto Catalogo dei libri in commercio (curato quest’ultimo dall’Associazione italiana editori) significa richiamare 1 ’ attenzione del pubblico su di un settore bibliografico che altrimenti rischierebbe di passare inosservato nel grande mercato del libro dominato dalle grosse imprese.
La piccola editoria, che per sopravvivere si prefigge gli obiettivi della specializzazione culturale e della ricerca di una buona qualità di stampa, segnala in questo utile strumento informativo non l’intera disponibilità delle case affiliate ma una selezione di opere fra le più significative. I titoli si presentano ordinati per aree tematiche, ma non è tutta qui la struttura del catalogo poiché la versione in floppy disk annessa al volume permette la consultazione secondo altre chiavi di accesso: autore, curatore, soggetto, editore, parole chiave, prezzo di copertina.
Un’ultima rilevante caratteristica del repertorio dell’Aipe è l’appendice con le schede di tutte le case editrici associate: un essenziale resoconto storico dell’attività di ciascuna e l’indicazione dei principali settori d ’interesse attualmente coltivati.
Paolo Maggiolo
Gruppo di coordinamento delle biblioteche della Regione toscana (a cura di), Catalogo collettivo dei periodici, Firenze, Edizioni Regione Toscana, 1996, pp. 221, sip.
L’ente regionale della Toscana, uno dei più attivi e benemeriti in Italia nel promuovere e diffondere ottime edizioni di carattere bibliografico e biblioteconomico (basti accennare all’iniziativa della pre
ziosa collezione “Inventari e cataloghi toscani”), pubblica questo Catalogo collettivo che riunisce in agile schedatura il patrimonio periodico dei seguenti istituti: Biblioteca della Giunta regionale, Biblioteca del Consiglio regionale, Biblioteca dell’Istituto regionale per la programmazione economica della Toscana (Irpet), Biblioteca dei servizi bibliografici e Centro regionale di documentazione agricola, ovvero cinque sue strutture periferiche.
La lettura del catalogo rivela una buona dotazione di riviste italiane e straniere in un campo di discipline ampio e generale, considerando la diversità di compiti e funzioni che ciascuna delle cinque sedi si trova ad espletare. Nelle dotazioni seriali del Sistema delle biblioteche regionali emerge, comunque, una certa prevalenza di titoli appartenenti alle aree socio- economiche, giuridiche, politiche e biblioteconomiche, segnalandosi altresì una marcata presenza di rassegne di attualità culturale.
II recente strumento di consultazione offerto dalla Regione Toscana risulta infine utilmente complementare alle sempre più frequenti ricerche nella base catalografica informatizzata dell’Indice nazionale (che raggruppa i poli Sbn, Servizio bibliotecario nazionale), in quanto i dati relativi alle raccolte censite in questo Collettivo sono attualmente immessi soltanto in rete regionale.
Paolo Maggiolo
Andreina Rigon (a cura di), Indici 1972-1994, supplemento a “Ricerche di storia sociale e religiosa”, 1994, n. 46, pp. VIII-344, lire 60.000.
Su queste pagine è stato più volte sollevato il problema dell’infor
mazione bibliografica (cfr. per esempio Enzo Ronconi, Informatica o obliterazione?, “Italia contemporanea”, 1991, pp. 689-693), così come sono stati segnalati molti “strumenti” della ricerca storica, compresi gli indici che diverse riviste hanno pubblicato (tra gli ultimi interventi si veda “Italia contemporanea”, 1995, pp. 528-532). Risponde alle stesse motivazioni l’elaborazione di un Indice generale analitico 1974-1996 di “Italia contemporanea”, di imminente pubblicazione, e non possiamo di conseguenza che sfogliare con interesse il voluminoso indice della rivista dell’Istituto per le ricerche di storia sociale e religiosa di Vicenza.
Alla Presentazione e alla Nota introduttiva seguono le cinque parti in cui si articola il volume. L’Indice degli argomenti “raggruppa i titoli dei contributi della rivista entro le maglie piuttosto larghe di argomenti-contenitore generali, ma non generici” (p. 3). L’Indice degli autori presenta alfabeticamente articoli, note e interventi vari, e Io stesso fa Vindice degli autori di recensioni e schede, mentre Vindice di colloqui, conversazioni, congressi, convegni, seminari, tavole rotonde presenta in ordine cronologico i testi che si riferiscono ai diversi tipi di confronto culturale. Quasi due terzi del volume (pp. 125-344) sono infine occupati dal- Vlndice dei nomi di persona (che però non considera i nomi “compresi nelle tavole, nelle appendici e nelle note a piè di pagina”).
Dunque un lavoro notevole, che offre molteplici possibilità di ricerca delle informazioni e che valorizza quanto pubblicato, consentendone un maggiore e più agevole utilizzo. Se è possibile qualche osservazione marginale — per
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esempio, sarebbe stato forse più utile dar conto dei libri recensiti presentandoli secondo gli autori e non secondo i recensori — va ricordato che in ogni lavoro di questo tipo occorre fare delle scelte che penalizzano o privilegiano una o l ’altra modalità di accesso alle informazioni. Il discorso si sposta, in questa prospettiva, sull’assenza di modelli condivisi ai quali rifarsi e che potrebbero permettere anche la fusione dei singoli lavori.
In mancanza di un’iniziativa pubblica sarebbe allora da auspicare, forse un po’ utopisticamente, che più enti pubblici e privati di rilievo si accordassero per suddividersi, con evidenti economie e quindi possibilità di offrire lavori più analitici, la gestione dell’informazione bibliografica riguardante i testi comparsi sulle riviste storiche. Sarebbe un peccato continuare a disporre di strumenti, ben fatti e utili come quello offerto da “Ricerche di storia sociale e religiosa”, senza poterli inserire in una più ampia banca dati e senza poterli aggiornare in continuazione.
Paolo Ferrari
“Contemporary European History”, 1992-1996, Cambridge, Cambridge University Press, abbonamento annuo sterline 29 (privati) - 47 (istituzioni).
“Contemporary European History” è nata nel marzo 1992 grazie al patrocinio dell’Institute of Contemporary British History (Londra) e si propone di contribuire allo studio della storia dell’Europa occidentale e orientale dal 1918 ai giorni nostri. Come scrivono Kathleen Burk e Dick Geary, editors della rivista e ri
spettivamente docenti delle università di Londra e Nottingham, sono stati gli enormi cambiamenti avvenuti nell’Europa dell’Est, in seguito alla caduta del muro di Berlino, e l’accelerazione del processo di integrazione europea avvenuta nel 1992, a riaccendere l’interesse per l’Europa intesa come entità geografica e storica e a rendere improcrastinabile la nascita di una rivista accademica che soddisfacesse la domanda crescente per studi di carattere comparato. Di qui il lancio della rivista, il cui scopo vorrebbe essere quello, sempre secondo quanto si legge nell’editoriale di presentazione, di fungere da luogo “di dibattito interdisciplinare e intemazionale” fra storici di diverse realtà nazionali per uno studio dell’Europa che tenga presente le numerose analogie e somiglianze riscontrabili fra i diversi paesi.
La traduzione degli abstracts in francese e tedesco riflette senza dubbio il desiderio di fare della rivista uno strumento realmente ‘europeo’ e non limitato a storici anglosassoni. Il fatto di poter proporre articoli in lingua originale è un’ulteriore testimonianza del tentativo di coinvolgere il più possibile il mondo accademico non inglese. Va detto, tuttavia, che, nonostante tali encomiabili sforzi, “Contemporary European Hi- story” rimane una rivista frutto per lo più del lavoro di storici inglesi e americani che rappresentano non solo la maggioranza del comitato editoriale ma anche la larga maggioranza degli autori dei contributi.
Se il proposito di assolvere la funzione di luogo di dibattito realmente intemazionale ci sembra in parte insoddisfatto, lo stesso non si può dire per quello che riguarda la
capacità della rivista di fornire una prospettiva comparata per lo studio di molte questioni finora affrontate in una chiave unicamente nazionale. Almeno un numero all’anno (in tutto sono tre, pubblicati in marzo, giugno e novembre) è infatti monografico, allo scopo di ospitare contributi che trattino in un’ottica comparativistica un unico tema; tra le questioni finora affrontate vi sono il molo svolto dalle banche centrali negli anni fra le due guerre (n. 2, 1992); razzismo e violenza in Germania e Europa (n. 2, 1994); la famiglia (a cura di Paul Ginsborg, n. 3, 1995); la piccola borghesia in Europa dal 1914 al 1945 (n. 3, 1996).
Per quanto riguarda i numeri non a tema, essi contengono saggi che spaziano dalla storia sociale a quella politica, diplomatica o economica e che si concentrano di volta in volta su realtà nazionali specifiche; è a questo proposito che riteniamo di dover richiamare l’attenzione su un’altra caratteristica della rivista, sul fatto cioè che lo studio dei paesi dell’Europa del Sud appare visibilmente trascurato: scorrendo i numeri finora pubblicati è innegabile, infatti, lo squilibrio considerevole fra l’attenzione dedicata all’Europa centrale e dell’Est e quella riservata ai paesi dell’Europa meridionale. Nonostante la presenza nel comitato editoriale di studiosi del calibro di Paul Preston, noto specialista di studi ispanici, e Paul Ginsborg, affermato italianista, sono rari i contributi su Italia e Spagna per non dire dell’assenza totale di qualsiasi accenno a Grecia e Portogallo. La maggioranza schiacciante di germanisti all’interno del comitato editoriale fa sì che gran parte degli articoli si concentri sulla realtà tedesca e sui paesi ex-comunisti in
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transizione che, insieme al processo di integrazione europea, rappresentano senza dubbio le aree di interesse chiave su cui ruota “Con- temporary European History”.
Quanto alla rivista, essa è composta in genere da tre saggi principali di una quindicina di pagine, seguiti da alcuni contributi più brevi, due o tre, che non superano le sei pagine. Segue poi la sezione “Book review” che ospita ogni volta la recensione di un solo libro; secondo quanto enunciato nel primo fascicolo, considerato l’alto numero di recensioni già offerte da altre riviste accademiche, l’attenzione di “Contemporary European History” si sarebbe dovuta focalizzare su saggi stranieri; non ci sembra tuttavia che anche questo ulteriore impegno preso in direzione di una minore ‘britannocentricità’ sia stato finora rispettato: la pressoché totale maggioranza dei testi recensiti è infatti di autori inglesi o americani. La rivista si chiude infine con due altre rubriche: “Com- ment”, che si propone di ospitare brevi interventi sullo stato dello studio della storia e della ricerca storica nelle varie realtà nazionali europee e che registra la prevalenza di interessanti contributi sui paesi dell’Est; e “Noticeboard”, attraverso cui è possibile tenersi informati su conferenze, nascita di nuove fondazioni, associazioni, riviste storiche, apertura di nuovi archivi, eccetera.
Ilaria Favretto
“Rivista storica dell’anarchismo”, a.1,1994, n .l.pp. 160; a. 11,1995, nn. 1 e 2, pp. 176; ogni numero lire 25.000.
La Biblioteca “Franco Seranti- ni” di Pisa ha promosso una rasse
gna semestrale di studi storici sul movimento anarchico, sorretta dal- l’ambizione di effettuare uno scavo critico nelle vicende dei movimenti libertari e delle culture antiautoritarie, con l’obiettivo di allestire non già “una rivista celebrativa, o peggio autocelebrativa, un parco delle rimembranze, ma un osservatorio a 360 gradi, nell’ampiezza della collaborazione e delle tematiche, senza apriorismi ideologici, fossero pure quelli del- l’anarchismo stesso; quelle che scriveremo saranno spesso pagine di critica e di rivendicazione - storiografica s’intende - dalla parte dei vinti ed evitando accuratamente il vittimismo tipico e autoconsolatorio delle minoranze”.
Nel folto elenco dei membri del Comitato scientifico e dei redattori si ritrovano i nomi di taluni pionieri degli studi sull’anarchismo italiano (Pier Carlo Masini, Enzo Santarelli) e intemazionale (Paul Avrich), insieme a quelli di alcuni ricercatori delle nuove generazioni occupati su nuove piste d’indagine intorno a momenti e figure degli eterogenei movimenti libertari (Franco Bertolucci, Adriana Dadà, Isabelle Felici, Francisco Madrid Santos, Massimo Ortalli e altri studiosi i cui nomi si avrà occasione di citare più oltre).
I temi affrontati dalla rivista - strutturata in quattro sezioni: “Saggi”, “Archivi, biblioteche, centri di documentazione e fondazioni”, “Recensioni e schede bibliografi- che” e “Notiziario” - privilegiano il periodo compreso tra l’ultimo decennio del secolo scorso e la seconda guerra mondiale, con una meritoria attenzione all’edizione critica di materiale inedito (per lo più epistolari).
Nel numero d’esordio Maurizio Antonioli firma uno studio mono
grafico sull’atteggiamento degli anarchici dinanzi alla guerra europea, corredato dalle lettere inviate tra il 1914 e il 1915 da Luigi Fabbri e Cesare Agostinelli a Nella Giacomelli, maestra impegnata nel giornalismo libertario accanto a Ettore Molinari. Nel secondo numero della rivista Antonioli prosegue l’accurato lavoro di edizione degli epistolari anarchici nei due primi anni di guerra, trascrivendo lettere di Luigi Fabbri, Mario Gioia, Massimo Rocca, Maria Rygier. Si tratta di un primo tassello, nondimeno utile per chi vorrà approntare una più generale storia (ancora tutta da scrivere) delle divisioni che lacerarono il movimento anarchico italiano tra antimilitaristi e interventisti, ben più in profondità di quanto non si creda comunemente: si consideri ad esempio - per un periodo successivo, a ridosso della rotta di Caporetto - il rientro di gruppi di militanti espatriati in Svizzerae disposti, nelle nuove circostanze di “pericolo mortale per la patria”, ad arruolarsi nell’esercito monarchico. Dalla lettura di questi documenti si comprende la fallacia di alcuni giudizi (più che altro autoconsolatori) espressi in passato da molti studiosi di area antiautoritaria, per avvalorare la sostanziale tenuta del movimento anarchico italiano dinanzi ai profondi richiami dispiegati dall’interventismo.
Natale Musarra espone e commenta i dati statistici sulla consistenza dei Fasci dei lavoratori in Sicilia, nel 1894, con utili elementi sulla loro nascita, sul numero degli aderenti, sulla data e i motivi del loro scioglimento. Tra le fonti utilizzate in questo lavoro vi è un circostanziato indirizzario sequestrato ad Emmanuele Gufi, all’epoca impegnato nel tentativo di in
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dirizzare il movimento solidaristico verso sbocchi insurrezionali.
Alberto Ciampi e Armando Se- stani pubblicano un contributo sul rilievo deH’Art Noveau, fra istanze sociali e riorganizzazione del capitale, in rapporto alle lotte operaie e contadine dei Fasci dei lavoratori e ai moti della Lunigiana.
La figura di Andrea Caffi è stata affrontata da Stefano Merli in un contributo approntato poco prima della scomparsa, gravitante attorno all’idea-guida della sfortuna del pensiero di un esponente originale ma emarginato del movimento socialista italiano. Il fatto che questo saggio, orientato a rivalutare l’eredità proudhoniana nel socialismo italiano, sia apparso sulla “Rivista storica delFanarchismo” (che nel proprio Comitato scientifico annoverò Merli) può apparire un tratto significativo per F itinerario scientifico e anche biografico dell’ultimo Merli, segnando per lo studioso del movimento operaio italiano una sorta di ritorno alle origini (cioè all’inizio degli anni sessanta, quando militò nel le file della sinistra fuoriuscita dal Psi in avversione al centrosinistra), consumata la deludente fase di fiancheggiamento all’involuzione craxiana del socialismo.
Il numero inaugurale del 1995 si caratterizza per una precipua attenzione al trentennio intercorrente tra lo scoppio del conflitto europeo e la fine della seconda guerra mondiale.
Marcello Zane presenta una stimolante indagine sulle “dimenticanze di Clio”, cioè a dire l’assenza di studi sul movimento anarchico nelle pubblicazioni edite dagli istituti storici della Resistenza: su un totale di circa quattromila fra saggi storici, interventi, articoli e ricerche, l’elenco dei contributi dedicati alla storia dell’anarchismo
appare quanto mai sparuto: 23 per l’esattezza, nove dei quali raccolti nel numero speciale del “Notiziario dell’Issr di Cuneo” dedicato a SaccoeVanzetti (il n. 33 del 1988). Ulteriore elemento di riflessione, a integrazione dell’esiguità del dato numerico, deriva dalla constatazione che la pubblicazione dei saggi riconducibili alla storia dell’anarchismo sia dipesa essenzialmente da soggettivi interessi di ricerca e dalla più o meno casuale disponibilità di materiale documentario (fondi depositati da anziani militanti libertari).
Claudio Venza (condirettore con Alfonso Botti del semestrale “Spagna contemporanea”, interessante rivista alessandrina che dal 1992 ad oggi ha ospitato diversi studi sull’anarchismo, e non soltanto sull’esperienza iberica) esamina - attraverso l’esperienza e la memoria di Umberto Marzocchi - il richiamo esercitato su svariati militanti del movimento libertario italiano dalla guerra civile spagnola, in una prospettiva non agiogra- fica ma nemmeno disamorata, nella convinzione che “su un piano meno vincolato alle contese politiche e alla difesa del proprio passatoria riflessione storica debba affrontare con strumenti critici anche gli aspetti di dubbio valore, le scelte opinabili, le ambiguità e le contraddizioni, insomma la problematica in tutta la sua complessità, una realtà composta spesso da un intreccio inestricabile di progettualità utopica e di condizionamenti pressanti, di aspirazioni e di necessità, di strategie meditate e di elementi di fatto ineludibili”.
Il terzo numero della “Rivista storica dell ’ anarchismo” si apre con una lunga rielaborazione di Lorenzo Gestri che, muovendo da un documento processuale, ricostruisce
un episodio dell’attività propagandistica di Luigi Molinari a Carrara, nell’ultima settimana del 1893.
Franco Schirone ripercorre la parabola editoriale del tipografo aretino Giuseppe Monanni (1887- 1952), promotore (con Leda Rafa- nelli, nota soprattutto per i suoi legami col giovane Mussolini) della Casa Editrice Sociale, fondata verso la fine del 1909 e presto divenuta un riferimento politico-culturale dell’estrema sinistra milanese (aveva sede nei dintorni di Porta Ticinese, in via San Vito 14). L’elenco dei libri stampati da Monanni include i testi classici del pensiero anarchico (le opere di Kropotkin, Malatesta, Reclus, Stimer ecc.) e della narrativa “sovversiva”, da II tallone di ferro di London a La madre di Gorkj, attingendo ad opere di Nietzsche e di Huxley, di Kipling e di Woodehouse, a riprova di un certo eclettismo culturale. Tra gli elementi di pregio dell’editrice si può senz’altro annoverare l’attenzione all’aspetto grafico, comprovata dalla commissione delle copertine a giovani artisti futuristi tra i quali spiccava Carlo Carrà. All’inizio degli anni trenta Monanni si trovò costretto a cessare ogni attività editoriale, per riprendere le pubblicazioni nel 1945 con un testo antimonarchico di Paolo Vaierà, ma si tratterà di una breve parentesi e il vecchio editore libertario verrà assunto dalla Rizzoli divenendo direttore editoriale.
Manca purtroppo lo spazio per dar conto di altri contributi accolti dalla “Rivista storica dell’anarchismo”, una rassegna che con i suoi primi tre numeri pare essersi conquistata uno spazio significativo nel panorama dell’editoria periodica sulla storia dei movimenti libertari e della loro elaborazione teorica.
Mimmo Franzinelli
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Nicola Labanca, Storia dell’Italia coloniale, Milano, Fenice 2000, 1994, pp. 96 ili., lire 9.500.Luigi Tomassini, L’Italia nella grande guerra 1915-1918, Milano, Fenice 2000, pp. 96 ili., lire 10.000.
Una delle scommesse principali di ogni testo divulgativo è trovare un equilibrio tra le informazioni fornite, all’interno di una narrazione che sappia connettere i principali avvenimenti, e, d ’altra parte, la presentazione dei risultati più recenti della storiografia, comprese le questioni sulle quali non sono state raggiunte conclusioni ampiamente condivise. Una enfasi eccessiva sul primo versante si addice a testi di consultazione (più che ai manuali scolastici in senso stretto), dove chiaramente precisione e ricchezza di riferimenti costituiscono pregi essenziali. Quando invece questo avviene in testi destinati a un vasto pubblico relativamente poco informato, il pericolo è sempre quello di allontanare potenziali lettori, annoiando e suggerendo l’impressione che la storia si confonda con la cronaca. Spesso anche non pochi libri e riviste non destinati a specialisti sconfinano in un’aneddotica caratterizzata dal fatto che i singoli avvenimenti vengono trattati isolatamente, senza cioè legami con il contesto nel quale si inseriscono e che dovrebbero contribuire a spiegare e senza che nella loro trattazione siano sollevate questioni rilevanti dal punto di vista dell’analisi storica.
Tutto questo per dire che i due volumetti di Nicola Labanca e Luigi Tomassini centrano invece in pieno l’obiettivo di fornire testi agili ma insieme aggiornati e acuti, non a caso dovuti a due autori
che da anni svolgono ricerche originali sugli argomenti in questione. Caratteristica principale di questi saggi è, a parere di chi scrive, aver saputo narrare storie complesse fornendo in continuazione, accanto alle informazioni essenziali, chiavi di lettura dei fenomeni discussi, non senza suggerire come le vicende italiane si inseriscano in contesti più ampi. Così Labanca, dopo aver opportunamente ricordato in apertura che “il colonialismo permeò profondamente le società europee più di quanto si è usualmente disposti a riconoscere” (p. 7), affronta subito il problema della inadeguatezza delle teorie generali esistenti a spiegare il colonialismo italiano, e mira quindi a dar conto non soltanto delle vicende diplomatiche e militari, ma anche delle spinte verso il colonialismo presenti all’interno della società italiana. Infine, per accentuare ancor più il carattere problematico della trattazione, ripercorre in un capitolo conclusivo questioni interpretative del colonialismo - sotto il profilo dell’economia, della demografia e della società coloniale - che rimandano anche a problemi discussi dagli albori stessi del colonialismo italiano (la sua possibilità di fornire nuove terre a italiani), ma sulle quali, come ha dimostrato lo stesso Labanca, sono possibili ricerche originali.
Analogo il discorso per il saggio di Tomassini, che considera, accanto alla storia militare, quella della società italiana nel suo complesso durante la guerra. Per le vicende strettamente militari si possono poi fare almento due considerazioni. In primo luogo Tomassini dà conto dei risultati e dei temi (dallo studio del combattente in tutte le sue dimensioni a quello del
la mobilitazione industriale) della più recente storiografia. Inoltre anche trattando temi “classici”, come le battaglie dell’Isonzo, cerca di sintetizzare le dinamiche proprie alle diverse fasi del conflitto, nelle loro relazioni con le vicende più generali della guerra (può essere utile, a questo proposito, confrontare la sintesi di Tomassini con quanto scritto recentemente da Giorgio Rochat, L'efficienza del- T esercito italiano nella grande guerra, “Italia contemporanea”, 1997, pp. 87-105). Entrambi i libri, che appartengono alla collana divulgativa “Piccola biblioteca di base”, che si spera si arricchisca presto di nuovi titoli, sono corredati da fotografie e immagini strettamente legate al testo, da una cronologia essenziale, da un breve glossario, da una bibliografia e da un indice dei nomi.
Paolo Ferrari
Diego Leoni, Patrizia Marche- SONI (a cura di), Le ali maligne, le meridiane di morte. Trento 1943- 1945. I bombardamenti, Trento, Museo storico in Trento, 1995, pp. 143, sip.
Si tratta del catalogo di una mostra fotografica - che si è tenuta a palazzo Geremia di Trento nella primavera del 1995 - sui bombardamenti aerei sul capoluogo trentino nel periodo dal 1943 al 1945, che lasciarono un ricordo di morti e distruzioni, tanto più gravosi per la popolazione in quanto totalmente inaspettati. A differenza infatti dei grandi centri industriali, Trento era una cittadina di rilievo secondario e mai e poi mai i suoi abitanti avrebbero immaginato di essere oggetto di bombardamenti che, nel tentativo di colpire lo sca
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lo ferroviario, ebbero effetti terroristici, costringendo la popolazione a vivere per mesi in gallerie e grotte. Il libro ripercorre quegli avvenimenti con numerose fotografie, tutte di ottima qualità e storicamente interessanti, grazie alla sollecitudine del servizio Beni Culturali della Provincia autonoma di Trento, che ha provveduto ad acquisire, conservare e catalogare importanti archivi di fotografi locali, come il fondo fratelli Pe- drotti o il fondo Giulio Cagol, per citare i principali. Molto preciso e documentato il testo che accompagna le immagini, alternando documenti, storia e testimonianze scritte e orali di cittadini che furono, loro malgrado, partecipi di quel periodo storico.
Di notevole interesse sono le testimonianze dei trentini che per lungo tempo furono costretti a vivere in grotte per la mancanza di validi rifugi antiaerei: quelli che esistevano, se colpiti, si trasformavano in trappole mortali. In effetti, però,.dalle pagine del libro emana un cupo senso di incertezza storica non risolta: perché gli americani bombardarono Trento? O almeno, se il primo bombardamento sembrava avere una sua tragica necessità bellica, i successivi sono difficilmente spiegabili. Erano allora concepiti contro la popolazione civile? Possibile però che gli alleati non avessero ancora compreso la mostruosa inutilità dei bombardamenti terroristici? Sono queste domande che, per la verità, non riguardano soltanto Trento, bensì tutta la guerra aerea condotta in Italia nel 1943-1945. Un argomento di studio interessante sarebbe poter appurare i meccanismi decisionali degli stati maggiori alleati, nel settore aereo, per quanto riguarda il teatro ope
rativo italiano. In effetti si sa di più sulle operazioni terrestri, o, almeno, si crede di sapere, perché gli studi dipendono largamente dalle storie ufficiali o dalla memorialistica, raramente dai documenti originali. Per quanto riguarda le operazioni aeree, si sa poco o niente, quasi che i feroci attacchi sulle città italiane siano stati un inevitabile fenomeno; e se si cercano le responsabilità, queste vengono generalmente attribuite a chi scatenò la guerra. Ciò in effetti è vero, ma questo non toglie che stragi immotivate dal punto di vista militare siano ascrivibili solo a chi le ha compiute direttamente o a chi le ha ordinate.
Per tornare al libro, gli autori hanno adoperato anche immagini di vittime dei bombardamenti, immagini che possono sollevare un problema, quello cioè della riproduzione di immagini di cadaveri. Non intendo fare una classifica dei vari tipi di immagini di morte che possono far parte di un fondo di fotografie storiche, ma il fatto certo è che sono senz’altro un documento, anche se può colpire la sensibilità più di altre immagini del passato, e una testimonianza degli effetti della guerra. Non pubblicarle sarebbe una forma di celata ipocrisia o, almeno, un tentativo di rimuovere dall’immaginario il fatto che il prodotto della guerra è, oltre alla distruzione, la morte, non soltanto di soldati, ma anche di vecchi, donne e soprattutto bambini. Il problema posto da queste immagini è pur sempre quello di tutte le altre immagini storiche: inquadrarle nel periodo cui si riferiscono, analizzarle nel loro contenuto, studiare perché, quando e da chi sono state fatte. Non possiamo però esimerci dallo sperare di non vedere immagini analoghe recen
ti, speranza purtroppo delusa ogni giorno.
Achille Rastelli
Atlante storico del popolo ebraico, direzione di Eli Barravi, Bologna, Zanichelli, 1995,pp.295,lire78.000.
Si tratta di un’opera lussuosa, il cui titolo originale, Storia universale degli ebrei, meglio rispondeva al contenuto di quello fissato dalla casa editrice presumibilmente anche per esigenze di omogeneità all’interno della collana: in essa, infatti, appaiono titoli quali VAtlante di storia dell’arte occidentale, il Dizionario della pubblicità, e VAtlante storico dei problemi del XX secolo.
In breve, un gran numero di autori di origine ebraica più o meno autorevoli sono chiamati ad affrontare, ciascuno in due pagine, un tema assegnato: a partire dall’antichità più remota o dai precetti biblici su quello che agli ebrei è lecito mangiare, ai medici e scienziati ebrei nella Spagna musulmana, agli ebrei in India, nell’America latina o in Persia, dai numerosi paragrafi che affrontano l’antisemitismo nazista e lo sterminio, alla nuova realtà dello Stato d’Israele alle caratteristiche dell’ebraismo statunitense, alla condizione degli ebrei nell’Unione Sovietica con Krusciov e Gorbaciov.
Il tutto è poi accompagnato da un ricchissimo apparato di diagrammi, cronologie, statistiche e piantine, di fotografie e riproduzione di oggetti artistici, di disegni, pitture e caricature. Anche per la serietà delle argomentazioni che qua e là emergono, il volume appare particolarmente indicato quale regalo per la maggiorità religiosa israelitica.
Guido Valabrega
Rassegna bibliografica 671
Enrico Acerbi, Marcello Mal- tauro, Claudio Gattera, Andrea Povolo, Guida ai forti italiani e austrìaci degli altipiani. Itinerari e storia, Valdagno, Gino Rossato, 1994, pp. 143, lire 18.000.
Chi come me in gioventù, bazzicando gli altipiani tra Lavarone e Asiago, ha avuto la ventura di visitare i forti Cherle, Belvedere, Campo Lusema, Verena e altri dinosauri dell’ingegneria militare sparsi per quelle dorsali prealpine quando ancora i “recuperanti” non avevano terminato il loro minuzioso disos- samento, non può non salutare con piacere l’uscita di quest’agile ma compendiosa guida, scritta con competente cura da Enrico Acerbi e dai suoi collaboratori. Rispetto ai ben noti e per così dire “classici” lavori storico-escursionistici di Pie- ropan e di Schaumann, questo va
demecum presenta un taglio più decisamente tecnico, orientato soprattutto alla ricognizione degli aspetti più squisitamente ingegne- ristico-militari delle fortificazioni italiane e austriache che si fronteggiarono con alterne vicende su quel tormentato campo di battaglia della prima guerra mondiale.
Pur nella sua essenzialità, l’impianto informativo risulta abbastanza particolareggiato e rigoroso da soddisfare vuoi il semplice escursionista curioso di storia militare, vuoi lo specialista al primo approccio. Né mancano, accanto a un breve ma incisivo inquadramento storico generale, le annotazioni fondamentali sui momenti cruciali della prova del fuoco, arricchite da pagine di testimonianza diretta (Ga- sparotto, Trenker, Weber, Artner). Buono anche l’apparato di piantine e schizzi tecnici, ma soprattutto ric
co, accurato e per più aspetti affascinante il corredo fotografico, in gran parte d’epoca, la cui importanza documentaria non va assolutamente sottovalutata in casi come questo, quando la povertà montanara, incontrandosi con la tirannia del mercato, arriva a precorrere l’opera distruggitrice del tempo. Completano infine il quadro un glossa- rietto e una sommaria bibliografia, entrambi assai utili. Peccato che una guida così ben concepita manchi invece di una cartografia adeguata e, inconveniente un po’ più grave, di qualsivoglia indice, sia toponomastico che generale! Sarebbe tempo che gli editori in campo storico, anche i più benemeriti come Rossato, si rendessero conto dell’importanza di certi strumenti di corredo per una più facile e proficua diffusione dei loro libri.
Vittorio De Tassis
STUDI ECONOMICI E SOCIALIRivista di vita economica — Centro Studi “G. Tomolo”
Sommario del n. 3, luglio-settembre 1997
A. Fazio, Banche e finanza in Italia; R. Prodi, L’Italia e l ’Europa; F. Crisi, Territorio e sviluppo economico; L. Jucker, Politiche del territorio e settore tessile; F. Sarnelli, Emergenze ambientali e politiche economiche; G. Alioti, Diritti umani e sindacali nelle aree rurali del Brasile; L. Mortari, Gli indicatori di identità nell’educazione ambientale; A. Margheri, Politiche economiche e occupazione nell’agricoltura; L. Colletti, Azioni internazionali e difesa delle foreste dalle precipitazioni acide
Note e rassegneG. Canali, Prospettive e strategie per l'agricoltura in Italia
Note economichePer un'industria europea della seta; Per lo sviluppo del Mediterraneo; Energia tra Nord e Sud; Occupazione: disegno di legge a favore delle fasce più deboli; Verso un piano d'area per la riviera del Brenta e per l'idrovia; Presentato il rapporto sociale di Ciba Italia; Gli utili Danone superano i mille miliardi; Aumento gratuito di capitale per la Benetton; Ricicla '97
RASSEGNA DI STORIA CONTEMPORANEARivista dell’Istituto per la storia della Resistenza
e della società contemporanea di Modena Sommario del n. 1,1997K
EditorialeNelle ‘nebbie’ del Nord-Est
Opinioni a confrontoEmilia, Veneto e Nord-Est: gli storici Conversazione con Silvio Lanaro e Guido Crainz Emilia, Veneto e Nord-Est: i protagonisti Intervista a Rubens Triva e Luigi Gui
Studi e ricercheFausto Anderlini, Geografia delle Leghe; Luca Baldissara, Poteri locali del Nord-Est. Municipalità e finanza locale a Modena e Padova (1930-1960); Mauro Mezzalira, Venezia negli anni trenta. Istituzioni, affari e società
Contributi e riflessioniGiovanna Pajetta, 1992-1997: cinque anni alla disperata ricerca di un leader
Recensioni e convegniGiovanna Pajetta, Il grande Camaleonte (Monica Casini); Giuseppe Turani, I sogni del Grande Nord (Emanuele Guaraldi); Guido Melis, Storia dell’amministrazione italiana 1861-1993 (Martina Simeti); Marco Meriggi, Breve storia dell'Italia settentrionale dall’Ottocento a oggi (Lorenzo Bertucelli); Paola Di Cori (a cura di), Altre storie. La critica femminista alla storia (Nora Sig- man); Valeria P. Babini, La questione dei frenastenici (Michele Nani); Giulia Luppi, Cristina Sola (a cura di), Campogalliano dagli insediamenti preistorici all’età delle macchine (Tullio Sorrentino)
Spoglio dei periodici italiani 1996
a cura di Franco Pedone
Sono stati presi in considerazione i seguenti periodici (sono riportate la sigla, il titolo e la città di pubblicazione): AE, “Affari Esteri” (Roma); A, “Africa” (Roma); AFF, “Annali della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli” (Milano); AFE, “Annali della Fondazione Luigi Einaudi” (Torino); AUL, “Annali della Fondazione Ugo La Malfa” (Roma); Al, “L’Almanacco” (Reggio Emilia); AI, “Archivi e imprese (Milano); Be, “Belfagor” (Bari-Ro- ma); CC, “Civiltà Cattolica (Città del Vaticano); C, “Clio” (Napoli); CM, “Critica marxista” (Roma); DPRS, “Dimensioni e problemi della ricerca storica” (Roma); H, “Humanitas” (Brescia); IC, Italia Contemporanea (Milano); JEEH “Journal of economie european History” (Roma); MR, “Memoria e ricerca” (Forlì); MC, “Mondo cinese” (Milano); Mu, “Il Mulino” (Bologna); NA, “Nuova Antologia” (Firenze); NRS, “Nuova rivista storica” (Roma); PC, “Parole chiave” (Roma); PP, “Passato e presente” (Firenze); PEM, “Il pensiero economico moderno” (Pisa); PeP, “Il pensiero politico” (Perugia); P, “Il Politico” (Pavia); Po, “Il Ponte” (Firenze); PR, “Proposte e ricerche” (Ancona); QC, “Quaderni costituzionali” (Bologna); QS, “Quaderni storici” (Genova-Bologna); RSR, “Rassegna storica del Risorgimento” (Roma);
RST, “Rassegna storica toscana” (Firenze); RS, “Ricerche storiche” (Firenze-Napoli); R, “Il Risorgimento” (Milano); RSC, “Rivista di storia contemporanea” (Torino); RSE, “Rivista di storia economica” (Torino); RSPI, “Rivista di studi politici intemazionali” (Firenze); RISP, “Rivista italiana di scienza politica” (Bologna); RMa, “Rivista marittima” (Roma); RM “Rivista militare” (Roma); RSA, “Rivista storica delFanarchismo” (Pisa); RSI, “Rivista storica italiana” (Napoli); SoS, “Società e storia” (Milano); SC, “Storia’contemporanea” (Bologna); SpC, “Spagna contemporanea” (Torino); SS, “Storia della storiografia” (Milano); SM, “Storia militare” (Parma); SU, “Storia urbana” (Milano); SE “Studi emigrazione” (Roma); Sst, “Studi storici” (Roma); STSS, “Studi trentini di scienze storiche” (Trento); VS, “Ventesimo secolo” (Genova).
Lo spoglio — che è stato effettuato da Franco Pedone con la collaborazione di Elena Modotti — non comprende gli ultimi numeri di alcuni periodici che al momento della stampa non erano ancora stati pubblicati. Sono invece inclusi alcuni numeri del 1995 che, per lo stesso motivo, non erano stati presi in considerazione nel precedente spoglio.
‘Italia contemporanea”, settembre 1997, n. 208
674 Rassegna bibliografica
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RS - RICERCHE STORICHESommario del n. 81, marzo 1997
Editorialedi Massimo Storchi
Riflessionidi Salvatore Fangareggi, Antonio Zambonelli
ConversazioniEnzo Santarelli, Una “storia in corso” (a cura di Antonio Canovi)
SaggiMarco Fincardi, Mobilità bracciantile e secolarizzazione nella Pianura padana
DocumentiGiuseppe Dossetti, Gli inediti di "Benigno” (a cura di Salvatore Fangareggi)
DidatticaAntonio Brusa, Il nuovo curriculo di storia
Schede (a cura di Alberto Ferraboschi)
RecensioniMarco Fincardi, L’ambigua transizione. I processi ai fascisti