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Riassunti di Alberto Presti, Sofia Gorgone, Myriam Russo e Giulia Tarantino VIVERE SCIENZE POLITICHE Relazioni internazionali Supporto appunti viverescienzepolitiche.it Vivere Scienze Politiche

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Riassunti di Alberto Presti, Sofia Gorgone, Myriam Russo e Giulia Tarantino

VIVERE SCIENZE POLITICHE

Relazioni internazionali

Supporto appunti

viverescienzepolitiche.it Vivere Scienze Politiche

Riassunti del libro “Relazioni internazionali” di E. Diodato

1. Capitolo 1: le relazioni internazionali

2. Capitolo 2: la tradizione realista

3. Capitolo 3: la tradizione liberale

4. Capitolo 4: la tradizione critica

5. Capitolo 5: il costruttivismo

6. Capitolo 6: il postmodernismo

7. Capitolo 7: International Political Economy

8. Capitolo 8 gli studi strategici dalla Guerra Fredda all’invasione dell’Iraq

9. Capitolo 9: la politica estera dell’Unione Europea

VIVERE SCIENZE POLIT ICHE

Indice

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tolineare che gli appunti non sempre sono sufficienti per superare gli esami con profitto, quindi si

consiglia agli studenti che usufruiscono di questo servizio di integrarli con i testi indicati nelle schede di

trasparenza.

Alberto Presti – Sofia Gorgone – Myriam Russo – Giulia Tarantino

Capitolo 1: Le relazioni internazionali: logica, metodo e livelli di analisi Con la fondazione dell’American Political Science Association (APSA), avvenuta negli Stati Uniti

nel 1903, le relazioni internazionali furono immediatamente riconosciute come un settore della

scienza politica. Ciò che ha alimentato i dibattiti di questo secolo è stato il continuo e complesso

rapporto delle IR con la scienza politica. Il primo dibattito sull’ordine e sulla natura del potere, con

cui il realismo si impose quale tradizione dominante, fu alimentato da un gruppo di studiosi che non

si riconoscevano pienamente nella scienza politica. Il secondo dibattito sul metodo scientifico si

svolse ai margini della scienza politica, raggiungendo il suo apice nel 1966, con un attacco mosso

dalla scuola inglese per difendere la tradizione britannica delle relazioni internazionali, contro il

mainstream statunitense interessato a rendere la disciplina sempre più un sottosettore della scienza

politica. Ma con il terzo dibattito, le IR si assestarono tra il 1974 e il 1991 entro il quadro della scienza

politica, riuscendo a stabilire un minimo linguaggio condiviso e una minima logia comune. Tuttavia,

con la fine della Guerra Fredda la disciplina tornò nuovamente a frammentarsi, aprendo una stagione,

ancora in corso, segnata dall’influenza della cultura europea e dal dibattito sul costruttivismo, che

tende a spostare l’obiettivo dalla spiegazione scientifica dei fenomeni politici alla loro interpretazione

storica e sociale. Questa tendenza ha favorito una parziale fuoriuscita delle IR dall’alveo della scienza

politica.

Il realismo è spesso considerato il principale paradigma delle IR. Ma se ha conquistato tale posizione

all’inizio della Guerra Fredda, oggi appare un po’ in affanno. Il successo e i limiti del realismo sono

tutti nella sua mossa di apertura, quindi nel modo in cui si è affermato; muovendo sia contro

l’idealismo sia contro lo scientismo comportamentista. Il 1954 è importante perché segna la data in

cui il realismo tradizionalista si contrappose al comportamentismo per assicurarsi una vittoria

definitiva sul fronte dell’idealismo. Il realismo si presentò con un proprio statuto scientifico per porsi

in una condizione di superiorità rispetto all’idealismo. Tra la Seconda guerra mondiale e il 1954, anno

di affermazione del realismo classico o tradizionalista, lo studio della politica tout court fu segnato

dalla discussione sulla possibilità di sviluppare una scienza della politica. Nel 1948 fu fondata la

rivista World Politics e lo studio accademico delle relazioni internazionali si stava riorganizzando in

due scuole di pensiero. Una scuola guidata già a partire dagli anni 1920-30 da Charles Merriam e dai

suoi colleghi dell’Università di Chicago, affondava le radici nella scienza politica americana e nella

fede nel potere dell’intelletto umano di creare gradualmente un mondo migliore. Per questa scuola,

di matrice liberale, non era in discussione che le IR fossero un sottosettore della scienza politica.

L’altra scuola, quella realista, affondava le sue radici nella cultura filosofica europea, soprattutto

quella tedesca, ed era interessata a decidere che cosa fosse la politica piuttosto che la scienza. Il

fondatore di World Politics, Frederick Dunn, sostenne che le IR avevano ereditato dal liberismo

ottocentesco il presupposto della razionalità e quello gemello dell’inevitabile progresso verso la pace

e l’abbondanza. Ma l’avvento delle due guerre mondiali avevano reso necessario, secondo Dunn,

rivedere qualcosa di questi presupposti. Questo rivedere qualcosa, non poteva però essere accettato

dai realisti, poiché nella loro visione lo Stato doveva essere considerato come un attore unitario,

razionale, e ciò che contava era la politica tra le nazioni in un’arena considerata anarchica poiché

priva di governo, non certo l’arena domestica. Esponente di spicco della visione realista era un

professore di Chicago, Hans Morgenthau, che pubblicò tre libri molto importanti: Scientific Man

Versus Power Politics, Politics Among Nations e Defence of the National Interest. Se tuttavia

Morgenthau divenne presto il nume tutelare del realismo delle IR, nonché colui che legittimò l’intera

disciplina delle IR facendone un corpo separato rispetto alla scienza politica, fu anche grazie a un suo

allievo, Kenneth Thompson. Morgenthau attaccò l’inadeguatezza del metodo quantitativo della

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scienza politica e i limiti degli studi sul comportamento politico. Il realismo rivendicava lo scettro

delle IR e un ruolo autonomo rispetto alo scientismo della scienza politica in virtù della sua capacità

di elaborare una teoria indipendente. Nel 1955, uscì la seconda edizione di Politics Among Nations,

dove Morgenthau pretende di presentare una teoria della politica internazionale. Punto di partenza

era il sistematico ripudio di tutte quelle posizioni idealiste basate sulla fiducia nelle istituzioni liberali

e nell’organizzazione internazionale. Idee che si erano affermate tra le due guerre in un testo dello

storico Edward Carr. La guerra del 1914-18 aveva posto fine alla convinzione che essa, la guerra,

riguardasse solo i militari e, di conseguenza, che la politica internazionale potesse essere affidata solo

ai diplomatici. Era quindi sorto il bisogno di una scienza della politica internazionale. Carr aveva

dunque posto le fondamenta del paradigma realista, partendo dalla concezione del potere in

Machiavelli. La differenza tra gli idealisti e i realisti risiedeva, secondo Carr, nell’attenzione rivolta

dai secondi al ruolo del potere in un eventuale nuovo ordine internazionale. I realisti imputano agli

idealisti, non solo l’illusione di aver creduto che il comportamento degli Stati fosse spiegabile

mediante la formazione razionale delle preferenze, ma anche la responsabilità di non aver compreso

l’avvicinarsi della Seconda guerra mondiale. La teoria realista di Morgenthau doveva spiegare perché

la razionalità nei comportamenti razionali difficilmente avrebbe favorito, col tempo, un’evoluzione

più pacifica delle relazioni internazionali. Il vero terreno di scontro con quella parte che il realismo

chiamava idealisti o utopisti, ma che nel secondo dopoguerra erano diventati scienziati politici,

riguardò pertanto la natura del potere. Per Morgenthau gli interessi degli attori erano razionali, ma

erano definiti in termini di potere e quest’ultimo non era affatto un fenomeno sociale razionale, poiché

sgorgava dall’oscuro desiderio umano per il dominio. Questo era ciò che veniva dall’insegnamento

dei classici, quale fondamento di un pessimismo antropologico cui Morgenthau accordava uno statuto

ontologico, ossia di verità. Per questa ragione era inutile indagare le sorgenti interne del

comportamento sociale (ossia le preferenze politiche individuali), se non per cercare conferme o

perfezionamenti della teoria realista. Ciò che il realismo fece è proporsi come una disciplina capace

di elaborare, a differenza dell’idealismo, una teoria indipendente delle relazioni internazionali.

Tuttavia, per affermarsi sull’idealismo, il realismo accettò la sfida di una teoria internazionale

accusando il rivale di essere solo una dottrina utopica e presentandosi, pertanto, con un proprio

linguaggio di tipo scientifico. Sul terreno del confronto scientifico, molto presto le IR si mostrarono

più deboli e metodologicamente immature della scienza politica.

Negli stessi anni del dopoguerra, la scienza politica fu attraversata dalla cosiddetta rivoluzione

comportamentista. Il comportamentismo derivava dalla psicologia. Nella scienza politica poneva

l’attenzione sul comportamento umano o individuale come principale fattore esplicativo della politica

e dell’attività di governo. Inoltre, si distanziava dal modo in cui il realismo si riferiva alla filosofia

positivista ottocentesca. L’ideale positivista di una società industriale razionale, ossia regolata

secondo criteri scientifici, era recepito dalla scienza politica in un clima completamente mutato, in

cui l’idea di una conoscenza politica neutrale si saldava con l’obiettivo di promuovere la democrazia

e la libertà. Per gli scienziati politici, l’idea dell’unità della scienza deriva dal neopositivismo

viennese, quindi si basava sul principio dell’empirismo logico. Il realismo, invece, recepiva

vagamente i tratti più conservatori della filosofia positivista, senza accogliere né l’idea di progresso

né il rigore dell’empirismo logico. Nel giro di pochi anni, tuttavia, il realismo segnò il passo ed entrò

gradatamente in una fase di stallo. Fu Morton Kaplan a incanalare nelle IR la rivoluzione

comportamentista. Il comportamentismo fu adattato alle IR mediante la teoria dei sistemi rimuovendo

così il tema realista dall’oscuro desiderio umano e relegando il discorso morale ai margini della

riflessione politica. L’idea di fondo era che qualunque tipo di sistema, naturale o umano che fosse,

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sarebbe stato in grado di raggiungere una stabilità dinamica a prescindere dall’intervento di singoli

fattori causali. Sarebbe stato possibile valutare il comportamento degli Stati a partire dal tipo di

sistema che questi formano. In analogia con i sistemi economici o di mercato, Kaplan distingueva, ad

esempio, tra oligopolio (sistema bipolare elastico, con due superpotenze e alcune grandi potenze) e

duopolio (sistema bipolare rigido, con due sole superpotenze), tra carrello (sistema universale, tipo

Nazioni Unite) e monopolio (sistema gerarchico o unipolare, con una sola superpotenza), tra

concorrenza semplice (sistema multipolare) e concorrenza condizionata dal potere di veto di alcuni

stati (sistema della proliferazione nucleare). Tuttavia, l’obiettivo di elaborare una teoria sistemica

delle IR non fu raggiunto. Perché i modelli di Kaplan non furono definiti chiaramente in termine di

strutture differenti, ma furono considerati come sistemi di azione che i comportamenti degli Stati

avrebbero potuto trasformare.

Con il trascorrere del tempo, nella stessa scienza politica ci furono importanti cambiamenti, finché il

comportamentismo perse gradualmente la sua rilevanza. Ciò diede nuovo spazio di manovra al

realismo, ma in un contesto notevolmente mutato, che gli fece assumere la denominazione di

neorealismo. Chi ne approfittò fu Kennech Waltz, il quale, nel 1979, dopo aver lavorato per anni sul

problema dei livelli di analisi riformulò il realismo emancipandolo dalla sua natura filosofica e

indirizzandolo verso un nuovo paradigma neorealista. Con Theory of International Politics a Waltz

riuscì ciò che a Morgenthau non era riuscito, ossia elaborare una teoria indipendente della politica

internazionale. In genere si tende a considerare Morgenthau più come filosofo e Waltz più come

scienziato. Indubbiamente il realismo tradizionalista di Morgenthau aveva un formato più filosofico,

fondato sull’assunto della natura del potere e dell’oscuro desiderio umano, mentre il neorealismo di

Waltz adottò un formato più scientifico. Per Waltz una teoria doveva avere le caratteristiche di un

costrutto coerente, prodotto anche in modo creativo, piuttosto che una collezione di leggi ricavate

induttivamente dall’osservazione. Evidentemente il sentiero aperto da Kaplan fu di grande utilità per

Waltz. L’idea di fondo rimaneva che qualunque tipo di sistema è in grado di raggiungere una stabilità

dinamica a prescindere dall’intervento di singoli fattori causali. Tuttavia, per Waltz applicare questa

logica alla politica internazionale significava approfondire la struttura del sistema oggetto d’indagine,

non il comportamento delle unità. Secondo Waltz, tutti i sistemi sviluppano strutture che premiano o

puniscono il comportamento delle unità, ovviamente nella misura in cui queste si conformano alle

esigenze di stabilità del sistema. In considerazione dei vincoli o delle costrizioni strutturali imposte

dal sistema, le preferenze degli Stati passano in secondo ordine e la ricerca delle preferenze e delle

determinanti interne della politica estera diventa riduzionista. Più che le preferenze, sono le capacità

degli Stati a contare. Ma non le capacità in quanto tali, bensì la distribuzione della potenza tra gli

Stati. La distribuzione relativa della potenza è una caratteristica fondante della struttura, poiché

consente di trasformare il disordine in stabilità. Per questa via Waltz escluse alcuni modelli teorici di

Kaplan, innanzitutto il cartello, poiché avrebbe richiesto una precisa scelta da parte degli stati e in

secondo luogo il monopolio, poiché avrebbe richiesto una capacità smisurata concentrata in un

singolo stato. Secondo Waltz le due strutture possibili erano soltanto quella bipolare e quella

multipolare. Come il realismo, anche il neorealismo recepì i tratti più conservatori del positivismo

senza accogliere l’idea di progresso. Ma, a differenza del realismo tradizionalista di Morgenthau, ciò

avvenne mediante una teoria strutturale di tipo deduttivo. Per Waltz l’osservazione del fenomeno non

precedeva la teoria, avrebbe potuto solo confermarne la validità o falsificarla. L’apparato teorico di

Waltz fu deduttivo, quindi orientato a definire quei criteri di stabilità che, non sono trasformati

dall’evoluzione storica.

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Il terzo dibattito si focalizzò soprattutto sul ruolo delle istituzioni internazionali. Per certi versi, può

essere considerato come un confronto sulla possibilità di un livello maggiore di efficienza che un

sistema internazionale può raggiungere grazie alle sue istituzioni. L’evoluzione della tradizione

liberale ebbe luogo mediante il passaggio dall’idealismo all’istituzionalismo. Secondo la migliore

tradizionale liberale, il focus della riflessione rimaneva al livello individuale, quello della

formulazione delle scelte e delle preferenze politiche. Un primo momento di svolta si ebbe con un

saggio su World Politics di Robert Keohane e Joseph Nye, che avviò una nuova stagione durante la

quale il liberalismo fece leva sulle istituzioni statali per spiegare come le relazioni transnazionali

favorissero la cooperazione. In tal modo si accettava l’assunto della centralità dello Stato per lo studio

delle IR, poiché erano proprio le istituzioni statali che favorivano le relazioni transnazionali. Ma fu

negli anni successivi che il liberalismo cambiò, allontanandosi dall’idealismo e dall’istituzionalismo.

Ciò avvenne quando i liberali iniziarono a considerare la cooperazione transnazionale come un

obiettivo difficile da raggiungere. Tuttavia, l’istituzionalismo neoliberale riteneva comunque

possibile la cooperazione tra gli Stati grazie al ruolo determinante delle istituzioni internazionali.

Quest’ultimo spostamento spinse il liberalismo a cambiare notevolmente la sua natura, poiché i

vincoli istituzionali divenivano prioritari rispetto alle preferenze individuali. Da un punto di vista

metodologico, non si comprenderebbe quindi l’evoluzione della tradizione liberale senza considerare

cosa stesse accadendo all’interno del realismo. In particolare, nel dibattito tra neorealisti decisiva fu

a quel tempo la critica a Waltz mossa da Robert Gilpin. Per Gilpin, la teoria strutturale di Waltz

poteva essere definita sociologica poiché assumeva che il comportamento delle unità fosse spiegato

dalla natura del sistema e dalla posizione che le unità occupano nel sistema stesso. In realtà,

l’approccio di Waltz era sistemico più che sociologico. Tuttavia, la critica di Gilpin fu comunque

efficace ed ebbe effetti sull’evoluzione della tradizione liberale. Il fatto che il comportamento delle

unità fosse spiegato dalla natura del sistema, dava importanza alla struttura del sistema ed anche ai

fattori istituzionali del comportamento e quindi a quelle regole costrittive che, vincolano i

comportamenti delle parti entro il sistema. Secondo Gilpin, proprio tali vincoli avrebbero assunto

maggior rilievo se, oltre all’approccio sistemico/sociologico, si fosse adottato anche quello

economico. La critica di Gilpin al neorealismo di Waltz colpì su due fronti: innanzitutto, introducendo

un nuovo elemento per spiegare la stabilità, vale a dire la capacità degli stati dotati di maggiore potere

di influenzare le istituzioni internazionali; in secondo luogo, mostrando i limiti della teoria strutturale

quando si tratta di spiegare il cambiamento. Nel primo caso, Gilpin sostenne che la stabilità dipende

dal ruolo degli Stati egemoni. In virtù della loro posizione, questi Stati sono capaci di fissare quelle

regole costrittive le quali, vincolando i comportamenti degli altri stati, garantiscono la continuità del

sistema, quindi una stabilità egemonica. Nel secondo caso, Gilpin sostenne che il mutamento dipende

dalla difficoltà di quegli stessi Stati egemoni di continuare a fissare regole costruttive, quindi dal

tentativo di altri Stati di mutare gli scopi e la natura delle istituzioni internazionali. La teoria di Gilpin

rimaneva nel solco del paradigma realista. Chi sviluppò questa intuizione in chiave liberale fu proprio

Keohane, che considerò le condizioni che avrebbero potuto conservare la stabilità di un sistema e

delle sue istituzioni anche dopo il declino di uno Stato egemone. Secondo Keohane, l’egemonia era

necessaria per instaurare un sistema di cooperazione e stabilità tra Stati, ma tale sistema poteva poi

proseguire dopo il declino dello Stato egemone grazie alle istituzioni internazionali. Keohane pose al

centro della riflessione la razionalità degli stati, che diveniva presupposto per il conseguimento del

miglior vantaggio economico per tutti. È importante capire il contesto storico in cui si sviluppò il

dibattito sulle istituzioni. Siamo infatti negli anni della trasformazione del sistema di Bretton Woods

dal 1973. Il compito delle IR era comprendere come governare l’interdipendenza e risolvere i

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problemi di competizione interni al sistema occidentale tra Stato egemone e Stati emergenti. Prima

di entrare nel merito del dibattito sulle istituzioni internazionale, è utile rimettere in pista la scuola

inglese. In The Anarchical Society, Bull aveva proposto di distinguere tra sistema internazionale e

società internazionale, quest’ultima era una condizione nella quale un gruppo di Stati, consci di certi

interessi e valori comuni, si sentono legati a un set di regole comuni e concorrono alla costruzione di

istituzioni. Per Bull una società internazionale emerge quando un gruppo di Stati è capace di darsi nel

tempo delle istituzioni intese come abitudini e pratiche per ottenere scopi comuni. Tuttavia, nello

studio sui regimi internazionali l’attenzione fu rivolta al coordinamento economico tra attori

interessati a ottenere vantaggi competitivi. Il dibattito sulle istituzioni nasceva da esigenze storiche e

gli istituzionalisti neoliberali accettarono di giocare la partita con il neorealismo nel campo neutro

della logica sistemica. In questo senso si può dire che il dibattito interparadigmatico ebbe l’effetto di

ricondurre le IR nell’alveo della scienza politica americana. Occorre dire che il dibattito era rimasto

per lungo tempo polarizzato tra due posizioni contrastanti. Da una parte Robert Axelrod e Keohane,

i quali avevano sostenuto che nei regimi internazionali è la norma della reciprocità a essere

istituzionalizzata a favorire la cooperazione, togliendo legittimità alla defezione o comunque

rendendola più costosa. L’idea di fondo veniva dalla teoria dei giochi ed era basata sull’assunto che

il problema del coordinamento potesse risolversi grazie alla circolazione delle informazioni. In un

gioco del dilemma del prigioniero, gli attori sono spinti a non collaborare, come farebbero due

prigionieri separati dai carcerieri e che sia accusano a vicenda, anche se la migliore strategia sarebbe

tacere. Ma se i due prigionieri possono scambiarsi segnali, intesi come informazioni, la probabilità

della collaborazione, ossia il silenzio complice aumenta. Nel caso dei regimi internazionali, ciò

significa che le istituzioni possono avere rilevanza nella misura in cui, consentendo la circolazione

delle informazioni, riescono a ridurre l’incertezza e ad aumentare le opportunità di ricompensa per

gli Stati che cooperano. Dalla parte opposta, quella realista, ritroviamo Joseph Grieco, il quale aveva

ribadito l’importanza dei vantaggi relativi, ossia l’idea che in ogni tipo di relazione lo scopo degli

Stati è prevenire una perdita di capacità rispetto agli altri. Il problema è quindi, la conservazione della

propria posizione misurata in termini di capacità. Interessati soprattutto alla sopravvivenza, gli Stati

non perseguono altro interesse che evitare una riconfigurazione delle capacità peggiore di prima, ossia

un arretramento. Più semplicemente, il successo delle istituzioni era possibile, secondo Grieco, solo

a causa dell’interesse strategico di un egemone a mitigare la perdita di guadagni. Tuttavia, il

contributo più rilevante e innovativo venne da Krasner. Con Krasner si è parlato di sintesi neo-neo

(tra neorealismo e neoliberalismo), una convergenza tra i due paradigmi resa possibile dal fatto che

entrambi condividevano l’assunto per cui lo Stato è mosso dalla ricerca di un interesse. Ma la

particolarità della sintesi di Krasner fece leva sull’impiego metaforico del concetto di fronte

paretiano. Introdusse un’espressione impiegata negli studi economici sull’efficienza paretiana e che

indica un certo numero di punti in cui si raggiunge l’ottimo. Se i neoistituzionalisti erano in grado di

determinare quali sono i punti in cui i governi possono raggiungere un certo livello di efficienza, i

neorealisti erano in grado di indicare qual è il punto che effettivamente i governi selezionano in

considerazione della capacità dello Stato egemone. C’era quindi bisogno di entrambi gli approcci per

spiegare il regime della comunicazione internazionale.

Alla fine della stagione della Guerra Fredda, non poteva non avere effetti sulle IR la stessa sintesi

neo-neo, che non resse il colpo, per quanto se ne continuò a dibattere negli anni successivi. Keohane

riconosceva ad alcuni studiosi il merito di aver tentato di sfidare la prospettiva razionalista. Questo

approccio poteva essere posto sotto l’etichetta di riflettivismo, poiché concerneva la riflessione sulla

natura delle istituzioni. Questa distinzione ebbe importanti conseguenze metodologiche dopo la fine

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della Guerra Fredda. Secondo Keohane, nei loro programmi di ricerca i razionalisti, avevano

enfatizzato i regimi e le organizzazioni internazionali formali, quindi si erano mostrati interessati a

spiegare come tali istituzioni riducessero l’incertezza stabilizzando le aspettative, favorendo la

circolazione delle informazioni e quanto tali istituzioni riflettessero la distribuzione del potere.

Viceversa, secondo Keohane, i riflettivisti non avevano delineato un chiaro programma di ricerca.

Negli anni successivi i programmi riflettivisti si perfezionarono e lungo il sentiero di studi

riflettivista/costruttivista è emerso innanzitutto che il concetto di istituzione internazionale è da

intendersi in senso più ampio; in secondo luogo che i quesiti di ricerca dovrebbero spaziare

dall’analisi di come le istituzioni si trasformano a causa d i mutamenti; all’analisi di quanto tali

trasformazioni riflettono i punti di vista degli Stati egemoni oppure si generano grazie

all’apprendimento sociale. Di conseguenza, occorre dare rilievo alla ricerca qualitativa basata

sull’analisi di materiali documentali e dei resoconti, e minore attenzione ai modelli derivati dalla

teoria dei giochi a vantaggio degli strumenti cognitivi offerti dall’indagine sociologica. Il passaggio

dal razionalismo al riflettivismo segnò non soltanto l’indebolimento della logica economica, ma

anche lo spostamento del focus al livello degli Stati e ciò è avvenuto seguendo due sentieri. Da una

parte, studiosi liberali, interessati a riportare il focus sulle scelte individuali. Dall’altra parte, gli

studiosi marxisti, che hanno spostato il focus della riflessione sulle forze sociali che modellano le

identità e gli interessi nazionali, piuttosto che sulle scelte individuali. La presenza del neomarxismo

è evidente anche con riferimento a un problema agente-struttura. Tala problema ripropone la

questione metodologica dei livelli di analisi, ma concerne più nello specifico la relazione tra ogni tipo

di agente e ogni tipo di struttura. Mentre per i neorealisti e i neoliberali il sistema vincola il

comportamento degli Stati, per i neomarxisti più che il sistema internazionale conta la struttura

globale che lo contiene e che non solo condiziona gli Stati ma altresì genera le forme di stato. Vale a

dire che una volta definita la struttura di potere internazionale si può comprendere non solo il

comportamento degli Stati, ma anche il loro adattamento a quella struttura. Il problema agente-

struttura è risolto dai neomarxisti in modo dialettico. Sono le forze sociali che modellano la

configurazione del potere materiale promuovendo una certa immagine dell’ordine mondiale e un

insieme di istituzioni nazionali e internazionali capaci di amministrare il medesimo ordine.

Negli ultimi anni il costruttivismo è diventato il laboratorio dove le IR si sono mostrate più capaci di

riflettere su sé stesse e, quindi, sulla natura del comportamento degli Stati. Il costruttivismo si presenta

come un nuovo terreno di confronto tra liberalismo e realismo. Alexander Wendt si è segnalato come

il principale studioso del costruttivismo. Secondo Wendt, le istituzioni internazionali sono da

intendersi come insiemi codificati in norme e regole. Ma solo in considerazione del fatto che tali

insiemi sono resi possibili grazie all’esistenza di motivazioni generate dalla socializzazione tra gli

Stati. Ne consegue che le istituzioni internazionali sono prodotte da identità, oltre che da interessi

razionali. Le istituzioni non sono semplicemente condizionate dalla struttura di potere, ma si

modellano secondo i processi interni di trasformazione delle identità. Il problema agente struttura è

quindi risolto in modo strutturazionista, vale a dire che non è attribuita priorità alla struttura e neppure

all’agente, ma al processo di socializzazione. Il ventaglio di posizioni interne al dibattito sul

costruttivismo, per molti versi può essere fatto risalire ai processi di decolonizzazione, quando,

raddoppiò il numero degli Stati e apparve evidente che le regole della società internazionale degli

Stati non erano condivise automaticamente. L’apprendimento degli Stati non è una modalità passiva

di adattamento sociale, ma acquisizione consapevole del proprio ruolo. Da un punto di vista

costruttivista lo Stato è concepito come un agente nel contesto delle strutture nazionali e

internazionali. I governi perseguono interessi, cercano di risolvere problemi e, a tal fine, possono

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agire tanto attraverso le istituzioni nazionali quanto in quelle internazionali. Occorre riconoscere al

costruttivismo due meriti: quello di aver riportato le IR alla consapevolezza che i sistemi

internazionali sono processi storici e sociali; e in secondo luogo, ha fatto spazio alla riflessione

normativa, ossia a quel corpo di studi che affronta la dimensione etica delle relazioni internazionali.

Si pensi ad esempio, alle questioni legate ai diritti umani e alla protezione dell’ambiente. L’approccio

costruttivista, occupa una posizione intermedia tra quattro estremi di tipo ontologico ed

epistemologico. Letti in chiave metodologica, gli estremi ontologici riguardano la natura del mondo

sociale. Non sono quindi riferiti all’esistenza o meno di una realtà oggettiva, oppure alla natura della

politica internazionale, ma alla dicotomia tra struttura e agente. Gli estremi epistemologici riguardano

il tipo di conoscenza che possiamo avere del mondo e sono espressi dalla dicotomia tra spiegare e

capire. Da un punto di vista strutturale, il razionalismo e il riflettivismo sono uniti dall’assunto che le

proprietà di un sistema non possano essere spiegate esclusivamente tramite le sue componenti. Dal

punto di vista degli agenti, il comportamentismo e il normativismo sono uniti dall’assunto che

qualsiasi sistema è il prodotto dell’agire delle sue componenti. Dal punto di vista della spiegazione,

il razionalismo e il comportamentismo condividono l’obiettivo di contribuire alla conoscenza dei

fenomeni sociali. Dal punto di vista della comprensione, il riflettivismo e il normativismo

condividono che il compito della ricerca è favorire un’interpretazione dei fenomeni sociali.

Il costruttivismo ha avuto il merito di adottare un approccio più attento al ruolo degli agenti e a

processi che questi attivano. Prendendo spunto dal costruttivismo, Andrew Moravcsik ha ripreso

anch’egli il dibattito per riportare l’attenzione del liberalismo sul comportamento degli Stati.

Moravcsik ha posto ha posto le preferenze degli Stati intendendole però, come politiche che

esprimono modelli di interazione sociale. A differenza dei razionalisti, che accettano una visione

sistemica perché lo stato non può fare ciò che vuole ma è vincolato dal sistema, Moravcsik sostiene

che, sì, gli Stati non ottengono quello che vogliono, ma neppure a livello domestico. Le preferenze

statali si formano mediante l’attuazione di politiche interdipendenti poiché transnazionali. In altre

parole, è il processo di formazione delle preferenze nazionali, che impone un vincolo sul

comportamento degli Stati. L’attenzione torna sul comportamento dello Stato, combinando

preferenze e vincoli. Per Moravcsik il comportamento degli Stati dipende dalla trasformazione delle

preferenze, quindi dei valori e degli interessi domestici e transazionali. La nuova teoria liberale di

Moravcsik recupera punti dell’istituzionalismo, vicini più alle teorie neofunzionaliste. Tuttavia,

mentre quelle teorie insistevano su valori e interessi economici, Moravcsik sottolinea che le politiche

statali si spiegano con una logica politica, non con una logica economica. La cosiddetta pace

democratica, ossia la tesi per cui le democrazie sono meno aggressive e più propense a collaborare

tra loro, non può essere spiegata, secondo Moravcsik, ricorrendo al processo di formazione delle

preferenze. Ciò significa procedere alla comparizione tra politiche estere, ossia mediante il confronto

empirico. Ne deriva la necessità di rompere la linea di divisione tra scienza politica e IR. Secondo

Morgenthau le preferenze sono da definirsi in termini di potere e pertanto sgorgano dall’oscuro

desiderio umano per il dominio. Per Moravcsik, invece, se oltre ad essere razionali sono anche

espresse liberamente, quindi mediante procedure democratiche, favoriscono la collaborazione e la

pace. La tendenza a riportare il focus sul comportamento degli Stati ha investito anche il paradigma

realista. La novità è il rifiuto dell’assunto di Waltz per cui la principale preoccupazione degli Stati è

mantenere la propria posizione nel sistema, piuttosto che aumentare il potere. Come scriveva Grieco,

questo assunto implica un tipo di realismo in natura più difensivo che offensivo. Tuttavia, a partire

dalla pubblicazione del saggio di Schweller, iniziò a imporsi un modo più offensivo di intendere il

realismo. Per il realismo offensivo, la preoccupazione degli Stati può essere quella di mantenere la

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posizione, ma vi è altresì la possibilità che Stati non soddisfatti della distribuzione del potere tentino

di sfruttare le opportunità di guadagno. Il libro che ha reso noto il realismo offensivo è stato scritto

da John Mearsheimer, e si intitola The Tragedy of Great Power Politics; qui emergono due novità

di rilievo. Innanzitutto, la tendenza a riformulare modelli di comportamento statale che adottano

l’individualismo metodologico della scelta razionale, pur se applicato in chiave storica. In secondo

luogo, si assiste al recupero di un approccio psicologico. Nel senso che le fonti del potere e del

comportamento degli Stati hanno una componente psicologica, condizionata dalla percezione delle

minacce alla sicurezza e dalle opportunità di mutamento. Il recupero di questa dimensione psicologica

ha spinto il realismo ad abbandonare il tema dell’oscuro desiderio umano per il potere, per accogliere

l’idea della percezione come fonte cognitiva del comportamento politico.

Anche la tradizione critica è tornata a riflettere sul tema del potere, seguendo un approccio

neomarxista presentato da Robert Cox come nuovo realismo. A differenza del realismo dei realisti,

infatti, questa tradizione ha trovato spazio in un ripensamento riflettivista. Per Cox il livello strutturale

è di tipo globale. Ciò che conta è lo studio dei mutamenti politici in considerazione del modo in cui

gli Stati, guidati da forze sociali interne e transnazionali, sfruttano le occasioni offerte dalle

trasformazioni del sistema-mondo capitalistico. È al livello globale che gli Stati e le forze sociali

trovano risorse per mutare il sistema. Il nuovo realismo è quindi impegnato in un percorso contrario

rispetto al liberalismo e al realismo, nel senso che si sposta verso l’alto e non verso un ritorno a livelli

statale e individuale. Questo consente ai neomarxisti di mantenere il loro focus sulle forze sociali. Il

focus del realismo è stato il livello statale, il focus del liberalismo quello individuale e il focus del

marxismo quello delle classi o delle forze sociali. Per concludere, con l’avvento del neorealismo, il

paradigma realista ha spostato il suo focus dal livello statale a quello del livello sistemico o strutturale,

ma nel post-Guerra Fredda l’attenzione è tornata a livello statale. Con l’avvento del neoliberalismo,

anche il liberalismo ha spostato il suo focus sul livello strutturale. Ma oggi è l’attenzione sulla

formazione delle preferenze e sul conseguente comportamento degli Stati, quindi a livello

individuale. Il realismo e il liberalismo hanno traversato in verticale i livelli di analisi. Il

costruttivismo è riuscito a imporsi grazie alla sua capacità di attraversare i livelli di analisi, tra agente

e struttura. Il neomarxismo pone l’accento sull’approccio sociologico, in particolare sul ruolo delle

identità culturali, ma il suo metodo rimane storico.

Capitolo 2: La tradizione realista. Anarchia e asimmetria nel sistema politico

internazionale. Il realismo ha rappresentato, e per molti versi ancora rappresenta, il paradigma principale delle IR.

Certo fin dagli anni ’70 ’80, ma con più forza dopo la fine della guerra fredda, l’emergere di nuovi

approcci analitici ha vanificato le pretese monopolistiche del paradigma realista inducendo non pochi

studiosi a decretarne l’eclissi. Ma il realismo è ben lungi dal definirsi obsoleto: al contrario, esso

palesa una perdurata vitalità e mantiene fondamentalmente intatta la sua utilità come guida alla

comprensione degli affari internazionali.

Il realismo nelle IR è solcato al suo interno da profonde divisioni, concernenti punti di dottrina e

questioni di metodo assai rilevanti. Da qui la famosa nota di Hoffman secondo cui “adesso siamo

tutti realisti, ma non esistono due realisti che presentano un’analisi concorde di ciò che è o dovrebbe

essere”. Tuttavia l’eterogeneità dal realismo non ci impedisce di enucleare gli assunti fondamentali,

tanto quelli unanimemente condivisi che quelli su cui il consenso è solo parziale:

• Centralità dello Stato

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• Anarchia internazionale

• Unitarietà e razionalità degli attori sociali

• Politica di potenza ed interesse nazionale

• Equilibro di potenza e politica delle alleanze

Inoltre, la maggior parte degli autori identificati come “realisti politici” è accomunata da un marcato

pessimismo antropologico, che mette capo ad una filosofia ciclica della storia, e da una concezione

conflittualistica della politica, che si compendia in poche assunzioni fondamentali:

• La realtà politica è in conflitto

• Il conflitto si governa con la forza

• Il conflitto produce ordine e forma attraverso l’instaurazione di gerarchia e comando

Gli assunti basilari condivisi da tutti i realisti delle IR si riducono a due:

• Centralità dello Stato

• Anarchia internazionale

L’assunto stato-centrico identifica gli Stati quali attori principali della politica internazionale. I

realisti non negano che nel sistema internazionale operino anche altri attori ma non sono convinti che

gli Stati restino comunque gli attori più importanti, anche perché all’occorrenza, come dice Waltz,

cambiano le regole che consentono agli attori non-Stati di operare. Un eventuale superamento dello

Stato, purché non conduca all’instaurazione di un governo mondiale, non comporterebbe di per se

conseguenze negative per la teoria realista. Si consideri che all’assunto Stato-centrico si accompagna

il postulato di razionalità, autonomia e unitarietà degli Stati, i quali si muoverebbero sulla scena

internazionali sia come attori autonomi e unitari, cioè relativamente svincolati dalle loro istituzioni

nazionali o dalle preferenze di segmenti particolari della loro società, sia come attori razionali che

calcolano con cura i costi di corsi di azione alternativi cercando di massimizzare la loro utilità attesa.

L’assunto dell’anarchia internazionale poggia sull’idea secondo cui gli Stati, che sono unità politiche

sovrane operino in un contesto strutturalmente anarchico, non nel senso caotico del termine, ma nel

senso etimologico dell’assenza di un’autorità sovraordinata monopolizzatrice della forza, alla quale

potersi appellare per ottenere giustizia e protezione. Se le relazioni interstatali si svolgono all’ombra

della guerra è proprio perché la politica internazionale, a differenza di quella interna, manca di

un’autorità centralizzata che provveda a garantire l’ordine. Riprendendo Waltz “nessuno ha diritto a

comandare nessuno ha il dovere di obbedire”. Di tale strumento si avvalgono anche molti studiosi

non realisti, che non hanno difficoltà ad indicare nell’assenza di governo la caratteristica

fondamentale della politica internazionale. Ciò che contraddistingue il realismo è il fatto di attribuire

all’anarchia internazionale un carattere di necessità e di naturalità. Il primato delle considerazione

spetta in questo contesto sicuramente alla sicurezza e al potere. Per via dell’assenza di procedure e

istituzioni atte a risolvere i conflitti, l’arena internazionale non può soggiacere ad altra legge che non

quella della forza: la forza non serve come ultima ratio ma anche come prima e costante. Ne consegue

che gli Stati si preoccupano sempre prima della loro sicurezza. A tal fine, gli Stati cercano di

preservare, e se possibile incrementare, tanto in termini quantitativi, tanto in termini qualitativi, le

loro risorse di potenza, anzitutto militari. La potenza militare è la moneta da cui dipendono le

gerarchie a livello internazionale. Di qui la centralità attribuita al realismo, alla lotta per il potere ed

alla politica di potenza (power politics), che non è di per sé una politica votata alla violenza, ma una

politica votata in via esclusiva al perseguimento dell’interesse nazionale. La condotta degli Stati non

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è suscettibile di giudizi morali fintanto opera nel perseguimento dell’interesse nazionale. Il solo

principio sui cui gli Stati possono fare affidamento per sopravvivere e salvaguardare i propri interessi

è quindi l’autodifesa (self-help). Il self-help, secondo Waltz, è il principio necessario dell’azione in

un sistema anarchico. I tentativi degli Stati di far da sé nel provvedere alle proprie esigenze di

sicurezza tendono a produrre una crescente insicurezza per gli altri, giacché ognuno interpreta le

proprie misure come difensive e le misure degli altri come potenzialmente minacciose. Si innesca

così una spirale di competizione perversa fatta di sfiducia reciproca, sospetto, paura e generale

insicurezza. Tale meccanismo è noto come dilemma della sicurezza. Qui entra in gioco un altro

concetto chiave nella teoria realista, al quale si ispira, fin dalle sue origini anche la pratica della

politica internazionale, ossia l’equilibrio di potenza (balance of power). Dei tanti significati quello

più comune si riferisce a una situazione caratterizzata da una distribuzione approssimativamente

uguale della potenza tra gli attori in campo. Assai frequente è anche l’uso del concetto nell’accezione

di meccanismo regolatore della politica internazionale. In questa accezione, l’espressione indica la

tendenza, da parte degli Stati che si sentono minacciati dalla crescita della potenza di uno Stato che

cerca di conquistare una posizione egemonica nel sistema internazionale, a intraprendere azione di

balancing volte a riequilibrare i rapporti di forza. Fra tali azioni rientrano sia lo sforzo individuale,

da parte degli Stati minacciati, di accumulare ulteriori risorse in modo tale da pareggiare quelle dello

sfidante, sia, ed è questa la principale manifestazione storica dell’equilibrio di potenza, la formazione

di alleanze formali o informali dirette contro lo Stato in ascesa. L’unica realtà che si deve scongiurare

è quella del bandwagoning, ossia salire sul carro del vincitore alleandosi con lo Stato in ascesa.

Perseguendo la teoria della Real Politique il nemico del mio nemico è il mio migliore amico. Il

balance of power può realizzarsi in vari modi:

• Dividi et impera che permette di non creare coalizioni troppo forti (è la strategia tra le più

applicate)

• Compensazione territoriale ovvero se uno Stato è troppo forte lo si smembra, ma questa è una

strategia di tempi remoti

• Strategie dissuasive che passando per la corsa agli armamenti hanno la funzione di deterrente,

avere tutti a disposizione armamenti nucleari funge da deterrente nell’utilizzo di questi

• Alleanze mirate che se pur possono portare a tante piccole guerre queste sono necessarie per

scongiurare le major war

La condizione necessaria perché si possa avere realmente la balance of power è che la distribuzione

di potenza deve far si che l’attore più forte non sia mai in grado di poter sconfiggere tutti gli altri

attori. La condizione sufficiente, invece, è che solo nella misura in cui gli attori adottano politiche di

balancing e non di bandawagoning si raggiunge un equilibrio di sistema. Per i realisti l’equilibrio si

raggiunge volontariamente per i neorealisti spontaneamente. Waltz ha introdotto un correttivo,

l’elemento della percezione della minaccia che è diventato estremamente importante. Occorre che gli

Stati non trascurino minacce crescenti e che mettano in moto politiche di balancing per gli Stati che

vengono percepiti come minaccia perché diversamente si andrebbe incontro ad una rottura degli

equilibri. La Cina è un esempio attuale di messa in crisi delle politiche di balancing.

Volendo ripercorrere le tappe salienti della storia del realismo nelle IR conviene distinguere fra

realismo classico, realismo eterodosso e neorealismo (e realismo strutturale). Nel realismo classico,

che domina il ventennio successivo alla fine della seconda guerra mondiale, confluiscono sia studiosi

che fanno discendere la perversità della lotta per il potere dalle caratteristiche immutabili dell’uomo,

sia studiosi che insistono piuttosto sull’irreconciliabilità dei diversi interessi nazionali e sull’anarchia

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internazionale come causa prima della conflittualità. Il realismo eterodosso riunisce quegli autori che

si sono sforzati di temperare i principi del realismo mediante la considerazione di fattori che il

realismo classico non considera come le caratteristiche interne delle unità politiche che compongono

il sistema internazionale, per esempio la forma di governo. Il neorealismo, origina dal tentativo,

attuato da Waltz sul finire degli anni settanta, di ricompattare la disciplina attorno ad una versione

rinnovata, più scientifica e rigorosamente deduttiva, della teoria realista.

Prima di soffermarsi sugli autori più rappresentativi delle diverse correnti del realismo, è bene

accennare ai precursori, Tucidide, Machiavelli e Hobbes. Il paradigma originario del realismo politico

prende forma in Tucidide intorno a:

• Una concezione secolarizzata della storia incentrata sulle categorie di necessità, caso e fattori

umani

• Un’antropologia naturalistica e pessimistica

• Una concezione conflittualistica della politica

• Una teoria della regolarità delle dinamiche di potenza

Sin dalle prime pagine di La Guerra del Peloponneso mette in chiaro qual è il suo intento, non

dilettare il lettore rievocando gesta eroiche, ma comporre un’opera che sia un acquisto per l’eternità

e sia giudicata utile da quanti vorranno indagare la chiara e sicura realtà di ciò che in passato è

avvenuto e che un giorno potrà ripresentarsi in maniera uguale o molto simile. Se la storia è destinata

a ripetersi è perché immutabile è la natura dell’uomo. In pratica Tucidide è stato il primo ad avanzare

l’idea, poi ripresa nella teoria della guerra egemonica, che la dinamica delle IR sia guidata dalla

crescita differenziale della Potenza fra gli Stati. Infatti la vera ragione che portò allo scoppio della

guerra del Peloponneso si può ritenere che sia stata la grande potenza raggiunta ad Atene che ha

costretto Sparta a dichiarare guerra. Tucidide getta le basi di quel realismo amorale di cui Machiavelli,

in età moderna, sarà considerato l’alfiere. Machiavelli, muovendo da un’assunzione antropologica

profondamente pessimistica, in quanto considera gli uomini ingrati, volubili, simulatori,

dissimulatori, fuggenti dal pericolo, cupidi di guadagno, e dalla convinzione che la conoscenza del

passato possa servire come guida per il futuro, si esercita nella decifrazione delle logiche di potere,

pervenendo a conclusioni nette:

• Il compito prioritario di chi governa è di difendere gli interessi del proprio Stato, garantendone

la sicurezza e la sopravvivenza come entità politica indipendente

• La ricerca della sicurezza si traduce inevitabilmente in uno sforzo egemonico volto

all’imposizione del proprio dominio sugli altri

• La coercizione e la violenza sono connaturate alla politica, la quale consiste essenzialmente

in una lotta che ha per fine il potere

• Il divenire storico è scandito dalla lotta per l’autoconservazione e l’autoaffermazione degli

Stati

Un impatto decisivo sulla scuola realista delle IR lo ha avuto la raffigurazione dello Stato di natura

offerta dal Leviatano del filosofo politico inglese Hobbes, il quale, postula una situazione originaria

di anarchia, cioè di assenza di un’autorità centralizzata, in cui, vige la guerra di tutti contro tutti. La

necessità conseguente dell’insostenibilità di questa condizione generale di insicurezza è l’istituzione

di un potere coercitivo superiore mediante la stipulazione di un patto con cui gli individui

conferiscono tutti i loro poteri e tutta la loro forza ad un uomo o ad un’assemblea di uomini che possa

ridurre tutte le voci ad una volontà sola. Ma se i rapporti interindividuali possono emanciparsi nella

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logica del dilemma del prigioniero e dell’uso privato della forza, aprendosi a forme di cooperazione

costanti e durevoli tra individui, questa strada non può essere percorsa dagli Stati sovrani, i quali,

secondo Hobbes, vivono in una primitiva condizione di anarchia, e sono impossibilitati ad uscirne

perché ciò significherebbe rinunciare alla loro sovranità, ossia negare la loro stessa esistenza.

Riprendendo Hobbes, “gli Stati vivono nella condizione di guerra perpetua e in procinto di battersi,

con le frontiere fortificate e i cannoni puntati contro i vicini, e tutt’intorno”.

In seguito al fallimento della Società delle Nazioni e dell’imminente scoppio del conflitto più esteso

e distruttivo della storia, si assiste al collasso dell’intera struttura del pensiero utopista-idealista basato

sul concetto dell’armonia degli interessi. Alla fine del 1939 Carr pubblica un libro in The twenty

years’ crisis: 1919-1939 nel segno di un durissimo j’accuse contro l’idealismo e le illusioni di quanti,

nel ventennio precedente, avevano creduto che il flusso turbolento della politica internazionale

potesse essere canalizzato in un sistema di formule astratte logicamente inattaccabili ispirate alle

dottrine della democrazia liberale. La critica prende di mira soprattutto il postulato essenziale del

credo utopista, rappresentato dall’idea, che tra gli Stati esista una naturale armonia di interessi. Se le

tesi di Carr hanno strutturato la riflessione internazionalistica nel corso del primo dibattito, è a

Morgenthau che va attribuito il ruolo indiscusso di caposcuola del realismo classico. Il suo Politics

Among Nations è il libro più influente e più dibattuto di tutta la storia delle relazioni internazionali.

In esso, Morgenthau, dichiara fin dalle prime righe il suo intento, ossia quello di elaborare una teoria

di politica internazionale, empiricamente fondata e logicamente coerente, che dia ordine a significato

ad una massa di fenomeni che senza di essa rimarrebbero sconnessi. Morgenthau non si limita a

criticare la scuola di pensiero idealista, ma si preoccupa di sistematizzare le assunzioni più tipiche

della scuola realista, alla quale attribuisce il merito di aver compreso che il mondo imperfetto da un

punto di vista razionale è il risultato di forze inerenti alla natura umana e che quindi per migliorarlo

è necessario operare assecondando queste forze e non contro di esse. Morgenthau enuncia quindi i

sei principi fondamentali del realismo politico:

• Il realismo politico ritiene che la politica sia governata da leggi che hanno la loro origini nella

natura umana

• Il realismo politico riconosce che la principale indicazione che aiuta a orientarsi nel

palcoscenico politico è il concetto di interesse definito in termini di potere

• Il realismo politico riconosce che l’interesse definito come potere è una categoria

universalmente valida

• Il realismo politico riconosce l’inevitabile tensione fra il principio morale e i requisiti di una

politica di successo

• Il realismo politico rifiuta di identificare le aspirazioni morali di una particolare nazione con

le leggi morali che la regolano

• Il realista sostiene l’autonomia della sfera politica

Secondo Morgenthau per comprendere la politica internazionale bisogna occuparsi delle forze che

hanno plasmato il passato e che plasmeranno il futuro, delle leggi fondamentali che si evincono

soltanto mettendo in relazione gli eventi più recenti col passato più remoto analizzando i tratti perenni

della natura umana. Si scoprirà così che la naturale socievolezza dell’uomo, con annessa armonia di

interessi tra le nazioni, non esiste: è la brama di potere, inteso come il controllo dell’uomo sulle menti

e sulle azioni di altri uomini, a permeare di se ogni tratto dell’esistenza umana. La politica non è altro

che la lotta per il potere (struggle for power). Questa lotta, mentre a livello nazionale è disciplinata

dallo Stato, nell’arena internazionale, a causa dell’assenza di autorità centralizzata monopolizzatrice

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della forza, gli Stati sono costretti a una lotta incessante in difesa dei propri interessi, definiti in

termini di potere. L’unico fattore stabilizzante, comunque precario, delle relazioni internazionali è

l’equilibrio di potenza. Possiamo concludere che l’intera costruzione teorica di Morgenthau ruota

attorno al concetto di interesse nazionale definito in termini di potere. Un’altra figura di spicco del

realismo classico è il teologo statunitense Niebuhr considerato dallo stesso Morgenthau un maestro

della filosofia politica realista. Con Niebuhr è messa in risalto essenzialmente l’intonazione cristiana

del realismo, evidente nel richiamo costante alla dottrina del peccato originale. La peccaminosità

dell’uomo è frutto della sua tendenza a ribellarsi a Dio e alla finitezza della propria condizione di

creatura. Il realismo cristiano di Niebuhr coglie bene la specificità della dimensione politica, ma non

rinuncia a cercare la via di una possibile riconciliazione tra le leggi dell’etica e quelle della politica,

sostenendo che la Realpolitik è un’amara necessità che gli uomini di Stato hanno il dovere di

moderare, attraverso l’applicazione dei principi di responsabilità e prudenza. Se il potere è la posta in

gioco della lotta politica, la sua limitazione è la sfida cruciale cui sono chiamate le moderne

democrazie.

L’autore di maggior spicco fra i realisti eterodossi è senza ombra di dubbio il francese Aron, che tra

gli studiosi delle IR occupa un posto particolare in quanto studioso profondamente europeo in una

disciplina configurata come scienza americana. Aron mostra come per comprendere le relazioni

internazionali sia necessario fare riferimento a quattro livelli di concettualizzazione:

• Teorico: definizione dei concetti generali che devono orientare la ricerca

• Sociologico: l’individuazione dei determinanti e delle regole empiriche

• Storico: l’analisi delle diverse fattispecie diplomatiche

• Praseologico: l’esame dei dilemmi morali delle azioni diplomatico-strategiche

L’analisi aroniana muove dal riconoscimento dell’alternanza continua della pace e della guerra però

critica la concezione che riduce la politica a regno della pura forza e la politica internazionale a

Matchpolitik (politica di potenza). Tale concezione distorce il senso della politica, che è sia lotta tra

individui e tra i gruppi per accedere ai posti di comando e spartirsi i beni rari, ma è anche nel contempo

ricerca dell’ordine equo. La condotta esterna degli Stati non è dettata soltanto dal rapporto delle forze,

in quanto le idee e i sentimenti influiscono sulle decisioni degli attori. Certo, nell’arena internazionale,

dove la pluralità dei centri autonomi di decisione genera un rischio permanente di guerra, grava sugli

Statisti l’obbligo del calcolo delle forze, ma questo non è né il primo né l’ultimo atto della condotta

diplomatico-strategica. A seconda dei regimi, i governanti pensano diversamente la politica estera,

quindi si sbaglierebbe a credere che le loro decisioni non cambiano da un regime all’altro. Aron

individua nello spazio (geografia), nella popolazione (demografia) e nelle risorse (economia) i

determinanti materiali della politica estera, mentre le nazioni con i loro regimi politici, le civiltà e

l’umanità intera ne costituiscono i determinanti morali e sociali.

Se nel secondo dopoguerra il realismo si impone come il paradigma dominante delle IR, nel corso

degli anni ’70 la sua influenza, a fronte del rifiorire del paradigma liberale soprattutto all’avvio della

distinzione dalla moltiplicazione degli attorii non statuali e dalla crescente interdipendenza dalle

economie, si fa meno evidente. A riaffermare la centralità del paradigma realista provvede, sul finire

degli anni ’70, Waltz, il quale con la pubblicazione di Theory of International Politics opera quello

che potrebbe essere definito il superamento di un gradino lungo la scala che porta alla costruzione del

corpus teoretico di una disciplina. Volendo porre rimedio a quelli che considera gli errori capitali del

realismo classico dà vita ad un tentativo riuscito di sistematizzare il realismo politico in un rigoroso

sistema teorico deduttivo della politica internazionale, proponendo una versione rinnovata della storia

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realista. Per Waltz una teoria doveva avere le caratteristiche di un costrutto coerente piuttosto che una

collezione di leggi ricavate induttivamente dall’osservazione, magari tra loro isolate o addirittura

senza connessione logica. Evidentemente il sentiero aperto da Keplan fu di grande utilità per Waltz.

L’idea di fondo, comune ad entrambi, rimaneva che qualunque tipo di sistema è in grado di

raggiungere una stabilità dinamica senza l’intervento necessario di singoli fattori causali. Se Keplan

tentò di tenere insieme il comportamentismo e la teoria dei sistemi, Waltz si concentrò esclusivamente

sulla teoria dei sistemi, in particolare sul sistema politico internazionale, separandolo sia dal livello

delle unità che lo compongono, ovvero sia gli Stati, sia da altri tipi di sistemi internazionali,

economico e sociali. Keplan elaborò più modelli di sistema, in analogia con l’economia, senza però

definirli chiaramente tra livello degli Stati e livello sistemico. Waltz elaborò anche egli in analogia

con l’economia una teoria del sistema politico internazionale, ma a partire dalla natura della struttura

politica e chiarendo il nesso fra i due livelli, statale e sistemico. Secondo Waltz tutti i sistemi

sviluppano strutture che premiano e puniscono il comportamento delle unità, ovviamente nella misura

in cui queste si conformano alle esigenze di stabilità del sistema. In considerazione dei vincoli o delle

costrizioni strutturali imposte dal sistema, le preferenze degli Stati passano in secondo ordine e la

ricerca della preferenza e delle determinanti interne della politica estera diventa riduzionista. Le tesi

esposte in Theory of International Politics possono considerarsi frutto di un’elaborazione

intellettuale iniziata con Man, The State and War. In questa prima opera, Waltz affronta in modo

originale la fondamentale questione dei livelli di analisi nelle IR, osservando come le teorie che hanno

tentato di spiegare le origini della guerra siano riconducibili a tre diversi livelli di causazione, che

egli chiama immagini:

• Natura dell’uomo

• Caratteristiche interne degli Stati

• Il contesto strutturalmente anarchico in cui gli Stati operino

Waltz esprime una nette preferenza per la terza immagine, la quale, spostando il focus dell’analisi sui

vincoli che l’anarchia internazionale impone all’azione degli Stati, spiega, perché, in assenza di

mutamenti straordinari dei fattori presenti nella prima e nella seconda immagine, l’esistenza di Stati

sovrani indipendenti porta con se la possibilità perpetua della guerra. L’opzione in favore della terza

immagine è ribadita da Waltz in Theory of International Politics, il cui obiettivo dichiarato è quello

di elaborare una teoria della politica internazionale in grado di porre rimedio alle lacune delle teorie

attuali. Waltz esamina criticamente un ampio ventaglio di teorie riduzioniste mostrandone

l’incapacità di spiegare perché, a livello internazionale, gli esiti delle interazioni tra Stati spesso non

corrispondono alle intenzioni degli attori e le stesse cause a volte producono effetti diversi, così come

effetti uguali derivano da cause differenti. Ciò prova, secondo Waltz, che vi è qualcosa che funziona

come elemento di costrizione sugli agenti. Questo qualcosa è la struttura del sistema internazionale,

per studiare quale prospettiva sistemica è necessaria da adottare, ossia un approccio che, definito il

sistema come un insieme di unità interagenti, sia capace di distinguere e tenere separati il livello delle

unità e delle loro interazioni e quello della struttura. Per spiegare la politica internazionale non sono

sufficienti le teorie riduzioniste ma è indispensabile una teoria che analizzi il modo in cui la struttura

del sistema internazionale agisce da forza ordinatrice e di costrizione sulle unità che interagiscono al

suo interno, premiando certi comportamenti e penalizzandone altri. Per Waltz, la struttura di un

sistema è definita da tre elementi:

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• Il principio ordinatore (che dà la prima e basilare informazione su come le unità del sistema

si pongono in relazione fra loro)

• La specificazione delle funzioni delle unità

• La distribuzione del potere fra le unità

Mentre nei sistemi politici nazionali, il principio ordinatore è la gerarchia, nel sistema politico

internazionale dove tutti gli Stati sono formalmente uguali, il principio dominante è l’anarchia. Waltz

insiste sul fatto che gli Stati non mirano a massimizzare la potenza, bensì la sicurezza. Ed è proprio

il timore dei pericoli che, in un sistema imperniato sull’autodifesa, incombono su chi non è in grado

di provvedere da sé alla propria sicurezza che stimola gli Stati a comportarsi in modi che tendono alla

creazione di equilibri. Da ciò deriva la preferenza per la bipolarizzazione del sistema. Infatti, mentre

nei sistemi bipolari la politica di bilanciamento si basa prevalentemente su sforzi interni, in quelli

multipolari gli Stati ricorrono soprattutto a sforzi esterni per rafforzare o allargare le proprie alleanze.

In un sistema multipolare l’equilibrio è meno stabile che in un sistema bipolare.

Gilpin si è occupato del modello di analisi del mutamento politico che poggia su cinque assunti:

• Un sistema internazionale è stabile (ovvero in stato di equilibrio) se nessuno Stato ritiene

vantaggioso un mutamento del sistema

• Uno Stato tenterà di mutare il sistema internazionale se i benefici che si attende da questo

mutamento superano i costi

• Uno Stato cercherà di cambiare il sistema internazionale attraverso l’espansione territoriale,

politica ed economica fino a quando i costi marginali di un ulteriore cambiamento non

uguagliano o superano i benefici marginali

• Raggiunto un equilibrio tra costi e benefici, i costi economici del mantenimento dello status

quo tendono a crescere più rapidamente della capacità economica di sostenere lo status quo

• Se non si risolve lo squilibrio, il sistema verrà modificato e si stabilirà un nuovo equilibrio

Quindi, secondo Gilpin, il sistema internazionale va organizzandosi, in ogni particolare momento

storico, in base a un ordine che riflette la distribuzione della potenza tra gli Stati principali del sistema.

Col tempo, gli interessi e il potere degli Stati cambiano, con effetti destabilizzanti per gli assetti

internazionali, che passano da una condizione di equilibrio a una di squilibrio. Nel corso della storia

il principale meccanismo di cambiamento internazionale è stato “la guerra per l’egemonia”, la cui

funzione è appunto quella di ridefinire l’ordine internazionale in conformità alla nuova distribuzione

del potere nel sistema.

Di tutti gli approcci quello della polarità è sicuramente il più efficace. Le asserzioni su cui esso si

fonda sono ricapitolate da Buzan in un libro dal titolo The United States and the Great Powers

destinato a rimanere a lungo un punto di riferimento per tutti gli analisti del sistema internazionale

contemporaneo:

• Il potere è la forza o una delle forze fondamentali che governano le IR

• Gli attori più potenti sono gli Stati

• Le IR sono state dominate da un numero relativamente contenuto di grandi potenze

• Prese collettivamente, queste grandi potenze controllano la maggior parte delle risorse

materiali all’interno del loro sistema

• Per comprendere le IR basta guardare alla struttura e al processo delle relazioni che

intercorrono tra le grandi potenze

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• I numeri sono importanti, soprattutto quelli piccoli. Di conseguenza si possono raggruppare i

sistemati caratterizzati da almeno 4 o 5 grandi potenze considerandoli multipolari e trattandoli

come un’unica categoria

Dopo la fine della guerra fredda il dibattito sulla polarità si è notevolmente complicato, in quanto è

in gioco la stessa definizione della struttura del sistema post bipolare. Consensi prevalenti raccoglie

la tesi secondo cui alla fine del bipolarismo è seguita l’affermazione di un sistema tendenzialmente

unipolare, imperniato su una egemonia americana ancora oggi sostanzialmente priva di credibili

sfidanti globali. Per alcuni l’aspetto unipolare è strutturalmente instabile, destinato a lasciare spazio

ad altre configurazioni di potere, per effetto del bilanciamento, per motivi di sicurezza, da una

coalizione di potenze di secondo rango, o a causa dell’emergere di uno sfidante capace di colmare il

gap che lo divide dalla potenza americana dominante. Per altri, invece, si tratta di un assetto solido,

duraturo, e suscettibile di protrarsi per tutto il XXI secolo, per le ottime ragioni che non ci sono segni

di bilanciamento nei confronti degli USA, ne si vede chi possa o abbia davvero interesse a sfidare in

un prossimo futuro, la supremazia americana, non solo perché questa si fonda su un divario di risorse

e di potere che non ha uguali nella storia, ma anche perché si esercita in una forma benevola che

garantisce vantaggi a tutti gli attori del sistema in termini di beni pubblici altrimenti inattingibili. Alla

luce di tutto ciò le teorie realiste continuano a esercitare il loro potere nella costruzione delle nostre

idee del presente. I loro assunti, sia come costrutti teorici, sia come lezioni trasferite da una

generazione di decision maker all’altra, contribuiscono a suscitare determinate concezioni a

disposizione dell’azione. Per cui il realismo rappresenta ancora uno strumento ermeneutico

necessario alla comprensione della politica mondiale.

Vi sono questioni importanti che la fine della guerra fredda ha riportato al centro dell’attenzione, ma

che il paradigma realista ha difficoltà a trattare in maniera persuasiva.

• La pluralità degli attori non statuali e il declino dello Stato. Sia la crescita impetuosa degli

attori non statuali, sia il declino dello Stato, esposto all’erosione da parte dei processi di

globalizzazione, metterebbe il paradigma realista, fortemente caratterizzato dalla sua visione

Stato-centrica, di fronte ad una insuperabile difficoltà. Ad ogni modo il realismo richiede

semplicemente l’anarchia, in quanto anche se lo Stato sparisse, questo non vorrebbe dire la

fine della competizione per la sicurezza e la guerra.

• Il ruolo delle istituzioni internazionali e l’anomalia dell’UE. Secondo il paradigma gli Stati

sono estremamente riottosi ad attribuire importanza alle istituzioni internazionali o a

consentire a queste di limitarne la loro libertà di azione. Come spiegare allora l’impegno

costante profuso dai paesi dell’Europa occidentale nella costruzione dell’UE? Una risposta

potrebbe essere che le istituzioni sono fatte di regole e prassi che offrono ai partner

relativamente più deboli l’opportunità di far sentire la propria voce, e a quelli più forti

(Germania su tutte) di esercitare la propria egemonia in modo efficiente e sotto una copertura

di falsa eguaglianza tale per cui viene meno la resistenza.

• Il nesso interno-esterno e il ruolo della democrazia liberale. Per il realismo si tratta di

riconoscere il condizionamento talora decisivo esercitato sulla politica estera degli Stati, che

sfugge da qualsivoglia tentativo di determinazione a priori, da quei fattori, a cominciare dalle

ideologie e dalla diversità dei regimi politici, che rimandano ai mutevoli attributi delle unità

del sistema, gli Stati, e alla percezione degli attori. Quando poi al ruolo delle democrazie

liberali nelle IR, occorre considerare le osservazioni di Panebianco che fa notare come solo le

democrazie stabili instaurano fra loro la pace democratica, favorita dalla componente liberale

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della democrazia. Ma molte delle democrazie annoverate come tali non sono democrazie

liberali, neppure alla lontana. Le democrazie utilizzano lo strumento dell’intervento armato

con più frequenza di altri regimi politici

• L’absolescenza della guerra tra paesi sviluppati. Muller ha sostenuto che tra paesi sviluppati,

la guerra, al pari di altre vecchie pratiche cadute in disuso sia diventata obsoleta. L’idea che

la guerra costituisca lo strumento per risolvere i conflitti di interesse è caduta in un crescente

discredito ed è stata progressivamente abbandonata. La tesi di Muller, ovviamente, deve

essere presa in considerazione riferendola alla major war.

Capitolo 3: La tradizione liberale. I diversi sentieri di un paradigma pluralista

La tradizione liberale è una delle più longeve della storia dell’analisi della politica internazionale, tra

i padri ispiratori possiamo citare Kant, Smith e Cobden. Dalla fondazione delle IR, dopo la prima

guerra mondiale, il liberismo, in costante interazione con il realismo, ne ha definito i contorni, i

soggetti principali e i temi di dibattito. Si potrebbe addirittura affermare che le due tradizioni si sono

sviluppate storicamente l’una nell’interazione dell’altra. Entrambe le discipline si sono sviluppate in

ambito statunitense, tanto che Hoffman la definiva “una scienza politica americana”. Il liberismo, al

pari del realismo, è stato influenzato dal periodo storio in cui la disciplina si è affermata, ovvero la

guerra fredda.

Il liberismo è una scuola di pensiero molto ricca e articolata che presenta al proprio interno una varietà

di approcci maggiore di qualsiasi altra tradizione internazionalistica consolidata. Il soggetto di

riferimento principale è l’individuo, sul quale le conseguenze delle scelte dello Stato ricadono. Non

soltanto i primi liberali ponevano alla base della propria analisi assunti sulla natura umana (questa

volta positivi), ma nella maggior parte della letteratura liberale contemporanea gli attori sono il

prodotto di azione di individui. Il risultato è pertanto un mondo molto più variegato di quello descritto

dai realisti. Nel mondo articolato di concezione liberale lo Stato è uno Stato di diritto, nel quale il

rapporto governato da leggi tra governanti e governati influenza anche le decisioni di politica estera.

Quello liberale è uno Stato sensibile alle regole e alle istituzioni ed ha tendenza a crearne anche nel

contesto internazionale, facilitando in tal modo i rapporti cooperativi tra gli Stati. Uno Stato che si

dota di istituzioni liberal-democratiche garantisce maggiore pace e benessere a tutti. Un ulteriore

differenza tra liberismo e realismo è la fiducia liberale nella possibilità del progresso. L’ottimismo è

un tratto distintivo soprattutto nei primi pensatori liberali. La guerra fredda e l’avvento del nucleare

hanno attenuato il naturale ottimismo di fondo, ma non lo hanno cancellato tanto che Clark ha definito

quella liberale come la tradizione dell’ottimismo. All’ottimismo è associata, soprattutto, la

convinzione che il progresso della condizione umana sia possibile. I primi pensatori riconducibili a

queste corrente sono infatti proprio quei pensatori moderni che per primi formulano proposte per la

costruzione di una pace stabile dentro e/o tra gli Stati: Erasmo da Rotterdam, Penn, Locke, Bentham,

Kant. Il cambiamento al quale pensano i liberali fin dagli esordi è quello che porta ad un mondo più

pacifico e di maggior benessere. La teoria tende conseguentemente ad essere normativa, ovvero

fondata su una visione del dover essere, oltre che esplicativa e descrittiva. Strumenti fondamentali

per la costruzione della pace sono il diritto, l’assetto democratico interno agli Stati, le regole che gli

Stati concordano tra loro dando vita ad istituzioni internazionali ed il commercio, considerato da

Adam Smith foriero di pace. La cooperazione, pertanto, nel mondo liberale non solo è possibile ma

auspicabile e facilitata dalla mutua dipendenza degli Stati che sarà tanto maggiore quanto più questi

intratterranno relazioni economiche e politiche. In questo contesto, al contrario della tradizione

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realista, l’interdipendenza è positiva perché incentra la cooperazione tra gli Stati e se istituzionalizzata

porta alla pace.

Per comprendere il liberismo nelle IR occorre ripercorrere brevemente le radici. Innanzitutto bisogna

tenere in considerazione il liberismo classico di Smith, Cobden e Kant. A questi autori si ispira la

larga parte del pensiero liberale contemporaneo nelle IR. Il secondo approccio è quello idealista, in

risposta al quale si genera il cosiddetto primo grande dibattito della disciplina. Infatti è proprio in

risposta alla visione del mondo e al progetto politico proposto da politici ed intellettuali come Wilson

che si afferma il realismo. L’avvento della seconda guerra mondiale e la successiva definizione della

guerra fredda creano le condizioni per una predominanza della tradizione realista e un ruolo marginale

del liberismo nei dibattiti della disciplina. Però con la distensione dei primi anni 70, il presentarsi

sulla scena internazionale di nuovi Stati con il processo di decolonizzazione di Africa e Asia, e di

attori non statuali sempre più rilevanti, nonché con la dimostrazione dell’importanza della dimensione

economica nei rapporti internazionali, che si inaugura un nuovo periodo favorevole al rifiorire del

paradigma liberale nella sua forma più spiccatamente pluralista. La fine della distensione e la critica

di Waltz alla teoria dell’interdipendenza portano prima alla ridefinizione della teoria

dell’interdipendenza in interdipendenza complessa ad opera di Keohane e Nye, e poi alla

formulazione di una risposta liberale alla teoria dei regimi. Gli anni 80 sono anche il rilancio del

paradigma liberale nella sua versione neokantiana e la formulazione della teoria della pace

democratica. E con gli inizi degli anni ’90, tuttavia, che il liberismo riassume un ruolo di primo piano

nei grandi dibattiti delle IR, con l’interazione tra istituzionalismo neoliberale e neorealismo. Sarà

proprio la sintesi neo-neo ad evidenziare un avvicinamento tra i due paradigmi. L’ultima evoluzione

del paradigma liberale si può trovare in quegli approcci costruttivisti che più adottano concetti tipici

del liberalismo e, ad esempio, guardano all’espansione delle norme nella politica internazionale.

Possiamo individuare due correnti, l’una che vede la costruzione della pace attraverso il commercio

e l’altra attraverso il diritto. Nel primo caso, ovvero la pace veicolata dal commercio, gli autori di

riferimento sono Smith e Cobden. Smith pone al centro della sua riflessione la fiducia nella capacità

del mercato di riequilibrare automaticamente, quasi vi fosse una mano invisibile, le azioni degli

individui che perseguono il proprio interesse individuale. Il risultato è una naturale armonia degli

interessi. Malgrado Smith non estenda l’armonia degli interessi ai rapporti tra gli Stati, suoi interpreti

del XIX secolo Cobden affermano che anche a livello di commercio internazionale la mano invisibile

del mercato è in grado di armonizzare gli interessi degli Stati portando di fatto a relazioni pacifiche.

Cobden critica l’imperialismo britannico e ripone più fiducia nella diffusione dei commerci e nella

diffusione dell’educazione che nell’operato dei governi. Per quanto concerne la seconda corrente,

ovvero quella che crede in una pace veicolata dal diritto, il punto di riferimento è senza dubbio Kant,

la cui opera, Per la pace perpetua influenza significativamente la tradizione internazionalista

liberale. In Per la pace perpetua, Kant individua tre condizioni fondamentali per l’instaurazione di

una pace perpetua tra gli Stati:

• Una costituzione repubblicana: ovvero uno Stato governato dal diritto e dalla separazione dei

poteri

• Un accordo di non belligeranza tra gli Stati Repubblicani

• L’affermazione del diritto cosmopolito

Alla base dell’intero progetto, tuttavia, la condizione che pare prevalere è quella dello Stato di diritto

interno agli Stati, caposaldo della pace democratica.

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Angel nel suo libro The Great Illusion mostra come la convinzione dei leader politici che si possa

ottener potere e benessere attraverso il conflitto armato è una grande illusione. L’interdipendenza tra

gli Stati ad economia sviluppata è tale che questi beneficiano molto più della pace e del commercio

che delle conquiste militari. Lo scoppio della prima guerra mondiale sembra smentire la tesi di Angel

che tuttavia non ha mai affermato che l’interdipendenza renda la guerra impossibile, ma irrazionale.

Nel dopoguerra, in linea col proprio pensiero, Angel condanna il trattamento vessatorio della

Germania, auspica un sistema di sicurezza collettivo inclusivo anche della Germania e sostiene la

Società delle Nazioni.

Wilson, professore universitario prima, presidente dell’ASPA poi, e infine presidente degli Stati Uniti

incarna quella relazione stretta tra disciplina delle IR ed evoluzione della politica internazionale. La

decisione di maggior rilievo della sua presidenza è senza dubbio l’entrata in guerra degli USA nel

1917. Il suo annuncio di una guerra per rendere il mondo sicuro per la democrazia e porre termine a

tutte le guerre anticipa il progetto di costruzione di un ordine pacifico che prevenga guerre future. Il

progetto viene articolato alla fine della prima guerra mondiale nei suoi famosi 14 punti, che

individuano nell’uguaglianza delle nazioni, nell’autogoverno dei popoli, nella libertà dei mari, in una

riduzione generalizzata degli armamenti, nel libero commercio e nella creazione di un’organizzazione

internazionale gli strumenti principali per la creazione di una pace duratura. I punti di Wilson

costituiscono la base per le trattative di pace di Parigi che chiudono la prima guerra mondiale. I 14

punti attireranno pesanti critiche nel momento in cui il congresso americano non ratifica l’entrata

nella Società delle Nazioni.

Il periodo che segue la seconda guerra mondiale vede una battuta di arresto del paradigma liberale,

duramente colpito prima dal fallimento della SdN e dall’avvento della seconda guerra mondiale, poi

dall’affermarsi della guerra fredda. Con la progressiva affermazione della logica della deterrenza tra

due superpotenze nucleari, pochi sono gli spazi per un’analisi in chiave liberale se non guardando a

un’area del mondo nella quale i principi liberali stanno dando i loro frutti: l’Europa occidentale.

L’idea di una federazione di Stati era già apparsa nel 1700 con l’opera dell’abate di Saint-Pierre, ma

è con la fine della prima guerra mondiale che si porta all’attenzione delle istituzioni l’ipotesi della

creazione di un’Europa federale. La proposta trova terreno fertile e si fa strada solo dopo la fine della

seconda guerra mondiale. Il progetto si concretizza nel 1951 con la nascita della CECA, progetto che

vede coinvolti Italia, Germania, Francia, Belgio, Olanda e Lussemburgo. L’idea è semplice e

intrinsecamente liberale: creare un’istituzione nella quale gli Stati europei che hanno combattuto due

guerre mondiali collaborino in aree cruciali dell’economia nazionale, il carbone e l’acciaio, con l’idea

che questo possa innescare un processo di ampliamento delle aree di cooperazione istituzionalizzata

tra gli Stati membri. Dopo aver analizzato il fallimento della SdN, Mitrany propone un approccio alla

costruzione della pace che potremmo definire “funzionale” e che passa per l’aumento

dell’interdipendenza e dei legami transnazionali tra gli Stati. La via principale per la creazione di tali

legami è una cooperazione in settori nei quali giocano un ruolo fondamentale i tecnici, e non i politici,

e nei quali è più facile cooperare. L’avvio della cooperazione in un settore porterebbe poi

all’ampliamento della cooperazione anche in altri settori, fino ad includere quelli a più alto contenuto

politico attraverso un processo che Mitrany chiama di “ramificazione”. La ramificazione altro non è

che un circolo virtuoso di cooperazione che si amplia di settore in settore originando una rete di

norme, procedure e strutture che mutano le percezioni e le azioni dei protagonisti della politica

internazionale. Haas rivede la teoria di Mitrany, mettendo a punto quello che possiamo definire un

approccio neofunzionale. Anche Haas riconosce che la cooperazione in un settore contagia gli altri

attraverso un meccanismo che lui chiama spillover. Nel processo il ruolo più importante, però, non è

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giocato dai tecnici, ma dalle èlite dei settori pubblici e privati, motivate dai loro interessi. Lo spillover

non è dovuto al mero riconoscimento dei vantaggi della cooperazione, ma piuttosto alla frustrazione

degli Stati che collaborano in specifici settori funzionali, che non possono permettersi di rinunciare

alla cooperazione e cercano di ovviare all’insoddisfazione espandendo la collaborazione nel settore

specifico e in settori vicini. Inoltre Haas e gli altri funzionalisti notano la presenza di altri due

fenomeni nei processi di integrazione:

• La politicizzazione: tendenza a trattare in chiave politica anche problemi meramente tecnici

• L’esternalizzazione: tendenza da parte degli Stati che sono parte del processo di integrazione

ad assumere atteggiamenti analoghi di fronte a Stati terzi

Nello stesso periodo in cui vengono elaborate le prime versioni delle teorie funzionaliste

dell’integrazione, guardando a un’altra organizzazione, l’Alleanza Atlantica, Deutsch mette a punto

una teoria dell’integrazione di ispirazione liberale ma dalle caratteristiche assai diverse. Deutsch

teorizza la possibilità che un gruppo di Stati formi quella che potremmo definire una comunità nella

quale viene meno il dilemma della sicurezza. Una comunità di sicurezza pluralistica si realizza

quando tra gli Stati c’è:

• Compatibilità di valori fondamentali

• Mutua lealtà

• Aspettative reciproche di cambiamento pacifico

Particolarmente importanti nelle comunità di sicurezza sono i legami transnazionali e le

comunicazioni tra società. Deutsch vede nell’Alleanza Atlantica un esempio del primo caso di

comunità di sicurezza. Un secondo caso potrebbe essere rappresentato dall’UE.

Se durante la prima fase della guerra fredda il pensiero liberale è marginale rispetto ai grandi dibattiti

sulla deterrenza che dominano la disciplina, con l’inizio degli anni ’70 e l’avvio della distensione tra

i due blocchi si creano le condizioni per un ritorno del paradigma liberale al centro dei dibattiti. Il

paradigma liberale riemerge nella sua versione più pluralistica. Nel suo World Society, Burton

propone una rappresentazione della politica internazionale “a ragnatela” secondo la quale ogni Stato

di fatto è l’insieme di una molteplicità di gruppi (religiosi, professionali, ecc), ciascuno con propri

interessi e legami con l’esterno. Il risultato è una rete di comunicazioni e un sistema di appartenenze

multiple. Keohane e Nye notano che esistono una pluralità di attori non statuali sulla scena

internazionale. Come i teorici dell’integrazione, notano anche l’importante presenza di fattori

economici accanto ai fattori politici, ritengono che la cooperazione internazionale sia possibile e che

esistano condizioni che la facilitano (l’interdipendenza). Non considerano lo Stato obsoleto e

insistono sull’importanza delle relazioni internazionali.

Dal foedus pacificum kantiano alla Società delle Nazioni, molte sono state le proposte di costruzione

della pace attraverso istituzioni multilaterali. Il liberismo ha visto nella codificazione di regole e, nella

creazione di istituzioni formali, uno strumento per una cooperazione. Ciò a cui si assiste sempre più,

sono forme di cooperazione multilaterale à la carte. Gli stessi Stati Uniti, hanno praticato un

multilateralismo non vincolante. La pratica unilaterale degli Stati Uniti è letta come il risultato del

loro status di unica superpotenza, anche se da più parti i liberali ricordano come anche una

superpotenza abbia bisogno degli altri. Un aspetto specifico dell’azione multilaterale è quello della

sicurezza collettiva. L’istituzione principe del sistema di sicurezza collettiva globale, la Società delle

Nazioni, è frequentemente in difficoltà e bloccata da veti e vittima della tensione. La politica

internazionale e il liberalismo vivono la stessa tensione, che trova la sua massima espressione nella

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dottrina della responsabilità a proteggere. La dottrina stabilisce il dovere di ogni Stato a proteggere

i propri cittadini, ma anche il dovere della comunità internazionale di intervenire (non

necessariamente militarmente) nel caso in cui uno Stato non riesca a garantire l’incolumità dei propri

cittadini.

Capitolo 4: La tradizione critica. Le logiche della politica internazionale nelle

teorie marxiste

Dagli anni novanta del secolo scorso ha cominciato a prendere forma una sorta di revival marxista il

quale propone letture di Marx lontane sia dall’oleografia coltivata dall’Unione Sovietica, sia dalle

coordinate del marxismo degli anni sessanta e settanta del Novecento. Si riprendono infatti, alcune

nozioni di base della critica marxiana dell’economia politica, non si abbandonano dunque le

acquisizioni chiave della riflessione postmodernista, del pensiero femminista e della svolta culturale.

Marx era sostenitore di un’analisi che poggia sulla convinzione che il capitalismo sia destinato ad

estendersi a tutto il pianeta e che il capitale, per sua stessa natura, deve “tendere ad abbattere ogni

ostacolo locale che si frappone allo scambio, e conquistare la terra intera come suo mercato”. Le

teorie dell’imperialismo tentano in effetti di offrire una soluzione a quelle domande lasciate da Marx

senza risposta. Analogamente ai pensatori del realismo politico, anche le teorie marxiste

concepiscono infatti la storia umana come segnata dal conflitto e dalla violenza ma i marxisti, a

differenza di quanto fanno i realisti classici, non pensano che il conflitto sia il risultato della “natura

umana”. Nella loro prospettiva, il conflitto scaturisce piuttosto dall’assetto dei rapporti sociali di

produzione e assume pertanto la forma di un conflitto tra classi contrapposte. Inoltre se i realisti

intendono la storia come dominata da regolarità che si ripetono ciclicamente, i marxisti concepiscono

invece il processo storico in termini lineari; anche i marxisti ritengono che la storia umana sia

indirizzata verso una meta di progresso. I liberali ritengono però che il progresso possa essere

raggiunto tramite l’attitudine cooperativa degli esseri umani. Al contrario, Marx e molti suoi epigoni

pensano che la strada verso il progresso sia segnata dalla violenza e dal conflitto e che la pace

diventerà possibile solo nel momento in cui le divisioni di classe saranno scomparse. La prima

generazione dei marxisti riconosce nella lunga depressione di fine ottocento, quella crisi che dovrebbe

causare il crollo complessivo della produzione capitalistica. Quando l’economia mondiale supera la

crisi, gli epigoni si trovano davanti al compito di comprendere quali motivi possano spiegare la

rinnovata vitalità del capitalismo. Gli stessi Marx ed Engels avevano attirato l’attenzione su alcune

controtendenze, tra cui l’organizzazione dei datori di lavoro, l’esportazione dei capitali, la formazione

dei monopoli, l’ingresso dello Stato nell’economia. L’ulteriore controtendenza è l’imperialismo,

termine con il quale intendiamo esprimere quella propensione a politiche aggressive e militariste che

condurrà alla prima guerra mondiale. Per la riflessione marxista, l’imperialismo si definisce uno

stadio particolare dello sviluppo capitalistico, mentre si parla di un’epoca dell’imperialismo per

indicare la fase in cui, questa formazione economica è diventata predominante. L’imperialismo

diventa la tendenza della guerra tra paesi capitalistici. Per i marxisti la tendenza alla guerra scaturisce

dalle caratteristiche strutturali del capitalismo. In questo modo, le teorie marxiste, si discostano dalla

visione realista, che riconduce la politica a considerazioni di potenza o sicurezza autonome

dall’economia, quanto dalla visione liberale, che considera l’interdipendenza e lo sviluppo economico

come fattori di pacificazione. Rosa Luxemburg elabora una spiegazione in cui le crisi del capitalismo

determinata da cause oggettive; la studiosa polacca rinviene le radici della crisi sul lato della

realizzazione del plusvalore. In sostanza, Luxemburg ritiene che il capitalismo sia contrassegnato

dalla tendenza ad espandere la propria base produttiva, più rapidamente di quanto non si estendano

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le possibilità di effettivo consumo. Per questo, il capitale è condannato a inevitabile crisi; Luxemburg

osserva che nel modo di produzione capitalistico esiste una tendenza all’accumulazione, ossia a un

reinvestimento del plusvalore realizzato, finalizzato all’allargamento della base produttiva. La

pressione della concorrenza spinge a ricercare metodi per abbassare i costi di produzione perché

necessario che il plusvalore venga realizzato mediante la vendita sul mercato, e cioè che venga

tradotto in denaro, per riattivare il ciclo dell’accumulazione. La sua convinzione è infatti che le

possibilità di consumo non crescano proporzionalmente all’espansione della base produttiva e che sia

necessario quindi ricercare possibilità di realizzazione fuori dal mercato capitalistico, ovvero

all’esterno. Per la sua necessaria sopravvivenza, il capitalismo necessita dunque di un ambiente non

capitalistico e Luxemburg ritiene che l’imperialismo costituisca uno sviluppo inevitabile di questa

tendenza. L’imperialismo è l’espressione politica del processo di accumulazione del capitale, esso

cresce in energia e forza d’urto, sia nella sua aggressività contro il mondo non-capitalistico, sia

nell’inasprimento dei contrasti fra paesi capitalistici. Anche il militarismo è un aspetto che

accompagna in tutte le sue fasi storiche l’accumulazione del capitale. Quando si rivolge all’ambiente

non capitalistico, il capitalismo innesca una trasformazione in senso capitalistico di quell’ambiente,

un fuori che è invece tendenzialmente destinato a svanire. La convinzione di Luxemburg è che la

completa trasformazione in senso capitalistico del mondo renda impossibile l’accumulazione di

capitale. Raggiunto il dominio mondiale, il capitalismo raggiunge il suo limite economico. In questa

prospettiva, la guerra diventa la manifestazione più evidente della tendenza alla catastrofe propria del

capitalismo. La teoria di Luxemburg si fonda però su un presupposto scorretto: non esiste alcun

motivo per escludere che i consumi dei lavoratori e dei capitalisti non possano crescere

proporzionalmente in modo da garantire che l’espansione delle merci possa essere acquistata senza

ricorrere a mercati esterni. Mentre Luxemburg si concentra sulle cause più profonde

dell’imperialismo, Lenin si limita a riconoscere gli effetti che il processo di accumulazione ha

prodotto sul capitalismo dei primi anni del XX secolo. Il punto di partenza delle teorie di Lenin

consiste nel riconoscimento di una trasformazione che ha mutato il volto del capitalismo studiato da

Marx. Il capitalismo concorrenziale, ha ormai lasciato posto al monopolio, e Lenin ritiene che la fase

del capitalismo monopolistico sia contrassegnata da: la concentrazione della produzione del capitale,

la crescita della rilevanza delle banche, la spartizione del mondo in sfere di influenza e infine, un

inasprimento della lotta per la ripartizione del monopolio. In linea generale, l’intero discorso di Lenin

presuppone che lo Stato sia uno “strumento” nelle mani dell’oligarchia finanziaria, e che dunque la

burocrazia e la classe politica non abbiano autonomia in ciò che riguarda le scelte di politica estera.

Il problema della riflessione leniniana consiste quindi in una definizione ambigua dell’imperialismo

che viene a indicare quattro fenomeni diversi: l’impero formale, l’imperialismo come espansione

dello stato, il colonialismo, l’impero informale. La sovrapposizione di questi significati comporta la

difficoltà di distinguere tra una fase e l’altra dello sviluppo.

Le tesi dettate da Lenin si dissolvono nel 1945 circa poiché la concorrenza politico-militare fra paesi

capitalistici non gioca più un ruolo di rilievo. L’economia post-bellica può riassumersi nella parola

ultra-imperialismo, delineata da Karl Kautsky secondo cui, allo scontro armato tra i gruppi

capitalistici finanziari nazionali, possono seguire una fase di sviluppo pacifico e dunque lo

sfruttamento delle risorse mondiali. In Il capitale monopolistico di Baran e Sweezy, l’idea di fondo

è caratterizzata dalla convinzione che le trasformazioni economiche della prima metà del novecento

abbiano reso obsoleta la vecchia analisi di Marx. Per i due autori infatti la vera protagonista

dell’economia monopolistica è la società per azioni gigante la quale opera sempre con l’obiettivo

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della massimizzazione del profitto, ma con un orizzonte temporale molto più esteso. La società per

azioni gigante riesce a controllare i prezzi grazie alla posizione di monopolio. Tali trasformazioni non

possono però superare le contraddizioni strutturali dell’economia capitalistica, che riemergono così

in una forma nuova. Proprio perché non esiste una pressione concorrenziale a una riduzione dei costi

di produzione si accompagna una crescita dei profitti, e ciò determina una nuova contraddizione: la

tendenza alla crescita del surplus economico della società, definito come la “differenza tra ciò che la

società produce e i costi necessari per produrla”. Questa legge, sostituisce quella di Marx sulla caduta

del saggio di profitto. In sostanza, un aumento del surplus non comporta un proporzionale aumento

dei consumi. Il problema, diventa la destinazione di questo surplus poiché dato che i tradizionali

canali non sono in grado di compensare il surplus “eccedente” il capitalismo monopolistico tende a

volgersi in direzioni diverse: un primo canale è rappresentato dalla promozione delle vendite, un altro

dalla spesa statale. Baran e Sweezy ritengono che la gerarchia dei paesi capitalistici sia contrassegnata

da relazioni di sfruttamento organizzate secondo una “logica piramidale”: i paesi che stanno al vertice

sfruttano tutti gli altri e allo stesso modo i paesi che stanno a un dato livello sfruttano quelli che stanno

più in basso. Distinguono dunque tra le metropoli e le colonie e per conservare la propria gerarchia,

ogni stato deve avvalersi di forze armate. La potenza relativa agli Stati Uniti cresce dal 1914 al 1945

e l’espansione militare può diventare un vantaggioso canale per l’assorbimento del surplus. Per

quanto riguarda l’Unione Sovietica, i due studiosi credono che non abbia mai avuto mire

espansionistiche. La motivazione reale che spinge gli Stati Uniti a un aumento del proprio potenziale

bellico consiste nella lotta contro il socialismo. Gli strumenti di questa strategia di lotta antisocialista

sono tre: la ricostruzione dei centri tradizionali del potere capitalistico, la creazione di una rete di

alleanze e di basi militari distribuite attorno al perimetro socialista, il costante rafforzamento di un

apparato militare in grado di sostenere un conflitto potenziale con le forze socialiste. Secondo i due

autori, i paesi capitalistici avanzati non sono però entrati nella “fase del capitalismo monopolistico di

Stato”; questi estremizzano le idee di Lenin di “aristocrazia operaia” sia perché considerano le classi

lavoratrici integrate nella società opulenta, sia perché ritengono che la reale minaccia all’ordine

capitalistico provenga dai movimenti socialisti dei paesi sottosviluppati. In questo modo, quelle

contraddizioni che Marx collocava al cuore della produzione capitalistica, vengono spostate “al di

fuori” e trasformate in una contrapposizione tra Stati ricchi e poveri. Dall’opera di Baran e Sweezy

verrà successivamente creata la “teoria della dipendenza” in cui si collocano studiosi di formazione

differente come: Frank, Amin ed Enzo Faletto; questi teorici sono accomunati dalla convinzione che

la condizione di sottosviluppo dei paesi del sud del mondo, sia conseguenza dello sfruttamento

esercitato dai paesi occidentali. Frank, identifica il capitalismo con un sistema di scambio mondiale,

contrassegnato dalla persistenza del monopolio e da relazioni di sfruttamento. Dunque presuppone

che l’esistenza di relazioni commerciali capitalistiche coincida con l’espansione dell’economia

capitalistica. In particolare Frank vuole dimostrare che lo sviluppo di scambi commerciali con i paesi

occidentali inneschi il meccanismo di sfruttamento e dipendenza da cui si origina il sottosviluppo.

Secondo Frank, il sottosviluppo è un prodotto del capitalismo: le aree sottosviluppate sono state

incorporate nel mercato mondiale in una posizione di netta subordinazione, ciò ha posto le basi per

delle condizioni di sottosviluppo. Frank localizza l’origine del sistema capitalistico nelle prime fasi

di colonizzazione del Nuovo Mondo e secondo lui il capitalismo è caratterizzato da tre contraddizioni:

l’espropriazione del surplus economico e la sua appropriazione da parte di una minoranza, la

polarizzazione del sistema capitalistico, la continuità della struttura metropoli-satellite. In primo

luogo Frank crede che il surplus prodotto nei satelliti venga appropriato dalla metropoli: tutto ciò

tende a strutturarsi tramite una catena gerarchica, che parte dalla metropoli mondiale e arriva ai centri

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nazionali fino ai centri locali. La crescita degli scambi non può che irrobustire la relazione di

subordinazione e dipendenza, della quale i paesi satelliti possono liberarsi solo interrompendo le

relazioni economiche con la metropoli e con i paesi sviluppati. Infine, secondo Frank, la

contraddizione tra sviluppo e sottosviluppo non rappresenta una tappa della storia del capitalismo ma

una sua caratteristica costitutiva. Per Marx il processo di produzione del capitale avviene nel corso

del processo lavorativo, mediante l’estrazione del plus lavoro dalla forza di lavoro impiegata, per

Frank il capitalismo si basa sull’espropriazione del surplus prodotto nei satelliti ed esportato verso le

metropoli e dunque sullo sfruttamento dei paesi sottosviluppati da parte di quelli sviluppati.

Negli anni settanta, nasce la world-system theory, una teoria legata al nome di Immanuel Wallerstein,

il quale ritiene che i rapporti di dipendenza possano essere ricostruiti e compresi solo in un quadro

globale, capace di considerare le trasformazioni economiche e politiche e la progressiva estensione

del capitalismo. A differenza del disegno tracciato dal Capitale, la teoria del sistema-mondo punta

non a delineare un modello astratto di funzionamento del capitalismo, bensì a ricostruire le concrete

modalità con cui il capitalismo si è affermato. Per Wallerstein il sistema-mondo è un sistema

all’interno del quale è operante “una divisione del lavoro comprensiva di un’eterogeneità di gruppi

sociali discriminabili sia verticalmente (culturalmente) sia orizzontalmente (socialmente)”. Un

mondo è perciò un sistema di divisione del lavoro, al suo interno relativamente coeso e separato

mediante confini dall’ambiente esterno. A definire l’ambito spaziale dell’economia sono le relazioni

di interdipendenza tra le fasi di produzione, distribuzione e consumo. Secondo Wallerstein tutti i casi

conosciuti di sistema-mondo sono riconducibili a due tipi di relazione tra spazio economico e spazio

politico: gli imperi-mondo, le economie-mondo. Nel caso degli imperi-mondo, lo spazio del sistema

mondo risulta all’interno dei confini del sistema politico, il quale assume i contorni di un impero: in

questo sistema, il surplus viene appropriato mediante imposizione tributaria ai produttori. In sostanza,

gli imperi-mondo sono ridistribuiti nella loro forma economica. Nelle economie-mondo prevale

invece una logica cumulativo-capitalistica, e la dimensione economica non coincide con quella

politica: i confini delle economie-mondo sono più estesi e all’interno di questo mondo i diversi sistemi

politici e culturali sono collegati da una sintesi non politica, ma economica. Un economia-mondo, per

riuscire a riprodursi nel tempo, richiede la formazione di stabili legami commerciali, ma anche la

costruzione, il consolidamento e l’integrazione di quegli specifici mercati. Secondo Wallerstein, il

capitalismo storico riesce a consolidare i diversi mercati, necessari alla costante espansione del

processo di accumulazione, grazie alla costruzione di un sistema di Stati Nazionali. La competizione

fra unità statali costituisce fattori di rafforzamento del capitalismo storico, perché convergono nella

direzione dello smantellamento dei diversi ostacoli al processo di mercificazione. Per Wallerstein,

come per Frank, nel capitalismo si instaurano meccanismi di scambio ineguale e dunque, un processo

di polarizzazione tra il centro e le periferie del sistema. La gerarchia rappresenta una conseguenza

della divisione del lavoro, propria dell’economia-mondo. Ciò comporta che lo scambio tra le due aree

non sia eguale, e che il surplus prodotto nella periferia tenda a spostarsi verso il centro. Dunque, i

centri e le periferie cambiano nel corso dei secoli. In generale, una periferia dell’economia-mondo è

il settore geografico la cui produzione riguarda beni di scarso valore, ma che è parte del sistema

globale di divisione del lavoro, perché le merci sono indispensabili nell’uso quotidiano. Secondo

Wallerstein, l’economia-mondo tende però a produrre una forte gerarchia. L’egemonia prende forma

infatti quando “la corrente rivalità tra le grandi potenze è così sbilanciata che una potenza può

imporre le sue regole e i suoi interessi”. Le radici dell’egemonia sono economiche, perché alla base

dell’egemonia c’è la capacità delle imprese di operare nelle tre arene della produzione agro-

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industriale, del commercio e della finanza. Wallerstein individua solo tre grandi egemonie:

l’egemonia delle Province Unite olandesi nel corso del XVII secolo, l’egemonia del Regno Unito nel

XIX secolo e l’egemonia degli Stati Uniti degli anni quaranta/sessanta del novecento. Per chiarire i

meccanismi della trasformazione, Wallerstein ricorre ai cicli di Kondratieff, i quali hanno una durata

approssimativa di cinquanta-sessant’anni e che si suddividono in due fasi: la fase A indica il periodo

in cui un monopolio può essere conservato, la fase B si riferisce invece ai periodi di trasferimento

geografico della produzione, ossia al periodo in cui i monopoli sono ormai esauriti e in cui cominciano

i conflitti per il controllo di nuovi monopoli emergenti. Ma lo stesso Wallerstein afferma che “una

volta che si è venuta a creare una nuova egemonia, per mantenerla sono necessari finanziamenti

massicci che, ne segnano il declino e scatenano la lotta per la successione”, da ciò quindi, se ne

deduce che la conservazione di una supremazia militare e di un primato politico non può che entrare

in contrasto con il declino dell’efficienza relativa delle imprese del paese egemone. Un ciclo

egemonico si apre dopo la conclusione di una guerra mondiale e si conclude con una nuova guerra

mondiale. Per quanto riguarda l’egemonia americana, secondo Wallerstein la configurazione del

sistema è unipolare per l’intero periodo. Wallerstein ritiene però che sia destinata a emergere

un’inedita economia-mondo bipolare con, da un lato, un blocco composto da Stati Uniti, Giappone e

Cina e, sul lato opposto, un blocco formato dall’Unione Europea e Russia. Lo schema tracciato da

Wallerstein, ha senza dubbio elementi in comune con la teoria neorealista elaborata da Kenneth

Waltz, perché in entrambi i casi la prospettiva è sistematica. Esistono però delle differenze fra i due:

la prima sta nel diverso peso assegnato alle dinamiche economiche. Un altro sviluppo estremamente

importante riguardo la teoria del sistema-mondo viene proposto dallo studioso Giovanni Arrighi che

approfondisce gli aspetti relativi all’inizio del declino egemonico. Per Arrighi, l’egemonia non nasce

solo da pressioni sistematiche, ma anche dall’azione e dal profilo dello stesso agente, perché

l’egemone è dotato di un potere che riesce a modificare le regole sistematiche. Dunque, l’egemonia

è il potere addizionale che deriva a un gruppo dominante dalla sua capacità di guidare la società in

una direzione che non solo serve gli interessi del gruppo dominante stesso, ma che è percepita anche

dai gruppi subordinati come finalizzata a un più generale interesse. In altre parole, l’egemonia può

prendere forma quando si incontrano l’offerta e la domanda di un ruolo di supplenza nel governo del

mondo. In effetti, ai quattro cicli sistematici individuati da Arrighi corrispondono anche tipi diversi

di istituzioni governative dominanti. Ogni ciclo sistemico comporta anche la rinascita di strategie e

strutture governative, già superate dal precedente regime di accumulazione. Innanzitutto, i diversi

cicli presentano differenze relative al tipo di regime di accumulazione, nel senso che alcuni puntano

a sviluppare i mercati in modo estensivo (allargando lo spazio geografico) altri in modo intensivo

(consolidando l’espansione geografica già realizzata). Tra la fine del XIV e il XVI secolo, i principali

attori istituzionali sono quattro città-Stato italiane (Genova, Venezia, Milano, Firenze). Dopo un

secolo di “caos” e crescente instabilità, la connessione con un ampio territorio (elemento che manca

alle principali città-stato italiane) diventa un punto cruciale per la definizione dello stato. La pace di

Westfalia (sancita dopo la guerra dei trent’anni) inaugura così l’avvio del sistema internazionale degli

Stati con una progressiva internalizzazione dei costi di protezione, dei costi di produzione e dei costi

di transazione. Le crisi egemoniche sono contrassegnate da tre processi: l’intensificazione della

competizione tra Stati e della competizione tra imprese; l’aumento dei conflitti sociali; l’emergere di

nuove configurazioni di potere. All’interno di ciascun ciclo sistemico di accumulazione, Arringhi

individua due periodi distinti: il primo segnato da un’espansione materiale, il secondo da

un’espansione finanziaria, ossia da un meccanismo per cui il capitale si libera dalla forma di merce e

rimane allo stato liquido. In tre crisi egemoniche (olandese, britannica e statunitense) Arrighi

Alberto Presti – Sofia Gorgone – Myriam Russo – Giulia Tarantino

riconosce, il tratto comune dell’espansione finanziaria su scala sistemica. Espansioni di questo genere

sono il risultato di due tendenze: a- la sovra-accumulazione di capitale, b- un’intensa competizione

interstatale per il capitale mobile, dovuto al fatto che le organizzazioni territoriali reagiscono alla

diminuzione degli introiti fiscali incrementando la competizione per il capitale. L’espansione

finanziaria è dunque un tratto ricorrente che emerge nelle fasi di declino egemonico. Nelle fasi di

declino egemonico il capitale tende a riacquistare flessibilità, abbandonando la forma di merce e

mantenendosi in forma liquida. L’interesse di Arrighi si rivolge al declino egemonico degli stati uniti,

il cui avvio è collocato negli anni settanta. La ripresa degli anni ottanta e novanta è legata alla

finanziarizzazione, che consente agli USA di conseguire una notevole supremazia sotto il profilo

militare, al prezzo però di un fortissimo indebitamento. Il risultato tende a delinearsi con una

biforcazione tra potere militare (nelle mani degli USA) e potere finanziario (verso stati politicamente

deboli). Arrighi ritiene che nella transizione entrino in gioco due variabili decisive: a il

riconoscimento del declino da parte della potenza egemone e l’accettazione di una soluzione di

adattamento e conciliazione; b l’emergere di una nuova leadership globale. Arrighi riconosce nel

2003 il momento di passaggio al vero caos sistemico. L’invasione dell’Iraq testimonia la

determinazione statunitense a non riconoscere il carattere irreversibile del declino, mentre i suoi esiti

palesano la fragilità degli USA. La Cina è emersa come alternativa credibile, anche se le possibilità

di ascesa sono legate alla sostenibilità della crescita economica e alle peculiarità del sistema

interstatale asiatico.

La concezione materialistica elaborata da Marx viene intesa come una sorta di meta-scienza: una

visione generale delle dinamiche storiche in grado di cogliere la realtà delle relazioni sociali. I

politologi comportamentisti vedono negli studi marxisti soltanto agitatori politici, distanti dal rigore

della scienza. La dissoluzione del blocco sovietico innesca una duplice metamorfosi nel profilo della

tradizione critica: in primo luogo, la scomparsa di quei regimi che avevano fatto di Marx la stella

polare non può che indebolire l’identificazione tra Marxisti e la superpotenza; in secondo luogo, il

fallimento del socialismo reale in Unione Sovietica accelera il ripensamento critico di Marx. Occupa

un ruolo di primo piano la teoria critica, al cui interno confluiscono studiosi della scuola di

Francoforte e autori come Max Horkheimer, T.W. Adorno. Erich Fromm. Alla base della scuola di

Francoforte si torva una miscela di filosofia, psicologia e sociologia che attinge a Marx, ma anche a

Hegel e Freud. La scuola sviluppa una riflessione critica nei confronti del progetto illuministico

occidentale. In termini più specifici, la componente della teoria critica viene ripresa nel campo delle

IR è la relazione problematica tra conoscenza e potere. Cox definisce la proposta di Waltz come una

teoria problem solving: una teoria che non mette in questione i rapporti di potere esistenti, ma li

considera solo come elementi immutabili. Le teorie problem solving, tra cui rientra il neorealismo e

il neoliberalismo, risultano di fatto conservatrici, nel senso che legittimano l’ordine sociale e politico

esistente. Secondo la teoria critica, la conoscenza non può essere mai neutrale, perché riflette una

serie di condizioni sociali, ambientali, ideologiche, temporali. La proposta di Cox non si limita

soltanto alla fase di decostruzione o smascheramento, ma punta a predisporre uno schema di analisi

delle forze che si muovono sullo scenario internazionale. Cox adotta la nozione di egemonia nella

versione elaborata da Gramsci per rappresentare i conflitti e i rapporti di forza. L’operazione di

ripensamento, si presenta come un tentativo di procedere a una radicale revisione delle concezioni

dell’egemonia adottate. Al tempo stesso, si profila anche come un ambizioso progetto di definire le

coordinate di una rappresentazione neogramsciana che spesso viene identificata come “scuola

italiana” delle IR. L’egemonia non si limita solo all’azione di persuasione esercitata dall’alto verso

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il basso, ma consiste piuttosto in un’attività di strutturazione delle relazioni sociali e di “costruzione

della realtà”. Cox ritiene che le stesse categorie che identificano i soggetti della politica

internazionale, siano in realtà il prodotto di una costruzione egemonica, mediante cui le idee riescono

a strutturare un ordine. I soggetti della politica internazionale non sono affatto elementi naturali, ma

“finzioni” prodotte da un’ontologia sociale plasmata da interessi. Cox individua per gli ultimi due

secoli, una successione tra fasi egemoniche e fasi non egemoniche. Il periodo tra il 1845 e il 1875 è

contrassegnato dall’egemonia britannica (il libero commercio, il gold standard e la teoria del

vantaggio comparato), Londra riesce a controllare i mari. Fra il 1875 e il 1975 si entra invece in una

fase non egemonica, le leadership britanniche entrano in crisi. Dopo il 1945 prende forma l’egemonia

americana che entra in crisi dalla metà degli anni sessanta con la caduta degli accordi di Bretton

Woods, ciò non ha prodotto una nuova fase egemonica, ma ha innescato trasformazioni rilevanti. Un

mutamento sostanziale delle relazioni di potere, capace di incidere sulla divaricazione tra sud e nord

del mondo non può però giungere soltanto da una trasformazione economica, perché richiede la

formazione di una nuova alleanza controegemonica. Nel testo Empire, Michael Hardt e Antonio

Negri hanno tentato di definire i contorni del nuovo paradigma di esercizio della sovranità, l’adozione

del termine impero testimonia l’emergere di una nuova forma di sovranità. Il nuovo paradigma si

definisce come una fabbrica di norme e una produzione di legittimità a lungo termine che ricoprono

l’intero spazio mondiale, si tratta di una struttura sistemica, dinamica e flessibile, articolata

orizzontalmente come la società di controllo descritta da Foucault, in cui emerge una forma di bio-

potere, che non si limita a disciplinare gli individui, ma punta a organizzarli nella totalità delle loro

attività, raggiungendo la profondità delle coscienze e dei corpi. La svolta verso il nuovo paradigma

(che esordisce nel 1991, con la guerra del Golfo) non determina la senescenza dello Stato, ma solo

un trasferimento di funzioni ad altri livelli. Hardt e Negri descrivono la costituzione imperiale come

una struttura piramidale, composta da tre piani, ognuno dei quali composta da vari livelli. Al primo

piano di questa piramide si trovano gli Stati Uniti, un numero limitato di stati nazionali, ma tutti sono

ordinati su tre livelli gerarchici. Al secondo piano si trovano le reti delle corporation capitalistiche

transnazionali e la gran parte degli stati, che svolgono una molteplicità di funzioni. In fine, al terzo

piano si trovano gli organismi che rappresentano gli interessi popolari, ossia tutte quelle

organizzazioni che sono parzialmente indipendenti sia dagli stati che dal capitale. La costituzione

imperiale deve essere intesa come un equilibrio instabile di corpi sociali. Il mercato mondiale è

concepito come ambito di produzione e riproduzione delle relazioni sociali capitalistiche. Molti critici

hanno messo in luce un limite, la carenza di basi empiriche per molte affermazioni: l’idea di una

progressiva diminuzione delle differenze tra primo e terzo mondo; la centralità assegnata al lavoro

immateriale nelle dinamiche produttive. Il lavoro di Hardt e Negri è segnato da catastrofismo.

Secondo Marx il modo di produzione capitalistico è una forma specifica di produzione di merci, e

cioè di beni destinati ad essere venduti sul mercato. Marx sintetizza il funzionamento nello schema

Merce-Denaro-Merce. La peculiarità del modo di produzione capitalistico consiste nel costante

accrescimento del valore. Lo schema che illustra la specifica logica del capitale è dunque Denaro-

Merce-Denaro, dove la differenza tra i due denari sta nel plusvalore, ossia l’incremento di valore

realizzato dal capitalista al termine del processo di produzione. È necessario l’incremento di valore

delle merci che può consentire la realizzazione del plusvalore. Il capitalista deve acquistare mezzi di

produzione e forza lavoro, quest’ultima costituisce il presupposto del modo di produzione

capitalistico: l’esistenza di forza lavoro richiede che ci sia una fascia di potenziali lavoratori liberi,

costretti a vendere la propria capacità lavorativa sul mercato; la forza lavoro costituisce la sorgente

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del plusvalore. Marx definisce i macchinari e i mezzi di produzione come capitale costante e la forza

lavoro come capitale variabile. Sono due gli elementi che possono incidere negativamente innescando

la crisi: è possibile che le merci prodotte non vengano effettivamente vendute sul mercato e ciò

scaturisce una condizione di sottoconsumo, in virtù della quale i beni prodotti risultano eccessivi. La

tendenza che conduce il sistema capitalistico verso la senescenza è rappresentata dalla caduta

tendenziale del saggio di profitto. Il capitalismo è destinato a erodere i margini di profitto degli

investimenti produttivi. Il saggio di profitto, definito come 𝑝 =𝑝𝑣

𝑐+𝑣, indica il peso che la quota del

plusvalore ha rispetto alla massa degli investimenti. Dato che Marx definisce il saggio di plusvalore

(𝑠1) come rapporto fra plusvalore e capitale variabile 𝑠1 = 𝑠

𝑣 e la composizione organica di capitale

(𝑞) come 𝑞 =𝑐

𝑐+𝑣, ne deriva che il saggio di profitto è 𝑝 = 𝑠1(𝑖 − 𝑞). Se s’ aumenta, cresce anche 𝑃,

mentre se 𝑄 aumenta, 𝑃 diminuisce. Dato che secondo Marx la composizione organica di capitale è

destinata ad aumentare il saggio di profitto deve assottigliarsi sempre più fino ad annullarsi.

Capitolo 5: Il costruttivismo. La rivalutazione delle idee nelle relazioni

internazionali

Con il costruttivismo ha luogo la svolta sociologica delle IR. La politica internazionale viene vista

come processo o insieme delle relazioni sociali in cui gli ideational factors (d’ora in avanti fattori

ideali) sono importanti quanto i fattori materiali, e in cui gli agenti sono importanti quanto la struttura.

I percussori classici del costruttivismo sono Durkheim e Weber. Il primo per la sua attenzione nei

fattori ideali della vita sociale, per Durkheim le interazioni sociali sono in grado di creare dei fattori

sociali. Per Weber gli esseri umani sono anche degli esseri culturali che si relazionano con il mondo,

gli attribuiscono senso e interagiscono sulla base del senso attribuito. Compito delle scienze sociali è

quello di interpretare il significato e il senso che gli attori sociali attribuiscono all’azione sociale. Il

metodo proposto da Weber è quello di Verstehen che prevede: una comprensione diretta dell’azione

analizzata dal punto di vista dell’attore, una comprensione esplicativa dell’azione all’interno di un

insieme di pratiche sociali, l’oggettivazione o reificazione. Sia Durkheim che Weber si concentrano

su fattori ideali, rigettano l’individualismo e ritengono che fattori ideali e materiali si condizionino

reciprocamente. Ci sono quattro filoni diversi che trattano il costruttivismo: il primo quello di Kant e

dei neokantiani, i quali sostengono che conoscere significa imporre le forme aprioristiche della nostra

mente sulle strutture della natura e della cultura. Un altro contributo di rilievo proviene

dall’ermeneutica soggettiva di Heidegger e Wittgenstein, che, sfidando il positivismo, mettono in

evidenza che i fatti sociali si costituiscono attraverso le strutture del linguaggio, quindi non possono

essere studiati se non così come mediati dal linguaggio. All’interno di questo filone si colloca Searle,

il quale mostra che “ci sono porzioni del mondo reale, che sono fatti soltanto sulla base dell’accordo

umano, esistono soltanto perché noi crediamo che essi esistano”. L’intenzionalità politica collettiva

è dunque in grado di produrre fatti sociali. Il terzo filone si rifà alla Scuola di Francoforte e ad

Habermas che promuove una teoria sociale dell’azione comunicativa e della democrazia deliberativa.

Il quarto ed ultimo filone sarà rappresentato da Weber e Durkheim, descritti inizialmente nel

paragrafo. Per comprendere le radici del costruttivismo è necessario analizzare il contesto nel quale

esso sorge, a seguito dei processi di decolonizzazione degli anni sessanta e settanta. Il contesto porta

a rendere centrale l’identità, e la nascita del costruttivismo è anche influenzata dalla fine della guerra

fredda, la quale pose l’accento al cambiamento. Ma sarà con la critica di Ruggie a Waltz che iniziano

a delinearsi una profonda insoddisfazione nei confronti del neorealismo dominante; Ruggie ritiene

infatti che il modello di spiegazione di Waltz sia incapace di prevedere ma anche spiegare la

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trasformazione del sistema internazionale. Ad essere criticati sono lo Stato-centrismo e le strutture di

identificazione, legittimazione ed interesse dello Stato stesso. Le critiche sono rivolte alla possibilità

del sistema di avere esistenza autonoma e indipendente negli elementi che la compongono. In ultima

analisi, secondo Ashley, il neorealismo finisce con il negare la politica. Anche Wendt mette in

discussione il neorealismo di Waltz sia dal punto di vista ontologico che epistemologico. Ad essere

contestati sono soprattutto gli assunti pre-teorici sui quali il neorealismo si fonda. Sotto il profilo

epistemologico, il problema consiste nell’adozione di un’epistemologia non esplicitata in base alla

quale la spiegazione delle strutture riguarda soltanto la restrizione delle scelte di agenti preesistenti.

Un’analisi storica è invece necessaria per spiegare come le condizioni strutturali che hanno reso

possibili le azioni statali siano emerse e si siano consolidate. Dal punto di vista ontologico,

l’approccio deve essere strutturazionista: gli elementi della struttura sociale non possono essere

concepiti né definiti indipendentemente dalla loro struttura; ma anche le strutture sociali sono

ontologicamente dipendenti e quindi costituite dalle pratiche degli agenti. Kratochwil si sofferma

invece sulle regole e sulle norme nelle relazioni internazionali. Si inizia a differenziare tra norme

regolative (che regolano le attività esistenti come il codice stradale) e le norme costitutive, che non

soltanto disciplinano un’attività, ma la rendono possibile (le regole di un gioco ad esempio). Le norme

influenzano le decisioni riducendo la complessità, per comprendere come gli attori attribuiscano

significato alle norme e come le norme siano comprese dagli attori. Il fuoco si sposta sulla

deliberazione e sulle argomentazioni usate per distinguere ciò che viene considerato come valido e

appropriato. Il costruttivismo ha messo al centro dell’analisi la costruzione sociale della realtà e la

reciproca costituzione di agente e struttura. Adler, distingue quattro varianti di costruttivismo: quello

modernista, modernista linguistico, radicale e infine critico. Il costruttivismo modernista si rifà più

direttamente a Weber e Durkheim, gli studiosi che appoggiano questa variabile di costruttivismo

ambiscono a svelare i meccanismi sociali casuali. Coloro che appartengono alla variabile linguistica

invece combinano un’ermeneutica soggettiva e un interesse nella spiegazione e comprensione della

realtà sociale. La variante radicale invece risulta dalla combinazione di una svolta linguistica radicale

e di un atteggiamento decostruttivista verso la conoscenza, qui la realtà è risultato di pratiche

discorsive. L’ultima variante è quella del costruttivismo critico, risultato della combinazione tra

ermeneutica oggettiva e interesse nei confronti degli effetti emancipatori della conoscenza.

L’interesse è quello di comprendere i meccanismi sui quali si basano gli ordini politici e sociali per

giungere all’emancipazione della società.

I diversi filoni del costruttivismo hanno in comune una ontologia in base alla quale il mondo sociale

è composto da strutture e processi dotati di significato. Gli attori, non sono indipendenti, ma

interagiscono con l’ambiente culturale nel quale si trovano immersi. Non esiste una realtà

oggettivamente indipendente, ma soltanto una conoscenza prodotta storicamente che mette gli

individui in grado di costruire e dare significato alla realtà. Ci sono dei fatti sociali come il denaro, i

governi o la sovranità che pur non esistendo materialmente, esistono perché noi crediamo che essi

esistano e adeguiamo i nostri comportamenti alla loro esistenza. La loro esistenza dipende dal fatto

che c’è un accordo più o meno esplicitato che i fatti sociali esistano. Dato questo, ne deriva che

l’interazione umana è plasmata da fattori ideali, non soltanto da quelli materiali e che i più importanti

fattori ideali sono convinzioni ampliamente condivise o “intersoggettive” le quali costituiscono gli

interessi e le identità degli attori. Le idee, intese come conoscenza collettiva istituzionalizzata,

rappresentano sia il mezzo che il motore dell’azione sociale e definiscono i limiti dell’azione.

Particolare interesse è rivolto alla comunicazione sociale che consente la diffusione di significati

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collettivi e consente agli agenti di fissare il significato della realtà materiale. Gli agenti selezionano

il significato tra una gamma di opzioni possibili e contribuiscono alla sua istituzionalizzazione.

Particolare attenzione viene dedicata alle “norme costitutive” ossia quelle regole che definiscono

l’insieme delle pratiche che compongono una particolare attività sociale organizzata, essa specifica

cosa realmente conta come attività. Questo tipo di regole non si limita a specificare un tipo di

comportamento, ma gli attribuisce senso e lo rende possibile. Esse rappresentano il fondamento della

vita sociale, perché in loro assenza il comportamento risulta privo di senso e quindi di effetto. Questo

per Wendt significa che “le idee contano sempre, dal momento che il potere e l’interesse non hanno

effetti indipendentemente dalla conoscenza condivisa che li costituisce in quanto tali. Da quanto detto,

emerge che la costituzione reciproca di agente e struttura rappresenta un altro elemento caratterizzante

del costruttivismo. Le azioni, contribuiscono a definire le istituzioni e i significati condivisi della

struttura, ma le istituzioni e i significati condivisi contribuiscono a definire gli attori e le strutture

influenzano le proprietà degli agenti, arrivando a costituirne identità e interessi. Gli stati adattano il

loro comportamento per conformarsi alle regole esistenti, ma cercano anche di interpretare, e quindi

ridefinire, le regole esistenti in modo da far sì che il proprio comportamento sia legittimato.

L’attenzione nei confronti del cambiamento costituisce un altro aspetto che caratterizza l’approccio

costruttivista. Il cambiamento può riguardare le regole costitutive, l’evoluzione e la trasformazione

delle strutture sociali. Cambiamenti nei fattori ideali possono quindi condurre a cambiamenti sia negli

attori sia nella struttura. Ruggie dimostra che il multilateralismo promosso negli USA in quanto stato

egemone è dovuta non al fatto che il sistema fosse egemonico bensì al fatto che lo stato egemone

fossero gli USA. Un’innovazione che è stata permessa dal cambiamento normativo riguardante la

norma di legittimità procedurale. Alcuni meccanismi del cambiamento sono stati individuati

nell’apprendimento collettivo, nell’evoluzione cognitiva, nel cambiamento epistemico e nel ciclo di

vita delle norme. Altro aspetto centrale nello studio del costruttivismo è che gli interessi non esistono

oggettivamente e non dipendono esclusivamente dalla distribuzione di potere, ma sono socialmente

costruiti sulla base delle idee e dei contesti culturali. Più importante della distribuzione del potere nel

sistema è la distribuzione delle idee, e quindi degli interessi. L’effetto prodotto può essere compreso

soltanto se prima si comprende l’interazione tra fattori materiali e ideali. Il costruttivismo, non nega

che siano gli interessi a guidare gli stati e che questi siano spesso egoistici, ma mette in evidenza che

essi sono costituiti soltanto in parte dai fattori materiali e per il resto da idee condivise e cultura. Gli

interessi sono essi stessi idee o schemi, che sotto forma di convinzioni o obiettivi, rendono possibile

l’identificazione di oggetti ed eventi. Tutti questi sono schemi e funzioni di percezioni culturalmente

costituite, non sono il risultato di fattori materiali. Gli interessi si costituiscono sulla base delle

interazioni con gli altri attori e con l’ambiente sociale, attraverso processi di socializzazione e di

interiorizzazione, ma gli interessi possono cambiare nel tempo. È attraverso il linguaggio infatti, che

vengono costruiti significati intersoggettivi. È attraverso il linguaggio che la realtà può essere

percepita e costruita. Dietro un enunciato, può essere presente un’intenzione, l’esistenza di dispositivi

simbolici come le parole simbolizzano qualcosa al di là di sé, così da rendere il linguaggio essenziale

per la costruzione di una realtà istituzionale. La doppia ermeneutica è una metodologia basata

sull’interpretazione dell’interpretazione. Se, l’attribuzione di senso è un’operazione importante nella

politica internazionale, vi è consapevolezza che esistono due momenti interpretativi da prendere in

considerazione: al livello dell’azione e al livello dell’osservazione. Nel primo, gli attori attribuiscono

senso all’azione; nel secondo, gli osservatori cercano di stabilire i significati delle pratiche che

osservano sulla base di premesse analitiche. In comune i costruttivisti hanno la consapevolezza che

per individuare i processi causali occorre prima la pratica interpretativa, che consente di scoprire i

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significati intersoggettivi, e che non esiste un punto di vista neutrale dal quale acquisire una

conoscenza oggettiva. I costruttivisti affermano di essere giunti a interpretazioni logiche ed

empiricamente plausibili di azioni, eventi o processi e si appellano all’evidenza che sostiene le loto

affermazioni, ma ammettono anche che le loro affermazioni sono sempre interpretazioni contingenti.

Altro aspetto comune è che, visto che le idee costituiscono le situazioni sociali e il significato delle

forze materiali, i costruttivisti sono più interessati alla costituzione che alla casualità e dunque

tendono a chiedersi non il perché o il come delle cose, bensì il come è possibile di talune cose.

L’anarchia è centrale nell’analisi di Wendt, per lui non è l’anarchia del sistema a produrre le politiche

di potenza e di self-help che portano alla competizione militare, come sostenuto dai neorealisti. Al

contrario, se gli Stati si trovano in un sistema basato sul self-help, è a seguito delle pratiche che hanno

adottato. Per Wendt, l’anarchia è un recipiente vuoto che acquisisce una logica soltanto in funzione

della struttura di ciò che viene versato dentro. Occorre quindi concettualizzare la struttura ma in

termini sociali; gli Stati agiscono sulla base delle idee che hanno circa la natura e i ruoli propri e degli

altri stati. L’esistenza di idee condivise, non comporta automaticamente ad una cooperazione. Per

Wendt esistono più culture dell’anarchia a seconda di quale tipo di ruoli domina il sistema. Pur

rimanendo anarchico, il sistema può quindi essere hobbesiano, lokeano o kantiano. La cultura

hobbesiana si basa sulla rappresentazione “dell’altro” come nemico: la violenza può essere limitata

soltanto dalla carenza di disponibilità materiali o dalla presenza di un Leviatano, ossia di un potere

sovrano. La rappresentazione dell’altro come nemico ha quattro implicazioni: gli stati agiranno come

se avessero interessi revisionisti e quindi cercheranno di distruggersi a vicenda, i processi decisionali

tenderanno ad essere orientati verso gli scenari peggiori, le capacità militari saranno viste come

cruciali, in guerra non ci saranno limiti alla violenza. Per Wendt però, il sistema moderno degli stati

è lockeano, visto che i piccoli stati abbondano e le guerre interstatali sono rare. La logica di Locke

del vivi e lascia vivere, ha dunque rimpiazzato la logica hobbesiana di uccidi o sarai ucciso. Il rivale,

infatti riconosce la sovranità come un diritto. Questo comporta l’aspettativa che uno stato non

minaccerà l’esistenza dell’altro. La rappresentazione dell’altro come rivale ha quattro implicazioni:

gli stati devono agire per il mantenimento dello status quo, i tempi decisionali sono più lunghi, le

minacce non sono esistenziali e si può avere fiducia negli alleati, i rivali in caso di guerra limiteranno

la propria violenza. Come nel caso precedente, la rivalità è una rappresentazione collettiva, che fa si

che gli stati attribuiscono agli altri intenzioni sulla base di ciò che si aspettano che gli altri stati

facciano. In certi periodi e in certe aree tra le quali quella atlantica della seconda guerra mondiale,

per Wendt si è manifestata anche la cultura kantiana, basata sulla struttura di ruolo dell’amicizia e per

la quale gli stati si aspettano che tutti osservino due regole; le dispute si compongono senza violenza,

e in caso di minaccia, tutti gli altri interverranno insieme. Questo porta all’affermazione di comunità

pluralistiche di sicurezza e della sicurezza collettiva. Se le norme della cultura kantiana sono

interiorizzate al minimo, deterrenza o sanzioni sono sufficienti a spingere al rispetto; nel grado

intermedio gli stati rispettano le norme per interesse individuale, nel grado massimo di

interiorizzazione, gli stati finiscono con l’accettare quelle norme come legittime e per comportarsi

come “noi”. Questo dimostra che non esiste una logica dell’anarchia che deriva dalla distribuzione di

potere materiale. Ciò che deriva dall’esistenza dell’anarchia, deriva dai soggetti che operano al suo

interno e dalla struttura delle loro relazioni. Per altri costruttivi, è possibile che si vengano a costruire

delle strutture di autorità. Come sostiene Ruggie nel tempo schemi di comportamento finiscono con

l’incarnare elementi di autorità e questo è avvenuto anche a livello internazionale. Ruggie sottolinea

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che la volontà di sottoporsi alla necessità di sistemi cooperativi crea autorità, un regime che promuove

gli interessi degli attori crea un senso di obbligazione; questo porta a conformarsi alle norme, si è

dunque in presenza di autorità. Questa autorità è una struttura trans-ordinata ma è comunque autorità.

L’autorità legittima si basa su obiettivi sociali condivisi. L’autorità è “l’abilità dio un attore di usare

risorse istituzionali e discorsive per indurre deferenza negli altri”. Quando gli stati riconoscono una

regola, un’istituzione o un attore come aventi diritto a prendere decisioni, dobbiamo riconoscere che

esiste autorità piuttosto che anarchia. L’autorità è dunque una relazione sociale, che esiste quando gli

attori credono che le strutture incarnino potere legittimo e che agiscano in modo da rinforzare questo

potere. Le comunità pluralistiche di sicurezza descritte da Adler e Barnett rappresentano

un’applicazione del terzo tipo di logica dell’anarchia identificata da Wendt. Sulle comunità di

sicurezza, sui gruppi talmente integrati da avere reali garanzie che i membri delle comunità

riusciranno a comporre i propri conflitti non facendo ricorso all’uso della forza. Queste sono

caratterizzate da istituzioni comuni, valori fondamentali compatibili e sensibilità reciproca che

derivano da identità e lealtà reciproca e senso del “noi”. Le identità dei membri della comunità

mutano, portano alla ridefinizione degli interessi. Ciò che gli interessi statali sono o diventano e il

significato ed il fine del potere acquisiscono forma all’interno di una struttura normativa che emerge

ed evolve a causa delle azioni ed interazioni degli attori statali e non statali. Le aspettative di

cambiamento pacifico esistono anche in assenza di un’alleanza formale grazie al fatto che l’ambiente

sociale ha creato identità condivise, obiettivi comuni. La rivisitazione delle comunità pluralistiche di

sicurezza di Adler e Barnett prevede tre livelli. Il primo livello è composto dalle condizioni che

incoraggiano gli stati a coordinarsi (ad esempio una minaccia esterna), il secondo livello è composto

da fattori strutturali e dal processo. Potere e conoscenza sono i fattori strutturali di base. Il potere va

però inteso come l’autorità di determinare i significati, il senso del “noi”. La conoscenza è parte della

struttura internazionale perché fornisce le strutture cognitive, ossia i significati e il senso condiviso.

Il terzo livello è quello in cui si sviluppa la fiducia reciproca e in cui si formano le identità collettive.

Nella fase di maturità della comunità sono infatti presenti procedure decisionali consensuali, i confini

vengono demilitarizzati. La creazione di comunità di sicurezza non comporta l’abolizione dell’uso

del potere; quello che viene escluso è ricorso all’uso della forza. Le norme sono soggette a

interpretazione e a risolvere i conflitti pacificamente, non a evitarli. L’esempio più noto di comunità

pluralistica di sicurezza è nella regione atlantica tra USA e Europa occidentale e che include anche

Canada e Australia. Qui sono riscontrabili alcuni degli identificatori fissati da Adler e Barnett: le

procedure decisionali tendono ad essere consensuali, i piani militari dei membri non sono cambiati

perché uno di essi viene considerato una potenziale minaccia militare, le minacce tendono ad essere

definite in comune, è presente una sicurezza collettiva e cooperativa.

L’attenzione deve essere prestata ai meccanismi che possono portare al cambiamento. Tra quelli

identificati dai costruttivisti particolare rilievo assumono il ciclo delle norme e l’evoluzione cognitiva.

Il ciclo delle norme è stato studiato da Finnemore e Sikkink. Il cambiamento nelle idee e nelle norme

intese come “standard di comportamento “appropriato per attori con una data identità costituisce il

fattore principale per la trasformazione del sistema. Nella prima fase la presenza di un imprenditore

di norme risulta importante per l’emersione di una norma. Le norme sono, infatti costruite da agenti

che hanno un forte senso di ciò che è appropriato per la comunità. Spesso dovranno mettere in

discussione lo standard e la logica di ciò che fino a quel momento veniva considerato appropriato. È

attraverso la piattaforma organizzativa che l’imprenditore di norme si assicura il sostegno degli stati

spesso attraverso la persuasione. Nella seconda fase, quella della cascata, sempre più paesi adottano

la nuova norma. Il meccanismo per la promozione è quello della socializzazione: essa implica che

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nuovi stati sono indotti a cambiare il proprio comportamento attraverso l’adozione delle norme

preferite, e sono indotti a farlo attraverso l’apprezzamento o la censura diplomatica. In questa fase,

gli stati si adeguano alle norme per rafforzare la propria identità come membri di una società

internazionale, dovuta alla volontà di essere legittimati internazionalmente. Nella terza fase, le norme

sono talmente accettate da essere interiorizzate dagli attori fino a diventare scontate. Stati che cercano

di migliorare il loro status o la loro reputazione tenderanno ad adottare le nuove norme e ad adeguarsi.

Norme adottate da stati visti come modelli di successo nel campo economico, culturale e militare

hanno più probabilità di essere adottati da altri stati. È più probabile che una nuova norma sia più

convincente se si riesce a legarsi al quadro normativo esistente. In momenti quali guerre o depressioni,

è più probabile che le vecchie norme siano screditate. Altro meccanismo di cambiamento di rilievo è

quello dell’evoluzione cognitiva descritto da Adler. È un processo di apprendimento collettivo

attraverso il quale le idee innovative sopravvivono a un processo di selezione politica e

istituzionalizzazione, e quindi diventano il fondamento di nuove pratiche internazionali. Adler

definisce l’apprendimento come il processo di adozione da parte dei decisori politiche di nuove

interpretazioni della realtà. L’evoluzione cognitiva si compone di tre processi: innovazione, selezione

e diffusione. Nel processo di innovazione individui all’interno di strutture istituzionali creano nuovi

significati e interpretazioni. Una volta condivise, si ha l’acquisizione di nuove aspettative e valori.

Durante la selezione, gli attori, le strutture determinano quali aspettative e valori trasformare in

politiche. Durante la diffusione, si viene a costituire una convinzione comune a livello internazionale

e iniziano a condividere aspettative e valori. Individui e istituzioni si trasmettono aspettative e calori.

A essere discussione è la struttura cognitiva che influenza il senso del giusto e dello sbagliato, crea i

significati intersoggettivi. I decisori politici adottano nuove interpretazioni della realtà, che sono

rilevanti non tanto nella misura in cui sono vere, quanto nella misura in cui sono condivise. L’idea

selezionata non è necessariamente la migliore o la più efficiente ma soltanto quella che ha più

successo.

Tra i cambiamenti normativi rientrano l’uso della forza. L’analisi di Finnemore tocca un aspetto

cruciale della politica internazionale, egli porta avanti uno studio dell’intervento militare chiedendosi

come i cambiamenti in questo settore così cruciale siano stati possibili, individuano la principale

ragione delle trasformazioni nelle patiche di intervento nel cambiamento normativo piuttosto che in

cambiamenti materiali. Un primo cambiamento di rilievo riguarda l’erosione del valore normativo

dell’uso della forza in politica internazionale: mentre nei secoli passati la guerra veniva vista come

un’attività onorevole, nel corso degli ultimi tre secoli ha perso questo attributo. Oggi la guerra è

considerata un male. Su questo, per Finnemore ha inciso la diffusione della norma dell’eguaglianza;

eguaglianza in termini di diritti umani e in termini di stati ugualmente sovrani. A cambiare è anche la

modalità di intervento. Nel XIX secolo l’intervento umanitario poteva non essere multilaterale. A

partire dal XX secolo invece, che l’intervento sia multilaterale è considerato necessario per

giustificare l’azione. Tutto ciò ha spinto gli stati a non intervenire con la forza per motivi territoriali

e a preferire la stabilità, ma anche a individuare nelle politiche interne la forma principale di un

intervento militare. Finnemore individua i meccanismi del cambiamento in questa aerea a livello

collettivo e a livello individuale. A livello collettivo meccanismi rilevanti sono la coercizione, ma

anche le istituzioni internazionali e il diritto e i movimenti sociali. A livello individuale rilevanti sono

la persuasione e l’azione comunicativa. Il cambiamento più rilevante è costituito dalla quasi

estinzione delle guerre tra Stati, ma che parallelamente si è verificato un incremento dei conflitti

interni.

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Il costruttivismo si è affermato occupando un terreno di mezzo tra strutturalismo ed individualismo e

tra materialismo e idealismo. Il successo è dato dal fatto che ha costretto a una maggiore attenzione

verso i fattori ideali. Il costruttivismo non è ancora giunto alla formulazione di una teoria in grado di

offrire previsioni su regolarità e tendenze della politica internazionale e quindi non ha portato al

definitivo superamento delle teorie esistenti. Un'altra criticità riguarda il fatto che il costruttivismo si

è sviluppato molto in Europa che in America.

Capitolo 6: Il postmodernismo e le relazioni internazionali

Il termine “postmoderno” si colloca in antitesi e in successione temporale rispetto a qualsiasi punto

di vista o di impostazione che possa essere definito dalla modernità. Più nello specifico, da approcci

struttural-funzionali o da quello dell’individualismo metodologico, in particolar modo nella forma

della scelta razionale. Il clima culturale generale tendeva a sottolineare l’importanza dei punti di vista

particolari e della decostruzione delle teorie. Il colpo definitivo è stato portato dalla fine della guerra

fredda, che ha dimostrato le difficoltà delle teorie correnti a render conto di un rilevante mutamento

nella politica internazionale. L’esigenza di un maggior rigore metodologico, ha posto l’accento, nelle

IR, sull’aspetto della spiegazione rispetto a quello della comprensione. Questa differenza fu per la

prima volta tematizzata da Max Weber. La spiegazione si propone di mettere in evidenza una

concatenazione di cause ed effetti, così come viene fatto nelle scienze della natura, in modo da rendere

conto di certi eventi nell’ambito sociale, nel nostro caso nell’ambito dell’IR. La comprensione,

invece, si propone di affrontare e di mettere in evidenza anche le motivazioni dell’agire sociale. Il

postmoderno, conduce verso un soggettivismo e un relativismo estremi. Questo relativismo muove

da un’interpretazione radicale del pensiero di Wittgenstein. Dato che conosciamo il mondo solo

attraverso il linguaggio, il tentativo di comprendere le motivazioni degli attori, ci porta ad avvitarci

in un circolo vizioso interpretativo. Infatti, ogni tentativo di comprendere le motivazioni dell’agire

sociale di altri soggetti può essere costituito soltanto da un’interpretazione di ciò che questi stessi

soggetti ci comunicano attraverso le loro espressioni verbali o scritte. Secondo i postmoderni non

possiamo né conoscere il mondo indipendentemente dal linguaggio, né formalizzare il linguaggio

naturale senza snaturarlo del tutto.

Le fonti intellettuali del postmoderno sono Nietzsche, Wittgenstein, Foucault. Nietzsche opera una

critica radicale di tutte le ideologie o costruzioni sistematiche, egli rinuncia a tutto e volge il “pungolo

del sapere verso se stesso”; possiamo considerare Nietzsche come un autore antisistematico in cui

emerge una demolizione totale e grandiosa delle ideologie. Dal punto di vista politico il nazionalismo,

e in particolar modo quello tedesco, gli sono invisi, a causa di una visione estetica della vita, non

certo per pacifismo. Due opere importanti di Nietzsche sono “Umano troppo umano” in cui vengono

demoliti i valori assoluti della conoscenza e della verità e “La genealogia della morale” in cui esamina

le vere o presunte origini della morale. Proprio in quest’ultima opera emerge ci che differenzia

Nietzsche dai postmoderni: il suo cercare di disvelare qualcosa che sta dietro alla morale, sulla cui

genealogia elabora la teoria dei “ressentiment” (la morale come risultato del risentimento dei più

deboli contro i più forti). Mentre Nietzsche aspira al disvelamento, i postmoderni diffidano di ogni

tipo di impresa interpretativa. I contributi di Foucault che hanno più influito sulle IR sono costituiti

dalla ricostruzione archeologia del sapere, della critica delle istituzioni totali e dalla teoria del potere.

La prima tematica mira a individuare i punti di riferimento generali ed epistemici del pensiero in una

certa collocazione storica e culturale: se si vuole intraprendere un’analisi archeologica del sapere,

bisogna ricostruire il sistema generale del pensiero in cui la rete rende possibile un gioco di opinioni

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simultanee e contradditorie. È questa rete che definisce le condizioni di una possibilità di dibattito.

Questo programma è stato definito da Habermas “smascheramento critico-razionale delle scienze

umane”, ossia la ricostruzione della formazione di metodi e concetti ormai ossificati nella pratica

delle scienze umane. In Foucault, si mette in evidenza il carattere di controllo, uniformazione e

dominio che hanno la teoria e la pratica carceraria a partire dall’illuminismo, con la fine della

punizione come risposta all’affronto verso il sovrano, come l’esempio del “Panoptikon”, un progetto

di carcere ideato da Jeremy Benthan in cui ogni singolo atto del detenuto era controllabile da un luogo

di osservazione centrale. Il Panoptikon diviene metafora perfetta di un potere che controlla la vita dei

cittadini. Successivamente vi è Jean-François Lyotard sostenitore della condizione postmoderna: la

fine delle grandi narrazioni, cioè l’impossibilità di comprendere l’intera realtà storica con un’unica

teoria, che viene considerata come un’unica narrazione, un racconto, un particolare punto di vista.

Poi vi è Jaques Derrida, associato invece alla pratica della decostruzione; secondo lui il problema

fondamentale è che il manoscritto del mondo non è mai esistito, esistono solo le sue tracce,

quest’ultime oramai scomparse, cancellate. Ogni testo si riferisce a se stesso e ad altri testi in reciproci

rapporti di commento, di interpretazione, di reinterpretazione in contesti differenti. Il mondo sociale

potrebbe essere quindi letto come un testo: i processi con cui si costruisce la realtà sociale sono simili

a quelli con cui si costruisce un testo. Dunque, un discorso o un testo vanno intesi come un processo

che ha luogo in un contesto culturale e storico rispetto al quale ha significato.

Uno dei compiti che per primo si è proposto il postmodernismo nelle IR è stato la decostruzione di

questa autorappresentazione e la rilettura sia dei classici sia di quei testi del pensiero politico e

filosofico posti alla base delle varie tradizioni o paradigmi interpretativi. In particolare i postmoderni

sono partiti da Tucidide a Machiavelli fino a Carr e Mongenthau. Questi autori vengono tolti dalla

loro ossificazione e restituiti alla loro collocazione storica. Ricollocare gli autori nel quadro dei

problemi e dei dibattiti del loro tempo ha significato. Ad esempio, si vedrà in Tucidide non solo il

precursore della dinamica del potere, ma anche un autore che analizza l’importanza delle decisioni

individuali, la dinamica dialogica, la definizione della buona condotta nella politica interna alla Polis.

In Machiavelli, si ricercherà il politico e il pensatore che si è poso il problema di come costituire uno

Stato e di come studiarne le cause di grandezza ed espansione, nonché decadenza. Carr invece, tratta

un’opera in cui egli si propone al lettore come punto mediano di equilibrio tra utopismo e un tipo di

realismo rigido. Durante l’ascesa della Germania, Carr pensava che si dovessero soddisfare alcune

esigenze della Germania per poterne placare gli appetiti espansionistici; Carr non nascondeva le sue

simpatie per l’Unione Sovietica. Più difficile per è la posizione dei postmoderni nei confronti di Hans

Morgenthau, in cui viene messa in evidenza la sua duplicità tra dichiarazioni positivistiche da una

parte ed eredità legate alla comprensione weberiana dall’altra. Morgenthau da una parte cerca di

comprendere le motivazioni dell’uomo di Stato, dall’altra invece intende costruire una teoria

scientifica governata da leggi oggettive. Questi due aspetti sono definiti “realismo pratico” e

“realismo tecnico”. Una parte importante della critica postmoderna è quella rivolta al concetto di

anarchia. Ashley chiama questa pratica “pratica eroica”, che si fonda su un’opposizione

sovranità/anarchia, in cui al primo termine viene data una valutazione positiva, al secondo una

negativa. L’anarchia è pertanto la caratteristica di un dominio problematico da portare sotto il

controllo di un centro sovrano, che riduce all’ordine tale ambito anarchico. D’altra parte, per parlare

di anarchia è necessario partire da qualche cosa, e questo qualcosa è lo Stato, che è difficile da

definire. Questa difficoltà è data dai problemi insiti nella determinazione del principio di sovranità,

che ha sempre due aspetti, quello interno e quello esterno. Si hanno così due possibilità: una lettura

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monologica che offre una versione univoca della realtà e una lettura dialogica che porta al confronto

reciproco di narrazioni diverse. Nella lettura monologica la dicotomia tra anarchia/sovranità non

ammette né terze possibilità né zone d’ambiguità. Al contrario, il modello interpretativo del dialogo

dà la precedenza alla pratica rispetto alla struttura e al movimento storico rispetto alla stasi.

Decostruendo la lettura monologica, si pone in evidenza come l’approccio realista, caratterizzato da

questo tipo di lettura, tende a costruire barriere e a porre separazioni rigide tra sovranità e anarchia.

Per questo Ashley e Walker propongono di guardare le IR da molteplici punti di vista ed elencano

una serie di figure sottoposte a una tensione che spinge a poter assumere rispetto alla realtà sociale

diverse ottiche e anche tra loro in conflitto. Tra queste, ad esempio, il lavoratore disoccupato. Il

maggior problema del liberalismo secondo i postmoderni, risiede nella mancata considerazione delle

differenze e della loro non eliminabilità. Quanto al primo aspetto, la differenza veniva eliminata

all’interno e spostata alle relazioni tra gli Stati. Collocare la diversità al di fuori di confini, impedisce

di identificarla all’interno delle nostre società. Il maggior problema del liberalismo, sta anche nel suo

carattere non critico, che lascia prevalere la reale necessità di presentarsi come un liberalismo

“robusto”, cioè capace di confrontarsi con le dure realtà della politica. Il liberalismo propone

un’eguaglianza politica nei fatti limitata; a questa corrisponde anche una grande diseguaglianza

economica, la realtà delle relazioni economiche.

Capitolo 7: International Political Economy: Stati, mercati e potenze emergenti

nell’età della globalizzazione La International Political Economy (IPE) è un settore di studio che ha subito un profondo processo

di trasformazione in cui convivono oggi approcci stratificati ed eterogenei; è una sotto-disciplina delle

IR attraversata da domande su due principali temi: il ruolo delle dinamiche economiche per spiegare

i rapporti fra Stati e i loro mutamenti; la relazione fra Stati e mercati, politica ed economia, politici e

capitalisti, declinata in chiave internazionale. Il rapporto fra politica ed economia si spiega attraverso

le tre principali paradigmi classici: mercantilismo, liberalismo e marxismo.

L’IPE emerge come tentativo di integrare aspetti economici in una letteratura sulla politica

internazionale; rappresenta un filone a sé, che risente di influenze eclettiche e che, si è costantemente

e notevolmente sviluppato e diversificato. È utile ricostruire le origini dell’IPE iniziando dal contesto

internazionale in cui queste teorie presero forma. Il sistema economico che emerge alla fine della

Seconda guerra mondiale è il portatore di due istanze diverse, una politica ed una economica. E’

necessario costituire il versante economico dell’egemonia politico-militare americana sul mondo

occidentale. Questo porta ad un nuovo sistema, quello di Bretton Woods, che precede la fine del

conflitto e all’acuirsi della contrapposizione bipolare. Il sistema istituzionale che emerge è fondato

su tre pilastri. Il primo, a livello monetario, è la costruzione di un sistema fondato sul dollaro come

moneta di transazione e di riserva dell’economia internazionale. Le altre monete erano legate al

dollaro tramite un sistema di tassi di cambio fissi in cui il dollaro poteva essere scambiato con l’oro

un valore prestabilito. Questo regime monetario internazionale, avrebbe permesso di evitare gli effetti

negativi rispetto alle speculazioni competitive delle monete. Il secondo elemento è rappresentato dalle

nuove istituzioni internazionali, in primis il Fondo monetario internazionale (FMI). Il ruolo dell’FMI

è di costituire la fonte di finanziamento di ultima istanza in situazioni di crisi di paesi

momentaneamente incapaci di far fronte ai pagamenti internazionali e di mantenere, dunque, la

stabilità dei tassi di cambio. Consci che costruire un ampio mercato a livello mondiale costituiva la

priorità per la ricostruzione dell’Europa, i fondatori del sistema di Bretton Woods avevano pensato a

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un’altra istituzione: la Banca mondiale. Il terzo fondamento del nuovo sistema è il GATT (General

Agreement on Trade and Tariffs), accordi finalizzati alla costruzione di uno spazio mondiale di libero

commercio. Questi tre pilastri sono accomunati da una filosofia su cui il sistema si basava: quello del

cosiddetto embedded liberalism cioè un liberalismo ancorato, guidato. Le ancore erano due. Da un

punto di vista teorico, il liberalismo era istituzionalizzato, legato alla presenza di organizzazioni

internazionali che miravano a controllare le fluttuazioni eccessive di un mercato non regolato e a

evitare che gli Statu agissero da soli mettendo in moto effetti perversi. L’egemonia americana

costituisce l’effettivo ancoraggio di questo sistema. Stabilità monetaria, credibilità ed efficacia

dell’azione di istituzioni internazionali, erano possibili grazie alla presenza di un attore in posizione

di superiorità rispetto agli altri. Come notava Charles Kindleberger, tutto ciò consentiva di evitare la

spinte centrifughe, minimizzando i conflitti fra le parti e garantendo così la stabilità e il buon

funzionamento del sistema. Si parla di teoria della stabilità egemonica. Lo sviluppo economico

trasforma paesi agricoli in potenze industriali e permette la ricostruzione di un tessuto industriale

devastato dalla guerra. In Europa, ricostruzione e crescita economica si muovono in parallelo con il

processo d’integrazione e costruzione di istituzioni comuni. La CECA prima e le Comunità europee

dopo, rappresentano passi straordinari di un processo integrativo dei mercati che riproduce il modello

internazionale di Bretton Woods. Dal punto di vista economico, questo processo ha un feedback

positivo sulla crescita dei paesi coinvolti. Dagli anni settanta si assiste a una crisi originata anche da

debolezze strutturali dell’economia americana; in particolare un aumento dell’inflazione legato alle

spese pubbliche e militari contribuisce a trasformare gli Stati Uniti nel grande debitore del sistema

internazionale. Dopo la crisi degli anni settanta, vi fu il mutamento di equilibri politici ed economici

internazionali. Tre appaiono di particolare rilevanza. La fine del regime di Bretton Woods mette in

discussione l’egemonia americana e sembra prefigurare un sistema economico internazionale non

dominato e gestito da un solo attore ma più interdipendente. In secondo luogo, l’ascesa di nuove

potenze economiche impone un ripensamento tematico nelle IR. Questo avviene in due forme: da un

lato, si conferma la necessità di pensare oltre l’egemonia americana, guardando alle trasformazioni

del sistema economico internazionale di fronte all’ascesa di nuovi attori; dall’altro sembra che si

assista a una divaricazione fra ricerca del potere e della ricchezza. Il terzo elemento è la crisi

petrolifera che mette in risalto le nuove potenzialità di sfruttamento a fini politici di strumenti

economici. Di fronte al sostegno occidentale a Israele nel conflitto con Siria ed Egitto del 1973, i

paesi arabi produttori di petrolio proclamano un embargo alle loro esportazioni, causando un

innalzamento del prezzo del petrolio e una pesante recessione nelle economie sviluppate dipendenti

dal petrolio. Anche in questo caso, il problema che emerge per le IR è duplice. Da un lato si tratta di

tenere in considerazione che il nuovo assetto politico-economico internazionale è influenzato da attori

che non fanno parte del Primo mondo. Dall’altro la trasformazione è legata a un fattore di tipo

economico che rappresenta un vero e proprio strumento delle politiche degli Stati nell’arena

internazionale. È in questo contesto di crisi e trasformazioni che emerge l’esigenza di individuare

dimensioni analitiche in grado di cogliere sia le specificità del sotto-sistema economico nell’ambito

del sistema internazionale sia i collegamenti fra questi due livelli. In particolare, questo tentativo si

può rintracciare nell’opera dello studioso Robert Gilpin che ricostruisce i tre paradigmi fondamentali

del rapporto tra politica ed economia: mercantilismo, liberalismo, marxismo.

Gilpin crea una tripartizione che costituisce il punto di partenza condiviso nella ricostruzione di cos’è

l’IPE. I tre paradigmi differiscono fra loro sulla base delle due principali dimensioni d’analisi della

disciplina nel suo rapporto con le IR: il rapporto fra politica ed economia e l’outcome o l’effetto in

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termini di cooperazione/conflitto nelle relazioni fra Stati. Il mercantilismo è basato sull’idea che

l’obiettivo dell’azione degli Stati, sia l’aumento della potenza nazionale. Secondo i mercantilisti

l’accumulazione di ricchezza da parte di uno Stato non è tanto un fine in sé quanto un mezzo per

l’acquisizione di maggiore potere. È possibile rintracciare la teoria del mercantilismo nella

produzione di Friedrich List. Egli sosteneva l’importanza per i governi di stimolare lo sviluppo di

un’industria manifatturiera nazionale, anche attraverso la creazione di barriere al commercio

internazionale. È facile intuire il rapporto tra realismo e mercantilismo. Del realismo il mercantilismo

condivide la visione essenzialmente e naturalmente conflittuale della politica internazionale, la

centralità che i rapporti di forza hanno nelle interazioni fra Stati e l’idea della centralità dello Stato

come attore. Nella visione mercantilista dell’IPE la politica e lo Stato sono sovraordinati rispetto a

economia e mercato: a livello internazionale gli agenti economici sono in ultima istanza dipendenti

dalle azioni degli Stati. Gli Stati creano le condizioni politiche affinché le imprese possano

commerciare. Buone relazioni fra Stati costituiscono un importante elemento di cui le imprese

tengono conto nella valutazione dei rischi connessi alle proprie attività estere. Non è un interesse

economico condiviso a creare le basi della cooperazione, ma sono le buone relazioni fra Stati che

generano l’interscambio. Inoltre, gli Stati possono usare le imprese multinazionali come strumento

della loro politica estera e favoriscono la nascita di industrie in settori strategici e ne difendono lo

sviluppo proteggendole dalla competizione internazionale. Nelle teorie liberali dell’IPE si assiste a

un ribaltamento delle prospettive rispetto al mercantilismo. Queste teorie sono legate alle tesi della

scuola economica scozzese, emerse con Adam Smith e con David Ricardo. Gli economisti scozzesi

ritenevano che il commercio internazionale libero permettesse l’accrescimento del benessere degli

Stati in esso coinvolti. Il meccanismo è noto come vantaggio comparato: due paesi che commerciano

fra loro tenderanno a specializzarsi nella produzione del bene nel quale sono più produttivi. Lo

scambio internazionale permette di evitare di disperdere risorse nella produzione di beni. L’apertura

dei mercati permette di allargare la frontiera in termini di consumi perché aumenta l’efficienza nella

produzione e nell’allocazione dei beni. Nella politica internazionale, per uno Stato i vantaggi in

termini di arricchimento legati al commercio con altri Stati sono tali che ogni atto ostile che

minacciasse la stabilità delle interazioni economiche con i propri partner commerciale sarebbe

totalmente irragionevole. Nel liberalismo l’economia ha la primacy sulla politica, il benessere

economico è un fine autonomo e principale. Questa primacy si denota dal fatto che la natura della

politica internazionale impone agli Stati di guardare ai guadagni che possono derivare da

un’interazione con altri Stati solo in modo relativo. Il vantaggio che deriva dallo scambio è tale se si

guadagna più degli altri. Nell’ottica liberale i guadagni sono visti anche in maniera assoluta: se

entrambe le parti si avvantaggiano da un’interazione, la relazione è proficua e la cooperazione da

perseguire. Come nota Albert Hirschman, il principale problema delle teorie liberali è il sottovalutare

le relazioni di influenza e dipendenza che emergono da una struttura del commercio non simmetrica.

Nella visione liberale il ruolo dello Stato nell’economia resta limitato. La prevalenza dell’economia

sulla politica vuol dire meno conflitto perché meno politica vuol dire, meno politica di potenza. Esiste

un terzo elemento tipico delle teorie liberali e che consiste nell’idea che l’ordine emerga e si mantenga

in maniera spontanea: per gli economisti liberali classici il sistema è naturale e l’ordine emerge come

il portato delle scelte razionali delle parti. Spontanea dovrebbe essere la costituzione di regole, atte a

far funzionare in maniera efficiente il sistema: i costi di tali istituzioni sarebbero più che ripagati dai

vantaggi che emergono con la cooperazione che da esse è facilitata. Marxismo e neomarxismo

rappresentano la terza fondamentale anima dell’IPE. Le fondamenta teoriche marxiane contengono i

due elementi centrali, ossia le strutture e le logiche che guidano la dinamica delle relazioni

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economiche internazionali: la supremazia dell’economia sulla politica e lo sfruttamento. Il primo

elemento, rappresenta l’elemento distinzione/opposizione netta rispetto al mercantilismo e riduce la

politica a strumento non di un generico mercato ma degli interessi della borghesia capitalista. La

potenza dello Stato porta ad obiettivi che non avvantaggiano lo Stato ma un gruppo sociale preciso

all’interno di esso. Per quanto riguarda lo sfruttamento, nell’arena internazionale le diverse teorie

dell’IPE si basano sull’idea che alcuni Stati sfruttino altri, perché dominati direttamente o perché in

condizioni di dipendenza. Strettamente collegata, è la visione del conflitto come dinamica dominante

nelle relazioni internazionali. Un conflitto che assume due forme principali: una competizione

orizzontale per la spartizione delle risorse e una competizione verticale legata al tentativo dei paesi

sfruttati di affrancarsi dalla loro condizione, tentativo che incontra le resistenze dei paesi oppressori.

A questa distinzione è possibile collegare due approcci di matrice marxista: il primo, legato alle tesi

di Lenin che definisce l’imperialismo come fase suprema del capitalismo; il secondo è legato al

tentativo di adattare la constatazione della natura asimmetrica della struttura economica

internazionale alla fine del colonialismo. Il tentativo più completo è quello di Immanuel Wallerstein

e la sua definizione di sistema-mondo. Compatibili in tale senso, le teorie della dependencia

sviluppatesi in America Latina in cui l’elemento fondamentale risiede nei passaggi di fascia: il

conflitto, anche violento, è il frutto della non accettazione da parte dei paesi della periferia e

semiperiferia delle regole che li relegano in una posizione di inferiorità, ed è legato al tentativo di

uscire da tale sistema con politiche di protezione e non accettazione dell’ingerenza del centro.

Il concetto di globalizzazione è il punto di partenza fondamentale per ricostruire le traiettorie del

dibattito attuale sull’IPE. Gilpin ha suggerito di parlare di GPE (Global Political Economy). La

globalizzazione è descritta come il portato o la causa dell’abbattimento delle barriere commerciali e

degli ostacoli ai movimenti di capitale, deregulation, processi di trasferimento della produzione e di

traslazione del valore dal bene al servizio. Nel contesto di trasformazione è possibile identificare: tesi

di natura ottimista sulla globalizzazione legata al neoliberismo; resi critiche e pessimiste sulla portata

di tale processo; tesi legate alla tradizione realista/mercantilista. Secondo Thomas Friedman la

globalizzazione è caratterizzata dalla riduzione se non dalla fine delle distanze, da un sistema

internazionale dove tutti gli agenti economici possono giocare ad armi apri, dalla realizzazione del

sogno liberale di abbattimento delle barriere commerciali e dei costi connessi con le transazioni

economiche grazie ai quali si può realizzare un incontro perfetto tra domanda e offerta. Le spinte al

cambiamento sono collegate a una trasformazione nella domanda di beni e servizi. Le nuove

tecnologie aumentano le informazioni a disposizione dei consumatori, la loro possibilità di scegliere

e ciò porta i consumatori a diventare consumatori globali. I processi di outsourcing e di

delocalizzazione hanno rilevanza internazionale. Il primo è legato all’esternalizzazione di alcune

attività di un’industria ad altri agenti capaci di realizzarle in maniera più efficiente; il secondo allo

spostamento degli impianti produttivi in regioni e paesi che permettono costi operativi più bassi e

dunque maggiore efficienza. Un altro elemento di cambiamento è legato alla finanziarizzazione

dell’economia. Anche in questo caso si sovrappongono e rafforzano mutamenti qualitativi e

quantitativi in cui il cambiamento è relativo alla tecnologia della finanza. Le conseguenze sono di

due tipi: la prima è relativa al rapporto Stato-mercato, secondo cui nella visione ottimista della

globalizzazione gli Stati perdono più potere a favore dei mercati; la seconda riguarda la dinamica fra

cooperazione e conflitto. Nell’età dell’economia globale la guerra è un fenomeno residuale nella

politica internazionale. L’interconnessione e l’aumento del grado di omogeneità dei sistemi

economici, la diffusione della produzione e in generale la primacy degli interessi economici, rendono

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il conflitto politico irrazionale dal punto di vista degli Stati, influenzati dagli agenti economici.

Tensioni di natura politica aumentano il rischio paese e dunque la capacità di attrarre investimenti e,

con essi, sviluppo e ricchezza.

Un secondo gruppo di tesi non nega che le trasformazioni siano avvenute, ma differisce nella

valutazione della direzione e degli effetti di questi cambiamenti. Una voca attiva nell’analisi dei

sintomi della globalizzazione fu quella di Susan Strange. Secondo ella, il problema era la visione

opposta delle conseguenze della perdita di potere dello Stato sul mercato: i confini territoriali degli

Stati non coincidono più con l’estensione o i limiti dell’autorità politica sull’economia e sulla società.

Per la Strange si dà origine a un capitalismo d’azzardo che è sganciato dal tradizionale controllo che

lo Stato ha esercitato nel sistema moderno. Quattro funzioni sono importanti: la sicurezza, la

conoscenza, la produzione e la finanza. Lo Stato controlla la sicurezza, le altre tre dimensioni

sfuggono al controllo dello Stato e sono transnazionali. In questo contesto sorgono problemi politici

ed economici. In riferimento ai primi, ci sono riduzioni di accountability o responsabilità di fronte

all’incapacità dello Stato di controllare alcuni settori della vita economica e sociale. Poi la ritirata

dello Stato crea una frammentazione dell’autorità, nel quale esistono vaste zone grigie. Possono

prosperare attori non statali come gruppi criminali. Le conseguenze economiche sono legate

all’estrema instabilità dell’economia finanziarizzata contemporanea. La fine di Bretton Woods ha

contribuito a deregolare un mercato valutario e ad ampliare raggio e strumenti d’azione delle

istituzioni finanziarie private. Queste si sono trasformate, con l’emergere di attori come hedge funds,

fondi di private equity e con la crescita del settore dell’investment banking. Questi attori

contribuiscono all’instabilità mirando a guadagni di breve periodo e sono basati sull’assunzione di

rischi eccessivi da parte degli investitori. Tutto ciò rende più probabile il verificarsi di crisi

finanziarie. L’instabilità finanziaria non è solo un problema per investimenti e risparmi: quello che è

a rischio è anche l’economia reale. La delocalizzazione e l’outsourcing hanno un impatto sulla

quantità del lavoro così come sulla sua qualità. Un’altra conseguenza più diffusa è l’allargamento

delle diseguaglianze di reddito tra le varie fasce della popolazione. L’intensificazione del conflitto

sociale, è una conseguenza possibile di tali trasformazioni. Secondo Mary Kaldor si forma una

economia di guerra globalizzata: il mercato globale è anche quello delle armi, la transnazionalità

delle minacce e dei gruppi armati. Ma se la competizione fra Stati non è a livello militarizzato,

presenta numerosi elementi disfunzionali che non sono in grado di mitigare gli effetti negativi della

globalizzazione in termini di rischi finanziari, delle loro ricadute economiche collettive e degli effetti

più generali per gli individui coinvolti nel casinò globale. Esiste infine un gruppo di tesi che

sottolineano le continuità della politica internazionale di fronte alle trasformazioni del sistema

economico mondiale. Da un lato, lo Stato rimane l’attore fondamentale nell’arena politico-economica

internazionale, dall’altro le ragioni sottostanti il conflitto internazionale sono legate a considerazioni

tradizionali di carattere politico e militare rispetto alle quali la dimensione economica gioca un ruolo

sussidiario. Lo Stato mantiene un ruolo attraverso partecipazioni azionarie dirette soprattutto in alcuni

casi e settori; giocano un ruolo fondamentale anche nei mercati finanziari. Gli stati utilizzano

strategicamente le risorse per costituire fonti di investimento e risparmio orientate al futuro sia come

strumento di influenza sui mercati finanziari o per acquisire partecipazioni di aziende strategiche. Le

attività di molte banche centrali nell’accumulazione di riserve sono considerabili come espressione

diretta della politica economica estera di uno Stato. L’interdipendenza viene visto come un elemento

politicamente neutro nella politica internazionale, motivo per il quale venne attuata una critica

attraverso l’analisi waltziana delle relazioni internazionali per cui l’interdipendenza deve venire

intesa come reciproca vulnerabilità. Questo tipo di analisi insiste sull’importanza che nella

Alberto Presti – Sofia Gorgone – Myriam Russo – Giulia Tarantino

formazione del sistema globale di stampo neoliberale hanno le preferenze economiche e gli interessi

della potenza mondiale dominante, gli Stati Uniti. La globalizzazione non sarebbe il portato casuale

ma la ristrutturazione dell’ordine economico mondiale, cioè la rappresentazione di un nuovo modo

della superpotenza di intendere i rapporti economici internazionali. Gli Stati non sono solo dipendenti

dal sistema economico globale, ma ne sono anche protagonisti nel senso che le loro politiche

economiche influenzano in maniera rilevante l’economia internazionale.

Jim O’Nell ha coniato il termine di successo BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) per definire i paesi

emergenti (più di recenti si usa l’acronimo BRICS per includere il Sud Africa e i summit organizzati

da questo gruppo di Stati). Declino e ascesa delle potenze sono due temi tradizionali delle IR e

dell’IPE ed emerge dunque la necessità di descrivere il ruolo degli Stati Uniti e lo spostamento degli

equilibri tra potenza egemone ed emergenti, proprio a partire dal fenomeno BRIC. La fine di Bretton

Woods non segna il declino degli Stati Uniti, quanto piuttosto una ristrutturazione dell’ordine

economico internazionale in cui gli Stati Uniti giocano un ruolo diverso ma non meno rilevante. La

spinta innovativa nell’economia americana trova una fonte nel capitalismo deregolato: innovazioni

di prodotto e di processo capaci di riorganizzare anche la catena distributiva in maniera estremamente

redditizia. L’innovazione tecnologica è stata stimolata da investimenti statali nel settore della ricerca

e dello sviluppo, anche legati a spin-offs di origine militare. Difficile escludere lo Stato come attore

fondamentale dello sviluppo economico, almeno nel senso di creare condizioni e opportunità

favorevoli, finanziando in parte il bene pubblico della ricerca e agendo sui settori di interesse

strategico. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, la fine del sistema monetario basato sul dollaro non ha

eliminato la posizione privilegiata della moneta americana sui mercati internazionali. In particolare,

due elementi hanno garantito tale posizione: da un lato le transazioni economiche internazionali

principali avvengono in dollari; dall’altro i titoli di Stato americani costituiscono il bene rifugio per

molti investitori istituzionali e privati a livello mondiale. Questo significa che gli Stati Uniti, entro

certi limiti, hanno il controllo della moneta e in larga misura del tasso di interesse dei debiti che

contraggono. La trasformazione economica ha portato con sé un riallineamento della posizione degli

Stati e con essa degli equilibri fra le potenze. La tendenza di questo mutamento sembra essere l’ascesa

di nuovi mondi (Brasile e Sud Africa) da un lato e il riemergere di grandi potenze (Cina e Russia)

dall’altro. L’ascesa delle periferie del sistema economico globale è legata a una pluralità di fattori e

porta con sé una pluralità di conseguenze. Le cause sono legate alla complessa interazione tra fattori

esterni e interni. Fra i primi ha influito il rilassamento delle barriere commerciali e finanziarie a livello

internazionale e dunque un ambiente in cui si potevano costituire posizioni di vantaggio per paesi

capaci di produrre beni a costi competitivi. L’aumento degli investimenti diretti all’estero ha

costituito un elemento fondamentale nello sviluppo industriale e nell’urbanizzazione. Molti di questi

casi hanno portato un aumento delle diseguaglianze interne e acuito il conflitto sociale soprattutto

nella forma di criminalità diffusa nelle grandi metropoli. Fra i BRICS si tengono incontri annuali,

l’ascesa della Cina rappresenta al momento un fenomeno non assimilabile per portata ad altri. Lo

sviluppo cinese può costituire anche un elemento di antagonismo con le altre potenze emergenti, India

in prima luogo.

Una prima fase della crisi finanziaria del 2007 è stata interpretata come segnale della fine di un

modello economico neoliberale basato sulla deregolamentazione e sull’espansione del mercato.

Questo è segnato dalle politiche di salvataggio delle banche da parte degli Stati, dall’intervento

pubblico in alcuni settori industriali e da un processo di ri-regolamentazione di quelle che venivano

percepite come le deviazioni di un capitalismo impazzito (o casinò). Una seconda fase della crisi

Alberto Presti – Sofia Gorgone – Myriam Russo – Giulia Tarantino

sembra mettere in evidenza che questo processo di ristrutturazione dell’equilibrio Stato-mercato in

favore del primo non è né lineare né scontato né omogeneo. Anzi, i mercanti e gli agenti economici

sembrano tornare alla ribalta come motori delle decisioni politiche. Un altro tema è l’asimmetria degli

effetti della crisi sugli Stati a livello globale. La diffusione della crisi e l’interdipendenza dei mercati

non hanno significato un’omogeneità negli effetti negativi su tutti gli Stati. Alcuni trend id lungo

periodo non sono stati scalfiti anzi, la crisi ha accelerato alcune tendenze. Anni di bassa crescita in

molti paesi europei hanno portato al sorpasso cinese. Ultimo tema è la governance del sistema

economico internazionale. La questione può essere vista su almeno due livelli, regionale e globale.

Al primo livello, in Europa sono state mostrate le difficoltà di coordinamento fra i paesi di fronte al

carattere transnazionale della crisi. Si può superare il dilemma dell’azione collettiva trovando nuove

forme di cooperazione che concilino le esigenze degli attori più deboli di fronte alla crisi con quelle

degli attori più forti, gli unici in grado di sostenere i costi del salvataggio. Un problema centrale è

l’azione degli organismi internazionali, quindi la loro capacità di affrontare nei tempi appropriati e

con gli strumenti giusti le crisi finanziarie. Si è assistito all’emergere di nuove arene come il G20,

che hanno rappresentato il luogo del riconoscimento che al dibattito sulla governance mondiale

devono partecipare attori nuovi rispetto ai grandi del G7 e del G8.

Capitolo 8: Gli studi strategici dalla Guerra fredda all’invasione dell’Iraq Gli studi strategici sono la branca delle IR che studia come l’applicazione, la non applicazione e

l’evoluzione degli strumenti militari condizionano l’esistenza degli Stati e i loro rapporti. Gli ambiti

privilegiati risultano la guerra, gli scopi che la sottendono e le implicazioni che ne derivano per il

sistema internazionale e i suoi membri. Poiché la guerra è un fenomeno sociale che comprende una

pluralità di dimensioni, il campo d’interesse di questa disciplina tende a variare per ampiezza e

prospettive analitiche applicabili a seconda delle circostanze storiche.

La riflessione sulla guerra e sul modo di condurla fanno parte di una tradizione plurimillenaria e sono

state l’esperienza napoleonica e l’effetto delle rivoluzioni militari e sociali che si verificano in Francia

alla fine del XVIII secolo ad aver posto le fondamenta del pensiero strategico moderno. Sino alle fasi

della Pria guerra mondiale, la guerra era un ambito dal quale i civili erano esclusi. Lo studio della

guerra era collegato alla risoluzione di problematiche concrete inerenti l’assetto delle forze armate, il

loro sviluppo e la vittoria finale. Negli scritti di Jomini la guerra è stata affrontata da una prospettiva

generale e scientifica. Muovendo dal resoconto delle campagne napoleoniche, Jomini richiamava

alcuni principi immutabili nella condotta della guerra come il ricorso all’offensiva, l’utilizzo della

massa su forze numericamente inferiori e la concentrazione dell’azione nel punto decisivo. Secondo

Jomini, se separata dal contesto storico, la guerra era sempre uguale a sé stessa, retta da principi

immutabili che quando conosciuti e applicati avrebbero portato alla vittoria. Il nesso tra l’applicazione

di norme definite o immutabili e la vittoria sul campo era la rassicurazione di cui le forze armate

avevano bisogno. La guerra però è un fenomeno sociale: un effetto del contesto in cui avviene e una

causa di quello che la seguirà. La strategia è in primo luogo il risultato di un lavoro di interpretazione

ed elaborazione di ipotesi la cui correttezza è confermata dagli esiti concreti prodotti dal campo di

battaglia. Le guerre vanno messe in relazione al contesto in cui si sviluppano. A seconda dei casi,

infatti, i comportamenti efficaci (le strategie) saranno il prodotto della combinazione di fattori

ambientali, umani (sociali) e casuali differenti. Anche Clausewitz ha riflettuto sulla guerra

condizionata dall’esperienza vissuta nelle guerre napoleoniche. Secondo Clausewitz, la vittoria

proviene dall’analisi, dall’innovazione, non dall’imitazione decontestualizzata delle campagne del

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passato. Perché il rapporto tra i mezzi e i fini della politica si mantenga efficiente, garantendo alla

strategia la flessibilità necessaria ad adattarsi al contesto sociale, la storia delle campagne potrà essere

di aiuto, ma non sostituirà il genio del condottiero. La guerra è prima di ogni altra cosa un fenomeno

sociale e storico, materia plasmabile solo attraverso forze sociali e individuali di tipo analogo.

L’intendo dell’opera Vom Kriege di Clausewitz era di mostrare al lettore la sua natura cangiante: la

guerra è un camaleonte. Dopo la seconda guerra mondiale, la durata e l’intensità dei combattimenti,

i livelli di contrapposizione ideologica e mobilitazione sociale, il potenziale distruttivo raggiunto dai

sistemi d’arma, sembrava mostrassero che gli attriti fossero venuti meno e la guerra reale si fosse

ormai approssimata al modello teorico della guerra assoluta. Disporre di una potenza immensa senza

essere in grado di farne un uso controllato sembrava svuotasse la vittoria militare del suo significato

politico. La forza sembrava aver perso la capacità di essere uno strumento utile rispetto ai fini della

politica. La nascita degli studi strategici risale al 1943. Dopo il lancio dei due ordigni di Hiroshima e

Nagasaki, si favorì l’emancipazione degli studi strategici dal corpus delle IR. L’ampiezza delle

conseguenze che avrebbe provocato una guerra atomica, le conseguenti ricadute sui civili e l’onere

di essere responsabili della distruzione di intere società posero le condizioni perché fosse messa in

discussione la visione secondo cui, dichiarata la guerra, i civili avrebbero dovuto cedere il passo ai

militari. Le porte dello studio della strategia erano ormai aperte ai civili. Accanto alle accademie

militari e alle università, sorsero negli anni cinquanta i think-tanks: istituzioni che si occupavano di

far fronte con adeguati strumenti intellettuali alle necessità storiche che gli Stati Uniti stavano

affrontando: l’analisi era funzionale alla gestione e politicamente efficiente della forza. Gli studi

strategici si sono inizialmente focalizzati sulle ambiguità del potere atomico e soprattutto nel caso

delle armi nucleari, il primato militare non appariva direttamente convertibile in valuta politica. Sino

al termine della guerra fredda, gli studi strategici si sono posti su un piano di continuità con il

realismo, differenziandosene per il carattere prescrittivo implicito nelle finalità applicative delle

analisi. In sintesi gli studi strategici sono stati un prodotto del contesto sociale americano; un filone

di ricerca legato alla Guerra fredda e alla dottrina/teoria della deterrenza; una disciplina olistica in cui

le dimensioni speculativa, tecnologica e applicativa tendevano a coesistere e a condizionarsi a

vicenda. L’evoluzione degli studi strategici può essere divisa in due periodi distinti: dagli anni

cinquanta al crollo del Muro di Berlino e dall’implosione dell’Unione Sovietica a oggi. Entro queste

linee di sviluppo vengono chiamate bipolari e contemporanee possiamo identificare quattro

articolazioni in epoca bipolare: dall’insediamento di Eisenhower alla crisi di Cuba; dall’intervento in

Vietnam alla firma degli accordi SALT 1; dal disimpegno in Vietnam all’invasione sovietica

dell’Afghanistan; dall’elezione di Reagan al crollo dell’URSS; e due in epoca contemporanea: l’arco

temporale delle guerre degli anni novanta; dall’attentato alle Torri gemelle all’invasione dell’Iraq nel

2003.

In epoca nucleare, il primo assunto alla base degli studi strategici era che la dissuasione fosse per lo

Stato il principale obiettivo in politica internazionale. Dopo il blocco di Berlino del 1948, le armi

nucleari erano entrate a far parte dei piani di guerra americani. Poiché il vantaggio americano si

andava riducendo, gli Stati Uniti avrebbero dovuto investire sulla tecnologia a fusione sfruttando la

loro capacità di infliggere danni irreparabili alla popolazione civile. Questo era lo stato dei fatti nel

1953 quando si insediò il presidente Eisenhower. La centralità assunta dalle armi nucleari e una

propensione a tenere in considerazione i vantaggi collegati a tali armi, hanno caratterizzato la fase di

evoluzione degli studi strategici nota come età dell’oro. I quesiti contenuti nelle analisi di studiosi e

che hanno contribuito a creare il nucleo originario degli studi strategici, erano: se fosse possibile

combattere e vincere una guerra nucleare; che genere di uso si potesse fare delle armi nucleari; in che

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quantità fossero necessarie per compensare il vantaggio convenzionale sovietico. Questi studi si sono

focalizzati sulla dottrina della rappresaglia massiccia (massive retaliation) che consisteva

nell’intenzione di rispondere a eventuali aggressioni affidandosi alla capacità di rappresaglia

istantanea con i mezzi e nei luoghi che ci riserviamo di scegliere, fatta salva la necessità di rivedere

tale dottrina qualora si fosse rivelata svantaggiosa. William Kaufmann avvertiva che la rappresaglia

massiccia era una dottrina che per essere efficace presupponeva una propensione al rischio fuori dal

comune, perché in caso di aggressione le opzioni nelle mani dell’amministrazione sarebbero state

due: rilanciare (significava andare incontro all’olocausto nucleare) o tacere (perdita di reputazione

verso gli alleati europei e una riduzione della capacità di dissuasione verso gli avversari). La

rappresaglia massiccia presentava un fattore di rischio occulto: l’economicità. Nel 1954

l’amministrazione americana adottò una nuova linea: New Look, secondo cui il potere nucleare

avrebbe dovuto adempiere a due finalità: scoraggiare per mezzo di una minaccia credibile eventuali

aggressioni convenzionali sovietiche; rassicurare gli alleati europei sulle intenzioni americane di

garantire la sicurezza: due compiti incompatibili. I due obiettivi avrebbero potuto convergere

ricorrendo alle armi nucleari: la difesa del suolo europeo sarebbe stata affidata alle truppe NATO. In

questo modo, il blocco occidentale avrebbe mantenuto il suo vantaggio; le armi nucleari tattiche

avrebbero avvantaggiato la difesa; il loro uso non avrebbe causato danni eccessivi ai civili. Con la

fine degli anni cinquanta il dibattito sulla guerra nucleare perse di credibilità. La gran parte degli

strateghi aveva riconosciuto come il ricorso alle armi nucleari assicurasse due esiti negativi: non

avrebbe consentito né di contenere né di controllare gli effetti delle armi nucleari; avrebbe trasformato

tutti i conflitti in guerre nucleari. Le difficoltà legate all’impiego delle armi nucleari sono state

all’origine di un’ulteriore linea strategica che principalmente ha coinvolto l’aviazione: distruggere al

suolo la capacità di rappresaglia nemica mediante un attacco preventivo. Una fase di maggiore

sensibilità e consapevolezza rispetto ai nodi della deterrenza si era aperta con l’insediamento, nel

1961, di Kennedy. In assenza di una difesa antimissile si era giunti a una situazione di stallo nucleare

consolidata dalle forze di rappresaglia invulnerabili. Il reciproco annientamento si era fatto reale. La

crisi di Cuba ha consentito agli studi strategici di approfondire la deterrenza e i rischi legati

all’applicazione di modelli di azione razionale. Gli Stati Uniti si impegnarono ad assicurare la stabilità

dei rapporti di forza tra i blocchi basando la sua posizione sul concetto di natural assured destruction

(MAD): la capacità di dissuadere il nemico conservando la capacità di infliggere danni inaccettabili

anche dopo un attacco di sorpresa. L’assunto alla base era che la capacità delle parti di distruggersi a

vicenda avrebbe impedito che la deterrenza fallisse. Ma questa ipotesi fu smentita quando l’Unione

Sovietica si assicurò una capacità di secondo colpo. La risposta americana era stata di non replicare

in modo speculare alla condotta dell’Unione Sovietica, ma di avanzare sul fronte dell’offesa

implementando un sistema di testate multiple indipendenti in grado di moltiplicare il potenziale

offensivo degli ordigni, riducendo in questo modo l’efficacia della difesa. Alla luce dell’evoluzione

delle forze in campo, si sono sviluppati approcci strategici che ponevano al centro della riflessione il

tema dell’escalation, ovvero dell’incremento potenziale di violenza e intensità in un conflitto. Questo

tema si trovò durante il governo Kennedy nella dottrina della risposta flessibile (flexible response)

cioè rispondere in modo freddo e deliberato a eventuali attacchi nemici. Hermann Kahn concentrò i

suoi sforzi nell’elaborazione di una scala che contemplasse ben 44 livelli di aumento di violenza, in

cui le armi nucleari nel caso degli Stati Uniti sarebbero entrate in causa a partire dal quindicesimo e

i decisori politici avrebbero potuto esercitare il loro controllo sino allo stadio ultimativo

dell’autodistruzione, definita spasm war. Thomas Schelling sostenne che anche se la deterrenza fosse

fallita, non necessariamente si sarebbe arrivati alla guerra. La capacità deterrente delle armi nucleari

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dipendeva da quella di provocare danni. Questo effetto, secondo Schelling, era collegato all’assenza

di una contro minaccia e al fatto che il comportamento scorretto innescasse la risposta della

controparte. I limiti riguardo la comprensione di antagonisti né americani né occidentali, emersero

durante la guerra del Vietnam che è stata una guerra irregolare. La fine della guerra in Vietnam ha

offerto un’opportunità di rinascita per gli studi strategici in termini di ampliamento di prospettive.

Tutta una serie di sviluppi collaterali (testate multiple, migliore rapporto peso/potenza, sistemi di

comunicazione) rendevano inoltre le analisi sull’impiego delle armi nucleari molto più tecniche. Ciò

modificava l’insieme di vincoli in base ai quali i decisori politici pianificavano le loro strategie

nazionali. In particolare, il controllo degli armamenti divenne un tema rilevante nel dibattito interno

alla disciplina. Nella prima metà degli anni settanta, la disciplina ha iniziato ad aprirsi verso tematiche

di più ampio respiro. Temi come le cause della guerra, il rapporto tra difesa e offesa, la rilevanza dei

fattori politici interni in politica estera, i rapporti tra alleati e la cooperazione con i nemici, hanno

assunto una maggiore rilevanza. Durante le due amministrazioni Nixon e Nixon-Ford ci si era

impegnati affinché la logica di dominanza nell’escalation fosse migliorata sul piano operativo,

sortendo un maggiore effetto deterrente sul nemico. Nel 1979 l’Unione Sovietica invase

l’Afghanistan, iniziando una guerra che avrebbe portato al crollo del Muro di Berlino, mentre gli Stati

Uniti, con l’elezione di Ronald Reagan intrapresero una sostanziale revisione della loro politica. Gray

e Payne sostennero che era possibile vincere un confronto nucleare e che la sicurezza occidentale

avrebbe tratto enorme vantaggio dal fatto che gli Stati Uniti avessero acquisito l’effettiva capacità di

dominare ciascun livello dell’escalation. Negli anni ottanta, l’obiettivo divenne porre l’avversario in

condizione di accettare questa situazione lungo tutti i gradini della scala. L’approccio

dell’amministrazione Reagan costringeva gli Stati Uniti all’offensiva a oltranza, privandoli in caso di

fallimento delle deterrenze di opzioni alternative alla guerra. A questo si affiancava il progetto di

difesa strategica noto come guerre stellari. Questo progetto, se implementato avrebbe alterato

l’equilibrio del terrore che stava alla base della deterrenza e consentito agli Stati Uniti di disporre di

capacità di secondo colpo. Il progetto ha incontrato un certo numero di impedimenti che ne hanno

bloccato gli sviluppi. Il biennio 1989-91 ha segnato la fine della Guerra fredda.

Nel corso degli anni novanta, gli studi strategici hanno visto un riesame che ha favorito la

denuclearizzazione della disciplina; portato alla smilitarizzazione della categoria di sicurezza e del

suo ampliamento; messo in discussione l’interpretazione realista e Stato-centrica, aprendo la strada

ad analisi più attente ai fattori culturali e antropologici della politica internazionale. nel 1991 lo

scoppio della Guerra del Golfo e dei primi scontri nella ex Jugoslavia avevano fornito un chiaro

segnale riguardo a come lo scenario internazionale fosse mutato. Bisognava intraprendere un

rinnovamento utilizzando nuove tecnologie innovative e attuare un adattamento organizzativo

creando una rivoluzione militare. Inoltre, si è sforzati di comprendere quali tecnologie avanzate

avrebbe potuto utilizzare gli Stati Uniti. Snyder aveva definito la cultura strategica come il complesso

di idee, risposte condizionate e comportamenti abituali che una specifica comunità condivide in

merito alla strategia nucleare. Gray aveva rielaborato il concetto per spiegare la diversità di

atteggiamenti e di comportamenti che Stati Uniti e Unione Sovietica avevano rispetto all’eventualità

di combattere e vincere una guerra nucleare. Thomas Berger ha trattato invece la cultura strategica

come un complesso di credenze e valori che condiziona la percezione dei fatti e veicola le risposte di

una società nelle diverse security issues. Secondo Berger la cultura strategica sarebbe il risultato di

un processo di socializzazione che coinvolge fattori sia esterni sia interni allo Stato. Kupchan ha

definito la cultura strategica come il complesso delle concezioni e nozioni di sicurezza nazionale più

radicate nell’élite politica, sottolineando come le élite colleghino le diverse strategie a simboli e

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immagini capaci di farle assimilare alle masse. Kier si è concentrata sul rapporto tra cultura e dottrina

militare e ha criticato un approccio funzionale o strutturale ritenendo l’approccio culturalista più

efficace nel predire i comportamenti degli Stati. Secondo la Kier, la politica interna fissa i limiti, la

cultura militare li interpreta e la cultura organizzativa delle forze armate interviene tra le decisioni

dei civili e la dottrina militare. Secondo Johnston, la cultura strategica è costituita da un corpo

principale di credenza sulla natura del conflitto, del nemico, sull’efficienza della violenza e di una

gerarchia di preferenze strategiche. La cultura definisce il contesto in cui si sono formulate le scelte

strategiche, mentre la cultura strategica è un sistema integrato di simboli che stabilisce le preferenze

strategiche, rendendole le sole realistiche ed efficaci. Individuate le credenze di una certa società,

infatti, il suo obiettivo è di verificare i loro effetti sui decisori. Il vero elemento di rottura rispetto al

passato concerne non l’impatto della tecnologica o della cultura, ma il mutamento del ruolo dello

Stato come monopolista della violenza legittima e organizzata. Agli attentati dell’11 settembre 2001

tende a essere collegata la revisione della politica estera americana. Da un lato il primato economico

e militare degli Stati Uniti favoriva tale risultato, dall’altro l’espansione della NATO e le decisioni di

non sottoscrivere il Protocollo di Kyoto erano la prova che Washington era intenzionata a ridefinire

la propria strategia in base a un approccio muscolare. La dottrina Bush affondava le sue radici nella

transizione postbipolare degli anni novanta e nell’ascesa dei neoconservatori nell’establishment

americano. La National Security Strategy si proponeva di rafforzare i rapporti con gli alleati,

sconfiggere i nemici e prevenire aggressioni future contro gli Stati Uniti e gli Stati nemici. Bush

assumeva la posizione di difensore morale della democrazia e promotore dell’espansione dei regimi

democratici a livello globale. Le caratteristiche peculiari della National Security Strategy 2002 sono

state sintetizzate in tre diversi obiettivi: difendere la pace combattendo terroristi e governi dispotici;

conservare la pace costruendo buone relazioni con le grandi potenze; ampliare la pace favorendo

l’instaurazione di società libere e aperte in ogni continente. Il primato militare, il peso economico e

l’influenza politica, sono stati gli strumenti attraverso i quali gli Stati Uniti avrebbero dovuto

realizzare una distribuzione di potere che favorisse le libertà degli individui. Riguardo all’uso della

forza, l’approccio dell’amministrazione repubblicana si connotava per una maggiore fiducia nei suoi

mezzi e sostituiva alla condotta incrementale e verso il multilateralismo una logica proattiva,

unilaterale e volta a procedere con i nemici come gli alleati attraverso fatti compiuti. Relativamente

alla minaccia terroristica veniva negata la differenza tra terroristi e paesi i cui i gruppi terroristi

avevano il nucleo operativo. La National Security Strategy 2002 prediligeva un approccio in cui sono

gli scopi della missione a definire la partnership di riferimento e non viceversa. L’Europa era

considerata soprattutto per il peso economico, mentre Cina e Russia diventavano partner strategici;

inoltre essa sembrava riporre maggiore fiducia nelle capacità americane di raggiungere certi obiettivi

attraverso l’uso della forza. La National Security Strategy 2002 prevedevano tre differenti tipi di

azione: prevention, pre-emption e defense. Nel primo caso, l’obiettivo è impedire attraverso la

diplomazia, il controllo degli armamenti e il controllo sulle esportazioni, quindi la loro diffusione e

la loro accessibilità da parte di gruppi terroristici. Riguardo il secondo aspetto, l’idea è di anticipare

e bloccare gli Stati canaglia e i gruppi terroristici. Infine, per quanto concerne la difesa, l’idea che si

dovesse incrementare l’efficienza del sistema era declinata a un progetto di difesa missilistica e a un

consistente incremento di spesa. Per quanto invece concerne il versante della letteratura afferente gli

studi strategici, Callwell aveva individuato alcuni tratti dei conflitti asimmetrici che si sarebbero

rivelati delle costanti nel tempo: natura non omogene degli attori; forze disperse; rapporto spazio-

tempo funzionale al prolungamento delle operazioni avversarie e conoscenza del territorio. John

Arquilla e David Ronfeldt, infine, hanno cercato di sottolineare il rapporto tra nuovi modelli di

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combattimento, tipo di attori coinvolti e ruolo delle tecnologie informatiche e delle

telecomunicazioni. Secondo i due, massa e concentrazione di fuoco sarebbero state sostituite dallo

swarming (sciamare). Questa definizione è ispirata alla metafora animale degli attacchi portati dalle

api, che agiscono come unità autonome e disperse, ma convergono nella loro manovra su un obiettivo

comune; colpiscono da tutte le direzioni in maniera coordinata e vigilano l’una sull’altra. Infine,

l’attacco non mira ad abbattere l’avversario ma la sua coesione interna.

Capitolo 9: La politica estera dell’Unione Europea: quale integrazione? La politica estera è tra le prerogative di ogni Stato sovrano, attraverso la quale essi definiscono le

relazioni reciproche, difendono la propria integrità territoriale e promuovono gli interessi nazionali.

Questa definizione è influenzata dall’hard security context caratterizzato dalla contrapposizione

militare con la Germania e nella seconda parte dalla Guerra fredda. Tale contesto favoriva

un’immagine della politica estera centrata sul ruolo degli Stati più forti, sull’esistenza di minacce

militari provenienti da altri Stati e sulla necessità di mantenere consistenti strumenti militari. Secondo

Hill, la politica estera può essere definita come l’insieme delle relazioni esterne condotte da un attore

indipendente, solitamente uno Stato, nelle relazioni internazionali. La politica estera cerca di

coordinare il modo in cui vengono stabilite delle priorità tra i diversi interessi esterni. Si tratta, anche

del modo in cui una società si definisce rispetto al mondo esterno e proietta i valori che essa

rappresenta. Keukeleire e MacNaughtan definiscono la politica estera come quell’area della politica

diretta all’ambiente esterno con l’obiettivo di influenzarlo cercando di modificare il comportamento

di altri attori al suo interno, in modo tale da perseguire i propri interessi, valori e obiettivi. Essi

dividono la politica estera in convenzionale e strutturale: la prima, è orientata verso gli Stati, la

sicurezza militare, la crisi e i conflitti; la seconda si riferisce a una politica estera che cerca di

influenzare in modo duraturo le strutture politiche, giuridiche, socio-economiche. Esempi di politica

estera possono essere il piano Marshall del 1947, che promuoveva la creazione di nuove strutture in

Europa occidentale in modo tale da risolvere il problema dell’ostilità franco-tedesca. Nel caso

dell’Unione Europa, gli esempi più importanti sembrano essere la politica della Comunità/Unione

Europea verso i paesi dell’Europa centrale e orientale (PECO), che si poneva l’obiettivo di

stabilizzare e ristrutturare questi paesi a seguito dei conflitti degli anni novanta. La politica estera

dell’Unione Europea è una politica multipilastro (o trasversale) e multilivello. La sua natura

multipilastro si riferisce al fatto che l’Unione può fare politica estera utilizzando diversi pilastri o aree

di policy, e quindi diversi metodi decisionali. Inoltre, essa comprende anche le politiche esterne del

cosiddetto primo pilastro (commercio internazionale, accordi di cooperazione e associazione,

sanzioni economiche). La strutturazione su più pilastri comporta che vi siano diversi metodi

attraverso i quali vengono prese le decisioni di politica estera. Nelle aree di policy del secondo e terzo

pilastro si applica il metodo intergovernativo, grazie al quale gli Stati membri mantengono il controllo

delle decisioni di politica estera attraverso la posizione dominante del Consiglio dei ministri e il voto

all’unanimità, basato sull’equilibrio istituzionale tra Consiglio dei ministri, Commissione europea,

Parlamento europeo e Corte di Giustizia, e il voto a maggioranza qualificata nel Consiglio. Una

politica multilivello interagisce con le politiche estere dei suoi Stati membri e anche con gli altri

contesti internazionali in cui la politica estera viene elaborata come la NATO, l’Organizzazione per

la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE), il Consiglio d’Europa e le Nazioni Unite (NU).

Secondo Wallace sarebbe più accurato parlare di una politica estera multilocation per evitare la

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nozione di gerarchia implicita nel concetto di multilivello e per indicare che l’Unione è uno soltanto

dei diversi contesti/luoghi in cui la politica estera viene decisa.

La ricostruzione mette in luce alcune aree di tensione ricorrenti: quella tra integrazione europea e

solidarietà atlantica, quella tra potenza civile e militare, e quella tra approcci intergovernativi e

comunitari. Per quanto riguarda la prima tensione, occorre osservare che i tentativi iniziali che sono

stati fatti per sviluppare una politica estera comune apparivano di secondaria importanza rispetto alla

NATO. Il concetto di potenza civile vs. potenza militare risale a Duchene e si concentra sulla

possibilità che un attore internazionale ha di essere una potenza, pur non avendo a disposizione

strumenti militari. Per quanto riguarda la tensione tra approcci intergovernativi e comunitari, occorre

osservare che se da un lato la politica estera dell’Unione si è sviluppata e continua a essere una policy

in cui si applica il metodo intergovernativo, dall’altro lato è costretta a far ricorso agli strumenti

comunitari per attuare le sue decisioni. Washington temeva che le difficili condizioni economiche

potessero favorire la diffusione dell’ideologia comunista nei paesi europei. Attraverso il piano

Marshall, gli Stati Uniti donarono 20 miliardi di dollari per la ripresa economica; l’obietto era anche

quello di influenzare i valori che avrebbero dovuto cooperare nelle ricostruzioni economica e

accettarsi reciprocamente come membri dell’Organizzazione europea per la cooperazione economica

(OECE). Questa condizione favorì la collaborazione tra leader politici, diplomatici e funzionari dei

paesi dell’Europa occidentale, che avrebbe portata pochi anni dopo all’inizio del processo di

integrazione europea. Due anni prima dell’inizio del processo di integrazione europea con la firma

nel 1951 del Trattato di Parigi che istituì la Comunità europea per il carbone e l’acciaio (CECA), gli

Stati Uniti si impegnarono nel 1949 con la firma del Trattato del Nord Atlantico, a garantire la

sicurezza dei propri alleati dell’Europa occidentale. Inizialmente gli Stati Uniti considerarono la

nuova alleanza atlantica come una sorta di piano Marshall militare, tuttavia ciò nel giro di un anno

diventò l’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico, nell’ambito della quale, al vertice di

un’alleanza militare integrata, un comandante americano dirigeva la difesa territoriale dell’Europa

occidentale. Gli Stati Uniti erano disposti a rafforzare la presenza delle proprie forze sul suolo

europeo, ma chiedevano ai paesi europei di intensificare i loro sforzi per la difesa, in particolare per

difendere un attacco da Est. Quindi, i francesi presentarono il piano Pleyen, in base al quale unità

militari degli Stati membri sarebbero state integrate in un esercito europeo, composto da 100.000

uomini e controllato dal ministro della Difesa. Pertanto, attraverso la creazione di una Comunità

europea di difesa (CED), i soldati tedeschi avrebbero potuto operare nell’ambito di un esercito

europeo. Il trattato CED venne firmato dai sei paesi CECA (Francia, Germania occidentale, Italia,

Belgio, Olanda e Lussemburgo). Ma l’Assemblea nazionale francese nel 1954 si rifiutò di ratificarlo,

ponendo così fine al progetto di esercito comune europeo. La questione del riarmo della Germania

occidentale fu risolta attraverso una revisione del Trattato di Bruxelles del 1948 per includere la

Germania occidentale e l’Italia. Con la firma dei Trattati di Roma del 1957 il processo di integrazione

europea assumeva connotati economici. Alla Comunità economica europea venivano concesse delle

competenze relative al commercio estero e alla conclusione di accordi con i paesi terzi, che

consentirono alla CEE di diventare un attore internazionale. L’Atto unico europeo (AUE) del 1986 è

importante per la politica estera dell’Unione Europea in quanto con il suo obiettivo di completare il

mercato interno aumentava l’attrattività della Comunità europea per i paesi terzi, sempre più

interessati a ottenere accordi che prevedessero un accesso privilegiato a tale mercato. Proposta dal

presidente francese Pompidou al summit dell’Aja dl 1969, prese avvio la cooperazione politica

europea (CPE). Gli obiettivi di essa consistevano nel cercare di assicurare una migliore comprensione

Alberto Presti – Sofia Gorgone – Myriam Russo – Giulia Tarantino

dei problemi internazionali e nel rafforzare la solidarietà dei sei promuovendo l’armonizzazione dei

loro punti di vista, il coordinamento delle loro posizioni e anche un’azione comune. I nuovi

meccanismi si limitavano a incontri biennali dei ministri degli Esteri dei sei e incontri trimestrali di

un comitato politico composto da funzionari degli Stati membri. Si trattava di strumenti

intergovernativi. La CPE mancava di tutti quegli strumenti civili e militari; gli unici strumenti a

disposizione erano quelli economici (sanzioni e supporto economico) della Comunità europea.

Durante la conferenza intergovernativa sull’unione politica europea, si scontrarono due posizioni,

quella di francesi e tedeschi, che proponevano la comunitarizzazione della CPE, e la posizione della

Gran Bretagna, che sottolineava la natura intergovernativa della CPE e il ruolo centrale svolto dalla

NATO. La posizione che prevalse fu quella degli inglesi. Il Trattato sull’Unione Europea creò la

PESC come secondo pilastro dell’Unione. Inoltre, venne distinta la direzione politica della politica

estera, ambito di competenza della PESC, dagli strumenti economici della Comunità, come la politica

commerciale, gli accordi di cooperazione e la cooperazione allo sviluppo. La PESC doveva includere

tutte le questioni relative alla sicurezza dell’Unione, inclusa una politica di difesa comune. Il Trattato

di Amsterdam del 1997 introdusse la funzione di segretario generale/alto rappresentante della PESC,

con il compito di assistere il Consiglio e la Presidenza nella formulazione, preparazione e

implementazione delle decisioni di policy. La dichiarazione di San Malò del 1998 lanciò quel

processo che portò alla creazione della PESD, superando la tensione fra integrazione europea e

alleanza atlantica e la tensione fra potenza civile e militare. L’Unione doveva essere in grado di

intraprendere un’azione autonoma, supportata da mezzi militari credibili, in modo da poter rispondere

alle crisi internazionali. Le capacità militari dell’Unione Europea non venivano realizzate attraverso

la creazione di un esercito permanente europeo, ma grazie ai contributi volontari e temporanei degli

Stati membri alle operazioni PESD. L’Unione Europea decise di dotarsi di capacità civili per la

gestione delle crisi, tali da intraprendere non soltanto missioni militari, ma anche civili. Nel 2002

venne deciso che l’Unione poteva condurre un’operazione autonomamente sia utilizzando le risorse

degli Stati membri, sia quelle della NATO. La PESD ha cambiato la natura della PESC,

trasformandola da una politica estera dichiaratoria, centrata sulla diplomazia, in una politica estera

più orientata all’azione e sulla gestione delle crisi. Il Trattato costituzionale firmato a Roma nel 2004

da venticinque Stati membri, sebbene non sia entrato in vigore, conteneva tre elementi di innovazione.

Il primo riguardava la fine del sistema a pilastri dell’Unione Europea; inoltre veniva concessa

personalità giuridica all’Unione. Il Trattato costituzionale manteneva la divisione tra il regime

decisionale che si applicava alla PESC/PESD e quello che si applicava alle altre attività esterne. La

seconda era relativa alla creazione del ministro dell’Unione per gli Affari esteri, di un presidente del

Consiglio europeo e di un Servizio europeo per l’azione esterna (SEAE). Il nuovo ministro europeo

avrebbe svolto il ruolo di alto rappresentante della PESC e di commissario per le relazioni esterne e

avrebbe presieduto il Consiglio affari esteri. Il nuovo presidente del Consiglio europeo avrebbe

dovuto assicurare la rappresentanza esterna dell’Unione. La terza riguarda la PESD. Il Trattato

costituzionale introduceva la prevenzione dei conflitti tra gli obiettivi della politica estera

dell’Unione. Il Trattato di Lisbona, firmato nel dicembre del 2007, mantiene le innovazioni previste

del Trattato costituzionale; il titolo di ministro dell’Unione per gli Affari esteri viene abbandonato in

favore del titolo di alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la politica di sicurezza. La

PESC e la PESD manterranno il proprio distinto regime di policy-making e che non viene lesa la

capacità degli Stati membri di condurre le proprie politiche estere nazionali. Viene per la prima volta

inserito il concetto di prevenzione dei conflitti, come uno degli obiettivi dell’azione esterna

dell’Unione.

Alberto Presti – Sofia Gorgone – Myriam Russo – Giulia Tarantino

Il sistema politico estero dell’Unione Europea è governato da due distinti regimi di policy-making: il

metodo intergovernativo, che si applica alla PESC, e il metodo comunitario, che si applica alla

politica commerciale. Il primo su cui si basa il primo metodo è che i governi mantengono il controllo

sul processo decisionale attraverso la cooperazione intergovernativa e attraverso l’integrazione

intergovernativa. Nel primo caso i governi non trasferiscono competenze all’Unione Europea, ma

nell’ambito dell’Unione cooperano nell’elaborazione della politica estera. Nel secondo caso gli Stati

membri trasferiscono competenze di politica estera all’Unione Europea, ma i governi mantengono

uno stretto controllo sul processo decisionale attraverso la posizione dominante del Consiglio e la

regola dell’unanimità. Il secondo metodo si basa sul principio di un interesse comune, che gli attori

definiscono, promuovono e rappresentano. Questo metodo viene operazionalizzato attraverso un

sistema di equilibrio istituzionale tra Commissione sovranazionale, Consiglio dei ministri e

Parlamento europeo. Il Consiglio europeo è composto da capi di Stato e di governo degli Stati

membri, dal suo presidente e dal presidente della Commissione europea. A seguito del Trattato di

Lisbona, il Consiglio europeo venne presieduto dal presidente del Consiglio europeo. A quest’ultimo

spetta l’individuazione degli interessi e degli obiettivi strategici dell’azione esterna dell’Unione. Per

azione esterna dell’Unione si deve intendere non soltanto la PESC ma anche altri settori come la

politica commerciale, la cooperazione con i paesi terzi, l’aiuto umanitario, le misure restrittive, gli

accordi internazionali e le relazioni con le organizzazioni internazionali, i paesi terzi e le delegazioni

dell’Unione. Il Trattato di Lisbona ha introdotto la figura di un presidente permanente del Consiglio

europeo. Esso viene eletto dal Consiglio europeo a maggioranza qualificata per un mandato di due

anni e mezzo, rinnovabile una volta. Le sue funzioni sono: presiedere e animare i lavori del Consiglio

europeo; assicurare la preparazione e la continuità dei lavori del Consiglio; facilitare la coesione;

presentare relazioni dopo le riunioni del Consiglio europeo; assicurare la rappresentanza esterna

dell’Unione e infine, convocare una riunione straordinaria del Consiglio europeo per definire le linee

strategiche della politica dell’Unione. Il Consiglio europeo, deliberando a maggioranza qualificata,

nomina l’alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la politica di sicurezza (AR). Le sue

funzioni principali sono: condurre la PESC in linea con il mandato ricevuto dal Consiglio; contribuire

all’elaborazione della PESC; proporre al Consiglio la nomina di un rappresentante speciale per un

mandato per problemi politici specifici; presiedere il Consiglio affari esteri; essere uno dei

vicepresidenti della Commissione; rappresentare l’Unione per le materie che rientrano nella PESC e

condurre il dialogo politico con paesi terzi. Per quanto riguarda la Politica di sicurezza e difesa

comune, le funzioni principali dell’AR sono: proporre al Consiglio le decisioni relative a tale politica

e coordinare gli aspetti civili e militari di tali missioni. Spetta all’AR, congiuntamente con la

Commissione, proporre al Consiglio l’interruzione o la riduzione, totale o parziale, delle relazioni

economiche e finanziarie con uno o più paesi terzi e/o l’adozione di misure restrittive nei confronti

di persone fisiche o giuridiche. Spetta all’AR, insieme alla Commissione, attuare ogni utile forma di

cooperazione con gli organi delle NU, il Consiglio d’Europa, l’Organizzazione per la sicurezza e la

cooperazione in Europa e l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico. Spetta

all’AR, congiuntamente con la Commissione e a seguito di una richiesta da parte delle autorità

politiche dello Stato colpito da un attacco terroristico o vittima di una calamità naturale, proporre al

Consiglio le modalità di attuazione della clausola di solidarietà. Il Consiglio degli affari esteri è

l’attore più importante nel processo decisionale relativo alla politica estera. Esso si occupa del

commercio estero, cooperazione allo sviluppo, aiuto umanitario, accordi internazionali e PESC.

Inoltre è composto dai ministri degli Esteri degli Stati membri e dall’AR. I ministri discutono e

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adottano decisioni relative alle relazioni esterne e alla politica estera, utilizzando sia il metodo

intergovernativo che quello comunitario. Il Consiglio è l’attore decisionale principale nelle fasi del

policy-making: definizione, decisione, implementazione e controllo. La Commissione europea svolge

un ruolo significativo nelle cosiddette politiche esterne comunitarizzate, grazie al suo diritto esclusivo

di iniziativa legislativa, ma non ha alcun ruolo nella PESC. Le principali fonti di finanziamento della

politica estera dell’Unione Europea sono il bilancio dell’Unione, i bilanci nazionali, le disposizioni

comuni al di fuori del bilancio comunitario, i finanziamenti provenienti da altri organizzazioni

internazionali. Le relazioni tra i PECO (paesi dell’Europa centrale e orientale) e l’Unione possono

essere ricostruite in tre fasi: la prima fase iniziò prima della caduta del Muro di Berlino. Tra il 1988

e il 1989 la Comunità europea concluse i primi accordi di cooperazione di Varsavia e Budapest,

mentre la conservatrice Cecoslovacchia si dovette accontentare di un accordo meno vantaggioso dal

punto di vista commerciale e nel caso della Romania i negoziati furono interrotti a causa del mancato

rispetto dei diritti umani. Nel 1991 Varsavia, Praga e Budapest, firmarono i primi accordi di

associazione in cui l’obiettivo consisteva nel fornire un quadro per il dialogo politico, la promozione

del commercio e delle relazioni economiche. La seconda fase ebbe inizio con il Consiglio europeo di

Copenaghen del 1993: l’adesione poteva aver luogo soltanto quando i candidati sarebbero stati in

grado di soddisfare alcune condizioni relative al rispetto per la democrazia e lo Stato di diritto, alla

protezione dei diritti umani e delle minoranze. Tra il 1994 e il 1996 tutti i paesi associati dell’Europa

centrale e orientale e le tre repubbliche baltiche presentarono domanda di adesione all’Unione. La

Commissione europea presentò dieci opinioni individuali sulle domande di adesione. Per cinque paesi

(Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria, Slovenia ed Estonia) essa raccomandò l’apertura dei negoziati

di adesione. La terza fase iniziò nel dicembre 1997 e, si passa dall’influenza indiretta a quella diretta.

La strategia si basava su tre nuovi strumenti: i partenariati di adesione (atti unilaterali), le valutazioni

annuali della Commissione europea relative al progresso effettuato dai paesi candidati nel rispettare

le condizioni dell’Unione (la Commissione evidenziava quanto era stato fatto per soddisfare le

priorità politiche ed economiche elencate nel partenariato di adesione) e l’assistenza finanziaria

finalizzata all’adesione. A partire dalla metà del 1991, è nei Balcani che la politica estera europea

mostrò la sua più grande inefficacia, in quanto né la CPE né la PESC furono in grado di fermare le

guerre ai confini dell’Unione. Questo fallimento ha condizionato gli sviluppi del secondo pilastro

dell’Unione. Con gli accordi di pace che posero fine alla guerra in Bosnia e in Kosovo, ci si rese

conto che la presenza di forze militari non era da sola sufficiente al raggiungimento di una pace

duratura, che richiedeva una fondamentale trasformazione della regione in modo da demilitarizzare

le relazioni tra Stati e tra gruppi sociali. In questo contesto, l’Unione iniziò il processo di

stabilizzazione e associazione (PSA) per aiutare questi paesi a consolidare le istituzioni democratiche,

assicurare la supremazia del diritto e sostenere un’economia libera. Tale processo si basava su tre

elementi: gli accordi di stabilizzazione e associazione, accordi internazionali bilaterali giuridicamente

vincolanti che fornivano il quadro entro cui sostenere la graduale integrazione di questi paesi

nell’Unione; un programma di assistenza finanziaria, CARD (Community Assistance for

Reconstruction, Democratization and Stabilization), sostituito nel 2007 dallo strumento per la pre-

adesione e la cooperazione regionale. L’Unione decise di offrire anche a questi paesi la possibilità di

diventare membri dell’Unione. Le relazioni della Turchia con la Comunità risalgono al 1963, quando

fu firmato l’Accordo di Ankara. L’aspetto principale di questo accordo era l’istituzione di un’unione

doganale in tre fasi. Le relazioni bilaterali peggiorarono nel 1980, a seguito del colpo di Stato, al

quale la Comunità reagì con la decisione di bloccare gli aiuti finanziari verso il paese. Tali relazioni

iniziarono a normalizzarsi a seguito della restaurazione di un governo civile nel 1983. Il 14 aprile

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1987 la Turchia presentò domanda di adesione. La Commissione europea suggerì che non sarebbe

stato utile aprire in quel momento i negoziati di adesione, per motivi sia politici sia economici. Nel

frattempo, nel 1995 si realizzò un’unione doganale con l’Unione Europea. Attraverso l’unione

doganale la Turchia diventa parte del mercato interno per quanto riguarda le merci e deve adottare

gran parte dell’acquis indipendentemente dalla prospettiva di adesione. Però mentre l’unione

doganale dalla Turchia veniva percepita come primo passo di un cammino verso l’adesione, per

l’Europa si trattava di uno strumento per approfondire le relazioni economiche con la Turchia, ma del

tutto scollegato dalla questione dell’adesione. Il Consiglio europeo di Lussemburgo decise anche di

elaborare una strategia per preparare la Turchia all’adesione. Il Consiglio europeo di Helsinki del 10-

11 dicembre 1999 rappresenta l’inizio di una nuova era per quanto riguarda le relazioni fra Turchia e

Unione. Viene infatti deciso che la Turchia è un paese candidato destinato a unirsi all’Unione. Nel

dicembre del 2004 il Consiglio europeo stabilì che i negoziati di adesione con la Turchia si sarebbero

aperti nell’ottobre 2005. Il punto 2 dell’accordo-quadro raggiunto fra la Turchia e l’Unione sosteneva

i punti che avrebbero portato la Turchia all’adesione: i criteri di Copenaghen; buone relazioni di

vicinato; sostegno per risolvere i problema di Cipro; accordo di associazione a tutti i nuovi Stati

membri dell’Unione, compresa la repubblica di Cipro. Il mancato rispetto di quest’ultima condizione,

ha portato l’Unione nel 2006 alla decisione di sospendere parzialmente i negoziati di adesione.

L’Unione avrebbe però molto più da guadagnare che da perdere dall’adesione della Turchia. Tale

adesione potrebbe agire da contrappeso alla tesi dello scontro di civiltà, contribuire a cambiare

l’immagine dell’Unione come quella di un club cristiano e a ridefinire le sue relazioni con il mondo

musulmano. A seguito dell’allargamento del 2004 le relazioni con i nuovi vicini a Est e con i paesi

della sponda meridionale del Mediterraneo furono raggruppate in un’unica e nuova politica regionale,

la politica europea di vicinato (PEV). Verso la metà degli anni novanta, l’Unione decise di proiettare

il Mediterraneo al centro della sua politica estera attraverso una nuova e ambiziosa politica, il

partenariato euro-mediterraneo (PEM), conosciuto anche come processo di Barcellona, verso i paesi

di quest’area. Tale politica fu incoraggiata anche dal nuovo contesto meridionale, caratterizzato

dall’Accordo di Oslo del 1993 tra Israele e Palestina. L’Unione si poneva l’obiettivo di favorire

cambiamenti nelle strutture politiche, giuridiche, economiche e sociali dei paesi mediterranei, nelle

loro relazioni reciproche e nelle relazioni con l’Unione. La Conferenza euro-mediterranea istituì il

PEM, che iniziava un processo mirato alla creazione di una cornice multilaterale per il dialogo e la

cooperazione nelle tre dimensioni del partenariato: la dimensione politica e della sicurezza, la

dimensione economica e finanziaria e quella sociale e culturale. Il PEM stabilì un programma

dettagliato di lavoro, fissò meccanismi istituzionali per consentire incontri regolari a livello di

ministri, funzionari, parlamentari, autorità locali, organizzazioni della società civile e mise a

disposizione ingenti risorse finanziarie attraverso un apposito strumento regionale di assistenza

finanziaria. A circa dieci anni di distanza, l’Unione cercò di rinnovare questo processo attraverso la

PEV. Obiettivo principale era rafforzare la stabilità e la sicurezza ai nuovi confini dell’Unione,

attraverso la promozione dello sviluppo economico e politico e della cooperazione regionale tra i

nuovi vicini del Mediterraneo meridionale, dell’Europa orientale e del Caucaso meridionale. Ai

partner della PEV non poteva essere offerto l’incentivo dell’adesione all’Unione ma gli veniva

richiesto lo stesso impegno dei paesi che hanno una prospettiva di adesione per quanto riguarda i

valori comuni, in particolare la democrazia, lo Stato di diritto, il rispetto per i diritti umani. Gli

strumenti principali per realizzare questa politica sono i piani di azione e l’assistenza finanziaria

tramite l’ENPI (European neighbourhood policy instrument), che a partire dal 2007 ha sostituito i

programmi regionali MEDA e TACIS.