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RESTAURI IN EMILIA-ROMAGNA ATTIVITà DEGLI ISTITUTI MiBAC NEL 2008 Atti del Convegno Ferrara 27 marzo 2009 Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici dell’Emilia-Romagna Ministero per i Beni e le Attività Culturali

RestauRi in emilia-Romagna

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RestauRi in emilia-Romagna

attività degli istituti mibac nel 2008

Atti del ConvegnoFerrara 27 marzo 2009

Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici dell’Emilia-Romagna

Ministero per i Beni e le Attività Culturali

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attività degli istituti mibac nel 2008

Atti del ConvegnoFerrara 27 marzo 2009

Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici dell’Emilia-Romagna

Ministero per i Beni e le Attività Culturali

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RestauRi in emilia-Romagnaattività degli istituti mibac nel 2008

Atti del Convegno organizzato dalla Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici dell’Emilia-Romagna

nell’ambito del XVI Salone del Restauro e della Conservazione dei Beni Culturali e Ambientali

(Ferrara, 25-28 marzo 2009)

a cura di Paola Monari e Andrea Sardo

Presentazione di Carla Di Francesco

Atti del Convegno

FerrArA 27 mArzo 2009

Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici dell’Emilia-Romagna

Ministero per i Beni e le Attività Culturali

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RestauRi in emilia-Romagnaattività degli istituti mibac nel 2008

a cura di Paola Monari e Andrea Sardo

Direttore editoriale: Roberto Mugaverografica e impaginazione di Paolo Tassoni

© 2009 Minerva Soluzioni Editoriali srl, Bologna

Proprietà artistica e letteraria riservata per tutti i Paesi.Ogni riproduzione, anche parziale, è vietata.

ISBN: 978-88-7381-285-2

Minerva EdizioniVia Due Ponti, 2 - 40050 Argelato (BO)Tel. 051.6630557 - Fax 051.897420http://www.minervaedizioni.come-mail: [email protected]

Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici dell’Emilia-Romagna

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i n d i c e

CARLA DI FRANCESCOPresentazione 5

FRANCESCA BORIS, MANUELA MATTIOLIIl globo terrestre di Vincenzo Coronelli dell’Archivio di Stato di Bologna 9

ANTONIETTA FOLCHIUn esempio di restauro: l’archivio notarile antico di Ferrara 2 3

GIANLUCA BRASCHIIl restauro del Cabreo AB 265 “Terreni appartenti ai Pavolotti di Rimini” 3 7

ANDREA DE PASQUALELe carte nautiche della Biblioteca Palatina di Parma 4 5SILVANA GORRERILe carte nautiche della Biblioteca Palatina di Parma: un piano strategico di restauro 5 3

CORRADO AZZOLLINI, LUCIANO SERCHIAInediti dal restauro: paesaggi dipinti nel Palazzo del Giardino di Parma 5 7

GRAZIELLA POLIDORIIl duomo di Modena “capolavoro del genio creatore umano”. Il restauro del paramento lapideo 6 9

ANTONELLA RANALDIRestauri della chiesa del SS. Salvatore a Bologna 8 3

ANDREA CAPELLIIl palazzo ex Enpas a Bologna. Restauro delle superfici esterne 9 9

GIANFRANCA RAINONEGli altari delle chiese di S. Giuliano a Bologna e di S. Domenico a Budrio 1 1 1

ANTONELLA RANALDI I chiostri di S. Pietro a Reggio Emilia. Note sui restauri 1 2 3

ELENA DE CECCO, VALTER PIAZZA, CETTY MUSCOLINOLa chiesa dell’abbazia di S. Leonardo a Montetiffi, Sogliano al Rubicone 1 4 1

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MANUELA CATARSI, CRISTINA ANGHINETTI, PATRIZIA RAGGIO, GIOVANNI SIGNANI, BARBARA ZILOCCHIIl recupero strutturale dell’oratorio di S. Enrico di Calcaiola di Valmozzola 1 5 5

MARIA GRAZIA MAIOLI, MAURO RICCI, MONICA ZANARDI, CETTY MUSCOLINO, CLAUDIA TEDESCHIIl complesso archeologico in piazza Ferrari a Rimini. Situazione attuale e ipotesi di restauro 1 6 5

ANTONELLA POMICETTILa Stele delle Spade: aspetti conservativi 1 7 5

SCHEDE TECNICHE 1 8 3

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La pubblicazione degli Atti del convegno Restau-ri in Emilia-Romagna: attività degli Istituti Mi-BAC nel 2008, svoltosi a Ferrara in occasione del Salone del Restauro 2009, presenta ad un pubblico di esperti, studiosi e conoscitori una

selezione di interventi tra i numerosi svolti all’interno delle attività istituzionali di Soprintendenze, Archivi di Stato, Biblioteche e Direzione regionale dell’Emilia-Romagna nel corso del 2008. Si tratta di lavori di restauro e conserva-zione che hanno interessato manufatti (chiese, conventi, complessi archeologici, documenti, libri, ecc.) e materiali (dalla carta al lapideo, dall’intonaco al legno, dagli affreschi al mosaico) tra loro eterogenei e diversi e che, proprio per questo, costituiscono una significativa esemplificazione di quel lavoro ordinario che è la ragione stessa dell’esistenza degli uffici di tutela ed il fondamento della loro attività. Ciascuno per la propria competenza - archeologi, archi-tetti, archivisti, bibliotecari, restauratori, storici dell’arte - ha spiegato, semplicemente, un caso di studio scelto tra quelli dei quali si è occupato durante l’anno. Progetto e realizzazione hanno seguito un percorso metodologico or-mai codificato dalla moderna riflessione sulla teoria e sulla prassi del restauro: una metodologia che parte dall’ indi-viduazione dei valori storico culturali, dalla lettura e dallo studio del manufatto, finalizzati ad acquisire le conoscenze necessarie sia alla valutazione storico-critica che alle scelte per l’intervento più appropriato e, passando per le inda-gini di laboratorio sui materiali e lo studio delle tecniche esecutive, arriva all’individuazione delle tipologie e delle cause del degrado che rendono necessario l’intervento. Un percorso normalmente seguito, come si comprende leggen-do i singoli contributi, sia quando si tratti di specifici e puntuali problemi di conservazione di materiali cartacei o lapidei, come nei casi più complessi di restauro e migliora-mento strutturale di un grande complesso architettonico, o di approccio alla manutenzione di pavimenti mosaicati in ambito archeologico. Una unità di metodo che è, davvero,

P R E S E n t A z I o n E

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il linguaggio comune per la conservazione delle diverse for-me in cui si presenta il patrimonio storico e artistico.Restauro e conservazione sono mezzo fondamentale per il raggiungimento della finalità più alta della tutela, la tra-smissione alle future generazioni del bene culturale. In un momento storico in cui il dibattito sulle funzioni e sul fu-turo del Ministero sembra ripiegarsi su se stesso, tra con-tinue e contraddittorie riforme organizzative, la Direzio-ne regionale dell’Emilia-Romagna ha sentito il bisogno di riunire gli Istituti territoriali del Ministero nella giornata ferrarese per tornare a riflettere insieme su questo concetto primario: infatti la tutela è oggi pressoché assente dalle pre-occupazioni generali, si dà per scontata, quasi non avesse bisogno per essere attuata con effettivi risultati di perso-nale tecnico-scientifico adeguatamente preparato e moti-vato e di sufficienti risorse economiche, che invece ne sono l’indispensabile nutrimento. Nel recente dibattito sui beni culturali, tutto sbilanciato verso la valorizzazione, questa complessa attività definita dal D.Lgs. 42/2004 sembra es-sere interpretata dai più soprattutto come mostre spettaco-lari, grandi eventi, numero di visitatori eccezionale, ribalta dei media, anziché come atto conclusivo del processo che inizia con il riconoscimento di valore del bene e si adopera per la sua conservazione.Proprio in questo difficile momento gli Istituti del Ministe-ro in Emilia-Romagna hanno risposto alla proposta di con-vegno della Direzione regionale con grande partecipazione, mostrando tra l’altro, anche attraverso l’attento ascolto dei temi proposti, il bisogno di uno scambio di esperienze e di più approfondita conoscenza delle tematiche conserva-tive affrontate dai colleghi di altra professionalità: non c’è dubbio infatti che una delle conseguenze positive della ri-forma organizzativa del MiBAC introdotta con il D.P.R. 233/2007 deve essere riconosciuta nel ricongiungimento di tutti gli Istituti presenti sul territorio all’interno della Direzione regionale, e quindi nella rinnovata possibilità di conoscenza tra il settore “arti” e quello “archivi e biblio-

Carla Di Francesco

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teche”, nella certezza che la discussione nella pluralità dei temi tecnico-scientifici costituisce un arricchimento reci-proco. Il convegno, intenso e serrato nei tempi e nei contenuti, è stato un modo semplice per riaffermare la vitalità mai persa dei compiti di tutela affidati agli Istituti del territorio, pro-prio, e soprattutto, nel 2009, anno in cui si celebra il primo centenario della legge 364/1909, varata dall’ancor giova-ne Stato italiano dopo anni di dibattito a salvaguardia del suo immenso patrimonio storico e artistico, un caposaldo i cui principi si sono riversati senza modifica nei successivi provvedimenti di legge, dalla 1089/1939 al decreto legi-slativo 42/2004, oggi in vigore. Dalle relazioni annuali di Raffaele Faccioli, primo direttore dell’Ufficio regionale per la conservazione dei monumenti dell’Emilia, ai contributi raccolti in questo volume sono passati decenni di lavoro, di studio, di risultati, di crescita di qualità tecnico scientifica a cui purtroppo non ha fatto seguito altrettanta crescita dell’Amministrazione. Per questo, a maggior ragione, va un ringraziamento sin-cero per il loro impegno ai soprintendenti, ai direttori di archivi e biblioteche e a tutto il personale che ha dato il suo apporto alla realizzazione del convegno e del volume che ne raccoglie gli Atti.

Carla Di Francesco

Presentazione

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le vicende conservative

Su Vincenzo Coronelli (Venezia 1650-1718) si accentrano curiosità e interessi ed anche una associazione, la Interna-zionale Coronelli, fondata a Vienna nel 1952, che si occupa della ricerca

scientifica sulle antiche rappresentazioni terrestri e celesti. Coronelli, geografo, cartografo, editore e inventore, fu inoltre un religioso e superiore dell’Ordine francescano dei Frati Minori Con-ventuali, teologo del collegio San Bonaventura di Roma e cosmografo della Repubblica di Venezia. Costruì i primi globi che rappresentavano la terra e i corpi celesti per il duca di Parma, Ranuccio II Farnese. In seguito ne costruì altri che oggi si tro-vano in varie città d’Italia e d’Europa. I più famo-si sono forse i grandi globi attualmente conservati alla Bibliothèque Nationale de France: Coronelli si recò a Parigi a costruirli per Luigi XIV, dal 1681 al 1683, su commissione del cardinale D’Estrées, ambasciatore francese a Roma. Le due sfere de-dicate al re Sole erano coperte in tela, rappresen-tavano uno la terra allora conosciuta e l’altro il cielo al momento della nascita di Luigi, con le costellazioni dipinte e miniate da Jean-Baptiste Corneille; misuravano 3 metri e 80 di diametro e pesavano circa 2 tonnellate ciascuna. Erano cave all’interno e, si dice, capaci di sostenere il peso di 30 uomini1. La loro prima sede fu il castello di Marly, e poi il Louvre, Versailles, la Villette; ora sono esposti, sospesi, all’ingresso Ovest della sede François Mitterrand della Bibliothèque Nationa-

le, a Tolbiac. Fu forse la loro bellezza a diffondere per tutta Europa la fama di Vincenzo Coronelli, che scrisse varie opere. Pubblicò, tra l’altro, un Atlante Veneto, di cui faceva parte un Libro dei globi, e una Epitome Cosmografica dove pure de-scrive in maniera dettagliata le tecniche di realiz-zazione dei globi e i materiali da utilizzare2.In Italia i globi Coronelli si trovano in biblioteche e musei di tutta la penisola. A Venezia, dal settem-bre 2007 al febbraio 2008, si è svolta al Museo Correr la prima interessante mostra sull’argomen-to3, che ha illustrato la nascita dell’età d’oro dei globi terrestri avviata dalle scoperte scientifiche del secolo XVI e proseguita nel XVII con i grafici ed editori olandesi. A Bologna i globi Coronel-li erano, a metà dell’Ottocento, almeno sette; e varrebbe forse la pena di riallacciare le fila di un racconto lacunoso, ricostruendo l’attuale situa-zione delle opere coronelliane bolognesi. Si po-trebbe partire dalla descrizione delle sfere italiane tracciata da un professore universitario, Matteo Fiorini. Nella sua opera “Sfere terrestri e celesti di autore italiano oppure fatte e conservate in Italia”, edita dalla Società Geografica Italiana nel 1899, si parla di due globi alla Biblioteca Comunale, due all’Archivio di Stato, due al Convento dell’Osser-vanza e uno solo, terrestre, in una libreria privata, la libreria Liuzzi4. I due dell’Archivio di Stato, ter-restre e celeste, vengono descritti da Fiorini come già danneggiati dai traslochi subiti5, mentre anche quelli dell’Osservanza sono, dice l’autore, “in uno stato miserando”. A tutt’oggi, i globi dell’Osser-vanza e quelli dell’Archiginnasio risultano man-

Il gloBo tERREStRE DI VInCEnzo CoRonEllI DEll’ARChIVIo DI StAto DI BolognA

Francesca Boris, Manuela Mattioli*

01. Il globo prima del restauro

* La prima parte del saggio, sulle vicende conservative del globo, è di Francesca Boris, la seconda, sul restauro, è di Manuela Mattioli.

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10 10 Il globo terrestre di Vincenzo Coronelli dell’Archivio di Stato di Bologna

canti, forse distrutti da bombardamenti, mentre non si hanno notizie del globo Liuzzi.Trasferimenti rischiosi, intrighi politici, bombar-damenti, vicende conservative al limite del perico-lo si intrecciano anche nell’avventura secolare dei globi di proprietà dell’Archivio di Stato. Il globo celeste che affiancava il terrestre in seguito fu se-parato dal nostro e viene considerato perduto.

I due globi, dal diametro di poco superiore al metro, apparivano intatti, ma come “due mappa-mondi in cattivo stato”6, nel 1877, fra le suppel-lettili conservate nell’Archivio Demaniale, presso l’antico convento dei Celestini, che raccoglieva gli archivi delle Corporazioni religiose soppresse nel periodo napoleonico e oltre. Erano quindi un retaggio proveniente dal mondo dei conventi e

02. Effige del Coronelli

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11 11 Francesca Boris, Manuela Mattioli

delle chiese bolognesi. Da un’opera recente7 è sta-to supposto, ma senza citare prove documentarie, che il Senato di Bologna avesse ricevuto l’omag-gio dei due globi Coronelli dal Senato venezia-no, intorno alla fine del Seicento o all’inizio del Settecento, e li avesse poi esposti in una chiesa, Santa Maria dei Servi. In ogni caso, come si è visto, nella seconda metà dell’Ottocento i globi,

già malconci, si trovavano all’Archivio Demania-le, nell’ex convento dei Celestini; quindi è molto probabile che provenissero da una chiesa. E con tutto il materiale archivistico delle Corporazioni religiose confluirono nell’appena costituito Ar-chivio di Stato, nella sua prima sede di palazzo Galvani, di fianco all’Archiginnasio. Qui vengo-no appunto segnalati nel 1899 da Matteo Fiorini,

03. Particolare di un cartiglio

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che nota come soprattutto uno di loro sia stato ulteriormente danneggiato dal trasporto. Tali condizioni conservative precarie indussero pro-babilmente la Direzione dell’Archivio a ordinare un intervento di restauro nei primi decenni del Novecento, come è risultato dalla analisi del glo-bo terrestre nel corso delle indagini attuali: ma anche di questa operazione non è rimasta traccia documentaria.Dalla successiva sede dell’Archivio di Stato, di nuovo il convento dei Celestini, i globi dovevano ripartire dopo più di sessant’anni, nel novembre 1941, per un’altra complessa spedizione, che sa-rebbe stata fatale per il globo celeste. Il ministe-ro dell’Interno li reclamava a Roma, per un ina-spettato quanto necessario restauro: si ricordi che l’Istituto di Patologia del Libro era stato fondato da pochi anni, per espressa volontà del regime8. La comunicazione era secca: “Essendo intenzione di questo Ministero di provvedere al restauro dei due mappamondi esistenti in codesto Archivio, si

dispone che i mappamondi stessi siano trasmes-si all’Archivio di Stato di Roma”9. I globi furono ingabbiati per il trasporto e spediti separatamen-te ai loro sostegni, che li raggiunsero nell’aprile del 1942. Nel fascicolo di aprile-giugno 1942 del “Bollettino del R. Istituto di Patologia del Libro” (Anno 4, n.2) il restauro viene già dato per termi-nato. Nella relazione di quell’anno del Direttore dell’Istituto, il professor Alfonso Gallo, si preci-sa che “il lavoro è stato eseguito dal cav. Man-cia dell’Amministrazione degli Archivi”10. Nel “cavalier Mancia” è forse da riconoscere Renato Mancia, che fu dirigente dei Laboratori di ricer-che scientifiche dell’Accademia Nazionale del Re-stauro, ed autore di diverse pubblicazioni sull’arte del restauro11. Non si parlava però di un ritorno a Bologna dei due oggetti restaurati.Gli intenti dovevano essere altri per i globi, i quali (come affermano fonti orali) si vociferava fossero destinati ad avere sede, una volta pronti, a Palazzo Venezia. Si occupò della loro sorte in particolare

04. Interno del globo 05. Immagine del degrado

Il globo terrestre di Vincenzo Coronelli dell’Archivio di Stato di Bologna

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l’allora sottosegretario agli Interni Guido Buffarini Guidi, personaggio di spicco della cerchia di Mus-solini e membro del Gran Consiglio del Fascismo, che arrivò a separare i due globi portando a Pisa, dove risiedeva la sua famiglia, il forse più affasci-nante globo celeste. Questo si deduce da una lette-ra del Ministero all’Archivio del 1950, dove si parla della distruzione del globo celeste sotto i bombar-damenti: “Venne a suo tempo sequestrato presso il magazzino della ditta Marcacci, di Pisa, ove l’ave-vano depositato i familiari dell’ex sottosegretario di Stato Buffarini, ma andò poi disgraziatamente distrutto in Pisa stessa in seguito all’incursione aerea del 31 agosto 1943”12. Non pare siano state svolte ulteriori inchieste sulla scomparsa di questo bellissimo manufatto, forse appartenente all’edi-zione del globo celeste dedicata da Coronelli nel 1692-93 al cardinale Pietro Ottoboni, nipote di papa Alessandro VIII e illustre mecenate; è definita come edizione convessa, cioè in cui le costellazioni sono rappresentate come osservate dall’esterno, e la posizione delle stelle è quella dell’anno 170013.La stessa lettera del Ministero dell’Interno che comunica la perdita del globo celeste indica la so-pravvivenza di quello terrestre, che risultava nel 1950 conservato all’Archivio di Stato di Roma, e di cui si stava completando il restauro. Ma dovevano passare ancora diciassette anni, e le proteste di mol-ti studiosi, perché l’Archivio di Bologna riuscisse a ottenere la restituzione del globo superstite14, da allora collocato nel corridoio della Direzione, e in seguito all’interno del locale stesso della Direzione. Le condizioni del globo, nonostante o forse pro-prio a causa di operazioni di restauro interrotte e riprese più volte attraverso il tempo, rimanevano precarie, e non sono migliorate nei successivi qua-rant’anni. Sul finire del 2007 la necessità urgente di

un restauro conservativo moderno e di una nuova collocazione più adeguata dal punto di vista della conservazione hanno indotto la Direzione dell’Ar-chivio di Stato di concerto con la Soprintendenza per i Beni storici, artistici ed etnoantropologici di Bologna ad affidare il restauro del globo terrestre a un laboratorio bolognese di provata esperienza, e a richiedere la sua successiva esposizione presso il Museo di Palazzo Poggi, dove già si trova un glo-bo Coronelli di provenienza privata, e dove potrà essere meglio ammirato dalla città a cui fu donato alcuni secoli fa. L’Università si è dimostrata lieta di accogliere la proposta. E ora il globo è collocato in una delle sale più suggestive del Museo, la sala IV, antica sede della biblioteca dell’Istituto delle Scien-ze, fra arredi settecenteschi e preziosi volumi che ne costituiscono uno sfondo adeguato, in un gioco di rimandi allusivi all’ambiente illuminista che accol-se la visione del mondo illustrata dalla sfera. Una teca di plexiglass lo racchiude in un microclima controllato che consentirà di prolungare i benefici del recente restauro e di assicurare le modalità di una conservazione preventiva.Il restauro ha consentito di apprezzare in pieno gli splendidi cartigli, con tracce di colore fra cui un rosso pastoso, e l’espressivo ritratto dell’au-tore. Il globo terrestre di Vincenzo Coronelli, restituito alla sua primitiva bellezza dal restauro eseguito con perizia da Manuela Mattioli, con la sua superficie dorata gremita di cartigli e raffi-gurazioni fantasiose di popoli e paesi, è insieme uno sguardo sulla cultura eclettica del Seicen-to e il ritorno alla luce di un’opera importante del patrimonio artistico e scientifico bolognese, di cui si erano in parte perse le tracce, e che ha percorso una lunga storia avventurosa prima di tornare fra noi.

Francesca Boris, Manuela Mattioli

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il restauro

Coronelli definiva se stesso cosmografo, lo pren-diamo ora in esame come ingegnoso costrutto-re di globi. La datazione del globo si può de-durre dal grande cartiglio posto sotto la Nuova Hollanda, dove abbiamo la dedica che celebra il Doge Morosini e ai piedi del putto, la cita-zione dell’Atlante Veneto, che il nostro pubblica

nel 1690. Le lastre per realizzare i fusi dei globi della dimensione di tre piedi e mezzo, venne-ro utilizzate solo fino alla morte dell’autore, ma le stampe dell’ultima edizione vennero montate anche successivamente. I globi del Coronelli eb-bero molta fortuna e vennero anche copiati. Se ne conoscono riproduzioni settecentesche ma-noscritte.

06. Fase di pulitura

Il globo terrestre di Vincenzo Coronelli dell’Archivio di Stato di Bologna

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I globi sono affascinanti oggetti polimaterici. Pro-blematici in ambito conservativo e con la doppia valenza di essere stati usati come strumenti di stu-dio e oggetti di grande prestigio. Nel suo tempo Coronelli sfruttò completamente questa opportu-nità anche dal punto di vista commerciale. Ciò che differenzia un globo da una carta geografica o da un documento è la complessità e la peculiarità dell’esecuzione e del montaggio che assembla ma-teriali diversi e richiede diverse competenze. L’attuale restauro ha mostrato chiaramente tutto questo. Inoltre ha dato la possibilità di entrare anche materialmente dentro all’oggetto, di arric-chire la nostra conoscenza sul modo di operare dell’autore. È stata indagata la superficie del glo-bo con fluorescenza ultravioletta e riflettografia infrarossa per acquisire informazioni preliminari. Successivamente utilizzando il frammento rinve-nuto all’interno, privo di sostanze sovrammesse nei precedenti restauri, è stato possibile eseguire la spettroscopia infrarossa FTIR-ATR e la mi-crospettroscopia Raman, in laboratorio15. Con la spettroscopia si è evidenziata la presenza di ossa-lato di calcio. È una sostanza inorganica, prodotta dalla mineralizzazione di sostanze organiche (par-ticellato atmosferico, patine etc.) esposte all’aria. Con la seconda indagine, si è definitivamente accertata la presenza di gommalacca fortemente ossidata, riconosciuta come la vernice originale.

note costruttive

Quasi mai coerente e lineare nell’esecuzione, Co-ronelli realizza la struttura interna di questo glo-bo in legno, secondo lo schema da lui descritto e maggiormente usato. Di fattura un po’ grossolana, questa struttura è stata rivestita di cartapesta. Man-ca qui la tela sotto la cartapesta, come è descritta

ed è stata ritrovata in altri suoi globi. Internamente notiamo che in più ci sono delle stecche poste dia-gonalmente, da riferire a interventi di restauro. La struttura lignea serviva per creare il guscio, sostene-re l’asse centrale ed irrobustire tutto l’insieme. Al contempo era abbastanza leggera per essere traspor-tata facilmente. Abbiamo numerato i fusi partendo dal primo, il meridiano di Greenwich e una iscri-zione di Coronelli lo rammenta. Alcuni studiosi iniziano la numerazione dal cartiglio dedicatorio al Cardinale D’Estrées ma purtroppo questo cartiglio a noi manca, assieme a tutto il rispettivo fuso nell’ emisfero Sud. Il fuso n°12, emisfero Nord, risulta sezionato e montato in due porzioni.Vediamo sbordature della colla usata per incolla-re i fusi e tracce degli inconvenienti di montaggio. Anche se le carte venivano bagnate si formavano spesso pieghe lungo il margine. Durante il restau-ro queste irregolarità vanno rispettate. Sotto ai fusi abbiamo uno strato a modo di fodera, costituito da fogli stampati, meno spessi, forse un’opera del Coronelli stesso. In altre occasioni ha ripetuto que-sta procedura e ha anche usato pagine di un suo diario16. Le carte poggiano su di un sottile ed irre-golare strato di gesso, che serviva per regolarizzare la superficie della sfera. Coronelli descrisse detta-gliatamente le colle, i colori e le vernici da usare per i suoi lavori, anche se poi si adattava ai materiali che trovava in loco e alle possibilità economiche del committenteLa collatura era data sulla carta stampata prima di acquerellarla, per evitare che il colore trapassasse le carte. Qui abbiamo poche tracce delle acquerel-lature originali e notiamo che la vernice originale, gommalacca, si è meglio ancorata dove c’è il colo-re. I pigmenti usati sono i consueti: rosso, bruno, ocra, giallo, verde.

Francesca Boris, Manuela Mattioli

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07. La sfera a restauro concluso

Il globo terrestre di Vincenzo Coronelli dell’Archivio di Stato di Bologna

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Un oggetto curioso, trovato all’interno, potrebbe riferirsi alle fasi costruttive. Si tratta di un dischet-to di pergamena manoscritta (molto più antica dell’epoca di Coronelli) tenuto da un laccetto in pelle annodato. Potrebbe trattarsi di una sorta di “tirante” usato per facilitare alcune operazioni di fissaggio. Altrove abbiamo legacci in corda per fis-sare le calotte al resto.Originale il contrappeso, un mattone scavato ai lati per essere legato ad uno dei traversi della struttura; restano corde e filo di ferro appesi in un punto appena sotto all’equatore. Non tutti i globi di Coronelli erano forniti di contrappeso. Dopo l’attuale restauro, montato nel basamento, ri-mosso il contrappeso, è orientabile a piacere. È stato fermato quindi nella posizione prescelta. Il globo ha un meridiano di legno e carta manoscritta recante i gradi, dove si innestano in apposite sedi di ottone i perni metallici inseriti nell’asse centrale della struttu-ra. Molto belle le carte poste sul circolo dell’orizzon-te che evidenziano i segni zodiacali e i mesi.

stato di conservazione Si riscontrano strati di sporcizia, particellato atmo-sferico su tutte le superfici cartacee con maggiore concentrazione sull’emisfero Nord. Abbiamo an-che abrasioni, consunzioni della carta con perdita di leggibilità, causate da manipolazioni, contatto con l’anello meridiano e tentativi di pulitura. Strati tenaci e di diverso tipo di colle dei precedenti in-collaggi, soprattutto all’equatore ed emisfero Sud; incollaggi eseguiti maldestramente con arricciature e deformazioni della curvatura della calotta, sfibra-mento della carta resa fragile dalle colle. Residui discontinui e frammentari della vernice ori-ginale che sulle carte dell’orizzonte è molto scurita ed alterata. Le stuccature del precedente restauro,

eseguite con fibre di carta e colla animale forte, sono ricoperte di carta giapponese debordante. Ci sono un paio di fenditure dovute a strappo dal materiale originale, con conseguente rottura della calotta.I fusi sono in molti punti staccati dal supporto, poiché lo strato di gesso sottostante, molto sot-tile, si è sbriciolato a seguito di traumi e ha per-so elasticità. Distacchi notevoli anche sulle carte dell’orizzonte.

Precedenti interventi di restauro

Restauri individuati e/o documentabili:-Primo quarto del XX secolo in ambito bolognese.-Anni quaranta e sessanta del XX secolo presso l’Istituto di patologia del libro di Roma.Sembra ci siano state riparazioni di fratture e scollature della carta eseguite precedentemente rispetto all’intervento dell’Istituto di patologia del libro. Nelle zone periferiche delle lacune e degli incollaggi si notano tracce di colla forte tenacissima e molto scura, diversa da quella uti-lizzata per impastare lo stucco di fibre e collare la carta a fine lavoro. C’è un vecchio innesto car-taceo manoscritto conservato anche nell’ultimo restauro romano. Risalenti a un primo restau-ro sono parte degli interventi, difficilmente da quantificare, all’interno del globo. Testimoniati dai frammenti cartacei tardo-ottocenteschi re-periti. Questi sono manoscritti, probabilmente degli elenchi, riciclati in ambito archivistico per le riparazioni da eseguire all’interno. Infatti al-cuni sono sagomati come le parti della struttura interna e sarebbero la prova che alcuni pezzi di legno sono stati rifatti o aggiunti. La cosa più in-teressante è ciò che leggiamo su queste carte: ap-pare il cognome Ranuzzi, di ambito bolognese. Il mattone venne ancorato meglio alla sua sede.

Francesca Boris, Manuela Mattioli

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Questo primo importante restauro venne effet-tuato dopo che il Fiorini descrisse questi globi già in pessime condizioni, e forse molti anni pri-ma della sfortunata partenza per Roma durante la guerra, nel 1941. L’autore di questo restauro avrebbe potuto documentarsi visionando la rara copia del Libro dei Globi di Coronelli già presen-te all’Archiginnasio dal 1907. È certo che anche durante il restauro romano sia-no entrati all’interno del globo. Vediamo una ri-parazione fatta in un legno tipo compensato. Al-cuni dei vecchi incollaggi sono stati ripresi poiché sotto alle carte riposizionate abbiamo trovato lo stesso stucco a base di fibre di cellulosa impiegato nelle grandi lacune. Stesse modalità di restauro le troviamo sulle carte dell’orizzonte.

Materiali e Metodi

Il restauro ha dovuto affrontare ed in parte accetta-re, i danni irreversibili causati non solo dal tempo, ma dall’uso e da gravi traumi subiti durante i vari spostamenti. Scriteriati e ormai obsoleti interventi di riparazione hanno favorito il degrado. Il criterio scelto è stato prettamente conservativo. Si è deciso di rispettare alcuni dei precedenti interventi poi-ché la rimozione avrebbe causato ulteriori traumi alla struttura e soprattutto alla carta, in molte parti abrasa e deteriorata da procedure e colle inadatte. È stato necessario entrare all’interno per rimuovere l’inedito contrappeso, un mattone, che staccatosi, stava causando danni alla struttura.La pulitura di tutte le superfici cartacee da sporco, vecchie colle e maldestre integrazioni, ha permes-so di recuperare la leggibilità del globo e dell’oriz-zonte. I residui della vernice originale del globo sono stati conservati, rimossi invece sulle carte dell’orizzonte dove erano fortemente alterati ed

anneriti. Sono stati fatti saggi di pulitura prelimi-nari per individuare le sostanze sovrammesse e le migliori metodologie da usare. Ai gel acquosi pre-scelti sono state addizionate piccole percentuali di sostanze basiche. Migliorano l’effetto detergente e hanno azione deacidificante. Per alleggerire e rimuovere la vernice alterata sulle carte dell’oriz-zonte, sono stati necessari impacchi con gel al-colico17. In molte parti gli stessi eteri di cellulosa in acqua o alcol sono serviti come consolidante e protettivo per la superficie cartacea. Ulteriori residui di cera e di sporco sono stati alleggeriti a secco, cautamente, con l’ausilio di un bisturi. A seconda delle zone sono stati variati i prodotti e i materiali per ottenere un migliore risultato. I residui di colle, per lo più nell’emisfero Sud, sono stati parzialmente rimossi con acqua calda. Il mi-stero di una persistente patina grigiastra è stato poi risolto dalle indagini diagnostiche, che ci han-no anche confortato nella decisione di conservare quasi interamente i residui di vernice originale.Alcuni dei precedenti incollaggi sono stati revi-sionati, per ripristinare una migliore curvatura della superficie, consolidarla e appianare le carte dei fusi. Gli adesivi oggi a disposizione, a differen-za da quelli usati nel passato, sono perfettamente compatibili con carta e cartapesta e più facilmen-te reversibili nel tempo. Sono state fatte prove di incollaggio per trovare un adesivo compatibile con i vari materiali, che con-solidasse lo strato di gesso e cartapesta e al tempo stesso in grado di penetrare bene e di essere iniet-tabile, oltre ad essere tenace, poco igroscopico e reversibile nel tempo. La scelta è caduta su una miscela variabile di beva e di klucel G.18 Questa formula in dispersione acquosa, a differenza di al-tre resine acriliche o viniliche è garantita reversibi-

Il globo terrestre di Vincenzo Coronelli dell’Archivio di Stato di Bologna

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19 19

le nel tempo in solventi polari19. L’intervento si è concluso con un’intonazione neutra ad acquerello delle vaste lacune, opportunamente ripristinate. Durante questo restauro sono state fatte delle scelte operative, motivate dalle condizioni critiche dell’oggetto. Abbiamo usato il criterio rigoroso di non asportare o modificare nulla di quanto fatto e da Coronelli costruito, fatta eccezione per il con-trappeso, per le motivazioni già illustrate20. Tutti i distacchi di porzioni di carta sono stati effettuati dove già erano stati rimossi nei precedenti restau-

ri e solo dove possibile senza ulteriori rischi, per migliorare l’adesione o la planarità delle superfici. Nessuna nuova vernice è stata applicata poiché la teca svolgerà una buona protezione. È stata valutata questa opera di Coronelli nella sua peculiarità di essere una creazione così etero-genea e in un certo modo unica per la sua storia conservativa. Molti materiali e vicende si interse-cano, sarebbe un errore pensare di circoscriverne l’atto del restauro nell’ esclusivo ambito dei ma-teriali cartacei.

8. Particolare dell’orizzonte

Francesca Boris, Manuela Mattioli

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20 20 Il globo terrestre di Vincenzo Coronelli dell’Archivio di Stato di Bologna

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10 ICPAL, Archivio dell’Istituto di Patologia del Libro, “Re-lazione del Direttore”, 1942. Per le informazioni e la ri-cerca ringrazio Cinzia Pacilli dell’Istituto centrale per il restauro e la conservazione del patrimonio archivistico e librario.

11 R. Mancia, L’esame scientifico delle opere d’arte e il loro restauro, Milano 1944.

12 ASBo, Archivio della Direzione, 1950.13 Sul restauro di un globo celeste concavo di Coronelli,

N. Scianna, Restaurare il cielo. Il restauro del globo celeste faentino di Vincenzo Coronelli, Bologna 2007.

14 È dell’8 aprile 1967 la lettera del Ministero dell’Interno con cui si comunica che “Questo Ministero…ha disposto che il mappamondo del Coronelli, inviato a Roma circa 30 anni or sono per l’esecuzione di alcuni restauri, sia resti-tuito a codesto Archivio di Stato, al quale originariamente apparteneva” (ASBo, Archivio della Direzione, 1967).

15 Si ringraziano la Dott.ssa Rosa Brancaccio del Dipar-timento di Fisica dell’Università di Bologna e il Dott.Diego Cauzzi della Pinacoteca di Bologna.

16 Comunicazione verbale del Prof. N. Scianna, che si rin-grazia.

17 Klucel G.(idrossipropilcellulosa) in acqua distillata, am-moniaca, alcol.

18 BEVA etilvinilacetato, idrossipropilcellulosa, acqua di-stillata.

19 Es. in alcol e acqua.20 È depositato assieme agli altri reperti rinvenuti all’inter-

no, presso l’Archivio di Stato.

1 F. Bonoli, Coronelli astronomo ed i globi celesti, in Vin-cenzo Coronelli astronomo e intellettuale, a cura di M. G. Tavoni, Pieve di Cento 1998, pp. 2-12.

2 F. Bonoli, Vincenzo Coronelli e il globo terrestre giovanni Enriques, Bologna 1991; L. Franco, Vincenzo Coronelli: vita e opere. Aggiornamenti, in “Nuncius” 1994, pp. 517-541; F. Bonasera, Per una classificazione dei globi celesti di Vincenzo Coronelli, in “Coelum” 1951, pp. 161-164.

3 “Sfere del cielo sfere della terra. globi celesti e terrestri dal XVI al XX secolo” Venezia, Museo Correr, 28 settem-bre 2007- 29 febbraio 2008.

4 M. Fiorini, Sfere terrestri e celesti di autore italiano fatto o conservate in Italia, Roma 1899, p. 474.

5 Ibidem, p. 352.6 ASBo, Archivio della Direzione, “Inventario degli ogget-

ti mobili che trovansi nell’Archivio Demaniale già esi-stente nell’ex convento dei Celestini ed ora trasportato nel Palazzo Galvani, dati in consegna, per ordine del Ministero delle Finanze, al Direttore dell’Archivio di Stato di Bologna”, 1877.

7 F. Nicolini Di Marzio, Vincenzo Coronelli (1650-Vene-zia-1718). Epitome storica veneziana nel culto ambivalente della loro identità. Memorie e risonanze, Napoli 2005.

8 L’Istituto nasce a Roma nel 1938 per iniziativa di Alfon-so Gallo, con la finalità di “coniugare discipline scienti-fiche e studio storico dei materiali librari”.

9 ASBo, Archivio della Direzione, 1941. Per la ricerca archi-vistica sul fondo della Direzione in Archivio di Stato, de-sidero ringraziare Alessandra Scagliarini e Licia Tonelli.

Note

9. Il globo al museo

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P resso l’Archivio di Stato di Ferrara si conserva il fondo degli Atti dei notai di Ferrara, Codigoro e Co-macchio, e frammenti di atti nota-rili di Argenta, il cui archivio andò

distrutto durante la seconda guerra mondiale. È costituito da circa 9.000 pezzi tra buste, mazzi, volumi e registri, per un arco cronologico com-preso tra 1334 e il 1907 (Fig. 1). All’interno del fondo si conserva la serie dei protocolli in cui i notai scrivevano le minute dei loro atti (dette anche imbreviature), da cui si traeva poi l’atto definitivo. Il notaio – stabilivano gli Statuti1- doveva indicarvi la data, il luogo del contratto, i nomi dei testimoni e il contenuto del negozio con tutte le precisazioni formali e sostanziali op-portune. Doveva inoltre il notaio porre al principio del suo protocollo e comporre di sua mano il pro-prio segno di tabellionato e sotto tale segno far seguire la descrizione: «questo è il libro o il protocollo di me tale, fi-glio del tale, del tale luogo, pubblico e autentico notaro secondo l’autorità apostolica o imperiale o collegiato inscritto nella matricola dei notari della città di Ferrara, contenente in sé tutte e singole imbreviature, dei contratti e degli scio-glimenti di contratti e delle ultime volontà, delle quali sarò incaricato; scritto e descritto e confe-zionato nel millesimo e sotto la tale indizione e nei mesi e nei giorni infrascritti» (Fig. 2). Accanto ai protocolli e da essi distinte, si conser-vano le schede che costituiscono una prima stesu-ra per esteso del contratto o di ciascun istrumen-to. Occorreva infatti, stabilivano gli Statuti, che

le imbreviature fossero scritte «bene e per esteso, ordinatamente e distintamente, parola per paro-la, con tutte le formalità solenni e le clausole op-portune che siano proprie della natura e sostanza di quel contratto o istrumento». Il notaio teneva perciò «un libro o quaderno di schede» che dove-va provvedere a conservare bene rilegandole ogni millesimo. Anche in questo quaderno il notaio doveva apporre il segno di tabellionato. Si trat-ta, in altre parole, delle scritture notarili servite di base alla redazione dell’instrumentum dotato di publica fides (Fig. 3). Nel fondo notarile si con-servano anche gli indici dei nomi delle parti con-traenti (1613-1816), i repertori e le matricole dei

Un ESEmPIo DI REStAURo: l’ARChIVIo notARIlE AntICo DI FERRARA

Antonietta Folchi

01. Archivio di Stato di Ferrara. Atti di Notai 02. Esempi di signum tabellionis di notai ferraresi

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notai (Fig. 4) nonché le serie delle copie degli atti registrati, sec. XIX, di Codigoro e Comacchio. Per quanto riguarda invece Ferrara, in seguito agli eventi della fine della guerra, sono andate distrut-te nel 1945 le copie degli atti versate all’ufficio estense dei Memoriali (1422-1613) e poi a quello pontificio del Registro (1613-1796), nonché le copie di atti di epoca napoleonica.L’esercizio del notariato a Ferrara, che com’è noto, risale all’ordinamento comunale, poi signorile, fu disciplinato negli statuti di Obizzo II, 1287 (li-

bro II) che furono successivamente adeguati alle mutate condizioni politiche attraverso le parziali riforme del 1320 e 1456 (Borso) e le successive revisioni fino al 1534, sotto Ercole II, e al 1567, sotto Alfonso II d’Este (Fig. 5). I punti di riferi-mento della regolamentazione a Ferrara della pro-fessione notarile, in epoca medioevale e moderna, sono gli statuti del 1287 e quelli del 1534. Non intervennero infatti sostanziali modifiche nel suc-cessivo periodo della Legazione pontificia fino alla Rivoluzione francese.

03. Schede del notaio girolamo Bonsignori, 1571

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04. La matricola dei notai di Ferrara, 1458-1514

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Il regolamento napoleonico del 17 giugno 1806 disciplinò organicamente la materia del notariato e degli archivi notarili nell’allora Regno d’Italia, fra cui rientrava Ferrara. Furono aboliti i collegi e i consigli notarili (poi ricostituiti con la prima legge unitaria sul notariato del 1875); fu istituito a Ferrara, capoluogo del dipartimento, un archi-vio generale notarile e furono creati archivi no-tarili sussidiari a Codigoro e Comacchio, con il compito di concentrare tutte le scritture dei notai cessati dall’esercizio.

Per la ricchezza del materiale custodito e le vastis-sime possibilità di utilizzazione delle scritture in ogni settore degli studi storici, in campo politico o economico, per la storia del diritto o per quella dell’arte, gli archivi notarili costituiscono, com’è noto, fonti insostituibili su tutto il territorio na-zionale. Il fondo notarile ferrarese, che è tra i più cospicui e indenni da perdite tra quelli conservati presso l’Archivio di Stato, è anche uno dei più consultati e ciò ha rappresentato un criterio, non il solo, che ha guidato nella scelta del materiale da

05. Statuti della città di Ferrara, 1567 06. Il progetto di restauro

Un esempio di restauro: l’archivio notarile antico di Ferrara

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07. Rilevamento dello stato generale

sottoporre all’opera di recupero: ha inciso infatti l’importanza del fondo, ma anche la constatazio-ne del precario, spesso pessimo, stato di conserva-zione in cui versavano le carte prima dell’acqui-sizione da parte dello Stato, in particolare, come vedremo, per i danni provocati dall’umidità. Pertanto sono stati finanziati dal Ministero per i beni e le attività culturali tre interventi conser-vativi. Essi sono stati realizzati su progetto del Centro di fotoriproduzione legatoria e restauro di Roma, e hanno riguardato la documentazione più antica e più danneggiata conducendo in tal modo al recupero di circa 36.000 carte di atti (protocolli e schede) dei notai che rogarono a Ferrara tra il 1399 e il 1641. Tra di essi figurano quelli che ste-sero atti anche per gli Este, signori di Ferrara fino al 1598, i quali sono di particolare importanza per le ricerche in loco, in quanto tutto l’archivio segreto estense fu trasferito a Modena quando il ducato di Ferrara passò sotto il diretto dominio della Santa Sede.

Aggiungo che con il finanziamento dello Stato sono stati realizzati anche altri interventi di re-stauro così sulla serie Mappe del Catasto gregoria-no che proseguiranno anche quest’anno grazie alle somme stanziate dal Ministero nella programma-zione dei lavori pubblici, per un importo di circa 52.000 euro.I lavori di restauro sono stati affidati a ditte esterne e ciò ha comportato lo svolgimento di una serie di adempimenti di natura tecnico-amministrativa svolti dalle due archiviste preposte al Servizio di conservazione dell’Istituto. In primo luogo l’indi-viduazione del materiale da sottoporre al restauro, che presuppone l’elaborazione di una mappa ag-giornata dei fondi d’archivio in precario stato di conservazione e la determinazione delle priorità di intervento. La cartulazione ex novo dei pezzi sele-zionati, quindi la progettazione e l’inserimento dell’intervento nella programmazione triennale dei lavori pubblici. Segue l’indizione della gara d’appal-to che dà luogo ad un’altra serie di adempimenti: direzione dei lavori, sopralluoghi in corso d’opera, consegna, riconsegna e collaudo finale. Per queste ultime operazioni e per la progettazione, ci si è av-valsi del personale tecnico-scientifico del Centro di fotoriproduzione legatoria e restauro, con sede a Roma.Al centro di tutto il procedimento resta natural-mente il progetto di restauro che spetta all’archi-vista e che rappresenta «il momento metodologi-co di riconoscimento» del bene culturale «nella sua consistenza fisica e nella sua duplice valenza estetica e storica in vista della sua trasmissione al futuro»2.Il restauro, che è il momento estremo della conser-vazione, si definisce pertanto nel riconoscimento del «valore archeologico» del supporto scrittorio,

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della legatura e di tutte le tracce delle vicende alle quali il documento è stato sottoposto attraverso i secoli, e nella consapevolezza che la scomposizione dell’unità determina la perdita delle informazioni storiche in esso contenute che non potranno mai più essere ricostruite interamente nella loro status originale3.Il progetto assume anche una forte valenza am-ministrativa: le offerte delle ditte invitate alla gara devono essere formulate sulla base del progetto medesimo e ciò pone tutti i partecipanti sullo stesso piano; inoltre è parte integrante del con-tratto per le obbligazioni poste a carico dell’ap-paltatore Il progetto sul quale ci soffermeremo riguarda 14 pezzi della serie Atti dei notai di Ferrara (1456-1594), per un totale di 8.476 carte. Il progetto è stato elaborato dall’archivista Cecilia Prosperi con la collaborazione dei tecnici Silvia Di Franco, Ga-briella Rava e Ciro Di Simone (Fig. 6). I documenti erano conservati all’interno di pac-chi in carta paglierina, chiusi con una fettuccia,

sui quali sono riportati il numero di matricola del notaio, il cognome e nome, gli estremi cronologi-ci del protocollo e il numero del pezzo all’interno della serie dei protocolli degli atti rogati dal me-desimo notaio (Fig. 7). All’interno di ogni pacco erano contenuti una serie di fascicoli e/o volumi raggruppati per anni (dal 1456 al 1594). I fascicoli erano a volte conservati in coprifascicoli di carta-paglia con l’indicazione a matita dell’anno di appartenenza. A volte erano cu-citi ognuno singolarmente e in questo caso aveva-no una coperta in cartoncino pesto leggero o erano privi di coperta. In altri casi ancora i fascicoli erano cuciti insieme con nervi in pelle o con ancoraggio diretto con o senza tassello in pergamena e avevano coperte in pergamena floscia o in cartoncino.A una rilevazione a campione della solubilità de-gli inchiostri, gli stessi sono risultati stabili, ma il test è stato comunque eseguito sistematicamente prima di ogni trattamento per via umida.I danni maggiormente riscontrati sono stati cau-sati dall’umidità e da infiltrazioni d’acqua che

08. Stato di conservazione 09. Stato di conservazione

Un esempio di restauro: l’archivio notarile antico di Ferrara

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hanno reso i supporti fragili, feltrosi (fenomeno per cui le fibre cellulosiche si uniscono tra loro) e gorati fino, talvolta, a scolorire gli inchiostri e a causare la perdita di parti del supporto (Figg. 8-10). Sporadicamente si è rilevata la presenza di erosione murina e di camminamenti di anobidi.Le carte erano generalmente sporche, soprattutto in prossimità dei margini che, a causa di un non idoneo pregresso condizionamento, erano anche sfrangiati e indeboliti. Sono presenti anche tagli e lacune, specie sulle prime e sulle ultime carte (Fig. 11).Anche le coperte in pergamena erano danneggia-te. Qui vediamo il volume dell’a. 1571 del notaio Girolamo Bonsignori che presenta una coperta in pergamena floscia con 3 corregge - di cui una mancante - in cuoio con intreccio in pelle alluma-ta (Fig. 12).Le operazioni preliminari al restauro sono state:1. la cartolazione, ovvero la numerazione progres-siva delle carte mediante matita di grafite. Il nu-mero viene posto generalmente in alto a destra sul

10. Stato di conservazione 11. Stato di conservazione

recto della carta. L’operazione è di competenza del soggetto appaltante;2. la fascicolazione, che consiste nel controllo dei fascicoli costituenti il volume da effettuarsi anno-tando su apposito diagramma la composizione dei fascicoli, le particolarità della sequenza delle carte e l’eventuale presenza di allegati;3. la documentazione fotografica a campione dello stato di conservazione del pezzo prima del restau-ro con particolare riguardo agli elementi visibili che lo compongono, legature e danni presenti. Le operazioni di restauro sono state le seguenti:-scucitura da effettuare recidendo, all’interno dei fascicoli, i fili di cucitura con bisturi o forbici a punta sottile;-spolveratura da eseguire utilizzando un pennello a setole morbide;-test di solubilità degli inchiostri nei confronti dei prodotti – solventi o soluzioni – successivamente utilizzati, che viene eseguita in più punti di cia-scun pezzo e di norma per ciascun tipo di inchio-stro presente;

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-lavaggio in acqua deionizzata ad una temperatu-ra massima di 30°;-deacidificazione (trattamento a base di sostanze alcaline che neutralizza l’acidità e fornisce alle carte una riserva alcalina per preservarle da future insorgenze di acidità) per immersione delle car-te in soluzione di carbonato di calcio (o,3g/l) e acqua deionizzata, fatta gorgogliare con anidride

12. Stato di conservazione

carbonica fino alla trasformazione del carbonato in bicarbonato;-leafcasting che ha riguardato oltre la metà delle carte. Per leafcasting si intende una serie di operazioni eseguite utilizzando un’apparecchiatura costituita da una macchina ponitrice di fibre di cellulosa che consente di risarcire le lacune, suturare le lacera-

Un esempio di restauro: l’archivio notarile antico di Ferrara

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13. I nuovi contenitori

-ricomposizione delle carte in fascicoli, ricontrol-lando e rispettando la numerazione e l’assemblag-gio degli stessi secondo la sequenza originaria.Per i fascicoli restaurati manualmente, dopo la deacidificazione, sono state eseguite: a) la ricollatura (operazione di consolidamento e rinforzo successiva ai lavaggi); b) lo spianamento per eliminare ondulazioni e ar-ricciamenti; c) il mending, che consiste nel risarcimento ma-nuale della carta, ovvero operazione di restauro di carta lacera o lacunosa mediante apposizione, con adesivo, di carta giapponese di grammatura idonea e di tono cromatico adeguato all’originale e rinforzo dei margini con velo giapponese, che è uno speciale tipo di carta fatta a mano, di fibre vegetali e con altre caratteristiche che la rendono durevole e stabile nel tempo; d) velatura parziale o totale ove necessario;e) rifilatura; f ) ricomposizione dei fascicoli. La diversità originaria dei tipi di cucitura e legatu-ra delle carte ha comportato una differenziazione delle tipologie di condizionamento.Passando dagli originari pacchi di carta paglierina a contenitori rigidi (scatole) si è ritenuto di ridur-re al minimo lo spessore totale delle nuove cami-cie utilizzate per separare gli anni all’interno del-lo stesso nucleo. Mentre un cartoncino durevole (0,76mm) è stato riservato al condizionamento dei fascicoli di carte sciolte lasciando naturalmen-te i fogli non cuciti (Fig. 13).Precise indicazioni sono state date anche per la cucitura dei fascicoli determinando, per esempio, lo spessore del dorso, fino a 2,5 cm per la cucitura diretta dei fascicoli alla coperta in cartone durevo-le e fino ad un numero di tre fascicoli.

zioni, ricostruire i margini. Sostituisce alcune fasi del tradizionale restauro manuale, reintegrando le zone mancanti del documento4;-velatura indiretta totale, ovvero operazione di consolidamento e rinforzo del supporto consisten-te nell’applicazione di un velo giapponese sulla superficie delle carte. Si è proceduto alla velatura delle carte restaurate dopo leafcasting applicando i veli precedentemente collati e posti ad asciugare applicata su tutta la superficie di una facciata del supporto (e scegliendo naturalmente, ove possibi-le, quello con minore presenza di testo).-rifilatura delle eccedenze di velo e carta giappo-nese nel rispetto dei margini originali;

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Per gli 8 volumi originariamente con coperta in pergamena floscia sono state previste nuove coperte in pergamena semifloscia con lacci di chiusura e ribattiture fissate con punti in pelle allumata.Per ciascun pezzo è stato previsto un contenitore del tipo a conchiglia in cartone Cagliari, rivesti-to esternamente in tela Buckram e internamente in carta barriera (dello spessore di 0, 38 mm).

La progettazione prende in dettagliato esame il singolo manufatto sia esso registro, codice, filza, protocollo, ecc., in ogni sua componente, come possiamo vedere dalla scheda progetto n. 10 delle quattordici predisposte (legatura, nervi, ribattiture, piatti, carte di guardia, dorso, cu-citura, capitello, materiale del capitello, danni alle coperte, stato di conservazione delle carte, danni alle carte, danni ai fogli membranacei, in-

14. Scheda progetto n.10 - Notaio giacomo Ferrarini, 1543

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chiostri) (Fig. 14). Una scheda assai complessa e articolata, che tuttavia, è stato osservato5, «pre-senterà sempre delle lacune, perché non tutto può essere previsto e contemplato». Da ciò deriva che il restauro del libro o del do-cumento diventa un’operazione di recupero del pezzo e delle informazioni deducibili dall’ogget-to «attraverso la lettura storica del manufatto e si realizza, nel migliore dei casi, nel consolidare le strutture originali riducendo al minimo le opera-zioni invasive»6. Trattandosi di un bene che assol-ve la propria funzione quando viene consultato, un’ulteriore finalità che deve perseguire l’opera del restauratore è quella di «restituire un bene nuovamente fruibile». Nel difficile equilibrio tra le due esigenze, cioè rispetto dell’originalità e del-la fruibilità, solo quando risulti indispensabile, sono studiate e ammesse minime variazioni ri-spetto alla struttura originaria7.

A tale regola fondamentale è stata improntata l’opera di recupero dei protocolli notarili ferraresi come possiamo constatare dalle immagini ante e post restauro di alcuni di essi (Figg. 15-19).È auspicabile che l’azione di restauro e di salva-guardia del patrimonio documentario custodito nell’Archivio di Stato di Ferrara possa contare anche sul contributo di altri enti e istituzioni sensibili alla conservazione delle memorie stori-che in un’era, qual è quella attuale, in cui, se da un lato il cartaceo sta cedendo sempre di più il passo ad altre forme di comunicazione e trasmis-sione delle informazioni - con tutti i pericoli che l’uso delle nuove tecnologie comporta quanto a durevolezza delle medesime, dall’altro, senza un’efficace azione di conservazione del patrimo-nio, si rischia di non poter più leggere neanche le testimonianze delle epoche passate per rico-struirne la storia.

15. Protocollo del notaio giacomo Ferrarini, 1543 ante restauro 16. Notaio giacomo Ferrarini, 1543 dopo il restauro

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17. Schede del notaio giovanni Battista Codegori 1568-1579 ante restauro

18. Notaio giovanni Battista Codegori 1568-1579 dopo il restauro

19. Scheda progetto n. 9 - Notaio Marco Bruno Anguilla 1547-1575 dopo il restauro

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4 C. Prosperi, Il restauro dei documenti di archivio. Dizio-narietto dei termini, Roma, 1999.

5 F. Alloatti, art. cit.6 Ibid.7 E. Tonetti, Il restauro delle carte notarili dell’Archivio di

Stato di Venezia alluvionate nel 1966, in www.archivio-distatodivenezia.it

1 A. La Rosa, Il notariato ferrarese negli statuti comunali del 1287 e del 1534, Ferrara, 1968 (Deputazione provinciale ferrarese di storia patria, Atti e memorie, serie III, vol. VIII).

2 C. Brandi, Teoria del restauro, Torino, 1970. 3 F. Alloatti, Restauro: un concetto in evoluzione, in «Bi-

blioteche oggi», a. XXII n.5, 2004.

Note

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Fin dall’inizio, la manifestazione “Terra nostra. Quattro passi nella storia di Ri-mini”, è stata pensata come un evento culturale complesso: complesso per-ché, promosso e ospitato dall’Archivio

di Stato di Rimini, è stato, in realtà, reso possibile dalla determinante e stretta collaborazione dell’As-sociazione “Quei de’ borg ad Sant’Andrea” e del Co-mune di Rimini e dai contributi accordati a diverso titolo dalla Fondazione Cassa di risparmio di Rimi-ni e dall’Ente Fiera di Rimini, con il patrocinio del Fondo per l’Ambiente Italiano, degli Ordini Rimi-nesi degli Ingegneri e degli Architetti, pianificato-ri, paesaggisti e conservatori, e dell’Istituto Storico della Resistenza e della Storia Contemporanea di Rimini. Un evento complesso soprattutto perché, oltre alla pubblicazione di un libro e del DVD C’era una volta, a Rimini, la Fornace Fabbri, catalogo fil-mato della mostra a cura di Manuela Fabbri e altri, ha compreso la mostra documentaria “Porte aper-te all’Archivio di Stato. II territorio della fabbrica di mattoni in Borgo Sant’Andrea”, la proiezione del film C’era una volta, a Rimini, la Fornace Fabbri, una vi-sita guidata alla chiesa di san Bernardino (uno fra i monumenti più interessanti e probabilmente meno conosciuti della città) e la presentazione della pub-blicazione I Poderi della ghirlandetta a Rimini: dai Malatesta ai fratelli Davide e Luigi Fabbri, di Oreste Delucca nella magnifica cornice della piazzetta San Bernardino, per l’occasione sgomberata dalle auto e chiusa al traffico, pedonalizzata e ricondotta, grazie a un sapiente e scenografico arredo urbano, al suo ruolo di punto di incontro e pubblico salotto del rione Montecavallo.

E proprio da quest’esperienza ha preso le mosse l’organizzazione della mostra documentaria, “Porte Aperte all’Archivio di Stato. II territorio della fabbri-ca di mattoni in Borgo Sant’Andrea”, e della relati-va pubblicazione di Oreste Delucca (peraltro già presente, col suo contributo, nel catalogo filmato). Seguendo la propria vocazione, I’Archivio di Stato ha trascelto dal suo vasto patrimonio documenta-rio i documenti più adatti a tracciare la storia del territorio su cui, poi, è sorta la Fornace Fabbri: atti notarili del XV e XVI secolo, nonché cabrei del XVIII secolo, sono stati esposti in virtù della loro importanza storico-documentaria, ma anche con un occhio alla particolare valenza estetica (in-negabile nel caso dei cabrei settecenteschi). Non a caso – come già provveduto per tutte le pergame-ne del Diplomatico Riminese, ora integralmente riprodotte in formato digitale ad alta definizione e presto disponibili in linea nel Sistema informati-vo degli Archivi di Stato (www.archivi-sias.it) – si pensa a un’acquisizione digitale anche per i cabrei.Il saggio di Oreste Delucca sui Poderi della Ghir-landetta rende conto di questa complessa e puntua-

Il REStAURo DEl CABREo AB 265“tERREnI APPARtEnEntI AI PAVolottI DI RImInI”

Gianluca Braschi

1. Lo stato di conservazione della copertura esterna del Cabreo* Cabreo AB 265, 2r, Saludecio (dopo il restauro)

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38 38 Il restauro del cabreo ab 265 “terreni appartenent i a i Pavolot t i d i R imin i ”

le ricerca documentaria, tracciando la storia di una specifica area urbana dal XV secolo ai nostri giorni, un’area – è bene ricordarlo – su cui già erano pre-senti insediamenti romani, se proprio nel territorio della fornace è stato ritrovato un ritratto bronzeo di Agrippina Minore, ora al Metropolitan Museum di New York. Si profila così una linea ideale tra il passato romano e il presente contemporaneo. La successione dei vari passaggi di proprietà (da quan-do, il 27 luglio 1452, Isotta degli Atti acquista per 250 lire un podere di sei tornature e poi, il 21 mag-gio 1471, un altro podere di otto tornature espres-samente citato come Ghirlandetta, fino ai nostri giorni) mette in mostra (è proprio il caso di dirlo) un bel pezzo di storia locale, evidenziando, oltre alle confische e agli espropri di epoca napoleonica, i pesanti interventi sul territorio passato e presen-te: la deviazione del fiume Ausa, i vari inserimenti edilizi, i nuovi tracciati viari e la stessa costruzione della fornace e relativa cava, di cui rimane traccia tutt’oggi nel cosiddetto laghetto PEEP.L’idea di abbinare il restauro di un documento tanto importante quanto finora così poco consultato come

il Cabreo AB 265 più noto come Cabreo del Borgo di sant’Andrea all’esposizione Porte Aperte all’Archi-vio di Stato: il territorio della fabbrica di mattoni in Borgo Sant’Andrea è sorta spontaneamente proprio durante le ricerche d’archivio che hanno portato e alla mostra e alla pubblicazione di Oreste Delucca.Due erano, infatti, gli obiettivi cui si mirava coll’al-lestimento della mostra: sviluppare una tematica di storia locale sia secondo la modalità espositiva o, se vogliamo, visuale tipica di una mostra secon-do un percorso che è insieme didascalico e narra-tivo sia secondo quella di un saggio storico nato da un lavoro di attento scavo e studio accurato delle fonti conservate presso quest’Istituto. Se da una parte una mostra documentaria come quella che è stata allestita nei locali dell’Archivio ren-de visibili, anzi tangibili, i documenti che con la fitta trama delle loro interrelazioni costituiscono concretamente ogni storia, se non addirittura la Storia, viene presto il momento di trarre le fila di questa trama e farne una narrazione completa.Attraverso l’escussione di quelle che sono le serie documentarie più importanti sia per l’aspetto gra-

02. Cabreo AB 265, 3r, Dichiarazione dell’estensore del ca-breo Alessandro Bertolucci, scrivano (dopo il restauro)

03. Cabreo AB 265, 6v, Santa Giustina e Cabreo AB 265, 7r, Saludecio (prima del restauro)

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39 39 Gianluca Braschi

fico e visuale sia per quello documentario e di te-stimonianza fra quelle conservate presso l’Istituto si snoda un percorso narrativo che affronta passo per passo la linea delle successioni di proprietà e delle destinazioni d’uso del podere della Ghirlandetta sui cui è stata costruita ed ha operato la Fornace e su cui in un futuro ormai prossimo saranno costruiti il Pala Congressi e l’Auditorium della città di Rimini nel solco di una tradizione che pare non volersi mai estinguere per questo lembo di territorio un tempo.II rispecchiamento puntuale fra la mostra docu-mentaria e la pubblicazione, che da quegli stessi documenti è tratta, ha in primo luogo un intento didascalico: vuole svelare al pubblico quella che potremmo definire I’officina dello storico, gli at-trezzi del mestiere di cui si serve per raccontare le sue storie. È sembrato un modo abbastanza concreto di mostrare quale sia I’importanza di un Archivio di Stato e, soprattutto, di darne un’im-magine più amichevole e, se possibile, dinamica.È sembrato, per tanto, ovvio portare alla luce un reperto così importante e così particolarmente attinente al tema trattato dalla mostra anche in considerazione del fatto che il documento non aveva finora ricevuto l’attenzione che gli sarebbe spettata sia in virtù della sua importanza docu-mentaria sia in virtù della sua valenza – per così dire – estetica condivisa, per altro, dalla grande maggioranza dei documenti di questo tipo (ca-brei, mappe catastali) del periodo. Sembra su-perfluo rammentare che in archivistica parlare di reperti è sempre un po’ fuorviante. Dal punto di vista di un archivio i vari documenti sono sempre lì: è solo la ricerca che li porta all’attenzione di volta in volta e portare all’attenzione di volta in volta i documenti è prima di tutto e fondamen-talmente un’avventura intellettuale.

Se – come si dice – niente è più inedito dell’edito, per quanto vero che il Cabreo da sempre era rego-larmente registrato negli inventari dell’Archivio di Stato di Rimini (all’Inventario del Comune di Rimi-ni e delle congregazioni religiose soppresse compilato nel 1865 da G. Corsi deve, infatti, la sua attuale de-nominazione), è solo col restauro che è potuto en-trare a tutti gli effetti fra i documenti normalmente consultabili in sala di studio: in un certo senso, è diventato, solo così, pienamente documento.Il documento compare, appunto, negli inventari con la segnatura AB 265 (che indicava allora una collocazione fisica) e la dicitura Terreni appartenenti ai Pavolotti di Rimini nel fondo Corporazioni Reli-giose Soppresse ed è datato 1775 ed è relativo all’area dell’allora Borgo di Sant’Andrea attualmente par-te del tessuto urbano di Rimini immediatamente a ridosso della restaurata Porta Montanara. I Frati Minimi di san Francesco di Paola (volgarmente, appunto, chiamati Paolotti) hanno lasciato questo cabreo dei loro possedimenti in Rimini redatto il 22 gennaio 1775. L’estensore «Alessandro Bartolucci, primo scrivano dello studio de’ signori Calindri» riporta che le sue rilevazioni trattano «delle pian-te de’ terreni di questo venerabile convento di san Francesco di Paola, estratte dalle mappe originali (…) all’occasione del nuovo appasso eseguito dalli geometra signori Serafino e Giovanni, fratelli Ca-lindri». La rilevazione è, dunque, parte delle grandi rilevazioni attuate dal geometra Serafini Calindri per conto del Comune di Rimini che vanno sotto il nome, appunto, di Catasto Calindri pure conservate presso l’Archivio di Stato di Rimini. Il documento in seguito alle soppressioni napoleoniche del 1813 è confluito nel grande fondo collettaneo in via di reinventariazione e ordinamento delle Corporazioni Religiose Soppresse.

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Purtroppo, la consultazione ha subito messo in evidenza il precario stato di conservazione dello stesso, che è stato, comunque, riprodotto digi-talmente e messo in mostra. Grazie al finanzia-mento di due sponsor riminesi Tina & Mary e Hotel Memory è stato possibile restaurarlo. Ha provveduto al restauro integrale del documento il dott. Riccardo Bolognesi della Cooperativa Socia-le “Centofiori” onlus. È importante mettere in evidenza come solo grazie alla manifestazione è stato possibile con-tattare e interessare gli sponsor e sensibilizzare la cittadinanza sull’importanza dei documenti conservati presso l’Archivio di Stato di Rimini e, soprattutto, sull’importanza del loro restauro.Consultato probabilmente per la prima volta in epoca moderna proprio in quest’occasione iI vo-lume del Cabreo AB 265 si presentava con cucitu-ra salda e coperta non particolarmente deteriorata o, comunque, in grado di assolvere la sua funzio-

ne di protezione delle carte. I piatti della coperta risultavano deformati probabilmente a causa della conservazione del volume in un luogo particolar-mente umido. La pelle della coperta era mancante di varie porzioni di fiore e nel complesso risultava essere in superficie. Tutti gli angoli avevano perso rigidità. La pelle del piatto anteriore presentava una piccola lacuna centrale provocata da rosura di insetti cosi come risultava leggermente intaccato anche il cartone sottostante. La pelle del morso nella zona del piede posteriore era fessurata. Man-cavano tutti i lacci in pelle allumata di chiusura del volume tranne quello anteriore lato testa. Molte carte risultavano essere incollate a causa della solubilizzazione della vernicetta posta a pro-tezione delle mappe colorate, solubilizzazione do-vuta probabilmente alla permanenza del volume in un luogo umido. In particolare, le carte contrassegnate in colla-zione con i numeri 6v-7r con le mappe rispetti-

Il restauro del cabreo ab 265 “terreni appartenent i a i Pavolot t i d i R imin i ”

04. Cabreo AB 265, 9r, Sant’Andrea dell’Ausa (prima del restauro)

05. Cabreo AB 265, 2r, Saludecio (prima del restauro)

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vamente di S. Giustina e di Saludecio presenta-vano entrambe due notevoli strappi dovuti pro-babilmente al tentativo di apertura delle carte incollate. Le carte con i numeri 8v-9r, 10v-11r, 14v-15r, 16v-17r, 18v-19r, 22v-23r, 24v-25r, 26v-27r, ri-sultavano incollate. Le carte con le altre mappe presentavano numerosi distacchi provocati presumibilmente dall’apertura delle stesse dopo l’adesione anomala della verni-cetta. Solo la mappa contrassegnata in collazione con il numero 48v-49r (Verucchio) si presentava in buone condizioni. Il filo di cucitura era spezzato fra le carte 38v-39r.Sono stati, pertanto, effettuati i seguenti inter-venti. Il distacco delle carte incollate mediante solubi-lizzazione della vernicetta attraverso impacchi di alcol etilico 50% e acqua 50% (l’intervento non

ha potuto eliminare completamente le macchie dovute al precedente assorbimento del pigmento fra le fibre della carta). Nelle carte che presentavano mappe con lacune di colore dovuto presumibilmente ad una forza-tura in apertura si è provveduto al distacco dei frammenti dalla pagina opposta con impacchi di acqua e alcol al 50% e successiva riapplicazione nelle rispettive mancanze, utilizzando come ade-sivo la Tylose MH 300p. Dopo avere riposizionato i frammenti nelle zone di distacco si è provveduto a uniformare ad ac-querello le piccole mancanze di colore per le quali non è stato trovato il frammento corrispondente. È stata ripristinata la cucitura fra le carte 38v -39r. Il volume è stato condizionato con dei pesi e de-gli spessori per fargli riassumere la forma origina-ria corretta.

La coperta in pelle a stata parzialmente distac-•cata per permettere: i1 rinsaldo degli angoli effettuato con iniezioni di Tylose MH 300P al 2% circa; il risarcimento della lacuna nel piatto anterio-•re con un frammento di pelle nuova; colorata con anilina ed incollata con Tylose •MH 300P al 6% addizionata con 10% di vi-navil 59; il risarcimento della rosura nel sottostan-•te cartone con stucco di cellulosa in Tylose MH300p al 6%;la riadesione della fessurazione al morso con •brachetta di carta giapponese incollata su tela di cotone adesa con Tylose MH 300P al 6% e 10% di vinavil 59;ripristino dei lacci di legatura con pelle allu-•mata nuova.

Gianluca Braschi

06. Cabreo AB 265, 1v, Santa Giustina particolare, (prima del restauro)

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Esternamente sono state incollate con Tylose MH 300p al 6% le porzioni di fibre distaccate e dove mancanti stato ristabilita l’uniformità cromatica con limitate riprese ad acquerello.Per limitare gli eventuali danni dovuti ad un im-magazzinamento in condizioni climatiche critiche si è provveduto a montare tra i bifili dipinti, dei fogli di carta giapponese da 11gr/mq fissati con 3 punti di Tylose MH 300p al 6% che potranno essere eliminati con estrema facilità. Si è optato per questa soluzione in quanto l’in-troduzione di fogli di maggiore spessore avrebbe fatto aumentare eccessivamente lo spessore del corpo delle carte con conseguente tensione ano-mala sulla coperta.

Tutti gli interventi sono stati documentati foto-graficamente.Completato il restauro, il documento è stato ri-messo in consultazione ed esposto. Come rientra tra i compiti istituzionali, che ogni Archivio di Stato si riserva, quello della conserva-zione del documento in quanto bene culturale così rientra pure quello della sua valorizzazione. Valo-rizzare un documento è comunicarlo, ridargli la di-gnità del suo contesto e renderlo fruibile al pubbli-co sia come contenuto e testimonianza materiale di un fatto storico sia come forma, anche estetica, con cui il contenuto stesso si manifesta. Ecco perché lo strumento della mostra e delle pubblicazioni che da questa scaturiscono naturalmente, è risultato

Il restauro del cabreo ab 265 “terreni appartenent i a i Pavolot t i d i R imin i ”

07. Cabreo AB 265, 1v, Santa Giustina e Cabreo AB 265, 7r, Saludecio (dopo il restauro)

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particolarmente adatto all’illustrazione dell’argo-mento e all’illustrazione dell’Istituto stesso: si va a mettere in mostra non solo la Fornace Fabbri attra-verso i documenti che se ne conservano la storia, ma anche l’Archivio di Stato stesso. Molte sono le iniziative che, recentemente, l’Ar-chivio di Stato di Rimini ha potuto mettere in cantiere nell’ambito della valorizzazione e della tutela del patrimonio documentario che ha in consegna come la digitalizzazione, appena com-pletata, di tutte le circa 5000 pergamene del co-siddetto Diplomatico Riminese (anche col soste-gno della Fondazione Carim) o – col finanzia-mento della Provincia di Rimini – delle mappe del Catasto Calindri: due acquisizioni che si spera di potere presto presentare alla cittadinanza con la dovuta risonanza in altre occasioni. Ed è proprio

in considerazione dell’impegno di quest’Archivio nell’ambito della conservazione digitale che an-che per il Cabreo AB 265 si pensa a una copia digitale da mettere a disposizione del pubblico sul sito dell’Archivio di Stato di Rimini (http://www.archiviodistato.rimini.it).L’augurio è certamente quello che - ancora una volta grazie alla collaborazione dei vari enti e realtà locali (Comune, Provincia, Regione, Fondazione Carim tanto per fare qualche esempio) in un’ot-tica di collaborazione e complementarità - questa manifestazione sia soltanto l’inizio di un dialogo fra l’Archivio e la Città di Rimini che si vuole quanto più serrato e duraturo possibile e che il restauro del Cabreo del Borgo di Sant’Andrea sia il primo di una lunga serie di documenti restaurati e restituiti alla cittadinanza e agli studiosi.

Gianluca Braschi

08. Cabreo AB 265, 1v, Santa Giustina e Cabreo AB 265, 7r, Saludecio, visione d’insieme (dopo il restauro)

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lE CARtE nAUtIChE DEllA BIBlIotECA PAlAtInA DI PARmA

Andrea De Pasquale

Le carte nautiche, disegnate e miniate su pergamena in fogli sciolti o orga-nizzate su più unità per formare un atlante, indicando le rotte da seguire e i porti e gli approdi sicuri, rappresen-

tavano tra Medioevo ed età moderna lo strumento fondamentale per effettuare la navigazione lungo le coste del Mediterraneo e dei territori europei che si affacciano sull’Atlantico. Contraddistinte dal fatto di non recare, se non ra-ramente, perché inutile, la toponomastica all’inter-no delle regioni, la loro precisione si arricchì con l’avanzare delle scoperte geografiche che portarono ad esplorare l’Atlantico e ad individuare il Nuovo Mondo e arcipelaghi fino a quell’epoca ignoti, e a perfezionare la conoscenza delle coste africane. Così, da una primitiva rappresentazione del Medi-terraneo con il posizionamento dei rombi di venti, esse si trasformarono in vere e proprie carte piane con l’indicazione dell’Equatore, dei Tropici e delle latitudini.Le tecniche di produzione, così come i luoghi, i principali porti del Mediterraneo, non mutarono comunque nel corso dei secoli, così come rima-se invariato il fatto che la fabbricazione continuò a concentrarsi nelle mani di pochi individui che generalmente tramandavano i saperi di padre in figlio.Tali carte recano spesso elementi decorativi acces-sori, di pressoché nulla utilità per la navigazione, che denotano sia le differenti committenze, sia la maestria dei cartografi: oltre a cartigli e nastri, spes-so, generalmente dal XVI secolo, si riscontrano, so-prattutto sulle carte sciolte, soggetti religiosi quali il Crocifisso, la Madonna con Bambino o Santi, e rappresentazioni più o meno stilizzate o realiste

di città, anche localizzate non sul mare, bandiere dai vivaci colori, rappresentazioni di sovrani sia eu-ropei, generalmente in trono o appoggiati ad uno scudo con emblemi araldici, sia africani o asiatici, seduti su un cuscino o un tappeto e affiancati da tende arabescate, navi di vario genere, animali re-ali (elefanti, dromedari, cammelli, leoni, scimmie, ecc.) e mitologici (draghi, unicorni, sirene ecc.), catene montuose e foreste, elementi vari floreali o altri particolari (teste di putti che soffiano, cornici varie).L’eccezionale raccolta di portolani della Biblioteca Palatina di Parma, composta da 14 pezzi circoscri-vibili cronologicamente tra la seconda metà del XIV secolo e poco oltre la metà del primo venten-nio del XVII, rappresenta emblematicamente una significativa esemplificazione di tale particolare produzione documentaria. Essa deve la sua costituzione all’indefessa opera dei principali e più celebri bibliotecari dell’istituzione, il padre teatino Paolo Maria Paciaudi, chiamato a Parma dal duca don Filippo per costituire la Biblio-teca, fine bibliografo e figura di eccezionale impor-tanza per la storia della biblioteconomia italiana, e Angelo Pezzana, il bibliotecario che contraddistin-se la storia dell’istituzione per buona parte del XIX secolo. È merito del primo avere individuato sul mercato antiquario e acquisito il maggior numero dei pezzi (Ms. parm. 1612-1621) (Fig. 1) e di aver-ne disposto l’inserimento all’interno della raccolta Parmense procedendo pure ad interventi conser-vativi. Anche se non disponiamo di informazioni specifiche sugli effettivi canali di acquisizione per tutti i pezzi, ma soltanto per la celebre carta nauti-ca redatta da Francesco e Domenico Pizigano (Ms. parm. 1612), datata 1367, che venne donata al padre Paciaudi nel 1770 dall’amico Girolamo Za-netti, professore di diritto a Padova, archeologo e * Il Ms. parm. 1616 prima del restauro (part.)

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46 46 Le carte nautiche della Biblioteca Palatina di Parma

storico veneziano, e per altri non individuabili cin-que pezzi, che fonti d’archivio indicano acquistati da Annibale degli Abati Olivieri di Pesaro, insieme al rotolo greco di San Giovanni Crisostomo (Ms. parm. 1217/2), il 2 gennaio 1769, possiamo a ra-gione pensare che si debba far risalire all’intervento del Paciaudi l’acquisizione dei primi dieci pezzi del fondo sia per le omogenee caratteristiche relati-

ve al trattamento conservativo e alla modalità di montaggio subite, sia soprattutto per il fatto che risultano oggetto di studio da parte sua attraverso la redazione di specifiche schede dettagliate descrit-tive e di commento individuate all’interno dei suoi manoscritti.Questi materiali infatti sono stati quasi tutti dispo-sti in cartelle di cartone ricoperto di cuoio marezza-

01. Il Ms. parm. 1616 prima del restauro

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47 47 Andrea De Pasquale

to, decorate con i gigli borbonici e con indicazione di datazione e di numerazione progressiva impressa con numeri romani, per le quali è ben evidente la mano del legatore di corte Antoine Louis Laferté. Tale paternità è documentata da fonte contabile del 1768 che indica il pagamento a tale legatore di «7. cartelle carte nautiche; quali cartelle ritrouasi ora coperte di bazana». Anche la carta dei Pizigano (Ms. parm. 1612) era protetta da cartella con le medesime caratteristiche ancora nel 1907, ma essa andò perduta in anni successivi in concomitanza ad un maldestro intervento di restauro; altra fon-te d’archivio indica infatti che, per commissione del 15 giugno 1771, venne realizzata dal legatore «una cartella di grandezza di quatro cartoni impe-riale coperta in bazana marmorata, con sfrigi larghi d’oro bordata dentro e fuori con una inscrizione in damaschino e cordoni verde di detta, dentro la quale è incolata una famosa antica mapa del mondo donata dal R.do P.dre Paciaudi alla Reale Bibliote-ca». Dell’importanza e della pregevolezza di questi materiali il Paciaudi si gloriava, e a ragione, nella Memoria sulla R. Biblioteca di Parma, da lui redatta verosimilmente nel 1770 per difendersi dalle accu-se di mala gestione della Biblioteca da lui diretta, ricordandoli come “Tavole nautiche” nel capitolo sui Manoscritti, con il quale intendeva confutare l’accusa di aver trascurato nella sua politica degli acquisti questo specifico patrimonio.In effetti si tratta di pezzi di straordinaria impor-tanza per la storia della cartografia nautica. È in-fatti fondamentale per la cartografia veneziana del XV secolo la carta Ms. parm. 1612 caratterizzata da una controversa iscrizione che la indicherebbe compilata il 12 dicembre 1367 da Francesco e Do-menico Pizigano, membri di una quasi sconosciuta famiglia appartenente forse al ceto marinaresco. Due portolani si collocano nel secolo seguente:

mentre il primo è anonimo (Ms. parm. 1621), l’altro (Ms. parm. 1613) (Fig. 2), datato al luglio 1435, è una delle due testimonianze, la più recen-te, dell’attività di un poco noto cartografo genove-se, Battista Beccari. Ancora a produzione della città ligure si deve attri-buire il Ms. parm. 1614, redatto dal genovese Ve-sconte Maggiolo, attivo tra il 1504 circa e il 1559, capostipite di una delle più celebri dinastie di car-tografi professionisti originaria di Rapallo, che tra il 1511 e il 1516 trasferì temporaneamente la sua attività a Napoli, allettato da un mercato fiorente e dalla presenza di un grande porto.Proprio a questi anni si deve la compilazione del portolano palatino, del 10 marzo 1512, uno dei tre sopravvissuti della sua attività napoletana, interes-sante anche per recare una maldestra cancellatura del circolo a matita di piombo, fatto che denota si-curamente l’impiego di un lavorante poco esperto.Si colloca invece nell’Italia meridionale la realizzazio-ne di due portolani prodotti da Jacopo Russo, uno datato 1540 (Ms. parm. 1615), il secondo invece senza indicazione cronologica, ma verosimilmente più tardo (Ms. parm. 1620). Tale cartografo risulta attivo a Messina, altro porto importante e strategico per le rotte del Mediterraneo, per un arco temporale amplissimo, dal 1520 al 1588, tanto esteso che in passato si è pure ipotizzata l’esistenza di due omo-nimi cartografi, ed è noto per aver prodotto carte geografiche contraddistinte da una ricca toponoma-stica, tanto che si può ipotizzare che queste fossero non tanto utilizzate dai marinai, quanto piuttosto da studiosi come veri e propri atlanti. Sempre all’ambi-to dell’Italia meridionale, messinese in particolare, si deve assegnare pure il portolano, datato 1608 (Ms. parm. 1618) di Joan (Giovanni) Oliva, carto-grafo verosimilmente appartenente ad una celebre famiglia di cartografi di Majorca, attestato conti-

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nuativamente nella città siciliana tra il 1592 e il 1599 e quindi ancora tra il 1606 e il 1608, ma attivo anche in numero-si altri porti del Medi-terraneo, e distinto dal quasi coevo Joan Riczo Oliva, anch’egli operan-te a Messina tra il 1590 e il 1594. A produzione majorchese è attribuibi-le un altro pezzo, rap-presentante il bacino del Mediterraneo e contrad-distinto da prospetti di città tra cui emerge, per grandezza, Venezia (Ms. parm. 1617), del 1581, siglato da Matteo Griu-sco, cartografo altrimen-ti sconosciuto. Ad area toscana invece si attri-buisce un atlante di tre carte del 1654, redatto a Livorno da Giovanni Battista e Pietro Caval-lini (Ms. parm. 1619), evidentemente padre e figlio, forse opera esclu-siva di Pietro, attestato da sette atlanti firmati datati tra il 1665 e il 1668, per la mancanza della correzione dell’asse del Medi-terraneo, caratteristica costante dell’opera del primo, noto cartografo di origine genovese attivo a Livorno tra il 1635 e il 1656. Spettacolare per la ricchezza della decorazione è l’atlante nautico (Ms. parm. 1616) del 1574, siglato dallo sconosciuto Aloisio

Cesani che si qualifica ydruntinus (di Otran-to), ma verosimilmen-te discendente della famiglia di cartografi veneziani de Cesanis attiva nel XV secolo, il quale reca, unico caso del lotto della Biblio-teca Palatina, la sua originaria coperta in marocchino rosso con lo stemma impresso in oro della famiglia Gonzaga del ramo di principi di Molfetta e marchesi di Guastalla.Il Frabetti ne aveva at-tribuito l’acquisizione al padre Ireneo Affò, successore del Paciau-di nella direzione del-la Biblioteca (1778-1785) e originario di Busseto, terra nel feu-do dei Gonzaga, ma è sicura l’acquisizione del pezzo da parte del padre Paciaudi, forse per tramite dell’Affò stesso, all’epoca sotto-

bibliotecario, visto che il teatino compilò per il pez-zo una scheda descrittiva manoscritta ritrovata tra le sue carte. Tale pezzo è inoltre di straordinaria im-portanza poiché l’intervento di restauro ha permesso di ritrovare all’interno della foderatura della coperta alcuni disegni originari preparatori dell’opera realiz-zati a punta d’argento, fatto eccezionale e di estremo

02. Ms. parm. 1613

Le carte nautiche della Biblioteca Palatina di Parma

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interesse per lo studio della fabbricazione di questo materiale. Per la mancanza di fori in corrispondenza dei disegni che implicherebbero l’utilizzo della tec-nica dello spolvero, sembra verosimile pensare che il trasferimento del disegno sulla pergamena sia stato ottenuto attraverso una delle tecniche illustrate da Bartolomeo Crescenzio nella sua Nautica mediterra-nea, e cioè che il foglio disegnato e la pergamena fos-sero stati entrambi tesi in un telaio e che, agevolati dalla vicinanza di una sorgente luminosa, sia stato effettuato il ricalco per trasparenza. A anni successi-vi alla direzione del Paciaudi, ma se ne ignorano le circostanze, si collocano le acquisizioni dei portolani Ms. parm. 1622, Ms. parm. 1623, Ms. parm. 1624 (di anonimo, della metà XV secolo).Il primo invece è l’unica testimonianza, del 1494, dell’attività di un cartografo veneziano altrimenti sconosciuto, attivo alla fine del XV secolo, Giorgio di Giovanni. Il secondo è una produzione genovese del già citato cartografo Vesconte Maggiolo, che, per la prima volta, in questa occasione, dell’8 luglio 1525, si associava a Giovanni [Antonio], verosimil-mente il giovane figlio maggiore, dichiarandone quindi l’intenzione a eleggerlo suo successore nella gestione dell’attività. Ben documentato è l’arrivo del portolano Ms. parm. 1624, recante una pregevole coperta in cuoio decorato con fregi impressi a secco del XVI secolo (Ms. parm. 1624). Attraverso la corrispon-denza del bibliotecario Angelo Pezzana, direttore tra il 1804 e il 1862, artefice di notevoli incremen-ti di fondi e materiali bibliografici grazie ai finan-ziamenti ottenuti dalla duchessa Maria Luigia, si sa che esso venne sicuramente acquisito nel 1840 dal marchese Francesco Albergati Capacelli di Bologna (1728-1804), il quale propose al Pezza-na «l’acquisto di molte lettere d’uomini illustri, le più indiritte al celebre suo avo Francesco Albergati

(notissimo autore drammatico), e di un portolano del sec. XV, e di altri manoscritti». Scrivendo ve-rosimilmente al ministro Mistrali per giustificare l’acquisto il Pezzana sottolineava che il portolano «che si aggiugnerebbe alla magnifica nostra serie di Carte nautiche manoscritte, è molto pregevole, e parmi del principio del Sec. XV., ed è sicuramente anteriore allo scoprimento delle Azzorre, ché niuna ve n’è indicata; l’E.V. sa che niuna n’era conosciuta avanti il 1492». Tutt’altra storia ha invece la più grande carta nautica posseduta dalla Biblioteca Pa-latina, il portolano del 1561 realizzato da Diogo Homem (Ms. Pal. 0), prolifico cartografo porto-ghese, attivo tra il 1557 e il 1576, figlio di Lopo e fratello di André, entrambi cartografi. Noto per la sua vita avventurosa, nel 1544 venne coinvolto in un omicidio e costretto all’esilio in Marocco, da cui fuggì, dirigendosi in Inghilterra; dopo aver ot-tenuto il perdono dal re del Portogallo nel 1547, continuò a lavorare, ma non si sa in quale città, per mancanza di informazioni sulle carte prodotte, per poi operare a Venezia sicuramente tra il 1568 e il 1576, anche se alcuni studiosi hanno retrodata-to la sua attività nella Serenissima dal 1557, fatto che consentirebbe di ricomprendere anche il pezzo in questione. La carta pervenne in Biblioteca nel 1865, dopo l’Unità d’Italia, a seguito dell’acquisi-zione del fondo Palatino, originariamente proprietà personale dei duchi di Borbone, caldamente soste-nuta dal bibliotecario del tempo Federico Odorici (1862-1876). L’eccezionale raccolta di portolani della Biblioteca Palatina di Parma è stata oggetto di studi importanti fin dal XVIII secolo.Dopo il padre Paciaudi che, come si è visto, fu il primo ad analizzare tali carte redigendo apposite schede conservate all’interno di una sua raccolta di studi intitolata Illustrazione dei codici della Parmen-se, anche il Pezzana risulta autore di uno studio sul

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50 50 Le carte nautiche della Biblioteca Palatina di Parma

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mappamondo dei Pizigano, atto a confutare le ac-cuse del padre Pellegrini di non autenticità, come pure l’Odorici, dedicò al fondo due saggi nuova-mente relativi ai materiali più antichi.Successivamente il fondo venne censito da Gusta-vo Uzielli nel 1875 e da Mario Longhena del 1907, in occasione del Congresso tenutosi a Parma della Società geografica della Società Italiana. A quest’ul-timo si deve pure la redazione di altri tre contributi sull’argomento.Il contributo più esaustivo resta comunque quello del Frabetti del 1978, il quale costituì la base per l’inclusione del fondo all’interno di un’esposizio-ne più generale sui fondi cartografici parmensi dei secoli XIV-XIX tenutasi in Biblioteca, in collabo-razione con l’Archivio di Stato di Parma, del set-tembre dell’anno successivo, dal titolo Il territorio rappresentato, in concomitanza con il XV Conve-gno Nazionale di Cartografia. Ancora nel 1992 al-cuni portolani della Biblioteca parteciparono alla mostra su Cristoforo Colombo e l’apertura degli spazi tenutasi a Genova in occasione del quinto centena-rio della scoperta dell’America.Da tempo la raccolta non suscitava particolare in-teresse da parte degli studiosi sia del manoscritto

03. Ms. parm. 1623

che di storia della geografia. Recentemente essa è stata oggetto di una mirata campagna di restauri diretta da Silvana Gorreri, che ne hanno restitui-to l’originaria lucentezza dei colori e la loro fun-zionalità e fruibilità, consentendo di apprezzarne particolari ed aspetti finora inediti. Tale campagna è stata realizzata con finanziamenti statali e spon-sorizzazioni private, quali la Società Value Retail Management (Fidenza Village) per il Ms. parm. 1616 e la Banca Popolare dell’Emilia Romagna per il Ms. parm. 1623 (Fig. 3), ed affidata per la quasi totalità allo Studio Paolo Crisostomi di Roma. Contestualmente, grazie alla collaborazio-ne con la casa editrice MUP, impresa strumentale della Fondazione Monte di Parma, si è dato vita alla prima collana di volumi di alta divulgazione scientifica inerenti la Biblioteca Palatina, dal ti-tolo Mirabilia Palatina: è stato quindi spontaneo dedicare il primo numero alla collezione dei por-tolani (Carte per navigare. La raccolta di portolani della Biblioteca Palatina di Parma, 2009) e orga-nizzare, per l’occasione, un’apposita esposizione nella splendida Galleria Petitot, che ha permesso di ripresentare al pubblico l’eccezionale raccolta in una veste inedita e completa.

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È risaputo tra gli studiosi che a Parma, presso la Biblioteca Palatina, è con-servata una consistente e prestigiosa raccolta di antiche testimonianze cartografiche; nel 1907 la città aveva

ospitato il I Congresso della Società Italiana per il progresso delle Scienze e in quell’occasione era stata allestita nelle sale della biblioteca un’esposizione di carte nautiche, atlanti e portolani presenti a Parma e Piacenza; nel 1978 ben dodici carte nau-tiche della Palatina erano state censite da Pietro Frabetti nel suo studio sistematico (Carte nautiche italiane dal XIV al XVII secolo conservate in Emilia Romagna, Firenze 1978), ancor oggi valido stru-mento di valutazione scientifica; nel settembre 1979 era stata organizzata di concerto con l’Ar-chivio di Stato di Parma la mostra storico-docu-mentaria Il territorio rappresentato, nella quale, in concomitanza con il XV Convegno nazionale di Cartografia, erano stati proposti temi e problemi della cartografia nelle collezioni pubbliche par-mensi dei secoli XIV-XIX. Questo patrimonio, fortemente suggestivo, popo-lato da velieri, teste di uomini soffianti, guerrieri, città turrite, tende, animali fantastici e bandiere sventolanti tra rotte marittime, rose dei venti e località costiere, che documenta le conoscenze pratiche, frutto di esperienze personali di mari-nai, mercanti ed esploratori, unite alle informa-zioni fantasiose e alle credenze leggendarie della cultura contemporanea, non era noto tuttavia al grande pubblico. Nell’intento di promuoverne la conoscenza e di valorizzarlo adeguatamente, è stata realizzata nella primavera del 2009 in colla-borazione con il FAI una mostra nella quale sono

state presentate le carte nautiche appartenenti alla Biblioteca Palatina, comprese le due carte, una di Matteo Griusco (Ms. parm. 1617) e una di Diogo Homem (Ms. pal. 0), trascurate dal Frabetti. Grazie a un felice connubbio tra risorse finanziarie pubbliche e private, con la direzione della scriven-te, con competenza quasi trentennale nel campo del restauro, e la professionalità di un laboratorio esterno, al quale è stata affidata l’esecuzione dei lavori (lo Studio Paolo Crisostomi di Roma), si è realizzato il risanamento dell’intera raccolta con l’adozione di soluzioni conservative innovative.Dieci carte nautiche (Mss. parm. 1612-1621) fi-gurano entrate nella Bibliotheca parmensis nel pri-mo periodo della sua istituzione con Paolo Maria Paciaudi (1710-1785), successivamente le altre: una ancora nel 1837 apparteneva al Marchese Francesco Albergati Capacelli (Ms. parm. 1624), mentre la carta di Homem fu acquisita con l’inte-ro Fondo Palatino dei Borbone Parma nel 1865, ma persosi l’antico numero di inventario (Pal. 40), fu elencata tra i cimeli con nuova segnatura. Tutte le carte nautiche del nucleo originale, nell’intento di preservarle meglio, furono affidate da Paciaudi a Louis Antoine Laferté, legatore di corte, che le organizzò, quelle singole, ripiegandole in due o tre e incollandole a cartoni in cartelle ricoperte in cuoio marezzato, mentre quelle multiple degli atlanti le ripiegò in due e le incollò metà dell’una alla metà dell’altra, verso contro verso, con le pri-me e ultime metà utilizzate spesso come contro-guardie, in una struttura a libro, con uguale co-perta; solo per l’Atlante nautico di Aloisio Cesani (Ms. parm. 1616) fu mantenuta la legatura ori-ginale in marocchino rosso con super libros della famiglia Gonzaga; su tutti i piatti anteriori venne impresso in oro il super libros della Biblioteca con

lE CARtE nAUtIChE DEllA BIBlIotECA PAlAtInA DI PARmA: Un PIAno StRAtEgICo DI REStAURo

Silvana Gorreri

01. Il Ms. parm. 1618 nella fase di distacco

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54 54 Le carte nautiche della Biblioteca Palatina di Parma: un piano strategico di restauro

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55 55 Silvana Gorreri

02. Il Ms. parm. 1618 restaurato

i tre gigli borbonici. Dei successivi acquisti, due rimasero arrotolate (Mss. parm. 1622-1623), una (Ms. parm. 1624) conservò la struttura a libro con coperta coeva su assi decorati a secco, mentre la carta di Homem rimase appesa in cornice per oltre cent’anni ad una parete della stanza adibita a Direzione. Ancora nel 1907 è testimoniato che la Carta nau-tica di Francesco e Domenico Pizigano del 1367 (Ms. parm. 1612) conservava l’assetto settecen-tesco, ma negli anni a seguire fu la sola ad esse-re staccata dai cartoni della grande cartella e ad essere conservata arrotolata in un grosso cilindro in cartone; nel 2007 fu oggetto di un importante intervento di restauro, del quale si è dato conto nell’edizione ministeriale di Restaura di quell’an-no a Venezia.Un esame della situazione nella sua globalità palesava che non era idonea né la sistemazio-ne settecentesca a cartella o a libro, che aveva determinato lacerazioni nelle linee di piegatura delle tavole, parziale distacco della pergamena dai cartoni, e a volte grossi strappi per l’eccessiva tensione meccanica conseguente all’apertura dei lembi ripiegati, gore da colla e generalizzate ero-sioni da anobidi, acidità da tannino nei punti di rimbocco della pelle della coperta; né offriva ga-ranzia di migliore stoccaggio il condizionamento a volumen: tagli, strappi e lacune marginali per movimentazioni meccaniche, erosioni da rodito-re, ondulazioni del supporto diventato nel tem-po oltremodo rigido e srotolabile con difficoltà, cadute o trasferimenti di colore per le abrasioni prodotte dalle mani nello srotolamento e per le

sollecitazioni meccaniche conseguenti alla posi-zione srotolata forzata nella consultazione.Era necessario intervenire quindi al loro restauro realizzato con il distacco dai cartoni di tutte le ta-vole, e a seguire test di solubilità e fissaggio, am-morbidimento, distensione su telaio con barre magnetiche, asciugatura a temperatura ambiente e risarcimento delle lacune; ma cruciale a livello progettuale era soprattutto adottare una corretta metodologia di conservazione; si optava per una sistemazione delle varie tavole sciolte e distese singolarmente in cartelline in carta Barriera Ja-pico con riserva alcalina; per il mantenimento di ogni unità bibliografica con l’allestimento di una cartella in tela Bukram verde per le carte nautiche singole comprensiva anche delle loro legature, se preesistenti; con l’esecuzione di una custodia rigida, sempre in tela Buckram verde, caratterizzante l’intera raccolta, a contenimento di tavole e vecchia coperta per le strutture a li-bro: una metodologia di conservazione che evita forzature di apertura nella consultazione e che favorisce la visione contemporanea delle tavole degli atlanti, senza perdita di informazioni sul pregresso. Questa soluzione, frutto di una lunga meditazione progettuale, è stata corroborata da un’eccezionale e imprevista scoperta: tra le tavole incollate l’una all’altra dell’Atlante nautico di Aloisio Cesani (Ms. parm. 1616) sono stati rinvenuti ulteriori quattro fogli cartacei con il disegno a penna dei contorni costieri tracciato nella fase di preparazione delle carte nautiche stesse, lavoro propedeutico alla loro realizzazione del quale si conservano poche testimonianze e che fanno luce sulla metodologia adottata, in questo caso a ricalco e non a spolvero, altra tecnica utilizzata.

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IntroduzIone

I lavori di restauro al Palazzo Ducale di Par-ma (noto anche come Palazzo del Giar-dino), sono iniziati nel novembre 2007, grazie ad un finanziamento straordinario del Ministero per i Beni e le Attività Cul-

turali, nell’ambito della Programmazione Lotto del triennio 2004-2006 di cui alla Legge n. 662 del 1996.L’intervento è curato dalla Direzione regionale per i beni e le attività culturali dell’Emilia-Ro-magna e diretto dalla Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici di Parma.I lavori sono stati aggiudicati mediante selezio-ne con procedura aperta a cui hanno partecipa-to circa 60 ditte. Il consorzio CIPEA, vincitore dell’appalto, ha poi indicato quale Impresa con-sorziata, esecutrice dei lavori, la Idroter con sede in S. Lazzaro di Savena (BO).L’importo complessivo del progetto di restauro ammonta a circa 750.000,00 euro, distribuito su due annualità finanziarie (2004 e 2006), con interventi che inizialmente avrebbero interessato la facciata sud, l’atrio a piano terra, lo scalone d’onore, e le salette poste a nord del piano terra. L’organizzazione e le dimensioni artigianali della ditta esecutrice dei restauri pittorici ha permesso il mantenimento di un buon livello di qualità. Nel campo del restauro, infatti, com’è noto, la necessità di tener conto anche di problematiche storiche, artistiche, estetiche, oltre che, natural-mente, di quelle tecnologiche, nonché del fatto che la valutazione dei possibili effetti futuri di un intervento vada dilatata nel tempo, impone

di seguire alcuni principi operativi (quali quel-lo di reversibilità, di compatibilità e di minimo intervento), che non hanno equivalenza in altri settori, anche se tecnologicamente più avanzati. Spesso, purtroppo, i soggetti concessionari di grandi opere di restauro, sembrano privilegiare un atteggiamento produttivistico, a scapito del raggiungimento di un livello minimale di quali-tà, che è un fattore essenziale per il buon anda-mento del cantiere di restauro.Gli interventi di descialbo, effettuati nelle sa-lette a piano terra, hanno rivelato la presenza di importanti affreschi e, come quasi tutti i cantie-ri di restauro che si rispettino, anche quello in questione si sta rivelando una preziosa fonte di informazioni sia di carattere storico che tecnico, riferibili talvolta non soltanto al monumento og-getto di restauro ma, più in generale, alla storia dell’arte e alle caratteristiche costruttive e decora-tive dell’epoca in questione.D’accordo con il progettista e direttore dei la-vori, dopo aver verificato che alcune lavorazioni previste nel progetto iniziale non rivestivano ca-rattere d’urgenza, si è deciso di intervenire con una variante in corso d’opera e un contestuale recupero del ribasso d’asta, per poter meglio ri-definire, fra le altre, il restauro delle due salette affrescate.Successivamente, a lavori quasi ultimati, attin-gendo alle somme a disposizione (poche ma suf-ficienti) del quadro economico dell’intervento, si è deciso di operare sulle pavimentazioni dei due ambienti, al fine di eliminare i dislivelli che si erano creati nelle manomissioni precedenti e per ridare unitarietà alle due salette, vere e pro-prie proiezioni anticipatrici del paesaggio circo-stante.

InedItI dal restauro: paesaggI dIpIntI nel palazzo del gIardIno dI parma

Corrado Azzollini, Luciano Serchia

* Paolo Ponzoni, Pianta di Parma, 1572, particolare

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58 58 Inediti dal restauro: paesaggi dipinti nel Palazzo del Giardino di Parma

L’attenzione e la costante dedizione, dimostrate dal direttore dei lavori e dai restauratori, hanno reso pos-sibile la restituzione, nel grande ambiente occupato dallo scalone monumentale, di emozionanti atmo-sfere celate sotto incauti interventi ottocenteschi. Nel cantiere in questione, vero e proprio cantiere di progetto, grazie alle possibilità offerte dall’at-

tuale normativa sui lavori pubblici, in particolare gli articoli riguardanti il settore dei beni culturali, si è potuto aggiornare il progetto, modificandolo giorno dopo giorno, scoperta dopo scoperta.

Corrado Azzollini

01. Paolo Ponzoni, Pianta di Parma, 1572, particolare con il giardino e il castello

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Il contesto: paesaggI dIpIntI nella delIzIa del duca ottavIo Farnese

I restauri diretti da chi scrive e tuttora in corso nel-la cinquecentesca residenza del Giardino di Parma, voluta dal duca Ottavio Farnese (1524-1586) che nel 1561, all’indomani del raggiunto equilibrio politico, economico e finanziario conseguente alla pace europea di Cateau – Cambrésis, acquistò i terreni circostanti l’antico castello e ne affidò il progetto a Vignola, hanno portato alla luce inte-ressanti affreschi con paesaggi in due sale al piano terreno. Non sono ancora del tutto chiare le vicende co-struttive della delizia farnesiana ultra flumen, nota anche come Palazzo del Giardino, visibilmente mo-numentale nella sua magnificenza, il cui ideatore, il duca Ottavio di concerto con il fratello, il gran cardinale Alessandro (1520-1589), vi ha trasferito la cultura del Rinascimento e l’ideologia della vil-la sviluppatasi nella Roma successiva al Sacco del 1527, ma già codificata nella trattatistica e nella pratica architettoniche rinascimentali. Il riferimen-to è a villa Giulia, nel cui cantiere è documentato Vignola, apprezzato architetto dei Farnese a Capra-rola, a Parma e a Piacenza. Senza entrare nel merito delle vicende del cantiere farnesiano, la cui complessità e durata si evincono dallo spoglio dei Mastri Farnesiani, e della cultu-ra romana che sostanzia l’invenzione della celebre fontana in costruzione nel 1569 (e oggi scompar-sa), sottolineo l’importanza del disegno del palaz-zo, di pianta approssimativamente quadrata, raffi-gurato entro un quadrilatero bastionato, ma mai realizzato, nella notissima pianta di Parma incisa dal piacentino Paolo Ponzoni (1572). La pianta è la prima a registrare la nuova forma urbis, forte-mente caratterizzata dall’ampio settore farnesiano,

ossia dal castello e dal giardino, nell’oltretorrente, nella parte nord occidentale della città. Rispetto all’iconografia precedente, nuovo è anche il punto di vista settentrionale. Esso rispecchia la volontà di enfatizzare il settore farnesiano del Giardino, ter-mine con il quale, nei documenti, spesso si usava riassumere l’intero sistema palazzo-giardino. Il palazzo ritorna, con buona attendibilità, ma con sensibili varianti, nella mappa che Smeraldo Smeraldi, ingegnere ducale, esegue nel 1592. Il palazzo, che vi compare con l’annessa fontana, pare già ampliato verso i lati e sul retro. Le decorazioni connotano le due sale terrene (sala est e sala ovest) come vere e proprie stanze-paese ante-litteram, poiché la narrazione dipinta oltre a propor-re un’ariosa ambientazione naturalistica nella dilata-zione del campo visivo, con luminosi paesaggi dagli orizzonti lontani, coinvolge lo spazio, distendendosi dalle volte a botte alle pareti con una rappresentazio-ne continua, rivestendo completamente la superficie muraria scandita in parte anche da elementi archi-tettonici dipinti intorno alle porte di accesso. Il tema della stanza paese, ossia il giardino in una stanza, cui si dedicheranno, con esiti di indiscus-sa qualità, numerosi pittori sul volgere del Sette-cento, ha però una antica tradizione e origini re-mote nella cultura romana, non senza riferimenti espliciti nel trattato di Vitruvio. Il teorico dell’età augustea suggeriva di dipingere «porti, promonto-ri, spiagge, fiumi, fonti, rocce, villaggi, monti...». Paesaggi fluviali con una sapiente esecuzione delle architetture e della verità botanica della vegetazio-ne, sono quelli dipinti sulle pareti della sala sud est del Palazzo Ducale del Giardino. Particolarmente interessante è l’impaginazione dello spazio condotta sulla parete verso l’ingresso principale della sala: qui la trama disegnativa e lo

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stesso programma iconografico denunciano un’in-venzione colta e ricercata in cui il paesaggio non è citazione erudita o divagazione fantastica. Tema ancora raro, condotto su modelli di cultura figu-rativa che coniugano suggestioni fiamminghe a elementi di cultura decorativa di ambito romano. Dagli affreschi recuperati si evince che il paesaggio si sviluppava maestosamente sulla volta, su tut-te quattro le pareti e, su quella fra le due finestre, con invenzioni di seducente bellezza. Il pittore ha infatti impaginato la scena con un unico, arioso

paesaggio, attraversato da un fiume e popolato da alberi in un lussureggiante giardino, nell’esibita, implicita celebrazione della natura e dell’acqua, ar-ricchendola con inserti architettonici, con cavalli e popolandone il cielo con volatili dai colori ac-cesi. A due successivi interventi, cronologicamente scalati nel XVII e nel XVIII secolo, si devono le decorazioni emerse sugli sguinci delle finestre, in origine più piccole di quelle attuali, sia nella sala sud est, o Camera degli Uccelli, sia in quella sud ovest, o Camera delle architetture dipinte.

02. Parma, palazzo Ducale, particolare della decorazione della volta della Camera degli uccelli (sala est)

Inediti dal restauro: paesaggi dipinti nel Palazzo del Giardino di Parma

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Si tratta di un fregio di verdi racemi che si intrec-ciano scivolando lungo la parete e di un più artico-lato fregio a volute, interrotte da grandi medaglie che, sull’architrave, simulano uno sfondato archi-tettonico. Il Palazzo del Giardino è stato infatti interessato da interventi di ristrutturazione riferi-bili a due differenti ambiti cronologici. La prima, profonda modifica della delizia farnesiana avvenne verosimilmente entro gli anni ottanta del Seicen-to. A questa fase risale l’intervento decorativo sugli sguinci delle finestre. Il duca Ranuccio II Farnese

fu responsabile di significative trasformazioni nel giardino e nella residenza suburbana di la dall’ac-qua, dopo il relativo disinteresse per gli interventi architettonici manifestato da suo padre Odoardo. Sono invece riconducibili alla fase settecentesca post farnesiana e all’epoca dell’architetto di corte E. Ale-xandre Petitot, altri lavori, avvenuti intorno al 1767, in seguito ai quali sono state ulteriormente amplia-te le finestre degli ambienti terreni e occultati sia le pitture di paesaggio sulle pareti sia ciò che restava dell’appartato decorativo seicentesco sugli sguinci.

03. Parma, palazzo Ducale, Camera degli uccelli, particolare della parete

Corrado Azzollini, Luciano Serchia

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All’interno dell’antica dimora farnesiana che fin dall’origine era al centro di una estesa area di orti, poi trasformati in sontuoso giardino, e che le te-stimonianze documentarie ricordano con i ter-mini di “castello” e di “fontana”, la decorazione cinquecentesca, tra artificio e natura, delle sale terrene e di altri ambienti, mirava alla gradevole fusione di esterno e interno, giardino e residenza, con riferimenti anche all’elemento idrico. La villa suburbana di Ottavio Farnese, circonda-ta da un ampio giardino, ospitò un articolato e raffinato cantiere pittorico all’interno del quale operarono protagonisti e comprimari della scuola bolognese e artisti attenti alla tradizione parmen-

se di eleganza e vaghezza di forme di memoria parmigianinesca. Nel 1601, il cronista e poeta Francesco Maria Violardo, ricorda alcune stanze «meraviglio-samente depinte dal Mirola e principalmente d’una rovina che è opera stupenda in pittura». Si tratta del bolognese Girolamo Mirola (1535/40-1570), pittore nonché già collaboratore, a Bolo-gna (1552-1553), di Pellegrino Tibaldi (1527-1596) nella cappella Gozzadini della chiesa dei Servi. A contatto con i Farnese dal 1557, Mirola è pittore regolarmente stipendiato dal duca Ot-tavio Farnese dal 3 aprile 1561 fino alla morte (1570). Una precedente, autorevole testimo-

04. Parma, palazzo Ducale, Camera delle architetture dipinte (sala ovest), decorazione sugli sguinci della finestra

Inediti dal restauro: paesaggi dipinti nel Palazzo del Giardino di Parma

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nianza relativa alla sua presenza nel cantiere del Palazzo del Giardino è quella di Giorgio Vasa-ri. Lo storiografo aretino, in visita a Parma nel 1566, ricorda anche che Girolamo Mirola «aveva dipinto a fresco molte storie in un palazzotto che ha fatto fare il (…) signor duca nel castello di Parma». Dalla recente ricostruzione cronologica e documentaria Mirola si configura come il vero responsabile del cantiere della decorazione, con un ruolo di indiscusso prestigio, ideatore dell’im-paginazione pittorica di un numero maggiore di stanze, oltre la Sala dell’Ariosto e quella del Ba-cio, o del Boiardo, al primo piano. Allo stesso artista è stata attribuita la stanza della Rovina, dipinta nel 1563, verosimilmente affiancato da Jacopo Zanguidi, detto il Bertoja (1544-1573?), cui sono state ricondotte l’affrescatura della sala di Perseo e quella della sala del Paesaggio (1571), al piano nobile sul lato sud occidentale del Pa-lazzo. La stanza della Rovina è una delle nume-rose sale del piano nobile ricordate dall’architet-to svedese Nicodemus Tessin che nel 1687-1688 descriveva compiaciuto le stanze ornate dagli af-freschi ispirati ai poemi di Ariosto e di Boiardo, ricordando anche «un’ampia loggia, alta, intera-mente coperta a volte» ove Giovanni Fiammingo aveva dipinto grandi paesaggi con «taluni palazzi […]e alberi che svettano attraverso l’intera vol-ta». Oltre alla loggia ricorda una sala «chiamata Stanza della Ruina perché gli stucchi si presenta-no come fossero rotti e rovinati…». Nel Palazzo del Giardino aveva dipinto anche un altro artista, l’infaticabile frescante attivo nei ca-stelli di Torrechiara, Soragna e S. Secondo: Cesare Baglione (Bologna, 1550 c.-Parma,1613), stipen-diato fisso del duca a partire dal 1574 di cui Cesare Malvasia, suo biografo, ricorda l’abilità nell’imitare

i paesaggi dipinti dai fiamminghi. Di Baglione, at-tivo al piano terreno del Palazzo Ducale del Giar-dino ove gli spazi di servizio, quali cucine e lavan-derie, erano ambienti consoni ad ospitare soggetti meno aulici, si conservano i soffitti affrescati in tre sale, con prospettive, sfondati, fregi e animali. Sono elementi propri del repertorio di questo fecondo frescante che aveva meritato l’elogio di Malvasia. È un viaggiatore inglese, Richard Symonds, in visi-ta al Palazzo del Giardino nel settembre 1651 che ricorda, ammirato, il “Camerino del Vento del Ba-glione”. Puttini che soffiano, emergono dal restauro, tuttora in corso, nella sala terrena sud ovest, le cui pareti conservano ampie tracce di paesaggi e precise testimonianze di lussureggianti alberature. Queste decorazioni, venute alla luce dopo l’abbattimento di una parete che impropriamente divideva in due parti distinte la sala sud ovest del Palazzo del Giar-dino, invadono interamente la superficie muraria. Si tratta di un’acquisizione di indubbia rilevanza scientifica. Anche in questo caso, come nella sala sud est, le raffigurazioni naturalistiche non costitu-iscono lo sfondo di scene di soggetto storico, lette-rario e/o mitologico, nelle quali i veri protagonisti sono le figure umane. Il paesaggio non è subordina-to o parte integrante della scena principale. È esso stesso protagonista. Il cielo solcato da soffici nubi, i bellissimi uccelli in volo presenti in entrambe le sale, le architetture e gli specchi d’acqua oltre alle fronde leggere degli alberi resi con pennellate di tocco, sono del tutto confacenti a un luogo di de-lizia, e in linea con quanto suggeriva Leon Battista Alberti. In particolare, le pareti della sala sud ovest, tra volatili, vegetazione e architetture si spalancano su ariose vedute inondate da ampi spettri di luce di straordinaria modernità. Il richiamo al nord sembra ineluttabile nella tematica, negli aspetti spaziali e

Corrado Azzollini, Luciano Serchia

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nei particolari, e sollecitano a ripensare alcune del-le lunette affrescate provenienti dalla rocca Boiardo di Scandiano, considerati i primi paesaggi cono-sciuti di Nicolò dell’Abate, intorno al 1540 circa. La concezione dello spazio, articolato in primo o in secondo piano da alberi con fogliame di fattura sottile, le piccole architetture sullo sfondo, proprio come quelle dipinte nella sala sud est del Palazzo di Parma sono, benché non esclusivamente, propri della pittura fiamminga. E rapporti con la pittura di paesaggio nordica sono rintracciabili, sulla metà del Cinquecento, nel fregio della sala dei Paesaggi di Pa-lazzo Poggi a Bologna (1550-1552). La conoscenza della cultura nordica sostanziata dalla rilettura della

pittura di Nicolò dell’Abate, si evince anche nei bel-lissimi fregi con paesaggi in una sala della palazzina adiacente Palazzo Vitelli a S. Egidio, restituiti a Ce-sare Baglione e datati 1565-1570 c. Il paesaggio recuperato sulla volta e i lacerti visi-bili sulle pareti della sala sud ovest del Palazzo del Giardino, ancorché non brani di un paesaggio re-ale e inequivocabilmente identificabile, le puntuali citazioni di architetture oltre gli speroni di roccia presenti nella sala sud est che dominano la pianura solcata da un corso d’acqua, le tonalità del cielo, il disegno dei volatili e, soprattutto, l’importanza conferita all’architettura dipinta intorno alle porte di accesso, funzionale a suggerire la piena integra-

05. Parma, palazzo Ducale, Camera delle architetture dipinte, particolare

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zione fra interno e giardino esterno, attingono a un repertorio di sfondi classici e fiamminghi. Gli elementi architettonici dipinti, che l’artista inserisce con maggiore evidenza in questa sala, se-condo quanto già emerso dal restauro, rimandano ad un vocabolario classico, come bene si evince dall’architrave dalla quale si affaccia un putto gio-ioso, così come il frammento di cornice centinata ben visibile vicino alla finestra. La qualità e la sapienza descrittiva con le quali l’artista ha reso sia le fronde degli alberi mosse dal vento, ottenute con un gioco di tocchi leggeri, la luminosità del cielo nel quale volano uccelli va-riopinti, gli inserti architettonici ben visibili sulla parete sulla quale si riconosce anche il disegno di una recinzione con inserti floreali, ed altre trac-ce di decorativismo architettonico illusionistico connotano questi ambienti, nonostante le lacune, nella complessità della narrazione, con il prestigio e l’appeal di una decorazione preziosa ed esclusi-va. I restauri confermano la sfolgorante bellezza di questi paesaggi che avevano ammagliato i viag-giatori stranieri in visita a Parma ben prima del-le ampie ristrutturazioni condotte dall’architetto E. Alexandre Petitot, per Ferdinando di Borbone (1751-1802), nella seconda metà del Settecento.

Considerazioni sulla Cultura e sulla pittura di paesaggio In Italia gli umanisti relegavano il genere pae-saggistico a un ruolo secondario, a parerga, ossia accessori, secondo il termine, mutuato da Plinio, che Paolo Giovio utilizza per Dosso Dossi. La pittura di paesaggio, ad opera di specialisti nor-dici o di pittori versatili, era comparsa nella orna-mentazione di spazi sacri, a conferma del successo di questo genere in ambito manierista.

In attesa che ulteriori approfondimenti possa-no meglio definire le coordinate geografiche e temporali, oltre che di cultura artistica, nonché la fisionomia dell’artista o degli artisti attivi nel Palazzo del Giardino, ritengo si possano avanzare alcune ipotesi di lavoro. La cultura e la tecnica pittorica che supportano queste decorazioni sembrerebbero riconducibili ad un contesto nord italiano, se non addirittura fiammingo, e ad un arco cronologico intorno alla metà del Cinquecento, quello stesso cui apparten-gono Lambert Sustris, autore delle marine e degli ariosi paesaggi nella villa dei Vescovi, a Luvigliano (Padova) e Cornelis Loots, fiammingo attivo per i Farnese e ben inserito nell’ambiente romano degli anni sessanta del Cinquecento.Le piccole architetture e il paesaggio dipinto nel-la sala sud est del Palazzo del Giardino di Parma potrebbero forse essere indagate a confronto con quelle dipinte da Girolamo Mirola sulla volta della Sala del Bacio (1561-1563) al piano nobile dello stesso Palazzo. La Sala del Bacio e la Sala dell’Ario-sto sono infatti le due stanze del nucleo centrale del palazzo non interessate dai rifacimenti settecente-schi. Le note decorazioni di questi due ambienti costituiscono allegorie dal preciso significato, e il travestimento letterario è funzionale a dilettare e istruire, secondo precetti di oraziana memoria (ut pictura poesis). Ciò nonostante, la componente na-turalistica e gli sfondi paesaggistici, sulla volta e lungo le pareti, hanno grande importanza nell’ite-rato rimando e nell’elogio dell’acqua e del giardi-no. Anche i paesaggi dipinti sulla volta della Sala del Bacio sembrerebbero riconducibili ad artisti fiamminghi, forse al pittore Cornelis Loots, e la cronologia, ipotizzata da Meijer entro i primi anni sessanta del Cinquecento, non solo avvalorerebbe

Corrado Azzollini, Luciano Serchia

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l’intervento dell’artista, ma rientrerebbe nella logi-ca del cantiere farnesiano. Originario di Malines, Loots è documentato a Parma dall’ottobre 1563 al novembre 1566 (Meijer 1988, p. 30 nota 41).Del resto la presenza nei Paesi Bassi di Margherita Farnese, moglie del duca Ottavio, in qualità di go-vernatrice delle Fiandre dal 1559, favorì l’arrivo a Parma di artisti fiamminghi e di dipinti. Dall’aprile 1575 è documentato paesaggista di corte Jan Soens, e dello stesso Giovanni “Fiamengo” si tramanda che fossero anche gli affreschi raffiguranti «ampi pae-saggi (…) con alberi (…) alla volta» (Meijer 1988, p.238) che ornavano il loggiato soprastante la fon-tana di Giovanni Boscoli e nel vicino casino «eretto sopra la Porta di Santa Croce» (De Grazia 1987). I restauri della Camera degli uccelli (sala sud est) e quelli della sala sud ovest del Palazzo hanno consen-tito di recuperare ampie porzioni di affreschi cinque-centeschi e brani di decorazioni riferibili cronologi-camente alla metà, o poco oltre, del XVII secolo. A seguito di questi lavori si aprono nuove prospetti-ve. Il Palazzo del Giardino si configura come realtà architettonica unitaria, al cui interno tuttavia sono documentati dalle fonti, e si individuano, tempi e aspetti della vicenda architettonica e della deco-razione differenti per cronologia, per provenienza geografica e ambito culturale degli artisti.La decorazione delle sale terrene sud est e sud ovest, verosimilmente opera di uno stesso frescante, affe-risce al medesimo clima di cultura che ha prodotto i più noti e celebrati affreschi con paesaggi visibili al piano nobile del Palazzo. La luminosità degli af-freschi appena riscoperti nelle due sale terrene, pri-vi delle grottesche tipiche del repertorio decorativo di Cesare Baglione, l’esecuzione brillante e la viva-ce cromia della vegetazione e dei volatili, la sedu-cente bellezza di un paesaggio dilagante e i dettagli

studiati con cura, confermano la sapiente e colta regia esecutiva di un artista, forse fiammingo e ag-giornato sulle novità che si andavano elaborando nell’ambiente romano, la cui identità va ricercata nell’ambito dei pittori che operarono nel Palazzo intorno alla metà del Cinquecento.

Il restauro L’intervento di restauro nella Camera degli Uccel-li, o camera sud est, condotto da Felsina Restauri srl, ha comportato in primo luogo la demolizione del muro che divideva questo ambiente, premessa necessaria alla rimozione dei vari strati di into-naco e di colore che ricoprivano interamente gli affreschi. Dopo il consolidamento dell’intradosso con iniezioni di acqua di calce e primal diluito in acqua, e l’inietto di ledan, si sono fissate le pitture su un supporto più solido. Il fissaggio del colore è stato realizzato con prodotti reversibili; le cam-piture neutre nelle zone in cui l’affresco era del tutto scomparso o sostituito da rattoppi di nuovo intonaco, sono state effettuate con colori a base di calce albazzana, mantenendo lo stesso livello tra superficie dipinta e superficie neutra.Nella Camera delle architetture dipinte, o sala sud ovest, ove il restauro è in fase di ultimazione, l’intervento è stato preceduto dalla rimozione del-la parete divisoria, dalla riapertura dell’originario varco di comunicazione con la sala contigua con-tornato da stipiti e architravi dipinti, e dall’aspor-tazione dell’intonaco che ricopriva interamente le pareti e gli affreschi. Per la fase di consolidamento la procedura e i materiali utilizzati sono gli stessi di quelli impiegati nell’operazione condotta nella Camera degli Uccelli (sala sud est).

Luciano Serchia

Inediti dal restauro: paesaggi dipinti nel Palazzo del Giardino di Parma

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Il restauro come opportunità di studio e approfondi-mento del Duomo, iscritto nella lista del Patrimonio Mondiale dell’Umanità: analisi delle forme di de-grado lapideo, acquisizione e mappatura dei litoti-pi, approfondimento scientifico sui restauri e le loro interazioni con le metodologie odierne.

I l Duomo di Modena, il monumento più insigne della città, fra le massime espres-sioni della cultura medievale e modello esemplare dell’architettura romanico-padana, dal dicembre 1997, su richie-

sta della Soprintendenza per i beni architettoni-ci e paesaggistici di Bologna, è un bene protetto dall’Unesco. È infatti inserito, con esso la Ghirlandina e la Piazza Grande, nella lista delle meraviglie uni-versali da proteggere per i suoi caratteri di uni-cità e di originalità nel contesto della scultura e dell’architettura romanica italiana, in un insieme omogeneo e inscindibile di insediamento urbano legato ai valori della civiltà comunale, con il suo peculiare intreccio di funzioni economiche, reli-giose e civili.Quindi un maggior prestigio internazionale, un maggior credito presso gli organismi europei, un nuovo veicolo attraverso il quale la città turistica potrà trarre vantaggi. L’iscrizione è comunque un impegno gravoso e impone obblighi conservativi del bene pena l’eliminazione dall’elenco dei beni inseriti nel patrimonio mondiale dell’Umanità.Nell’ambito della salvaguardia e della promozione del patrimonio culturale un obiettivo che le au-torità responsabili del sito modenese intendono perseguire, aderendo alle direttive dell’Unesco,

è l’attuazione del Piano di Gestione redatto nel 2007 dal gruppo di lavoro composto da rappre-sentanti della Direzione regionale per i beni cul-turali e paesaggistici dell’Emilia-Romagna, del Comune di Modena, del Capitolo Metropolitano del Duomo e delle Soprintendenze territoriali.È importante però, prima di entrare nel merito del restauro in corso, osservare come gli interventi realizzati a partire dalla fine dell’Ottocento abbia-no in parte modificato l’originale stato chimico-fisico della materia. Fino a quel momento gli in-terventi avevano avuto un carattere episodico ma con l’istituzione dell’Ufficio regionale per la con-servazione dei monumenti dell’Emilia, avvenuta nel 1891, il restauro fu ricondotto nell’ambito di una attività programmata. Tre sono stati i progetti che hanno visto realizzare importanti interventi sulla facciata del Duomo. Il Barberi iniziò nel 1877 la stesura del program-ma di restauro, per conto del Capitolo, con una serie di progetti il primo dei quali fu sottoposto alla Commissione Provinciale nel 1887 dopo una sistematica ricerca sul Duomo durata 15 anni e tra-dotta in massima parte in rilievi e studi grafici.Il Barberi nella sua relazione esponeva gli inter-venti ritenuti più urgenti: «I due pinnacoli che s’innalzano nel lato orientale e la grande rosa della facciata principale essendo gravemente dan-neggiati dalle filtrazioni dell’ acqua e dell’azione del gelo, abbisognano di riparazioni per evitare il deperimento». Le linee del suo programma di restauro individuavano le operazioni di ripristino da anni sollecitate da artisti e architetti locali. Il progetto di riparazione della facciata del Barbe-ri fu valutato dal direttore dell’Ufficio regionale Raffaele Faccioli per stabilire il grado di compati-bilità con i criteri conservativi richiesti dal Mini-

Il DUomo DI moDEnA “CAPolAVoRo DEl gEnIo CREAtoRE UmAno”REStAURo DEl PARAmEnto lAPIDEo

Graziella Polidori

01. Il Duomo di Modena dopo il restauro del 1893-94

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70 70 Il duomo di Modena “capolavoro del genio creatore umano”restauro del paramento lapideo

stero della pubblica istruzione; lo stesso Faccioli fece alcune riserve sull’intervento di scrostatura totale delle pareti della navata dove coesistevano antiche pitture murali.Solo nel 1891 venne dato corso ai lavori di re-stauro ed il Ministero chiamò l’Ufficio regionale ad occuparsi direttamente dei restauri del Duomo in base al progetto del Barberi, rivisto successi-vamente anche dal Genio Civile. Si intervenne quindi sulla copertura con l’eliminazione dei sopralzi in muratura protetti da coppi situati sui salienti minori della facciata e con la copertura delle cornici dentellate con fogli di rame oppor-tunamente adattati. Gli interventi sulla facciata interessarono le due finestrelle quadrilobate poste sopra i portali laterali, la cui demolizione permise di ritrovare la traccia delle antiche monofore alte 193 cm e larghe 26 cm.L’importanza dei ritrovamenti convinse il Faccioli ad attuare il ripristino delle monofore in una ver-sione più corta che non interferisse con i rilievi della genesi.I lavori poterono proseguire sino al 1893 con la totale riparazione del rosone: la grande rosa campionese di pietra fu ampiamente rappezza-ta, in particolare nel semicerchio inferiore, con nuovi blocchi di biancone di Verona tagliati e torniti sul modello di quelli esistenti. A prote-zione delle vetrate istoriate della raggiera furo-no applicati i telai con rete che si conservano ancora oggi. Il paramento laterizio dei loggiati fu scrostato dell’intonaco imitante la pietra, mentre alcune lastre del paramento di facciata, nascoste fino a quel momento da manifesti e annunci funerari, vennero sostituite con nuove lastre di pietra di Verona. (Fig. 1)

Negli anni a seguire fino ai primi anni del No-vecento furono intrapresi molti altri lavori come l’isolamento del Duomo e le demolizioni al suo interno.Un’ulteriore tornata di restauri venne promossa dal progetto del Barbanti e da Tommaso Sandon-nini, segretario del Comitato promotore per il re-stauro del Duomo, che già negli anni 1893-1894 aveva auspicato il recupero dei due leoni romani sostituiti nel 1851 con copie dello scultore Luigi Righi. Nonostante la richiesta presentata in quegli anni dal Faccioli, i leoni stilofori, nel frattempo trasferiti nel lapidario, vennero effettivamente ri-collocati nel protiro della facciata solo nel 1923.Lo stato incompleto dei due torrini, dovuto al terremoto del 1671, portò il Comitato ad aprire una sottoscrizione per ricostruire, su progetto del Barbanti, le edicolette cuspidate con otto colon-ne che insistevano in origine su basi prismatiche. Il progetto teneva conto delle ricerche d’archivio e dell’iconografia storica. L’approvazione del Mi-nistero venne emessa a condizione che venisse utilizzata una pietra diversa dalle pietre istriane e veronesi usate in Duomo. Fu usato così il mar-mo bianco bronzetto ma ciò non fermò le critiche successive. I capitelli a foglie delle colonnette e tutte le modanature delle edicole furono giudi-cate troppo finite e perciò falsificanti da Gustavo Giovannoni nel 1938. Il ciclo di restauri che interessarono il Duomo di Modena riprese, dopo la parentesi bellica, nel corso degli anni Cinquanta, per la necessità di in-terventi con opere di restauro per la salvaguardia delle sculture e dei prospetti esterni, più diretta-mente minacciate dall’azione di degrado. Più tar-di, nel 1968, l’attenzione si spostò sui fenomeni di degrado localizzati in facciata e in particolare

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sui bassorilievi della Genesi che cominciavano a dare segni di deperimento.Dopo numerosi studi e convegni la Soprinten-denza per i beni architettonici e paesaggistici di Bologna predispose il progetto di restauro ma i finanziamenti tardarono ad arrivare, tanto che si ritenne opportuno installare un ponteggio a pro-tezione della facciata. Proprio grazie a tale struttu-ra fu possibile constatare il gravissimo stato di de-grado in cui versava la grande rosa campionese, in particolare il semicerchio inferiore, già ricostruito in epoca ottocentesca.Il progetto di restauro della Soprintendenza pre-vedeva tecniche di restauro adottate a quell’epoca ed in particolare la pulitura ed il trattamento con-solidante, secondo modalità già sperimentate in altri importanti monumenti come ad esempio nel Portale di Palazzo Schifanoia, nella facciata della cattedrale di Ferrara, nei portali di San Marco a Venezia e nel rivestimento lapideo della basilica di San Petronio a Bologna. Come consolidamento e protezione delle superfi-ci esposte venne applicata a pennello una soluzio-ne di resina paraloid dosata al 5% mescolata con clorotene e diluente nitro con l’aggiunta dell’1% di silicone; una soluzione concentrata delle due resine, rispettivamente 15% di paraloid e 5% di silicone, venne applicata nelle piccole fessurazio-ni fino a riempimento; quale strato di finitura fu eseguita una protezione a base di cera vergine di-luita in soluzione al 10% in essenza di trementina stesa a pennello.Al riguardo il comitato di studiosi composto da Cesare Brandi, da Cesare Gnudi e da Raffaella Rossi Manaresi del Centro per la conservazione delle sculture all’aperto di Bologna, convocati per prendere visione dei rilievi del Wiligelmo, con-

venne di rimuovere lo strato ceroso steso sui rilie-vi di Wiligelmo e di optare per la sola protezione, analogamente a quanto fatto per San Petronio a Bologna, a base di paraloid e silicone, perché la patinatura a base di cera avrebbe provocato un ra-pido scurimento.Anche il Comitato di Settore del Ministero per i beni e le attività culturali, con la nota del 1979 che approva gli interventi per il Restauro della Facciata del Duomo, ritiene che dovesse «essere evitata l’applicazione di cere perché attirano la polvere».La caduta di una porzione di materiale lapideo, avvenuta nel 2005 in corrispondenza della cor-nice dello spiovente destro del tetto della faccia-ta, ha determinato l’avvio, da parte della Soprin-tendenza per i beni architettonici e paesaggistici di Bologna, di una serie di indagini scientifiche sullo stato di conservazione delle strutture del Duomo e del successivo intervento di consoli-damento e restauro della facciata. Le indagini petrografiche, chimico-fisiche e la ricostruzione storica degli eventi hanno permesso di sviluppa-re l’intervento di restauro sulla facciata e succes-sivamente sul lato settentrionale, dove i lavori sono potuti continuare con finanziamenti della Fondazione Cassa di Risparmio di Modena. At-tualmente (marzo 2009) è stato avviato sempre a cura della Soprintendenza per i beni architetto-nici e paesaggistici di Bologna, il cantiere di re-stauro del lato meridionale del Duomo, su piaz-za Grande, del portale wiligelmico e dei portali laterali della facciata. Questo progetto prevede un difficile intervento di pulitura dalle croste nere presenti su tutto il lato della navata centrale, coerentemente a quan-to effettuato sul lato nord, secondo le modalità

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operative già condivise con l’Istituto superiore per la conservazione e il restauro (Fig. 2).Le metodologie del restauro e i materiali saranno definiti solamente a seguito dei riscontri ottenuti dalle analisi chimiche che hanno già preannunciato un elevatissimo fenomeno di solfatazione in atto sul paramento lapideo interessato dalle croste nere.Anche qui gli interventi da realizzare sul para-mento lapideo, articolati nelle fasi canoniche di

pulitura, consolidamento ed eventuale protezio-ne, saranno preceduti, come consuetudine, dalla fase propedeutica di documentazione e di ricerca e dalla realizzazione di mappature grafiche di lo-calizzazione dei fenomeni di degrado.Questa fase di documentazione e di ricerca, in re-lazione ai lavori sulla facciata e sul lato settentrio-nale, ha permesso di acquisire dati ad oggi scono-sciuti mediante lo sviluppo di rilievi grafici per

02. Lato sud interessato da croste nere

Il duomo di Modena “capolavoro del genio creatore umano”restauro del paramento lapideo

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l’identificazione litotipica dei singoli elementi del il paramento lapideo del Duomo. (Fig. 3)I rilievi fotografici generali e particolareggiati e la mappatura grafica delle forme di degrado hanno permesso inoltre di catalogare le varie pietre in base alla natura dei processi degenera-tivi riscontrati; insieme alle ricerche d’archivio tendenti a risalire agli eventuali trattamenti su-biti in passato ed alle indagini chimico-fisiche

finalizzate alla caratterizzazione composizionale dei prodotti del degrado ed al loro legame con gli ultimi interventi di restauro, si è ottenuta la documentazione necessaria per sviluppare gli in-terventi in atto.A soli trent’anni dall’ultimo intervento, si posso-no osservare forme degenerative quali decoesioni, erosioni, esfoliazioni, croste nere, dilavamenti e alterazioni cromatiche.

03. Mappatura dei Litotipi a cura di Stefano Lugli (Università degli studi di Modena e Reggio Emilia)

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Sono state individuate vaste zone lapidee ricostru-ite con malte cementizie e stucchi sintetici ed aree interessate da disomogenee patinature alterate e viranti in gialli traslucidi, originate dalla polime-rizzazione delle resine sintetiche e delle cere uti-lizzate come protettivi. La cera si presenta come un film staccato dalla superficie, quindi non as-sorbito mentre il paraloid è totalmente assorbito nelle zone più protette ed è visibile sottoforma di variazioni cromatiche. (Fig. 4)Il principale degrado riscontrato sulla facciata e sul lato settentrionale era generato dalla mancanza di traspirabilità da parte della pietra, che risultava più o meno accentuato a seconda della densità del litotipo interessato. In particolare la ricostruzione storica degli eventi ha permesso di appurare che il lato settentrionale del Duomo era stato segnato

da numerose sostituzioni lapidee con elementi in pietra tenera di Vicenza, a grana fine, a differenza della facciata caratterizzata per lo più dalla stessa pietra di Vicenza ma a grana grossa. In occasione del sopralluogo effettuato dall’Isti-tuto superiore per la conservazione ed il restauro sono emerse osservazioni interessanti in merito allo stato conservativo del paramento lapideo pri-ma dell’attuale intervento.Stranamente le parti protette della facciata e del lato settentrionale, sia lisce che modellate (sotto mensole e retro delle colonne), risultavano prive di depositi coerenti e di croste nere, a differenza del paramento laterizio interno alle archeggiature. (Fig. 5)Il lato settentrionale su via Lanfranco fu oggetto nel corso degli anni Settanta-Ottanta di una puli-tura con impacchi AB57 per rimuovere il comple-to annerimento testimoniato dalle foto scattate in precedenza ma che non interessò la parete della navata centrale.L’esame di queste due zone, interessate da vicen-de conservative diverse, ha messo in evidenza che la superficie lapidea restaurata negli anni Ottanta ha avuto un intervento di restauro forse troppo aggressivo, come emerge dalla scabrosità della su-perficie lapidea.I riscontri ottenuti successivamente, con le inda-gini scientifiche eseguite proprio per l’identifica-zione dei processi di degrado in atto, hanno con-fermato tale ipotesi. Infatti un prelievo eseguito su una lastra di pietra di Vicenza caratterizzata da superficie scabra con rigature e microcavità irre-golari ha messo in evidenza un incipiente feno-meno di solfatazione: la consistente concentrazio-ne di solfati pari a 1,74% e la presenza di una alta percentuale di ione ammonio sono imputabili

04. Il degrado presente sulla facciata

Il duomo di Modena “capolavoro del genio creatore umano”restauro del paramento lapideo

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all’utilizzo di una sostanza corrosiva che potrebbe aver provocato una forte aggressione della pietra.Ulteriori analisi stratigrafiche hanno messo in luce la presenza in diverse zone del paramento lapideo di una scialbatura a base di calce pigmentata stesa anche al di sopra di residui di crosta nera, pro-babilmente al fine di coprire alcuni risultati non soddisfacenti della pulitura e di rendere omoge-neo il risultato estetico finale.

Le campagne diagnostiche hanno inoltre confer-mato la ricostruzione storica sui precedenti inter-venti di restauro, riscontrando la presenza di resine acriliche, in particolare di paraloid, una delle resi-ne acriliche più utilizzate tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta per operazioni di fissaggio e consoli-damento dei materiali litoidi. Sono state esaminate quindi tutte le patine osservabili sulla superficie, sottoponendone i campioni prelevati allo studio al microscopio elettronico a scansione, alla microana-lisi chimica elementare, alla microsonda elettronica in dispersione di energia e al FT/IR (microanalisi spettrofotometrica all’infrarosso).Tutte le patine sono formate da quantità variabili di gesso e da ossalati, quest’ultime derivanti dal degrado di sostanze organiche proteiche utilizzate in passato sia per la protezione superficiale sia per la stesura di scialbature a calce; i saggi immuno-enzimatici hanno individuato in maniera diver-sificata la presenza di caseina di capra, caseina di vacca, colla di bue e di albume.Nell’impossibilità, da parte del laboratorio, di se-zionarle in stratigrafia, si è cercato di collocarle nello spazio temporale in base alle notizie storiche in nostro possesso.L’albume ritrovato sulle torrette è da datare suc-cessivamente al 1937, anno in cui i torrini furono ricostruiti; la stessa sostanza proteica è stata ritro-vata sia sul rosone che sul rilievo di Wiligelmo, probabilmente utilizzata come legante degli strati pittorici e quindi di origine più antica. La presen-za della colla di bue è significativa nella zona bas-sa dei contrafforti in facciata, sostituiti intorno al 1924, e successivamente scialbati come riportato nella ricostruzione storica delle edizioni Panini. La presenza di una scialbatura a calce, ora com-pletamente solfatata, è stata riscontrata in alcuni

05. Particolare delle Loggette prima del restauro

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06. Il degrado del rosone in arenaria

07. Particolare del rosone prima del restauro

campioni di colore bianco-avorio ed in quelli di colore giallo-aranciato a causa della presenza di ocre, come nel campione prelevato dalla secon-da metopa di facciata. L’ultima patinatura delle superfici lapidee, documentata dalla ricostruzione Panini, può essere fatta risalire al restauro eseguito nell’immediato dopo-guerra. L’utilizzo della casei-na di capra, ritrovata in particolare sul prospetto Nord nel corso dell’intervento di restauro conclu-sosi nel novembre del 1985 con le stesse modalità tecniche adottate per la facciata, può essere ascri-vibile a tale fase di lavori. La presenza di resina acrilica conferma l’intento dell’ultimo intervento di restauro degli anni ’80 di impermeabilizzare le superfici. Al contrario che sulla facciata sul lato nord, nessun prelievo ha mostrato la presenza di cera microcristallina. Ritornando ai processi di degrado riscontrati e campionati durante la fase diagnostica, partico-larmente grave si presentava lo stato conservati-vo degli elementi in arenaria, in particolare del rosone nel semicerchio inferiore completamente ricostruito nell’Ottocento; questo tipo di arenaria (denominato formazione di Pantano) ha subito numerosi interventi di restauro che comunque non sono riusciti ad arginare il problema. L’are-naria si presentava con profonde spaccature, di-sgregazioni e distacchi in corrispondenza delle vecchie stuccature a base di resina sintetica, de-laminazione del substrato e interi conci sollevati senza più continuità materica e presenza di piante infestanti. (Figg. 6-7)Il degrado materico in cui versava l’arenaria del rosone ha reso indispensabile un lungo e metico-loso intervento di consolidamento volto a ridare al substrato incoerente la compattezza perduta, con l’eliminazione delle resine sintetiche delle

Il duomo di Modena “capolavoro del genio creatore umano”restauro del paramento lapideo

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malte non più idonee e coerenti utilizzate negli ultimi interventi.A differenza di molti interventi di restauro in-dirizzati verso la ricostruzione di quei modanati architettonici che per varie concause sono andati perduti, si è preferito non interferire ulteriormen-te con malte riportate o con ricostruzioni arbi-trarie. Si è scelto quindi di limitare l’intervento alla sola chiusura delle vie d’infiltrazione di acqua con mal-te idonee con un accenno di modellato solo in al-cune parti completamente degradate e di trattare adeguatamente le zone con creste pericolose che avrebbero potuto creare problemi di infiltrazioni d’acqua. (Figg. 8-9)Al restauro completo del rosone che ha riguar-dato anche la parte interna del Duomo, ha fatto seguito il difficile lavoro di restauro delle vetrate istoriate quattrocentesche.Le vetrate sono state smontate dalla struttura ob-soleta che le conteneva, pulite dai depositi e dalle incrostazioni di vecchie malte e siliconi, consoli-date nella pellicola pittorica in superficie, ricollo-cate nella posizione originaria tramite una nuova griglia di contenimento in piombo. Sono state eliminate le incongruenze storico-stilistiche cre-ate dai precedenti restauri in particolare i tasselli vitrei ricostruiti con resina e le tessere disposte a caso senza un nesso stilistico-grafico.Di natura più strutturale è stato l’intervento che ha riguardato il cornicione in pietra di Vicenza e le torrette sommitali. Il cornicione soggetto a continue infiltrazioni di acqua piovana è stato an-corato nelle parti disgregate (Fig. 10) e successiva-mente ne è stata migliorata la protezione superio-re. Gli aggetti esterni (capitello del saliente) erano stati ricostruiti con cemento grigio e sabbia grossa

08. Il rosone dopo il restauro

09. Particolare dopo il restauro

Graziella Polidori

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ed erano stati ancorati all’arenaria con perni filet-tati in acciaio di dimensioni spropositate rispetto alla consistenza lapidea. Per evitare inoltre ulte-riori cadute di materiale è stata applicata una rete metallica tassellata direttamente al capitello del saliente.

Per quanto riguarda le torrette soggette a disgrega-zione materica per la natura marmorea della pie-tra utilizzata sono stati studiati dei rinforzi esterni in acciaio inox per aiutare le colonnine e le lastre superiori nella loro funzione strutturale. (Fig. 11) Le foto mostrano la colonnina in marmo bron-zetto del torrino di facciata e la colonnina in mar-mo di Verona del torrino absidale ed evidenziano forme di degrado simili molto preoccupanti con fenomeni di fessurazione verticale e veri e propri distacchi di parte del materiale.Il restauro delle superfici del paramento e degli orna-ti ha previsto una prima fase di preconsolidamento realizzata su quelle porzioni lapidee con avanzati fe-nomeni di disgregazione, esfoliazione e scagliatura a cui è seguita la messa in sicurezza di scaglie, schegge e frammenti di maggiori dimensioni. Le zone inte-ressate da patine biologiche, concrezioni di muschi e licheni, sono state trattate con soluzioni biocide idonee scelte dopo l’individuazione dell’agente pa-togeno. Le stuccature eseguite con malte cementizie che non assicuravano più una perfetta chiusura del-la lacuna sono state rimosse e sostituite con impasti costituiti da calce idraulica esente da sali ed inerti a granulometria e composizione variabile, a seconda del litotipo da reintegrare.I prodotti utilizzati per l’attuale restauro sono stati oggetto di un’accurata campagna di analisi chimiche condotta sia in laboratorio sia in can-tiere: in particolare è stata verificata la capacità di penetrazione nei diversi tipi di materiale lapideo dei consolidanti, l’assenza di variazioni cromati-che dopo l’applicazione e la corretta esecuzione della pulitura nel rispetto delle patine ad ossalati e delle varie scialbature.Sono stati utilizzati materiali conosciuti e impie-gati nel campo del restauro da anni, i cui risultati 11. A sinistra, torrette absidali; a destra torrette lato ovest

10. Particolare del rosone disgregato

Il duomo di Modena “capolavoro del genio creatore umano”restauro del paramento lapideo

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sono ancora oggi visibili su importanti monu-menti, limitandone comunque l’utilizzo in fun-zione della reale necessità riscontrata dalle analisi di laboratorio.Di tutto l’intervento di restauro sono stati svilup-pati una serie di rilievi grafici che riportano l’esat-ta localizzazione degli interventi con le specifiche chimiche dei materiali utilizzati e le relative sche-de tecniche al fine di lasciare ai posteri tutta la documentazione necessaria per futuri interventi.A seguito delle lesioni riscontrate nella zona dei matronei di facciata il Comitato Scientifico del Duomo, composto da docenti universitari e dai rappresentanti dalla Soprintendenza di Bologna e della Direzione Regionale, ha valutato gli oppor-tuni interventi di consolidamento strutturale.Su queste lesioni, (Fig. 12) presenti da tempo nella zona dei matronei erano già intervenuti in passato (presumibilmente nell’Ottocento) con cuciture in staffe di ferro e resine naturali: un particola-re interessante è l’analisi effettuata su uno stucco utilizzato per l’adesione di un pezzo distaccato da una colonnina, che ha rilevato l’utilizzo di resina colofonia.L’intervento di consolidamento strutturale appe-na ultimato ha previsto la posa di cerchiature di acciaio in corrispondenza delle fratture nelle co-lonnine e negli architravi e la posa di profilo di ac-ciaio lungo il bordo del cornicione a doppia pelta collegato alla muratura delle loggette con staffe e tiranti in acciaio. (Fig. 13) Il tutto è completamente nascosto dalla vecchia copertina in piombo che è stata riposizionata sui matronei e stagnata nelle giunture.Per verificare inoltre la struttura costruttiva del Duomo sono state eseguite indagini video-endo-scopiche sulla facciata che hanno portato a interes-

12. Particolare delle lesioni presenti nella zona matronei

13. Consolidamento strutturale

Graziella Polidori

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santi scoperte ancora in fase di approfondimento; al momento i prelievi, che hanno raggiunto una profondità di 136 cm, sono stati eseguiti in tre se-zioni del Duomo per determinarne la consisten-za muraria: sulle arcature superiori dei matronei, nella zona interna ai matronei in corrispondenza del laterizio e prossimità degli archetti pensili.Il primo dato interessante è lo spessore del rivesti-mento lapideo che, mentre nella zona delle arca-

14. Particolare delle lesioni sul fianco nord

Il duomo di Modena “capolavoro del genio creatore umano”restauro del paramento lapideo

ture superiori varia da 13 a 36 cm, al di sotto dei matronei diminuisce partendo da un minimo di 7 cm ed arrivando ad un massimo di 30 cm. La muratura dietro al rivestimento lapideo in tutte e tre le sezioni è costituita da alternanze di mattoni messe in piano e a coltello e giunti di malta di dimensioni variabili.Tra le mappature che si stanno realizzando è di notevole importanza quella del quadro fessurati-

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15. Particolare delle lesioni sul fianco nord

vo presente su tutti i prospetti del Duomo che fornirà informazioni più dettagliate sulle proble-matiche inerenti al fenomeno della subsidenza del complesso costituito dal Duomo e dalla Ghirlan-dina. (Fig. 14)Il Comitato dovrà affrontare anche il tema della salvaguardia del bene dal rischio sismico poiché è noto che del nostro patrimonio culturale, quindi anche del Duomo, sappiamo qualcosa sullo stato di conservazione, ma quasi nulla sul modo di pre-servarlo. A tale proposito l’azione del Comitato dovrà mirare ad un’adeguata attività conoscitiva della fabbrica del Duomo per garantirne la prote-zione e la conservazione per fini di pubblica fru-izione. Per affrontare quest’argomento sono di grande aiuto le Linee guida per la valutazione e riduzione del rischio sismico del Patrimonio culturale definite dal Ministero per i beni e le attività culturali in coerenza con l’ordinanza del Presidente del Con-siglio dei Ministri del 12.11.2007 che consentono di agire in modo metodologicamente corretto.

Graziella Polidori

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sintesi storico-critica

A ppartenente sin dalle sue antichis-sime origini all’ordine dei Cano-nici Regolari del SS. Salvatore, poi acquisita al Demanio statale nel 1866, la chiesa fu ricostruita

dapprima nel 1473-78 e poi tra il 1605 e il 1623 su progetto del milanese Giovanni Ambrogio Mazenta, padre barnabita. Ne seguì l’esecuzione, adattando il progetto originario di Mazenta alle condizioni del luogo, il bolognese Tommaso Mar-telli, indicato nei documenti come “architetto della nostra chiesa”. La fama di Mazenta in quegli anni è confermata dall’essere stato l’architetto prescel-to dal capitolo della cattedrale bolognese di San Pietro per il progetto di ricostruzione della preesi-stente chiesa romanica, in continuità con l’opera di rinnovamento avviata con la realizzazione della cappella maggiore di Domenico Tibaldi del 1570. Si deve a Mazenta inoltre la chiesa di San Paolo dell’ordine barnabita a cui apparteneva, sita nelle vicinanze del SS. Salvatore, su via Barberia.Le alterne e controverse vicende della realizzazione seicentesca del SS. Salvatore seguirono in parallelo quelle coeve della cattedrale bolognese, tanto che la prima può dirsi l’alter ego della seconda, con la differenza che nel SS. Salvatore il compimento fu perseguito in modo più coerente ai propositi del Mazenta, tanto da potersi considerare come il suo capolavoro. Né incisero più di tanto sull’idea spa-ziale generale i successivi interventi (tranne quelli moderni di cui si dirà), fatto di per sé eccezionale se si considera quanto siano rari gli esempi dell’epoca

che non hanno subito nel tempo, anche in modo invadente, l’aggiunta di decorazioni ed ornamenti, come è avvenuto in molte chiese della Controrifor-ma, che in origine ne erano prive. I restauri eseguiti dalla Soprintendenza nel SS. Salvatore hanno di fatto privilegiato l’aspetto delle finiture e coloriture chiare del primo Seicento che sono state trattate come un affresco da riportare in luce, operando una scelta selettiva su quelle suc-cessive. Insieme ai lavori è stata condotta l’inda-gine storico documentaria, pervenendo a nuove acquisizioni sul controverso dibattito che accom-pagnò la realizzazione, documentato nei carteggi della fabbrica, che tra oppositori e fautori meglio chiarisce l’apporto originale di Mazenta e il sen-so e il significato di questa architettura1. È stato inoltre possibile ricostruire la sequenza dei lavori, le fasi di preparazione e allestimento del cantiere, gli accorgimenti per utilizzare quanto più possibile le muraglie preesistenti nuovamente sottofondate. Nuove osservazioni, come si vedrà, evidenziano la particolare tecnica utilizzata nelle finiture interne. I riscontri iconografici restituiscono inoltre come doveva essere il sagrato, rimosso nell’Ottocento, che ne costituiva il podio sopraelevato.Il SS. Salvatore appare solo in parte conforme al mo-dello delle chiese della Controriforma, sul tipo del Gesù a Roma. L’aula a sviluppo longitudinale è alta il doppio della larghezza, con tre cappelle sui due lati; il transetto, compreso nel perimetro rettangola-re del corpo della chiesa, è coronato da una cupola nascosta all’esterno da un tiburio ottagonale (Ma-zenta l’avrebbe voluta estradossata e a collo lungo); l’abside si presenta semicircolare all’interno e poli-gonale all’esterno. A partire da queste componen-ti, similari a molte chiese congregazionali di quegli anni, con significative varianti Mazenta seppe eman-

REStAURI DEllA ChIESA DEl SS. SAlVAtoRE A BolognA

Antonella Ranaldi

* Chiesa del SS. Salvatore a Bologna, l’interno dopo i restauri

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84 Restauri della chiesa del SS. Salvatore a Bologna

cipare lo schema di partenza, orientando la ricerca verso inedite soluzioni. Innanzitutto variò il passo delle tre campate dell’aula, enfatizzando la campata centrale resa più larga rispetto alle altre e coperta a crociera, dilatata nei due vani delle cappelle laterali a tutta altezza, con finestroni che inondano di luce diretta l’ambiente interno. Tale accorgimento con-ferisce all’aula longitudinale un’idea di centralità, creando inoltre un’asse trasversale, a formare quasi

un secondo transetto (Fig. 1). L’idea risulta ancora più chiara nel disegno dell’articolata facciata lungo il fianco della chiesa. I due alti volumi, corrispondenti al transetto e alla campata centrale, sono denunciati all’esterno duplicandone il disegno in modo specu-lare, separati dai corpi più bassi delle due campate più strette, alle quali si accompagnano le cappelle laterali con le finestre a serliana, alternate a doppie finte finestre rettangolari, secondo il ritmo bina-

01. Gio. Carlo Sicinio Galli Bibiena, chiesa del SS. Salvatore a Bologna, pianta (1752)

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85 Antonella Ranaldi

raste e dell’impaginazione parietale (Fig. 2). A questa sapiente e composta articolazione, si aggiungono le spettacolari otto colonne libere che all’interno se-gnano il passo delle campate dell’aula, in luogo delle più tradizionali paraste o semicolonne. Mazenta svi-luppa qui i presupposti di soluzioni appena enun-ciate in San Salvatore in Lauro a Roma di Ottaviano Mascherino, in San Fedele a Milano di Pellegrino Tibaldi, nella cappella maggiore della cattedrale bo-

lognese di San Pietro di Domenico Tibaldi, in paral-lelo al Sant’Alessandro milanese di Lorenzo Binago, dove grandi colonne monolitiche in marmo rosso furono poste nel 1623, in adiacenza dei pilastri sotto la cupola, volgendo ad esiti di ricerche convergenti che contraddistinguono il contributo degli architetti barnabiti del tempo Binago e Mazenta. Proprio le novità introdotte, la variazione del passo delle campate dell’aula, con quella centrale

02. gio. Carlo Sicinio galli Bibiena, chiesa del SS. Salvatore a Bologna, prospetto laterale (1752)

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più dilatata, e l’impiego delle colonne libere, at-tirarono le critiche del tempo, tanto che la chiesa rischiò di non essere portata a termine. Si voleva da Roma cambiare il progetto a favore di uno più conforme alle chiese che, in quegli stessi anni, si andavano realizzando nella città della sede pon-tificia. Le controverse vicende, che accompagna-rono i momenti più difficili nel corso dei lavori, sono documentate nei carteggi e nelle missive tra il priore del SS. Salvatore Alfonso Bavosi e il canonico Candido Avanzi, mandato a Roma a difendere la causa del progetto di Mazenta e la prosecuzione dei lavori. La disputa che ne emerse mette in luce il dibattito di quegli anni su temi di squisita natura architettonica, a partire dalle scelte compositive dell’impianto biassiale e del-la colonna libera. Su questi temi si espressero a proposito del SS. Salvatore i maggiori architetti del tempo, Onorio Longhi e Carlo Maderno, il primo insindacabilmente critico, il secondo più indulgente; le loro posizioni dimostrano quanto le soluzioni del Mazenta, antesignane dei futuri sviluppi, non fossero in quegli anni comprese a pieno, e in una certa misura anche osteggiate. Mazenta stesso, che nel frattempo aveva assunto ruoli di maggiore responsabilità come genera-le dell’ordine dei barnabiti, scese in campo per controbattere alle critiche rivolte al suo proget-to. E di questo, difese le proporzione, l’ordine architettonico, il ricorso alle colonne libere, ar-gomentando le sue scelte e dichiarando ancora una volta, come aveva fatto nei suoi appunti au-tografi al disegno di progetto iniziale del 1605, i propri modelli di riferimento, ripresi dall’archi-tettura tardo imperiale romana della Basilica di Massenzio, che si riteneva a quel tempo fosse il Tempio della Pace, e delle Terme di Diocleziano,

che evidentemente Mazenta doveva conoscere nell’aspetto conferitogli da Michelangelo nel mirabile e rispettoso adattamento della chiesa di Santa Maria degli Angeli (Fig. 3). Nel SS. Salva-tore si volle dunque ricreare, e la scelta di portare le colonne fuori dai pilastri lo conferma, l’effetto delle aule termali antiche, quali si potevano solo immaginare, in uno spazio architettonico lumi-noso e arioso, destinato alla liturgia religiosa. Pur rifacendosi quindi ad uno schema ampiamente diffuso, Mazenta introdusse alcune significative no-vità nell’articolazione planimetrica e nell’alzato del-la navata, che resero il SS. Salvatore un modello ri-prodotto in molte chiese emiliane2, per divenire poi il punto di avvio delle sperimentazioni barocche sul tema della pianta composita e della colonna libera, che da lì si svilupperanno a pieno e con effetti ben più scenografici. Tanto che può rintracciarsi, come riconosciuto da Wittkower3, una linea evolutiva che dal SS. Salvatore di Mazenta porta alla realizzazione della chiesa romana di Santa Maria in Campitelli di Carlo Rainaldi. E al meglio delle sue qualità, la chiesa venne apprezzata da numerosi e colti visita-tori. Jean Mabillon a Bologna nel maggio del 1686 la definiva «una splendida basilica, d’architettura moderna». Filippo Juvarra, di passaggio a Bologna nel 1716, ne riportava la pianta nel suo taccuino4. Secondo Montesquieu, a Bologna nel 1729, la chie-sa «per l’architettura è una delle più belle di Bolo-gna …»5. Charles De Brosses, appassionato cultore delle antichità romane, a Bologna nel settembre del 1739, non esitava a definirla tra le chiese bolognesi «la più bella chiesa di tutte» paragonandola all’anti-ca architettura greca e romana6. Seguirono da lì a poco gli interventi settecen-teschi. Dapprima nel 1744 venne nuovamente pavimentato il sagrato che correva sui due lati

Restauri della chiesa del SS. Salvatore a Bologna

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liberi della chiesa, davanti alla facciata e sul fian-co lungo la via delle Asse, dal mirabile disegno a forme geometriche e stellari, documentato nella pianta di Sicinio Galli Bibbiena, pubblicata da G. G. Trombelli nel 1752 (Fig. 1). Dopo la caduta di un fulmine il 15 giugno 1758, che danneggiò le coperture e le volte, si eseguirono nel 1759-60 consistenti restauri e vari abbellimenti interni. La cronaca di Pedini riferisce che i restauri compiuti dall’abate Clemente Ambrosi, costati lire ottomi-la, iniziarono il 2 luglio del 1759 e terminarono il 10 settembre. Riguardarono la sagrestia, tutto il coperto della chiesa e il tiburio, la facciata e il fianco della chiesa7. Nel 1760 i lavori prosegui-rono all’interno, dove fu rifatto l’altare maggiore in marmo e in bronzo dorato, costato circa lire ventimila, e rinnovate le dorature delle ancone in

legno delle cappelle. Nel transetto i lavori interes-sarono anche le quattro cantorie che, riportate in luce negli ultimi restauri, mostrano la finezza degli ornati e degli stucchi in bianco e oro e le coloritu-re a finto marmo azzurre e rosse. Il restauro termi-nò nel 1760 in occasione del capitolo tenutosi il 28 aprile, che portò alla nomina del nuovo priore del monastero Giovanni Grisostomo Trombelli. Appassionato cultore delle arti, egli aveva già de-dicato alla chiesa approfondite ricerche pubblica-te nelle Memorie istoriche … del 1752, corredate dalle belle incisioni di Sicinio Galli Bibbiena, che illustrano la chiesa in pianta, sezione e prospetti (Figg. 1-2)8. Di altro tenore furono le vicende che interessaro-no la chiesa dopo le confische napoleoniche e le soppressioni post unitarie del 1866. Il complesso abbaziale divenne da allora di proprietà dema-niale e la chiesa appartiene oggi al Fondo degli edifici di culto (FEC). Alla fine dell’Ottocento, l’Intendenza di Finanza eseguì una nuova pavi-mentazione in mattonelle esagonali di graniglia di cemento, sovrapposta a quella preesistente in ammattonato a spina di pesce, e nel 1899 fu ri-tinteggiato l’interno. All’inizio del Novecento, la chiesa tornò ad ospitare i canonici (divenuti dal 1823 canonici regolari lateranensi). Fu allora che il nuovo rettore pose mano al rinnovamento delle mense degli altari delle cappelle (1907 e 1918), e nel 1927-28 fu realizzata ad ornamento dell’altare maggiore una pavimentazione in marmo cipolli-no delimitata da una nuova balaustra. Durante l’ultima guerra l’aula fu utilizzata come deposito sanitario e militare, proteggendo le cappelle con paratie in laterizio9. Sebbene colpita, si salvò mi-racolosamente dai bombardamenti. Una mina infatti ne forò la cupola, ma cadde rimbalzando

Antonella Ranaldi

03. Maerten Fransz van der Hulst, veduta dell’aula trasversa della chiesa di S. Maria degli Angeli a Roma, come si presenta-va dopo gli interventi di Michelangelo all’interno della sala a tre crociere delle Terme di Diocleziano (da Storia dell’architet-tura italiana. Il secondo Cinquecento, a cura di C. Conforti e R. Tuttle, Milano 2001, p. 41)

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senza esplodere. Seguirono i lavori di riparazione e più tardi furono tamponate le finestre che illu-minavano l’abside. A chiusura di questa sintetica illustrazione delle principali fasi storiche della chiesa, preme qui evi-denziare come la ricerca documentaria e storico-critica sia stata condotta in parallelo ai restauri, co-stituendone un essenziale momento conoscitivo e di approfondimento critico. Rimandando agli esiti di queste ricerche10, e auspicando la pubblicazione del significativo apparato documentario sulla chie-sa, l’esperienza dei lavori compiuti si pone secondo gli assunti brandiani «del restauro come momento metodologico del riconoscimento dell’opera d’arte, nella sua duplice polarità estetica e storica». Appare quindi utile disvelare con il restauro della materia, i significati e gli strumenti per apprezzarne l’estetica e comprenderne la storia, nella fattispecie collocan-do l’opera del SS. Salvatore nella sua giusta dimen-sione nel panorama ampio della storia dell’archi- 05. L’interno dopo i restauri

04. L’interno dopo i restauri

Restauri della chiesa del SS. Salvatore a Bologna

tettura, un posto di rilievo già riconosciutogli in primis proprio da Wittkower, tra le selezionate ec-cellenze bolognesi dell’architettura del Seicento11.

Il restauro

Il restauro degli interni è stato impostato e avviato nel 2000 e portato a termine nel 200812, grazie ai fondi della programmazione ordinaria del Ministe-ro per i beni e le attività culturali, suddivisi in sei lot-ti di intervento (Figg. 4-6). Si è scelto di procedere a piccoli passi, senza mai interrompere l’attività litur-gica propria della chiesa, mettendo a frutto i finan-ziamenti distribuiti negli anni, piuttosto che aggre-dire il monumento con un unico intervento, dagli esiti difficilmente valutabili sin dall’inizio, con fondi che sarebbe stato improbabile ottenere se elargiti in una unica soluzione. Questa strategia si è rilevata

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06. L’interno dopo i restauri

coerente, alla luce dei risultati raggiunti, e più adatta alle modalità di intervento proprie della Soprinten-denza, pervenendo al completamento del restauro di tutte le parti interne con esiti unitari e coerenti all’impostazione iniziale. Prima degli ultimi restau-ri, la Soprintendenza si era già presa cura di questo importante monumento già a partire dagli ultimi anni Ottanta, con interventi che sebbene non siano visibili ne costituiscono il presupposto. Nel 1984 si pose mano al consolidamento delle volte e alla sistemazione dell’intera copertura, assicurando la stabilità complessiva, agendo sulle cause delle gra-vose infiltrazioni d’acqua che provenivano dal tetto a danno degli intonaci interni, localmente ammalo-rati con visibili macchie di umidità. Furono inoltre sostituite le grandi vetrate con nuovi infissi. Avvian-do quindi il restauro degli interni, nel 2000 si scelse di procedere all’intera descialbatura delle successive tinteggiature sovrapposte nel tempo, riportando in luce le coloriture chiare della chiesa del primo Sei-cento, riconoscendo in esse un valore primario da restituire in modo coerente all’architettura.

Prima del restauro, l’interno si presentava unifor-memente di colore marrone-verde; si trattava della tinteggiatura eseguita dall’Intendenza di Finanza nel 1899, dopo che era stata realizzata la nuova pavimentazione13. Il colore dell’ultima tinteggia-tura si presentava ulteriormente scurito dal tem-po e dai depositi superficiali, le parti alte e le volte erano interessate da macchie di umidità dovute alle infiltrazioni dal tetto. L’aspetto complessivo comprometteva la resa spaziale dell’architettura, nell’insieme luminosa e ariosa, uniformando sfon-dati, membrature, risalti, partiture e decorazioni, il tutto coperto da un colore pesante e omogeneo, scurito dal tempo. Il restauro è stato esteso a tutte le superfici interne con trattamenti di descialbatura e consolidamento degli stucchi. Gli intonaci si pre-sentavano di per sé di ottima fattura e ben aderenti al supporto murario, con una finitura originale di colore chiaro con sottili differenziazioni negli orna-ti e nell’ordine architettonico.L’esame in sito e in laboratorio delle stratigrafie14 ha permesso di evidenziare la particolare tecnica esecu-tiva delle finiture interne, che porta ad ipotizzare il ricorso a sistemi, già utilizzati in area milanese da Pellegrino Tibaldi, sperimentati a Bologna da Ma-zenta sia nella cattedrale, che nel SS. Salvatore. Il trattamento si differenzia nelle parti lisce degli sfon-dati e nelle parti a rilievo degli apparati decorativi dell’ordine architettonico. Sulle pareti, al normale strato finale dell’arriccio dell’intonaco si sovrappone la scialbatura a calce; diversamente nelle membratu-re architettoniche (colonne, capitelli e trabeazione), si nota, applicato sopra il rinzaffo, uno strato ben lisciato di colore rosso mattone, costituito da malta di calce e polvere di mattone (Fig. 8). A questo into-nachino in cocciopesto si sovrappone la scialbatura a calce data a quattro mani, finita con una velatura

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07. Stratigrafia sulla trabeazione con la coloritura marrone-verde precedente al restauro

sottile colore ambrato. È interessante quindi notare che il trattamento in polvere di mattone, tradizio-nalmente riservato all’esterno, come nella maggior parte delle fabbriche bolognesi, si ritrova in questo caso anche all’interno e consisteva nella “sfregatura” e “sagramatura” richiamata nei documenti della fab-brica a cui seguiva l’“imbiancatura”. Questo strato in cocciopesto finissimo assolveva ad una funzione idraulica che consentiva soprattutto alle parti mo-dellate di far presa in tempi rapidi15, consentendo l’applicazione della successiva scialbatura di calce stesa a quattro mani con applicato sopra un velo di patinatura ambrata, raggiungendo così un effetto pregiato di trasparenza e vibrazione della superficie, che nobilitava il modellato degli elementi architetto-nici, lisci e a rilievo, in modo da farli apparire come se fossero realizzati in materiale lapideo. Invece la maggior parte degli elementi sono in muratura fi-nita ad intonaco e a stucco, le uniche parti in pietra di macigno (arenaria) si trovano nelle basi delle co-

Restauri della chiesa del SS. Salvatore a Bologna

lonne e nella cornice della trabeazione. Le colonne sono in muratura di mattoni con scanalature, diver-samente da quanto previsto da Mazenta, che aveva pensato di realizzare le colonne interne in rocchi di macigno. Anche i capitelli sono in stucco, realizza-ti da Giovanni Tedeschi, autore anche delle statue interne. Quelle sulla facciata invece sono di Orazio Provaglia. Ma tornando all’aspetto tecnico ed esecutivo, se la sagramatura applicata alle murature esterne faceva parte di una tradizione bolognese di lunga data, la finitura a cocciopesto macinato finissimo estesa alle superfici interne trova motivi di stretta parentela con alcune fabbriche milanesi tardo cinquecentesche, in particolare quelle di Pellegrino Tibaldi, che oltre ad aver lavorato a Bologna, era anche il fratello di Do-menico Tibaldi, attivissimo a Bologna, in particolare nella cattedrale di San Pietro, dove lavorò Mazenta negli stessi anni del SS. Salvatore, e dove si ritrova un’analoga stratigrafia con sottofondo in polvere di mattoni e scialbatura a calce. Particolarissimo è inoltre il fondo delle superfici nella terza cappella a sinistra, la cappella Orsoni, che presenta una sagra-matura estesa per intero alle superfici interne, del tutto rara e singolare per la qualità del trattamento. Fu realizzata allo scopo di difendere le murature dal-la risalita dell’acqua per capillarità dal terreno (sotto la chiesa scorre un canale). Si tratta di uno strato in cocciopesto finito con patinatura ad olio, lisciato alla perfezione tanto da apparire come una ceratura lu-cida, applicato in aderenza ai mattoni, che appaiono in trasparenza soprattutto nelle parti basse, creando in altre parti l’effetto di una superficie marmorizzata, perfettamente idraulica, sulla quale era data la scial-batura di finitura. Nella cappella Orsoni fu risolto in questo modo il problema dell’umidità, che invece rimase nelle altre parti della chiesa. Un altro felice

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08. Microfotografia della sezione di un campione prelevato su una lesena del transetto. La stratigrafia al microscopio mostra sopra l’intonaco (-a, rinzaffo); uno strato (-b) in cocciopesto su cui sono applicate 4 mani di scialbatura in grassello di calce, che costituiscono le finiture più antiche. Tra lo strato (- c) e (- d) insiste uno stacco costituito da uno strato di polvere Si sovrappongono poi gli strati a calce addizionata a gesso con terre di colore verde e nero carbone (indagini eseguite dal laboratorio della Fondazione Cesare gnudi).

Antonella Ranaldi

ritrovamento è stato quello delle finiture in stucco e oro e delle coloriture in finto marmo rosso e az-zurro dei coretti aggiunti nel Settecento, anch’essi irriconoscibili perché coperti dalla stessa tinta verde-marrone data sul resto della chiesa.

deuMidiFicazione

Tra le varie indicazioni progettuali autografe di Mazenta nelle note del disegno redatto a Mila-no il 27 febbraio 1605, c’era quella che sotto alla chiesa ci fosse una “sotterranea chiesa luminosa e asciutta”, che invece non fu realizzata. È probabi-le che pensasse a tale soluzione per le sepolture e per isolare meglio la chiesa superiore e preservar-la dall’umidità proveniente dal terreno. Sotto la chiesa corre infatti un canale sotterraneo, per cui è fisiologico che la chiesa sia interessata da feno-

meni di risalita dell’acqua per capillarità. Tanto più che questa fu una delle ragioni per cui sulle pareti interne della cappella Orsoni, l’ultima ad essere realizzata, si eseguì il particolare trattamen-to idraulicizzante in cocciopesto sopra descritto. Prima dei lavori di restauro, si è verificato che l’ac-qua arrivava per risalita capillare ad un’altezza di ca. m. 1,20 su tutte le murature perimetrali, con la formazione di efflorescenze, esfoliazioni e distac-chi, con il risultato che nel giro di poco tempo si sarebbe presentato lo stesso problema anche dopo il restauro. Si è pensato al modo meno invasivo di intervenire, ricorrendo al sistema brevettato “Ka-libra dry” con l’impiego di piccoli apparecchi ali-mentati ad elettricità. Se ne sono utilizzati cinque a coprire l’intera superficie della chiesa di mq. 1.790; essi creano un leggero campo elettro-magnetico che

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impedisce la risalita dell’acqua agendo su un raggio sferico di 15 metri. Nel corso dei lavori si è dappri-ma utilizzato un solo apparecchio, in modo da mo-nitorarne l’efficacia nel tempo con la misurazione periodica del contenuto dell’acqua nella muratura; sulla scorta dei risultati raggiunti, nel 2008 si sono poi installati gli altri 4 apparecchi. Le ultime misu-razioni, compiute nel gennaio 2009, provano l’ab-battimento del contenuto dell’acqua pari all’80% rispetto al dato iniziale per l’apparecchio installato nel 2006 e del 69% per quelli montati nel 2007. Si sono salvati in questo modo gli intonaci della parti basse, dove è più facile che cada l’occhio, evitando il formarsi di efflorescenze e di esfoliazioni.

IllumInazIone e valorIzzazIone

Per ultimo si sono rimontati gli storici lampadari in vetro di Murano, di cui si aveva testimonianza in alcune fotografie degli anni Cinquanta. Questi erano stati smontati e smembrati in tanti pezzi e accatastati in alcuni scatoloni. Il rimontaggio non è stato affatto facile, ma sulla scorta delle fotogra-fie se ne è venuti a capo, grazie alla pazienza dei restauratori che vi hanno lavorato. Si tratta dei lampadari originali, presumibilmente degli anni Venti-Trenta, in tutto otto, posti ognuno davanti alle cappelle, e altri due grandi ai lati dell’abside e dell’altare. L’effetto di luce e atmosfera che essi creano non ha eguali e porta anche a confron-tarne l’efficacia rispetto agli attuali e più in voga moderni sistemi di illuminazione degli edifici di culto. I lampadari pendenti, fissati all’estradosso delle volte, sono stati dotati di argano che ne per-mette la calata per le operazioni di manutenzione. L’illuminazione si completa con quella installata all’inizio dei lavori sopra il cornicione che rigira lungo il perimetro della chiesa.

L’inaugurazione non ufficiale di questi ultimi lavo-ri è stata a pasqua del 2008 con la rappresentazione della Passione di Cristo da parte del coro Arcanto, nella suggestiva cornice della chiesa illuminata a tratti con candele, a tratti con i lampadari, collau-dati in quell’occasione: uno spettacolo che ricrea l’ambientazione scenografica della chiesa seicente-sca che era, insieme all’annesso monastero dei ca-nonici, un centro vitale di cultura e spiritualità. A restauri pressoché conclusi, c’è stato il pericolo che la chiesa rimanesse chiusa e lasciata a sé stessa, per l’abbandono nel 2008 da parte dei canonici della loro sede originaria. Per interessamento dell’Arcidiocesi, la chiesa è stata invece affidata ai frati della giovane comunità di S. Giovanni, che insediatasi nel marzo 2009 siamo sicuri assicurerà con rinnovata energia la continuità di una tradizione così significativa, nella spiritualità della celebrazione liturgica. La chiesa coa-gula attorno a sé una serie di attività culturali, tra cui quelle promosse dal Centro culturale e spirituale del SS Salvatore, erede della Congregazione dei bambini di Gesù, che ha celebrato nel 2005 il suo centesimo anno. Eventi e spettacoli hanno luogo nell’ex com-plesso abbaziale, grazie alle iniziative della compa-gnia teatrale Il Chiostro e dell’Associazione culturale Novarcanto. La vocazione al canto e allo studio, che contraddistingueva l’abbazia, si rinnova nella chiesa restaurata che, specialmente in occasione delle so-lennità liturgiche e di incontri e visite guidate, tra cui quelle organizzate dalla Soprintendenza, senza troppi clamori mediatici raduna gli affezionati vec-chi e nuovi al SS. Salvatore. In particolare, si segna-lano: il nutrito programma di spettacoli teatrali della compagnia Il Chiostro e i concerti del coro Arcanto, che da alcuni anni propone nel SS. Salvatore un re-pertorio tradizionale e sacro, in una forma di ricerca corale e scenica itinerante all’interno della chiesa. Il

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loro scopo è giocare con il pubblico attraverso echi di canti vicini e lontani che risuonano fra le colonne, le navate e le cappelle: architetture di corpi sonori in movimento. Da valorizzare è inoltre il prezioso organo seicentesco.

ProsPettive di riqualificazione del contesto circostante La chiesa del SS. Salvatore occupa una posizione di prestigio negli itinerari turistici e culturali della città di Bologna. Situata circa a metà strada tra S. Petronio e S. Francesco, si raggiunge seguendo gli stessi itinerari battuti dai pellegrini e dai nu-merosi visitatori stranieri e non. Venendo da S. Francesco, superati l’antica seliciata della IIa circla (attuale piazza Malpighi) e il Torresotto della Porta Nova, si arriva proseguendo su via Porta Nova allo slargo dove sorge la bella chiesa del SS. Salvatore. Dalla parte opposta si raggiunge venendo da piaz-za Maggiore, seguendo l’antica via delle Asse (at-tuale via IV Novembre). All’interno della chiesa si conservano importanti opere d’arte, dal trittico dell’Incoronazione della Vergine di Vitale da Bolo-gna (1353), alla pala d’altare con il SS. Salvatore di Guido Reni e Francesco Gessi (1620), insieme a numerose opere del Cinquecento e del Seicen-to16. Visitando la chiesa si rende omaggio inoltre al Guercino, sepolto nella chiesa e commemorato nella lapide tombale posta al centro della chiesa. L’iscrizione sul fianco della chiesa ricorda che nella zona vi erano, nei secoli XIII, XIV e XV, le sedi delle scuole di medicina, filosofia, retorica e delle altre arti. Mentre proprio di fronte, la lapide po-sta sulla facciata di palazzo Dall’Armi-Marescalchi, sede della Soprintendenza, ricorda che lì nacque Guglielmo Marconi. Accanto alla chiesa si estende l’ex monastero che occupa l’intero isolato compre-

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so tra via IV Novembre, via del Volto Santo, via Santa Margherita, via Cesare Battisti. Rinnovato a partire dal 1517, il monastero è ricordato nel-la guida d’Italia di Leandro Alberti del 1550 tra i più considerevoli in Italia. L’Abate Trombelli nel 1752 ne elogia l’architettura, dimostrando il suo stupore per l’impiego esteso dei marmi, tanto rari a Bologna, notando nel chiostro le colonne in pietra d’Istria, i tondi in verde serpentino tra le arcate e le tracce, già consunte a quell’epoca, delle decorazio-ni ad arabeschi che ne ornavano le facciate. Nel primo Seicento l’intera area fu oggetto di un radicale rinnovamento, qualificato dalla contestua-le riedificazione della chiesa. Si aprirono circa negli stessi anni tre imponenti cantieri adiacenti l’uno all’altro: nel 1601-1603 quello di palazzo Caprara, attuale sede della Prefettura; nel 1605 si iniziò la riedificazione del SS. Salvatore, portata a termine nel 1623, dopo la sospensione dei lavori durata dal 1607 al 1613; mentre nel 1613 si rinnovò il pa-lazzo Dall’Armi, per le cui similitudini con Palazzo Zani si è fatto il nome di Floriano Ambrosini, senza escludere un possibile contributo di Mazenta, con cui del resto l’Ambrosini aveva collaborato nel pri-mo progetto per la cattedrale di S. Pietro. Ne emer-ge un piano di riedificazione di un’area nevralgica della città, che a ragione può leggersi come portato avanti sotto un’unica regia, e per la quale, ancora una volta a fronte dell’assenza di prove documenta-rie certe che riportino i nomi degli architetti che vi lavorarono, si può supporre il contributo del nostro padre barnabita Mazenta, esperto architetto anche nell’affrontare problemi tecnici, esecutivi e strut-turali, come dimostrano i suoi scritti, ma quanto mai schivo a farsi pubblicità, in quanto investito nel ruolo conferitogli dall’ordine a cui apparteneva. Per cui la sua partecipazione nei maggiori cantieri bo-

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lognesi di quegli anni, in particolare a partire dal 1605 in quello della stessa cattedrale, era supportata dagli architetti locali, Floriano Ambrosini e Nicco-lò Donati, nei lavori per la cattedrale, e Tommaso Martelli per il SS. Salvatore. Si vuole qui sottende-re un legame dell’architettura bolognese di quegli anni con quella di area milanese, in continuità con quanto avevano impostato i due fratelli Pellegrino e Domenico Tibaldi, nei loro reciproci scambi tra Milano e Bologna. Questo legame con Milano, che abbiamo avuto modo di leggere anche nell’uso della particolare tecnica di finitura interna a cocciopesto, trovò nel primo Seicento motivi di rafforzata conti-nuità con l’ingresso a Bologna di Mazenta. Questi doveva essere ben conosciuto dai Caprara, quando a Bologna già nel 1602-03 risiedeva nel vicino col-legio di S. Michele Arcangelo su via Agresti, e fu proprio un esponente della stessa famiglia, Giusep-pe Caparara, a chiedergli il progetto per la chiesa del SS. Salvatore, che Mazenta gli mandò da Mila-no il 27 febbraio del 1605.Si riconosce nelle facciate, comprese quelle delle re-sidenze senatorie dei Caprara e dei Dall’Armi, l’uni-tarietà di stile al volgere del passaggio nel segno della continuità tra l’architettura della seconda metà del ’500 con quella del primo ’600, con una certa in-flessione verso partiture più monumentali, segnate da una maggiore rigidità, accentuata anche dai re-stauri compiuti nel tardo Ottocento e nel Novecen-to. Ma preme qui evidenziare la scala urbana che si volle imprimere a questi interventi, soprattutto ad opera dei canonici del SS. Salvatore, che per dare maggiore luce e prospettiva al bel prospetto sul fian-co della chiesa si convinsero a demolire le case di loro proprietà ivi addossate. Venne così rettificato il profilo della strada che costeggiava il lato lungo della chiesa, in modo da creare uno slargo davanti al

palazzo Dall’Armi, chiuso dallo spigolo ben enun-ciato nel cantonale bugnato di palazzo Caprara. E sul lato libero della chiesa, al posto delle case, venne creato un sagrato che rigira ad L davanti alla facciata, originariamente pavimentato a riquadri campiti in quadrelli di cotto, poi rifatto nel 1744 e nobilitato dal disegno del nuovo selciato di forme geometriche e stellari. La colonna isolata all’angolo esterno del sagrato, qui posta nel 1624 a conclusione dei lavori della fabbrica seicentesca, ne caratterizzava il cannoc-chiale visivo da via Porta Nova, fornendo il segnale visivo da cui guardare in prospettiva angolata l’intera fabbrica, ad abbracciare la facciata ed il fianco (Fig. 8). Rinviando a quanto già evidenziato in altra sede sul significato di questo sagrato, come spazio sacro proprio della chiesa al pari di quello interno, oltre che intervento alla scala urbana e architettonica, fi-nalizzato a creare, fatto raro a Bologna, un vero e proprio piazzale che valorizza le architetture che pro-spettano su di esso, si vuole qui sottendere alla sua riproposizione, come momento di riqualificazione dell’area e come atto dovuto per la chiesa. Il sagrato esisteva ancora nel 1811, quando i Mare-scalchi, che abitavano il palazzo già dei Dall’Armi, ottennero nel 1811 di restringere il sagrato della chiesa per portarlo in linea con la casa dei Morel-li, all’angolo tra via Porta Nova e via Barbaziana17. In quegli anni i canonici, erano già stati costretti ad abbandonare il loro monastero a seguito delle confische napoleoniche. Ne ripresero possesso nel 1824, solo momentaneamente fino al 1866, ritor-nando poi a prendersi cura della chiesa a partire dai primi anni del secolo successivo. Nelle foto d’inizio Novecento il sagrato non esiste più. Lo spazio sacro è oggi occupato dalle macchine che usualmente vi parcheggiano sul fianco della chiesa; diversamente il Piano regolatore delimita questo spazio come di

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pertinenza della chiesa. Per apprezzarne le forme e il significato rimangono le numerose vedute sto-riche che ritraggono la chiesa, privilegiandone le visuali d’insieme, di chi arriva da via Porta Nova, con in primo piano il caposaldo della colonna iso-lata, in modo da abbracciare la vista della facciata e del fianco (Fig. 10). Tra le altre, anche la veduta dalla parte opposta si rileva interessante, venendo

dalla via delle Asse con in primo piano il palazzo Caprara, e sullo sfondo arretrato il fianco del SS. Salvatore. Oggi l’antica strada intercetta la piazza Roosevelt, lo slargo creato a seguito delle opere di liberazione e demolizione del 1933-1935, con la costruzione del palazzo di Melchiorre Bega sul lato nord. La piazza è rimasta da allora un invaso vuo-to. E in attesa di una sua appropriata definizione è

10. Pio Panfilj, veduta della chiesa del SS. Salvatore in Bologna. La veduta angolata inquadra la chiesa in modo da abbracciare la facciata e il fianco; in primo piano si riconosce la colonna con la croce posta nel 1624 all’angolo del sagrato che sopraelevava la chiesa su un podio. Sia il sagrato che la colonna sono oggi scomparsi. La pavimentazione settecentesca del sagrato (1744) è riprodotta nella pianta di gio. Carlo Sicinio galli Bibbiena (Fig. 1)

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1 A. Ranaldi, Il controverso progetto di Giovanni Ambrogio Mazenta per la chiesa del S. Salvatore a Bologna, in «Palla-dio», 37, 2006, pp. 39-64, con appendice documentaria, a cui si rimanda anche per la bibliografia precedente; A. Ranaldi, Il sagrato della chiesa del S. Salvatore a Bologna, in Strenna storica bolognese, 56, 2006, pp. 361-386. No-tizie sintetiche sul restauro sono in A. Ranaldi, Bologna: chiesa del SS. Salvatore. Il restauro, in Terza Mostra in-ternazionale del restauro monumentale. Dal restauro alla conservazione, II, Firenze 2008, p. 131.

2 Tra queste ricordiamo, S. Maria del Voto del 1630 di Cristoforo Malagola a Modena, dove tra l’altro si ripre-se l’idea di realizzare la cupola estradossata a collo lun-go, come l’avrebbe voluta Mazenta nel SS. Salvatore, e la chiesa di S. Filippo Neri a Reggio Emilia, realizzata tra il 1672 e il 1743 su progetto dell’architetto reggiano Girolamo Beltrami.

3 W. Wittkower, Art and Architecture in Italy: 1600 to 1750, Harmondsworth 1958, ediz. ital. Arte e architettura in Italia 1600-1750, Torino 1972 e 1993, pp. 234-235 a proposito di Santa Maria in Campitelli e p. 103 per il SS. Salvatore.

4 Cfr. A. M. Matteucci, Carlo Francesco Dotti e l’architettura bolognese del Settecento, Bologna 1979, pp. 10, 50n, fig. 9.

5 A. Sorbelli, Bologna negli scrittori stranieri, V, Bologna 1933, p. 70.

6 Charles De Brosses: “S. Salvatore, la più bella chiesa di tut-te, per quanto non molto grande; la sua architettura corin-zia del Magenta si può paragonare all’antica architettura greca e romana…”, in A. Sorbelli, Bologna negli scrittori stranieri, ediz. a cura di G. Roversi, Bologna 1973, p. 158.

7 Cfr. M. Poli, La chiesa canonicale del SS. Salvatore, Bolo-gna 2001, p. 21, che riporta gli estratti ripresi dal mano-scritto di Carlo Vincenzo Maria Pedini, Bologna, Biblio-teca Comunale dell’Archiginnasio, Manoscritti Gozzadi-ni, Bologna vecchia e nuova, vol. 181, f. 158.

8 G. G. Trombelli, Memorie istoriche concernenti le due Canoniche di S. Maria di Reno, e di S. Salvatore insieme unite, Bologna 1752.

Note

occupata oggi da un grande parcheggio, che invece potrebbe essere collocato interrato rendendo libero lo spazio in superficie, e creando anche l’occasione per ricerche e scavi archeologici su questa area. E perché no, non potrebbe essere un concorso di idee a definirne il nuovo assetto? E il sagrato del SS. Sal-vatore? Sulla base della documentazione certa, che va dalle vedute storiche alla pianta di Sicinio Galli Bibiena, che ne raffigura in modo dettagliato il di-segno della pavimentazione (Fig. 1), considerando l’impronta ben leggibile alla base delle murature esterne della chiesa, che dà l’altezza reale del sa-grato sopraelevato su quattro gradini, possediamo tutti gli elementi che ne renderebbero possibile la sua fedele riproposizione anche à l’identique18. Ma prima di questo, altre priorità si rendono impellen-ti, come il restauro dell’ex monastero del SS. Sal-vatore, accanto alla chiesa di cui la Soprintendenza nel 1991-92 aveva iniziato il recupero e il restauro, rimasto da allora interrotto.

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9 Le notizie riferite agli eventi dalla fine dell’Ottocento sono tratte dai documenti conservati presso l’ Archivio storico della Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici per le province di Bologna, Modena e Reggio Emilia (d’ora in poi citato in forma abbreviata Bologna, Archivio SBAP), faldone BO-M63.

10 Vedi sopra nota 1.11 W. Wittkower, op. cit. alla nota 3; si vedano inoltre i fonda-

mentali contributi di Anna Maria Matteucci, in particolare il suo Giovanni Ambrogio Mazenta e il dibattito a Bologna sulla “colonna libera”, e M. Pigozzi, Giovanni Ambrogio Mazenta architetto a Bologna, entrambi in Lorenzo Binago e la cultura architettonica dei Barnabiti, a cura di M. L. Gatti Perin e G. Mezzanotte, Atti del convegno: Milano, settembre 2001, in «Arte Lombarda», 134, 2002, 1, pp. 45-62 e pp. 63-78; nell’ambito di più recenti trattazioni generali cfr. A. Antino-ri, Roma 1600-1623: teorici, committenti, architetti, in Storia dell’architettura italiana. Il Seicento, a cura di A. Scotti Tosini, I-II, Milano 2003, vol. I, pp. 115-118, e ibidem, vol. II, F. Ceccarelli, Le legazioni pontificie: Bologna, Ferrara, Romagne e Marche, pp. 341-342.

12 I lavori sono stati eseguiti e diretti dalla Soprintendenza: nel 2000 sotto la direzione dell’ing. Domenico Rivalta e negli agli successivi dalla scrivente, con la collaborazione dell’arch. Francesco Eleuteri. Hanno eseguito i restauri le imprese con qualifica OS2, specializzate nel restauro degli apparati de-corativi: nei primi due lotti di intervento nel 2000 e 2001, l’impresa Arte e Restauro di Padova; nei restanti quattro lotti nel 2002-2008, l’impresa Biavati di Bologna.

13 Bologna, Archivio SBAP, Bo-M63, note del 14 marzo e 17 marzo 1899, relative ai lavori «Imbiancatura e restauro dell’intonaco nell’interno della chiesa» proposti dall’Inten-denza di Finanza della Provincia di Bologna. In un’altra lettera, sempre del 17 marzo 1899, il Soprintendente Fac-cioli lamenta di non essere stato interpellato a suo tempo sulla ricostruzione del pavimento, che altrimenti non sa-rebbe stata approvata, deplorando l’intervento eseguito di ricostruzione in «esagoni di cemento colorato, stonando

troppo questo modernissimo sistema colla severità del mo-numento».

14 Le analisi delle sezioni sottili sono state eseguite dal La-boratorio della Fondazione Cesare Gnudi, con sede a Pieve di Cento (Bologna), si ringrazia per la collabora-zione l’amico Andrea Rattazzi.

15 Cfr. S. Della Torre, Costruire a Milano nel Rinascimento, in Storia dell’architettura come storia delle tecniche co-struttive, a cura di M. Ricci, Venezia 2007, pp. 95-115, in particolare p. 107, che rileva l’impiego di tale tecnica in opere milanesi di Pellegrino Tibaldi, come nella cupo-la di Sant’Ambrogio, rinviando a A. Bonavita, Pellegrino Tibaldi a Milano: lavori alla cupola della basilica di S. Ambrogio, in «Arte lombarda», 140, 2004, pp. 89-91; ugualmente ricorre inoltre nella parti realizzate da Ma-zenta nella cattedrale bolognese di San Pietro, si ringra-zia per l’informazione Andrea Santucci.

16 Vedi la guida storico-artistica di M. Poli, op. cit. alla nota 7.17 G. Guidicini, Cose notabili della città di Bologna, ossia

storia cronologica de’ suoi stabili sacri, pubblici e privati, Bologna 1868, vol. I, p. 116. Sempre nel 1811 i Mare-scalchi acquistarono il palazzo Sora Menarini, poi casa natale di Guglielmo Marconi, che insiste davanti al fron-te nord del SS. Salvatore, attiguo al palazzo Dall’Armi. Quest’ultimo era passato ai Marescalchi già nel 1614, per successione ereditaria, alla morte di Aurelio Dall’Armi, cfr. P. Monari, M. S. Trombetti, Palazzo Dall’Armi - Ma-rescalchi, in «Il Carrobbio», 16, 1990, pp. 259-269.

18 La proposta di una ricostruzione à l’identique sulla base degli elementi qui esposti è stata avanzata dalla scrivente nel concorso del 2004: Primo Premio Nazionale di Idee di Architettura «I Sagrati d’Italia», indetto dal Consiglio Na-zionale degli Architetti Pianificatori Paesaggistici e Conser-vatori, da Di Baio Editori e da «Chiesa Oggi. Architettura e comunicazione» - progetto vincitore ex aequo, in mostra e pubblicato in «Chiesa oggi. Architettura e comunicazio-ne», 70/2005, pp. 32-33; cfr. A. Ranaldi, Il sagrato…, op. cit. alla nota 1.

Note

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l’ediFicio

I l palazzo sito a Bologna nella centralissi-ma via dei Mille angolo via Montebello, progettato quale sede provinciale Enpas, rappresenta una delle migliori e più si-gnificative opere di Saverio Muratori

(1910-1973, Premio Einaudi per l’Architettura nel 1952) il grande maestro d’origine modenese dell’architettura italiana del Novecento.L’edificio per uffici, ambulatori, laboratori, negozi ed abitazioni fu progettato fra il 1952 ed il 1957, edificato fra il 1959 ed il 1961 ed inaugurato il 4 Aprile 1963.L’Impresa costruttrice fu la ditta Garbarino-Sciaccaluga di Bologna con la direzione tecnica dell’ing. David Sciaccaluga e con Silingardi di Modena per l’arredamento del salone sportelli. La scultura in bronzo rappresentante l’infermie-ra, posizionata nell’atrio del detto salone al piano terra, è opera del prof. Assen Peikov, noto artista Bulgaro operante a Roma con lo studio, assieme al fratello pittore Ilia, in via Margutta.Direttore lavori fu l’ing. Silvio Canella coadiuva-to dall’ arch. Eugenio Abruzzini, tecnico interno dell’Enpas.L’iter di progettazione dell’edificio pubblico risulta essere stato particolarmente lungo e travagliato.Saverio Muratori iniziò la progettazione di massi-ma nel 1952, avendo mandato formale dall’Enpas per un primo esecutivo (con incarico per i calcoli statici agli ingegneri Carè e Gianelli) nel giugno 1954, ma la Commissione Edilizia del Comune di Bologna, ad ottobre, respinse il progetto, e Mura-tori dovette elaborare un secondo disegno in parte differente dal primo (che prevedeva otto campate in aggetto sul portico basamentale ed una campa-

ta iniziale differente in accostamento al contiguo edificio su via dei Mille) rifiutato anch’esso dalla Commissione Edilizia Bolognese nel settembre 1956. Muratori fu quindi obbligato a modificare ulteriormente il progetto, presentando una secon-da variante sostanziale la quale venne finalmente approvata dalla municipalità bolognese nel luglio 1957; tale progetto variato corrisponde sostan-zialmente al progetto alfine realizzato. Sebbene il progettista avesse sempre dimostrato impegno, presentando vari tipi complementa-ri richiesti e vari plastici e dichiarandosi sempre disponibile al dialogo ed alle modifiche, seppur amareggiato dalle motivazioni di diniego portate dall’ente bolognese da lui mai comprese, la Com-missione Edilizia Bolognese per un lungo periodo non ritenne che l’opera di Muratori «per forma e dimensioni ornamentali possa essere approvata». I lavori di costruzione iniziarono nel maggio 1958 per concludersi nel maggio 1961 e lo stabile fu occupato a far tempo dall’agosto di quell’anno.L’incarico rientrava nell’ambito del programma di realizzazione delle nuove sedi provinciali decen-trate avviato in tutta Italia dall’Enpas nei primi anni Cinquanta che comportò l’affidamento di un gran numero di incarichi professionali ai mi-gliori architetti italiani. In quegli anni Saverio Muratori era professore straordinario presso la cattedra di Caratteri Di-stributivi degli edifici nell’Istituto Universitario di Architettura di Venezia, che tenne dal 1950 sino al 1954, quando passò a Roma quale profes-sore ordinario presso la cattedra di Composizione Architettonica della Facoltà di Architettura, che mantenne fino al 1973.Negli anni veneziani egli condusse le ricerche che lo porteranno a pubblicare, nel 1959, gli Studi per

Il PAlAzzo EX EnPAS A BolognAREStAURo DEllE SUPERFICI EStERnE

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100 Il palazzo ex enpas a BolognaRestauro delle superfici esterne

una operante storia urbana di Venezia, testo di fon-damentale importanza, vero precursore nell’am-bito degli studi di tipologia urbana. L’area di via dei Mille all’angolo con via Montebello era disponibile a seguito di distruzioni belliche ed anche l’edificio ivi preesistente era stato completa-mente demolito, tant’è che l’Enpas acquisì dalla pro-prietà Gualandi il lotto libero, avviando immediata-mente la procedura per l’edificazione con richiesta di contributo statale previsto per i danni di guerra.L’opera progettuale di Muratori per Bologna, nella sua architettura di essenziale caratterizzazione, rias-sume in sé, in primis, lo studio approfondito del ca-rattere del luogo in stretta connessione con il novero costitutivo del tessuto urbano bolognese, dei suoi tipi edilizi e dei suoi elementi strutturali principali.Il Palazzo Enpas, ora Inpdap, mostra grande rilie-vo disciplinare impersonificando la critica moti-vata al soggettivismo autoreferenziale dell’archi-

tettura moderna, origine di quell’edonismo lin-guistico che rende l’ambiente urbano incoerente e semanticamente sovraesposto, istituendo altresì, nel puro ambito progettuale, la ripresa di un rap-porto tra architettura e città filologicamente basa-to sullo studio della struttura del contesto urbano nel suo continuo evolvere.L’edificio non è più solo o tanto una quinta urba-na ma molto di più: diviene una struttura proget-tata e costruita, frutto rigoroso della relazione tra tipologia edilizia e morfologia urbana precipua del contesto senza eccezione alcuna, anzi, con un grande risultato nell’imponenza compositiva del testo architettonico.Il manufatto architettonico bolognese di Murato-ri riprende, fra l’altro, il particolare sistema seriale costruttivo ‘bolognese’, di derivazione lignea, ri-proponendo elegantemente il portico con lo spor-to, le lesene ed il coronamento superiore merlato e presenta anche una gerarchizzazione verticale nell’utilizzo dei materiali e dei componenti co-struttivi, come nell’uso dei pilastrini in traverti-no, proposti solo per il cosiddetto piano nobile, peraltro correttamente di maggior altezza.Il tema metodologico-progettuale pregnante nel palazzo ex Enpas è infatti il linguaggio architet-tonico, inteso non come codice convenzionale a-storico applicabile in ogni luogo, ma come por-tato specifico di una determinata area culturale (nella fattispecie quella bolognese).In particolare, come bene ha già sottolineato nei suoi scritti Giancarlo Cataldi, qui Muratori sperimen-ta una nuova forma di collaborazione tra ossatura elastica e parete continua di materia solida, facendo benissimo convivere due materiali, cioè i mattoni ed il cemento armato (materiale moderno), secondo il concetto di continuità di materiale in superficie,

02. Pulitura e saggio di preparazione su una colonnetta di travertino

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quindi, qui, di mattoni che chiudono e ricoprono il traliccio, il quale collabora come una cassaforma stabile, percorrendo la strada della sperimentazione tecnica di un nuovo materiale (il cemento armato). La reinterpretazione in chiave di adeguamento am-bientale, perviene così al risultato di risolvere il que-sito linguistico dell’integrazione della nuova archi-tettura in un contesto storicamente consolidato.Nel dettaglio costruttivo il progettista utilizza un mattone industriale di formato bolognese pro-dotto da una fornace locale e poi, seguendo la consuetudine per l’architettura emiliana, le fini-ture in pietra: con l’arenaria imitata dai curatis-simi cementi a vista martellinati manualmente e i marmi, precisando che, nel progetto originale, aveva previsto rivestimenti in marmo botticino, sostituiti, in fase esecutiva, da travertino chiaro di minor costo.Di grande interesse dal punto di vista costrutti-vo sono le velette in cemento armato traforate da losanghe, asole di memoria medioevale che Mu-

ratori ripropone anche nei dettagli delle porte in-terne a decoro delle maniglie in ottone cromato. Di grande rilevanza è proprio l’abilità del progettista - che in questi elementi bene si coglie - nel ripropor-re un tema di luce filtrante di rimando gotico che risulta perfetto per l’uso ad uffici/laboratori, ove la luminosità naturale dei locali rende l’ambiente di la-voro oltremodo gradevole ed utilizzabile in ogni ora del giorno ed in ogni stagione (ciò unito alla matura flessibilità della tipologia edilizia proposta che con-sente uffici modificabili in pianta con grande facili-tà ed adattabilità come dimostra l’intervento ora in corso negli interni, che riaggiorna le mutate esigenze dell’ente oltre al fatto di essere, l’edificio, ancora oggi in completo ed efficiente uso).Muratori con il progetto di questo edificio esce dalla visione soggettiva che privilegia la personali-tà individuale dell’architetto che opera trasferen-do indifferentemente in ogni luogo i suoi stilemi, per passare ad una visione oggettiva che chiama in causa, invece, le sue capacità interpretative di sin-tetizzare in maniera diversa, a seconda dei luoghi, i caratteri ambientali della città.Tema questo di straordinaria rilevanza per l’ar-chitettura contemporanea per il quale Muratori risulta geniale anticipatore.

l’intervento di restauro

Il palazzo ex Enpas è stato oggetto sinora di due successivi interventi di restauro delle facciate su via dei Mille e su via Montebello (nel corso del 2007) e di uno ulteriore nel porticato (nel 2008), tutti operati con progettazione, appalti e direzio-ne lavori, dalla Soprintendenza per i beni architet-tonici e paesaggistici per le province di Bologna, Modena e Reggio Emilia, utilizzando finanzia-menti del Ministero Beni e le Attività Culturali.

03. Fase di pulitura

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L’intervento del Ministero sulle facciate si è svolto contestualmente ad un più corposo in-tervento di ristrutturazione e riammoderna-mento dell’impiantistica riguardante gli in-terni, finanziato ed appaltato dall’Inpdap con propri fondi.L’edificio sin dall’epoca della sua inaugurazione non aveva mai subito interventi di complessiva manutenzione negli esterni. Presentava, quindi, la necessità di un’azione di revisione compiuta con metodo rigoroso ed attento alle particolari valen-ze progettuali volute ed attuate dal Muratori nello spirito dell’architettura del periodo.

Nel corso degli anni, le parti in mattoni (matto-ni a macchina di formato bolognese da 28 cm di lunghezza), i cementi e le pietre naturali si erano in parte ricoperte di incrostazioni e di annerimen-ti, dovuti ad alcune problematiche legate allo sco-lo delle acque meteoriche, a causa della mancata manutenzione delle grondaie. Nella parte alta, ove l’acqua piovana aveva imbevuto le pareti, si sono riscontrati mattoni e marmi talora deteriorati con distacchi di piccole porzioni di travertini e cadute di scaglie sia di cotto che di marmo. Inoltre si è riscontrato l’effetto deleterio di agenti inquinanti, specie da traffico, visto l’affaccio su una via parti-

04. Saggio di pulitura in corso su una parete su fronte strada

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colarmente movimentata. Lo smog aveva causato infatti vari annerimenti, talora intensi e di non fa-cile pulizia e rimozione. In alcune piccole porzio-ni particolarmente esposte, per non attuare una pulizia troppo forte solo su alcuni mattoni, cau-sando una disomogeneità cromatica all’insieme, oltre ad un vero e proprio danno materico alle facce dei mattoni stessi, si è pulito con gradualità operando con la tecnica della tonalizzazione.Più semplice è invece risultata la pulizia e prote-zione sui travertini di pasta compatta, di buona

qualità e ben conservati, che hanno reagito bene all’opera di revisione complessiva.Di particolare impegno è invece risultato l’inter-vento sui cementi realizzati in opera ad imitazio-ne della pietra arenaria, specie nelle travi sagoma-te che sostengono i piani sul portico e su tutti i livelli fra lesena e lesena in mattoni.Queste travi presentavano alcune fessurazioni ri-levanti, seppur localizzate, e soprattutto distacchi dovuti all’esecuzione in due fasi costruttive: dap-prima furono casserati e gettati in opera i cementi

05. Il lungo fronte su via dei Mille in corso lavori

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strutturali a grana grossa, con inerti di grande di-mensione, e poi, ad essiccazione avvenuta, fu ri-portata una velatura di 5 millimetri di cemento a grana finissima, realizzata davvero a regola d’arte, per assicurare l’effetto visivo e materico della pie-tra arenaria d’Appennino. Tale strato però, specie nel portico e nelle zone sottoposte a patologie lo-calizzate, talora si è distaccato dalla trave sotto-stante, oppure si è lesionato sino a determinare aree di probabile distacco.

06. Pulizie sulla zona sommitale

Su tutte queste travi si è pertanto intervenuti in fase di restauro, richiudendo le microlesioni ed anco-rando dall’interno con iniezioni di malte bicompo-nenti a basso modulo elastico e la posa di perni in vetroresina. Tale intervento preventivo, specie nelle architravi ammalorate presentanti scollamenti fra i due distinti strati in getto dei calcestruzzi, ha con-sentito di ricondurre ai minimi termini l’interven-to di ricostruzione dello strato cementizio a finire, limitato così solo alle poche porzioni già cadute.

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07. La facies restaurata

I rifacimenti sono stati comunque eseguiti con strato a finire simile all’originale con minima dif-ferenza cromatica impercettibile a una visione in distanza ma, utile ad identificare ogni area rico-struita seppur piccola.L’altro esempio di pietra imitata, quindi le velette in cemento armato chiaro in due pezzi accostati con asole a losanghe - che tanto caratterizzano il traforo goticheggiante dei bellissimi fronti Enpas, erano invece in ottimo stato di conservazione, gra-zie ad una accuratissima esecuzione fuori opera.

Su di esse è stato sufficiente compiere una adegua-ta pulizia e protezione, con resa cromatica mirata ad omogeneizzarsi a quella ottenuta dalla pulizia dei travertini chiari compatti e levigati utilizzati per le colonnette binate con capitellini trapezoi-dali. Circa i travertini è bene sottolineare che si tratta di materiale costruttivo introdotto in opera nel corso dei lavori, per i piastrini ed i davanzali, per ragioni sostanzialmente di costi, poiché Mura-tori nel progetto esecutivo aveva previsto marmo botticino chiaro con riferimento all’uso più tipico delle finiture marmoree in ambito Bolognese (si pensi ai palazzi gotici, ma anche di epoche succes-sive, fino all’età barocca e neoclassica, ove i traver-tini sono pressoché assenti).La forma però ideata da Saverio Muratori per i capitelli sia dei piccoli pilastrini monolitici che di quelli più grandi, rivestiti in lastre di cm 5 di spessore con ciglio bisellato e levigato, è comun-que, oltrechè efficace compositivamente, tale di rendere massimamente efficiente il capitello per la protezione dalle acque meteoriche, grazie alla sua particolare forma triangolare che fa scivolare verso l’esterno l’acqua piovana, garantendo una eccezionale efficienza nel tempo degli elementi costitutivi e minimizzando la manutenzione.L’edificio di via dei Mille è infatti straordinaria-mente moderno, specie per la sua grande atten-zione all’uso ed alla durabilità nel tempo e pro-prio l’occasione dell’opera ora eseguita di manu-tenzione/restauro ha ben reso evidente. L’aver progettato le facciate con una efficace teoria di minime rientranze fra i vari piani materici consegue l’ottenimento una continua protezione di ogni ele-mento costitutivo, mattoni, cementi e pietre. Anche il portico, perfettamente riparato dallo splen-dido sporto di rimando medioevale e provvisto an-

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08. Il restauro delle architravi realizzate in cemento e prefabbicato

che di rivestimento con robuste lastre di marmo gra-nitello su tutte le colonne del portico e sulla parete sottoportico, è particolarmente ben conservato.Anche le curatissime stuccature a cemento dei mattoni si sono conservate davvero benissimo in questi cinquant’anni e lì veramente agevole è stata l’opera di pulitura e manutenzione, per gran parte proprio in virtù della forma progettuale (mentre i

rivestimenti delle architravi dei negozi in lamiera di ferro martellinata, ora ripuliti con grande cura, mostrano la perfetta imitazione dell’arenaria vo-luta originariamente anche sulle lamiere per omo-geneizzare l’insieme dei caratteri architettonico/cromatici del sottoportico). Ed è proprio nell’occasione del restauro che ci si è avveduti di come l’edificio, grazie proprio alla

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09. Le iniezioni consolidanti sui cementi in opera spesso fessurati

sua originaria cura progettuale pensata e proiet-tata nel tempo a venire alla stregua degli edifici antichi, sia risultato in buone condizioni di con-servazione, con la sola eccezione delle peculiarità patologiche puntuali testé indicate. Gli interventi di manutenzione e restauro esegui-ti, grazie alla consapevolezza della facies origina-ria ancora oggi conservata, hanno consentito di

ridare ai fronti esterni principali ed al porticato una completa restaurata immagine in tutto si-mile all’originale opera Muratoriana. L’interven-to ha così pulito e consolidato ogni porzione sia dei mattoni che dei travertini/marmi e cementi, conservando e recuperando i valori metrici, cro-matici ed ambientali della tradizione locale preci-puamente ricercati dalla sapienza progettuale ed

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esecutiva di Saverio Muratori, vero protagonista di quella particolare fase degli anni Cinquanta del Novecento dell’architettura europea. L’opera di restauro ha infatti messo in eviden-za anche lo studio degli effetti cromatici voluti dall’architetto modenese per il palazzo Enpas. Infatti il mattone scelto è quello, oltrechè di mi-sure bolognesi, di colore rosso/giallino, con inse-rimento anche di alcuni mattoni giallastri, men-

tre le stuccature a cemento, molto evidenti, sono eseguite con cemento scuro - a ricordo della calce idraulica locale - e sabbia di colore giallognolo. I cementi ad imitazione dell’arenaria contengo-no sabbie di tonalità gialla in modo da far risul-tare una chiara visione d’insieme che rimanda e richiama alfine le cromie delle sabbie costitutive delle pietre sedimentarie dell’Appennino bolo-gnese oltre ad un colore dei mattoni che nasce

10. Veduta d’insieme su via dei Mille angolo via Montebello

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dalle argille che producono i tipici rossi frammisti alle peculiari tonalità giallognole.Le tecniche di intervento di restauro e pulitura sono state differenziate in relazione ai vari mate-riali costruttivi, attuando lavaggi e poi accurate puliture con rimozione di croste, patine, colature e graffiti sui pilastri nelle zone basse; quindi, ter-minata la pulizia, si sono attuati i consolidamenti differenziati per tipologie di materiali con rifaci-

menti di piccole porzioni deteriorate e la posa a finire di vernici protettive adeguate.Il risultato, che ha comportato anche una gene-rale tonalizzazione di alcune zone della facciata principale, specie di alcune limitate zone di mat-toni nella parte sommitale, ha consentito di ripri-stinare una gradevolezza della visione della mira-bile Architettura del Muratori e, soprattutto, di avviare un’azione di salvaguardia nel tempo dei materiali di finitura.Una grande cura è stata dedicata al restauro dei cementi, peraltro di curatissima esecuzione, sem-pre martellinati manualmente sui quali talora, in zone limitate, si sono operate piccole ricostru-zioni con protezione dei ferri d’armatura, e dei mattoni e dei travertini, nella prospettiva e con la finalità di una più lunga conservazione negli anni a venire nello spirito radicato dell’opera del progettista.L’intervento è stato eseguito dalla ditta Marmiroli s.r.l. di Bagnolo in Piano di Reggio Emilia con una spesa complessiva di €150.000,00 divisa in tre stralci esecutivi di €50.000,00 cadauno In corso lavori si sono utilizzati prodotti d’uso nella consuetudine del restauro su edifici del No-vecento quali: malte cementizie anticorrosive per i ferri d’armatura, malte tissotropiche bicompo-nenti a basso modulo elastico per il risanamento del calcestruzzo, fissativo impregnante acrilico a base acquosa, ammonio bicarbonato, protettivo idrorepellente con gruppi fluorati, malte a riti-ro controllato fibrorinforzate a presa rapida per il calcestruzzo, stucco decorativo a base di calce pura spenta a lunga stagionatura e terre naturali per le tonalizzazioni delle parti in mattoni, anco-ranti chimici con barre filettate, fondi ai silicati per le superfici in cemento.

11. Il sottoportico di via dei Mille

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Premessa

I l presente saggio si propone di contribuire alla conoscenza artistica ed alla valorizza-zione dei bassorilievi in cotto che decora-no gli altari delle chiese di S. Giuliano a

Bologna e di S. Domenico nella vicina Budrio, partendo dalle osservazioni maturate durante il percorso di ricerca e analisi che ha accompagnato il processo di restauro del secondo dei due insie-mi; intervento già oggetto di un precedente sag-gio tecnico1. Le attuali riflessioni scaturiscono dal confronto stilistico delle due serie di altari, arricchito dagli elementi emersi grazie a un recente ritrovamento: i putti originali degli altari laterali di S. Giuliano, rimossi in un intervento del 1966. Il confronto da ultimo é stato esteso ad un terzo edificio di culto del territorio emiliano, la chiesa della Madonna del Rosario di Cento (Ferrara), dove si è riscontrata la presenza di elementi in cotto del tutto analoghi

Gli altari in cotto e stucco

Gli altari di S Giuliano e di S Domenico rappre-sentano raffinate testimonianze dell’arte decorativa della fine del Settecento bolognese. Nascono da un progetto ben definito in ogni dettaglio, sebbene realizzati con materiali poveri, facilmente reperi-bili e largamente diffusi nella tradizione artistica e artigianale del territorio emiliano: il cotto e lo stucco. Il loro progetto prevede un assemblaggio di più elementi in cotto incentrato sull’unicità artisti-ca ed espressiva dei bassorilievi ottagonali centrali, affiancati nella composizione da elementi decora-

tivi d’alta qualità, ma riprodotti con matrici tratte da calchi, realizzati nella bottega d’arte. I singoli cotti, rifiniti uno ad uno, vengono successivamen-te inseriti nella intelaiatura muraria degli altari, il loro assemblaggio viene ultimato con elementi in stucco: le cornici orizzontali che costituiscono il basamento e il coronamento delle mense, i riqua-dri aggettanti intorno ai bassorilievi-candelabre e la sequenza di piccole foglie di palma che circondano i bassorilievi centrali (Fig. 1).

comPosizione deGli altari

Ogni altare presenta cinque bassorilievi con una ricorrente tipologia iconografica e decorativa, ba-sata sulla presenza d’elementi ripetuti ed univoci per ognuno dei motivi. Si ritrova inoltre anche il medesimo ordine compositivo, simmetrico ri-spetto al bassorilievo centrale.Tre sono gli schemi ricorrenti rappresentati: - un bassorilievo ottagonale centrale per ogni alta-re, raffigurante un soggetto religioso unico e mai ripetuto; - un bassorilievo rettangolare, con elemento de-corativo a candelabre (due per altare), collocato ai lati del bassorilievo centrale; - un elemento scultoreo posto negli angoli a chiu-sura della composizione, raffigurante un putto ornato di volute e festoni, racchiuso entro una foglia d’acanto (due per altare).Un analogo filo conduttore creativo si riscontra negli elementi tratti da matrici; così nelle cande-labre osserviamo, posti simmetricamente su en-trambi i lati del vaso antropomorfo, un piccolo volto di putto alato di profilo, dotato di drappo e festone simile al grande putto angolare.

Gli altari delle chiese di s. Giuliano a BoloGna e di s. domenico a Budrio

Gianfranca Rainone

* S. Giuliano putto ritrovato

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112 112 Gli altari delle chiese di S. giuliano a Bologna e di S. Domenico a Budrio

Risultanze stoRico-documentaRie e lettuRa cRitica

Per gli altari di S. Domenico di Budrio, le scarse fonti archivistiche superstiti e le fonti storiche non hanno potuto colmare le lacune delle attuali cono-scenze circa la loro committenza e le ragioni della loro costruzione, pur trattandosi di un intervento unitario di una certa rilevanza, che interessò tutte le cappelle sovrapponendosi a quanto vi preesisteva. Malgrado ciò, basandosi in primo luogo sull’analisi materiale e stilistica, si può dedurre la stretta affi-nità progettuale e di esecuzione di questa serie con quella degli altari di S. Giuliano a Bologna.

Notando tale affinità, nel 1965 Eugenio Ricco-mini attribuiva allo scultore bolognese Giacomo Rossi (1748-1817) i bassorilievi centrali adornan-ti gli altari laterali di S. Domenico e successiva-mente, nel 1991, anche Stefano Tumidei vi rico-nosceva lo stile dell’artista2.Quanto agli altari di S. Giuliano, l’attribuzione a Giacomo Rossi si ritiene definitivamente con-fermata da una importantissima testimonianza coeva al lavoro dell’artista, presente nell’edizione del 1782 della guida di Bologna di Carlo Cesare Malvasia, dove si legge testualmente: «la scoltura d’ornato non meno che di figura in esso intro-

01. S. Domenico, Deposizione

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dotta sì nelle candeliere su le pilastrate, che negli altari, e loro mense è di Giacomo Rossi»3. La presenza dello scultore e della sua bottega in S. Giuliano è peraltro documentata negli anni 1780-1781, dove partecipa al rinnovamento complessivo della chiesa insieme ad altri artisti, scultori e plasticatori del calibro di Ubaldo Gan-dolfi, Carlo Prinetti, Petronio Tadolini e Anto-nio Moghini, eseguendo oltre ai bassorilievi per gli altari, anche le statue dei profeti Daniele ed Ezechiele e le quattro ancone in stucco realiz-zate congiuntamente ad Antonio Moghini, che diventano le monumentali cornici degli altari laterali.Nei bassorilievi tratti da matrici è possibile legge-re alcuni caratteri tipici del linguaggio figurativo vivace in voga tra gli artisti bolognesi del perio-do. Del tutto simile al motivo che adorna il putto angolare dei nostri altari risulta poi l’articolazio-ne di foglie e fiori nel festone che orna la Vestale che Giacomo Rossi esegue in Palazzo Aldrovandi a Bologna. Così come l’impostazione dei paliot-ti centrali ed il vaso con elementi zoomorfi delle candelabre sembrano accostabili ad alcuni schizzi e disegni riferiti allo scultore (Bologna, Biblioteca Comunale dell’Archiginnasio), la cui vasta pro-duzione grafica, tuttavia, attende ancora uno stu-dio approfondito4.

Confronto materiale e stilistiCo, Considera-zioni sulla teCniCa eseCutiva:uniCità e singolarità delle matriCi

Dall’osservazione degli altari emergono interes-santi elementi di confronto e di conoscenza ri-guardo alle tecniche di produzione impiegate, nonché alla metodologia di lavoro della bottega d’arte, dove venivano realizzati i calchi e le matrici

degli elementi decorativi ricorrenti. Dal disegno dell’artista era in uso trarre il prototipo, dal qua-le venivano realizzati due o tre calchi considerati originali, avviando con questi ultimi la produzio-ne delle matrici per l’esecuzione dei pezzi. Tale modalità operativa permetteva di salvaguardare il pezzo originario assunto a modello.Anche inserite in una composizione rigidamente simmetrica, le matrici utilizzate per i bassorilie-vi a candelabre ed i putti angolari mantengono la loro specificità compositiva: così nel decoro a candelabre riscontriamo che il motivo del fuo-co che si sprigiona dal vaso superiore è diretto sempre verso destra, anche quando posizionato nell’angolo sinistro dell’altare. Ciò vale anche per l’elemento scultoreo angolare, dove il volto del putto risulta incorniciato da due piccole ali che si uniscono, sovrapponendosi sotto il men-to, sempre da sinistra verso destra. (Fig. 1).È importante sottolineare che negli altari laterali di S. Giuliano e di S. Domenico tutti i bassori-lievi ottagonali centrali presentano misure ana-loghe e sono rifiniti con le medesime cornici in stucco dal motivo vegetale. La sola differenza é la raffigurazione del soggetto religioso, mai ri-petuto in quanto creazione artistica unica per ogni altare, collegata al culto specifico di ciascun santo. Invece, i bassorilievi con motivo a candelabre risultano composti sempre da due elementi, pre-sentando una linea di taglio trasversale rispetto alla loro lunghezza, eseguita per limitarne le de-formazioni nel processo di essiccazione e cottura dell’argilla, dato che il rapporto lunghezza/spes-sore è considerevole. È opportuno osservare che questa modalità operativa risulterebbe una scelta individua-

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le di carattere squisitamente tecnico, adottata nel seno della singola bottega d’arte, avendo riscontrato altrove soluzioni diverse: nel con-fronto esteso alle candelabre della chiesa della Madonna del Rosario di Cento si può infatti notare come queste ultime siano composte da singoli pezzi. In San Giuliano si può osservare un’analoga li-nea di taglio per gli otto decori; questo ci indu-ce a ipotizzare la provenienza da una medesima unica matrice. In San Domenico invece, si ri-scontrano due linee di taglio diverse; suggeren-

doci la realizzazione di almeno due matrici per i quattordici elementi posti in opera (Fig. 2). Questi elementi, una volta usciti dalla fornace e prima di trovare la loro collocazione all’interno della composizione, venivano ricomposti nel manufatto definitivo, ritoccati e accuratamente rifiniti. È importante osservare che da una ma-trice potevano duplicarsi soltanto un numero limitato di pezzi, perché essa si logorava con l’usura. Da ciò deriverebbero le differenze nella nitidezza plastica del modellato riscontrate in alcune candelabre di San Domenico.

02. Confronto delle linee di taglio dei bassorilievi con candelabre (da sinistra 2 bassorilievi in San Domenico e uno in San giuliano)

Gli altari delle chiese di S. giuliano a Bologna e di S. Domenico a Budrio

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gli altari di san giuliano e san doMenico: un solo Progetto, una duPlice realizzazione. il ritrovaMento dei Putti angolari

Si può affermare che il progetto posto in opera per gli altari di entrambi gli edifici religiosi risulta lo stesso, ma vi sono sostanziali differenze nella realizzazione, come vedremo più avanti. Due im-portanti documenti, attestanti lo stato degli altari di San Giuliano prima dell’intervento di decur-tazione subito nel 1966, ci confermano in modo

03. (Sopra) Budrio (BO), chiesa San Domenico, foto concessione di Vittorio Bonaga(Sotto) Bologna, chiesa San giuliano (a.1966) su concessione del Ministero per i beni e le attività culturali –Archivio fotografico Soprintendenza BSAE di Bologna.

04. San giuliano putto ritrovato

Gianfranca Rainone

inequivocabile l’unicità del progetto. Il primo è costituito dalle schede storiche conservate presso l’Ufficio Catalogo della Soprintendenza BSAE di Bologna, ove vengono descritti in dettaglio i cin-que bassorilievi agli altari della chiesa bolognese così come si presentavano nel 1931. Il secondo dalle foto che li ritraggono ancora per poco intatti nel 1966, conservate nell’Archivio fotografico So-printendenza BSAE di Bologna (Fig. 3). Purtroppo oggi gli altari laterali di San Giuliano appaiono in un’altra veste, privata degli elementi angolari raffiguranti putti. Tuttavia il recente ri-

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trovamento da parte di chi scrive (febbraio 2009) di questi importanti elementi ha permesso di ve-rificarne morfologia e dimensioni esatte. Come quelli di Budrio, anch’essi risultano costituiti da due elementi, che si raccordano perfettamente sotto l’ala che incornicia il volto del putto, e sono distinti da una numerazione, che conta tredici pezzi, cinque in più rispetto a quelli smontati dal-le cappelle (Fig. 4). Si osserva inoltre che gli stes-

si putti compaiono anche nell’altare maggiore di San Giuliano e tutti misurano 80 cm di altezza e 17,50 di larghezza. Il confronto dimensionale che ne consegue con quelli di San Domenico, alti in-vece 71 cm, e larghi 16,00 é assai avvincente, por-tando a riscontrare oltre ad una differenza dimen-sionale, dovuta al ritiro dell’argilla, anche piccole variazioni nella definizione del modellato. Ciò fa ipotizzare che per San Domenico di Budrio,

05. Confronto candelabre (da sinistra Chiesa di San Domenico, Chiesa del Rosario, Chiesa di San giuliano

Gli altari delle chiese di S. giuliano a Bologna e di S. Domenico a Budrio

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siano state impiegate matrici eseguite copiando i positivi, precedentemente posti in opera in San Giuliano di Bologna5. Estendendo successivamente il confronto dei put-ti a quelli della chiesa della Madonna del Rosario di Cento, riscontriamo similitudini dimensionali e di modellato soltanto tra questi ultimi e quelli di San Giuliano (Fig. 5). Analizzando ora in dettaglio i bassorilievi con can-delabre in San Domenico di Budrio per metterli a

confronto con quelli in tutto simili fra loro di San Giuliano e della Madonna del Rosario, verifichia-mo sostanziali differenze nelle dimensioni (56 cm di altezza contro i 61 cm dei bassorilievi di Bologna e Cento) e nel modellato (nella definizione dei vasi, delle foglie, nel posizionamento dei piccoli volti di putto rispetto al vaso zoomorfo nella composizio-ne) (Fig. 6). Le differenze di modellato chiaramen-te riscontrabili nella Fig. 5, ci parlano del modo di operare in seno alla bottega d’arte, dove si lascia

06. Confronto putti algolari (da sinistra Chiesa di San Domenico, Madonna del Rosario, Chiesa di San giuliano)

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spazio alla singola creatività del plasticatore per de-finire o rifinire alcuni elementi che non vengono riprodotti conformemente al calco originale, o per-ché esso non viene accuratamente eseguito, oppure perché la matrice ha perso la sua definizione. Si può affermare che, tratti da matrici, i de-cori delle candelabre e dei putti degli altari di San Domenico siano successivi e derivanti da quelli di San Giuliano, in quanto ottenuti da positivi precedentemente realizzati. Si conclu-de pertanto alla luce delle similitudini e diffe-renze analizzate, che in San Domenico e San Giuliano é presente la medesima impostazione progettuale, che ha mantenuto per i bassorilie-vi ottagonali centrali le medesime dimensioni e l’unicità dei soggetti rappresentati, ma viene espressa con una realizzazione in parte diver-sa, per l’impiego di bassorilievi di serie -putti e candelabre- ottenuti da positivi precedente-mente realizzati.Il ritrovamento dei putti di San Giuliano ha per-messo inoltre di aprire un approccio parziale di indagine sulle finiture applicate su questi decori,

che si spera possa essere approfondito in futuro. Va premesso che durante le operazioni di pulitura condotte nel restauro degli altari di San Dome-nico, sono emerse finiture colorate soltanto su-gli stucchi, mentre erano assenti sui cotti (putti e candelabre)7. Sui putti ritrovati in San Giuliano, é stato possibile eseguire semplificate analisi stra-tigrafiche, riscontrando anche in questo caso la totale assenza di finiture colorate. È stata rinve-nuta invece direttamente sopra la terracotta uno strato bianco di zinco, sul quale compare una pre-parazione con l’aggiunta di colore, rosso matto-ne. Ciò può essere assimilabile ad un intervento finale nella preparazione dei cotti prima del loro assemblaggio, con lo scopo di uniformare la loro cromia nell’insieme definitivo. Un’annotazione speciale va fatta per gli elemen-ti costitutivi dell’altar maggiore di San Giulia-no, costruito su disegno dell’architetto Ventu-roli, modificato nel 1856 secondo il progetto degli architetti Davide Venturi e Costantino Dalbuono, dove i putti angolari in cotto appa-iono con finiture dorate ad eccezione del volto

07. Sezioni sottili sui putti di San giuliano (BO): A.- Sezione sul putto ritrovato, si osservi lo strato bianco di zinco e lo strato di finitura finale di colore rosso mattone. B.- Sezione sul putto dell’altar maggiore, si osservi la preparazione con il bolo e la foglia d’oro

Gli altari delle chiese di S. giuliano a Bologna e di S. Domenico a Budrio

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e delle ali. Per uno di questi elementi é stato possibile analizzare un frammento, riscontran-do sopra il cotto la preparazione per il bolo e la successiva stesura della foglia d’oro (Fig. 7). Altro particolare interessante di questo altare lo troviamo nelle sue bellissime candelabre, ugualmente dimensionate rispetto a quelle in cotto degli altari laterali, ma eseguite in legno finemente intagliato e dorato, che, a differenza di quelle in cotto delle cappelle laterali, si spec-chiano nella simmetria della composizione, verso il lato destro e sinistro.

diFFusione dei Modelli e delle Matrici nel territorio

Al momento è stato riscontrato nel territorio l’impiego delle stesse matrici negli altari in cot-to della Madonna del Rosario in Cento (FE), dove i medesimi bassorilievi con putto e cande-labre, trovano collocazione secondo uno sche-ma differente di aggregazione, ad eccezione di due cappelle, di cui una del Guercino, dove si rinnova la disposizione simmetrica, rispetto ad un diverso decoro centrale. Dal confronto dei bassorilievi tratti da matrici emerge una similitudine sia dimensionale che formale, nonostante la differenza di trattamen-to finale e di colore, solamente con quelli di San Giuliano, similitudine che qui ci limitiamo a segnalare per motivi di brevità. Il fatto che la collocazione temporale di questi elementi nella chiesa del Rosario risulti secondo alcuni studiosi posteriore di quasi un secolo non fa che confermare la grande diffusione e l’impie-go che questi elementi plastici, particolarmente radicati nella tradizione artistica ed artigianale, hanno avuto nel tempo.

note conclusive

Il triplice confronto fin qui realizzato, che non s’intende esaustivo sull’argomento, lascia con-testualmente aperti alcuni interrogativi sulle modalità di diffusione e commercializzazione che nel tempo ha avuto questa particolare pro-duzione artistica, della quale risultano ancora sconosciuti molti elementi, compresi i passaggi dei modelli da una bottega d’artista all’altra nel tempo, come può essere accaduto per la Ma-donna del Rosario.L’argomento merita certamente un futuro accu-rato approfondimento, finalizzato alla miglior comprensione del percorso seguito dalle opere, ed al filo conduttore che ne lega contestual-mente produzione, riproduzione ed evoluzione artistica dei modelli, continuamente elaborati, trasformati e reinventati secondo la sensibilità ed il gusto dell’epoca. A riguardo dell’evoluzione dei modelli, si vuole concludere con un rapido accenno ad un esem-pio di ulteriore evoluzione estetica dell’elemento scultoreo raffigurante il putto angolare, esempio riscontrato nell’altar maggiore della chiesa di San Giacomo Maggiore a Bologna (in numero di 2 elementi), ma proveniente dalla chiesa parroc-chiale di San Lorenzo in Grecchia, sull’Appenni-no bolognese. Inserito anch’esso in una compo-sizione simmetrica rispetto ad un elemento cen-trale, fu realizzato nel 1802 dall’abile intagliatore del legno Silvestro Pozzi e ci mostra con ardito slancio una raffinata tridimensionalità. Come i putti sopra analizzati, esso presenta tutti gli ele-menti precedentemente riscontrati, ma composti secondo una nuova interpretazione artistica: il volto del putto, le ali, la foglia di acanto, la voluta, il festone (Fig. 8), e a differenza dei primi, tratti

Gianfranca Rainone

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da matrici, costituisce una singola creazione ar-tisitica, trasformazione ed evoluzione acquisita e consolidata anch’essa, di un modello classico ben più antico di qualche secolo. Un ulteriore e doveroso approfondimento sull’evoluzione ancora poco conosciuta di tutta la produzione artistica degli scultori e plastica-tori bolognesi della fine del XVIII sec., non può prescindere dal prendere metodicamente in con-siderazione l’intensa attività didattica e cultura-le esercitata dall’ Accademia Clementina, fulcro creatore e propulsore di ideali e cultura, dentro e fuori l’ambito bolognese.

ringraziaMenti

Agli amici Lorenza Servetti, Francesco Caprara e Mara Gualdoni, che con i loro preziosi suggeri-menti hanno arricchito questo testo.

08. S. giacomo Maggiore putto

Gli altari delle chiese di S. giuliano a Bologna e di S. Domenico a Budrio

1 Il saggio sul restauro appare nella pubblicazione MiBAC Conservare Restauro Innovare dedicata al Salone del restauro e della conservazione dei Beni Culturali e Am-bientali, Ferrara, 2006.

2 Per l’attribuzione dei bassolrilievi ottagonali a Giacomo Rossi: E. Riccomini in Mostra della scultura bolognese del Settecento, catalogo della mostra, Bologna, 1965, p. 152;. E. Riccomini Vaghezza e Furore. La scultura del Settecento in Emilia Romagna, Bologna, 1977, p. 151; S. Tumidei,Terrecotte bolognesi di Sei e Settencento: collezionismo, produzione artistica, consumo devozio-nale, in Presepi e Terracotte nei musei civici di Bologna. Bologna, 1991, p. 47. La proposta attributiva è stata di recente ripresa, a seguito di una generale ricognizione storico-documentaria sugli altari, da Eleonora Mello-ni: Approfondimento della ricerca storica sugli altari in cotto e stucco della chiesa di San Domenico in Budrio (BO) per la Soprintendenza BASE di Bologna, proto-collo 7.342 del 11/11/2008; Eadem, La chiesa di San Domenico a Budrio. Guida storico-artistica, a cura di F. Caprara e L. Servetti, Bologna, 2008, pp. 48-53.

3 C.C. Malvasia, Pitture, scolture ed architetture delle chie-se luoghi pubblici, palazzi e case della città di Bologna, e suoi sobborghi, Bologna, 1686; ed.cit. Bologna, 1782.

4 S. Tumidei, Contributo a Giacomo Rossi scultore e dise-gnatore, in Arte a Bologna bollettino dei musei civici di arte antica, pag 125-137, la raccolta di schizzi e disegni presentati a pag. 127, figura 7:Foglio di schizzi; pag.128, fig.9: Scene all’antica; pag 130, fig. 11 Studio per Sacra Famiglia; pag.134,fig.23 Vestale.

5 Si ritiene doveroso correggere quanto abbiamo preceden-temente affermato (La chiesa di San Domenico… cit., p. 57) sulle uguali dimensione dei putti angolari della chiesa di San Domenico e San Giuliano. La scoperta dei putti degli altari laterali di San Giuliano nel gennaio del 2009, ha permesso l’esecuzione di riscontri e confronti diretti sulle opere, verificando le differenze di dimensioni e di modellato qui rappresentate.

6 Per approfondimenti si veda il saggio della scrivente in La chiesa di San Domenico a Budrio… cit., pp. 54-61.

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C.C. Malvasia, Pitture, scolture ed architetture del-le chiese luoghi pubblici, palazzi e case della città di Bologna, e suoi sobborghi, Bologna, 1686; ed.cit. Bologna, 1782.E. Riccòmini, Mostra della scultura bolognese del Settecento, catalogo della mostra, Bologna, 1965G. Roversi Gli arredi sacri di San Giacomo Mag-giore in Il tempio di San Giacomo Maggiore in Bologna, pag. 187-214. Bologna, 1967. E. Riccòmini, Vaghezza e Furore - La scultura del settecento in Emilia Romagna Bologna, Zanichel-li, 1977.S.Tumidei, Terrecotte bolognesi di Sei e Settencento: collezionismo, produzione artistica, consumo devo-zionale, in Presepi e Terracotte nei musei civici di Bologna. Pag. 21-51, Bologna 1991.S. Tumidei. Contributo a Giacomo Rossi scultore e disegnatore, in Arte a Bologna bollettino dei mu-sei civici di arte antica n° 2, pag 125-137, Bolo-gna 1992.A.N. Cellini, La scultura del settecento in Storia dell’Arte in Italia. Utet, Torino, 1982. N. Roio. Le opere d’arte in san Giuliano, in S. Giuliano e S. Cristina, due chiese in Bologna, storia, arte e architettura. Pag.143-177. Bolo-gna 1997.

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FotoLa fotografia in b/n dell’altare di San Giuliano proviene dall’Archivio Fotografico della Soprin-tendenza BASE di Bologna, MiBAC.Le foto a colori sono di Vittorio Bonaga, Eleono-ra Melloni e Gianfranca Rainone

Bibliografia

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I n questi ultimi anni la Soprintendenza ha svolto consistenti lavori di restauro nell’ex monastero benedettino dei SS. Pietro e Prospero a Reggio Emilia, più noto con il nome di Chiostri di S. Pietro1. Dal 1861

caserma militare e dagli ultimi anni Ottanta abban-donato a se stesso, questo monumento dell’architet-tura del Cinquecento è rimasto chiuso al pubblico e praticamente sconosciuto, se non a pochi specialisti della materia. Tra questi, Bruno Adorni e Elio Mon-ducci ne hanno evidenziato la qualità architettonica, l’opera di Bartolomeo Spani nel chiostro piccolo e il contributo di Giulio Romano nelle facciate del chiostro grande2, queste ultime già restaurate dalla Soprintendenza nel 1989-94. Alle evidenze criti-che e documentarie già messe in luce, si aggiungo-no oggi le scoperte e i rinvenimenti effettuati negli ultimi lavori, che permettono di apprezzare ancora di più l’eccezionale monumento-documento, che i lunghi anni di abbandono e di permanenza dei mi-litari avevano fortemente compromesso nella sua immagine e struttura. Appena entrati l’impressione che si aveva era quella di una caserma abbandonata e danneggiata dall’incuria, luogo dei rave estivi, che avevano lasciato il loro segno ‘artistico’ nei murales improvvisati sulle pareti. I due chiostri rinascimen-tali avevano gran parte delle arcate tamponate, i portici apparivano sfregiati, chiusi e frazionati, per ricavarne le camerate per i soldati e gli altri ambienti ad uso della caserma (cucine, servizi igienici etc.). È questa un’opera d’arte disvelata, che ha richiesto tempi lunghi di lavoro, dedicati nella fase iniziale alla descialbatura delle incongrue stratificazioni di pittura sovrapposte agli intonaci antichi, agli stucchi e agli apparati decorativi. Si è passati poi alle ope-

re di liberazione con la demolizione dei tanti muri che chiudevano i portici e frazionavano gli ambienti interni, riportando in luce, sulla scorta delle piante storiche e delle evidenze in sito, l’impianto ancora leggibile e fortemente connotativo del monastero, nelle sue documentate fasi storiche che precedono la trasformazione in caserma (Fig. 1).

I chIostrI dI s. pIetro a reggIo emIlIanote suI restaurI

Antonella Ranaldi*

01. Ex monastero dei SS. Pietro e Prospero a Reggio Emilia, pro-getto di restauro e recupero funzionale. Nei lavori eseguiti dalla Soprintendenza nel 2005-’09 i portici tamponati sono stati ria-perti e liberati gli ambienti dalle incongrue aggiunte e tramezza-ture interne. Importanti scoperte e rinvenimenti hanno permesso di riportare in luce e restaurare: gli affreschi del 1526 di Simone Fornari nel braccio ovest del chiostro piccolo (in basso a sinistra); gli affreschi a grottesche e scene di paesaggio nella Cappellina adia-cente al chiostro piccolo; le decorazioni della Sala del 1820; le de-corazioni nelle Sette sale a nord (nella pianta in alto)

Chiostri di S. Pietro a Reggio Emilia, portico del chiostro piccolo dopo il restauro

* Con la collaborazione di Francesco Eleuteri e di Domenico Rivalta per la parte strutturale

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124 124 I chiostri di S. Pietro a Reggio Emilia. Note sui restauri

In queste note dedicheremo brevi menzioni agli affreschi e agli apparati decorativi, che scoperti e restaurati sono oggi ben visibili, e saranno oggetto di studio e approfondimento da parte degli spe-cialisti della materia. Dopo una sintesi sugli esiti dei restauri architettonici e pittorici, ci è sembra-to interessante dare spazio anche ad altri aspetti forse meno eclatanti, ma comunque significativi, che riguardano tecniche e sistemi costruttivi della fabbrica cinquecentesca e gli interventi di conso-lidamento e miglioramento strutturale progettati ed eseguiti dalla Soprintendenza.

Breve cronistoria della faBBrica

L’antico monastero si articolava intorno ai due chiostri rinascimentali, ed occupava l’area intra moenia, vicina alla chiesa dei SS. Pietro e Pro-spero, che dalla via Emilia arrivava in origine, con gli orti retrostanti, fino alla vecchia cinta muraria. Si iniziò l’edificazione a partire dal chiostro piccolo, dal lato della via Emilia, ope-ra di Bartolomeo Spani e Leonardo Pacchioni del 1524-26, affrescato da Simone Fornari nel 1526 (Figg. 2-5). Seguì a partire dal 1542 la re-alizzazione del chiostro grande, ispirato da Giu-

02. Chiostro piccolo, dopo il restauro e la riapertura delle ar-cate tamponate

03. Portico del chiostro piccolo, braccio ovest. Affreschi di Si-mone Fornari del 1525-26. La volta è affrescata a finti lacu-nari ottagonali. Il motivo delle archeggiature su colonne binate è riprodotto nella parete di fronte ad incorniciare le scene di-pinte a monocromo

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lio Romano, per il tramite degli architetti locali Alberto e Roberto Pacchioni (Fig. 7). In questa prima fase di lavori, fino ai primi anni Sessan-ta del Cinquecento, si realizzò il braccio ovest, che si snoda dal chiostro piccolo, e a seguire quello nord con il dormitorio. Quest’ultimo fu ricostruito o riparato, perché minacciava rovi-na, da Prospero Pacchioni nel 1580, forse con la consulenza di Giulio della Torre, che figura tra i periti della fabbrica, autore da lì a poco del progetto della contigua chiesa del 1584-85. Il bolognese della Torre era del resto legato ai

benedettini e realizzò per essi il monastero di San Procolo a Bologna. Nel 1584-88 si demolì la chiesa vecchia che occupava l’area libera del chiostro grande e quella ancora non edificata sul lato est e sud. A quel punto si poté proseguire la costruzione del chiostro, che si protrasse fino al 1622, quando venne completato l’intero peri-bolo. Nel 1636 e nel 1680 fu progressivamente abbassato il livello dell’area libera del chiostro grande. Nel 1676 e nel 1697 si ripararono le volte e le coperture del dormitorio sul lato nord del chiostro grande. Trasformato in “Ritiro del-

04. Simone Fornari alias Moresini, affreschi del 1525-26 nel portico delchiostro piccolo

05. Simone Fornari alias Moresini, affreschi del 1525-26 nel portico delchiostro piccolo

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le dame” dal 1783 al 1796, subito dopo, duran-te il periodo della dominazione napoleonica, si voleva diventasse la sede dei tribunali. Risalgo-no a questo periodo le decorazioni della Sala della Giustizia. Con la restaurazione estense, dopo il 1815, il complesso divenne “Educanda-to per fanciulle”. La facciata sulla via Emilia fu riprogettata in veste neoclassica da Domenico Marchelli nel 1818 (Fig. 9) e nel 1818-1820 gli ambienti dell’ex cellerario furono trasformati e adibiti a tempio ebraico o a sala massonica. Dal 1861 il complesso fu infine destinato a caserma

militare e tale rimase fino all’inizio degli ultimi anni Ottanta. Da allora l’edificio fu abbando-nato e rimase misconosciuto al pubblico e in attesa di una nuova destinazione.

Scoperte, rinvenimenti e reStauri

chioStro piccolo

Sin dai primi sondaggi, al di sotto dei tanti strati di tinteggiature comparivano tracce si-gnificative di affreschi e decorazioni: autentici capolavori, soprattutto alcuni, riportati in luce e restaurati. Tra questi, primeggiano gli affre-

06. La Cappellina affrescata con grottesche e scene di paesaggio, presenta al centro della volta una rota porfiretica dipinta. Prima del restauro l’ambiente era destinato a locale tecnico della caserma ed alloggiava una caldaia, con una tubazione che traforava la volta. Metà degli affreschi cinquecenteschi sono andati perduti, l’altra metà era coperta da più strati di pittura. Gli affreschi che si sono salvati sono stati riportati in luce e restaurati

I chiostri di S. Pietro a Reggio Emilia. Note sui restauri

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schi nel chiostro piccolo del 1526 di Simone Fornari alias Moresini (1479-1529), noti dalle testimonianze documentarie e dalle esigue por-zioni che rimanevano a vista3, che malamente restaurate in passato non rendevano la qualità dei dipinti; la gran parte di essi era invece coper-ta dalle successive tinteggiature, anche recenti (Fig. 3-5). Dopo un’attenta opera di descialba-tura e di rimozione degli strati sovrapposti, è ri-comparsa la decorazione della volta a botte del portico ovest, interamente affrescata a lacunari ottagonali in rosso di Verona, su fondo chiaro dalle venature ambrate, espressione di ricercata simbiosi tra pittura e architettura (Fig. 3). Sulle pareti le parti meglio conservate rappresentano una Natività, in un ambiente accentuatamente muliebre, che raffigura in sequenza scene legate al parto, e a seguire una raffigurazione, pur-troppo mutila nella parte bassa, con in primo piano un gruppo di figure, vestite secondo i co-stumi del tempo, e sullo sfondo il paesaggio che sconfina dietro mura di città in morbide colline (Fig. 5). Le scene dipinte a monocromo sono inquadrate da arcate e colonnine doppie, che riproducono speculari l’architettura policroma del portico, a colonne binate e alternate in bian-cone e rosso di Verona, riproducendone forme e materiali. Anche gli elementi in cotto delle cornici e dei sottarchi erano trattati a simulare i pregiati rivestimenti in marmo rosso di Verona, come dimostrano sia le tracce in sito, visibili soprattutto nelle parti più protette e sotto le tamponature, sia la loro fedele rappresentazione nell’affresco (Fig. 4). Tali aspetti costituiscono un’alta espressione del sincretismo tra le arti, che connota l’eccezionale qualità del chiostro piccolo, dove lavorarono lo scultore Bartolo-

meo Spani, l’architetto Leonardo Pacchioni e il pittore Simone Fornari. L’architettura sconfina nella pittura e l’architettura si connota di for-ti cromatismi, negati invece alle scene dipinte a parete, dove si scelse invece il monocromo. Il programma di questo importante ciclo pit-torico è enunciato già chiaramente nell’incari-co conferito dai padri benedettini nel 1525 a Simone Fornari (alias Moresini), dove il testo che descrive l’oggetto della convenzione pone l’accento proprio sull’architettura picta del cas-settonato, dei cornisamenti contrafacti de mar-mori, delle colonne ficte de marmore de Verona4. Nel chiostro piccolo la riapertura delle arcate tamponate ha ricreato le condizioni della cor-retta percezione sia dell’architettura che degli affreschi, in un gioco di rimandi dall’architet-tura picta a quella reale. Quest’ultima colpisce per l’arditezza della soluzione dei sostegni: esili e affusolate colonnine doppie, che rendono il portico magnificamente aereo, sensazione ac-centuata dal contrasto con la massa muraria della fascia superiore, interamente chiusa per ragioni costruttive, dettate dalla scelta di volta-re a botte i portici, che presentano inoltre quat-tro cupolini agli angoli (Fig. 2). Le bifore sul terzo registro risalgono invece ad un restauro stilistico, di marca ottocentesca. Le colonnine binate, liberate dai muri che vi si addossavano, una volta pulite hanno riacquistato la loro co-lorazione, a seguito del trattamento con olio di lino, alleggerito con solventi al nitro e successi-va patinatura a cera. La scelta del sobrio tusca-nico si addiceva a celebrare i due santi Pietro e Prospero; il ritmo binato, che richiama anche la doppia dedicazione, invece, offre una rara rielaborazione, tutta rinascimentale, dei chio-

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benedettini di Montecassino e di S. Paolo fuori le mura a Roma, rivisitati per il tramite della cultura antiquaria, che in modo convincente Bruno Adorni riferisce al disegno di Cesariano del Gymnasium vitruviano (1521)5. Accanto al portico, nel piccolo locale dove c’era la caldaia della caserma, le cui condutture foravano la volta, è ricomparso il gioiello della Cappellina, ornata a grottesche e scene di paesaggio. Metà del-le pitture sono andate perdute, l’altra metà è stata riportata in luce e restaurata. Nel soffitto voltato si riconosce la rota porfiretica dipinta al centro, nelle grottesche esotiche figure africane busti nei pen-nacchi e scene di paesaggi nelle pareti (Fig. 6).

Chiostro grande

Le ricerche di Bruno Adorni hanno introdotto nuo-vi elementi nello studio del chiostro grande: antici-pando l’inizio della costruzione, ritenuta in passato tardo cinquecentesca, ai primi anni Quaranta del Cinquecento; ricostruendo quindi su base docu-mentaria le fasi di edificazione; infine riconoscen-do nell’ideazione dell’opera, come già aveva intuito Adolfo Venturi nel 1924, l’influenza determinante di Giulio Romano, attivo in quegli anni nel vicino monastero benedettino di S. Giovanni in Polirone. Come conferma l’analisi stilistica, la paternità del progetto spetterebbe quindi a Giulio Romano. Gli esecutori dei lavori furono gli architetti reggiani, dapprima Alberto Pacchioni, che realizzò il braccio ovest, nord e parte di quello est con il dormitorio sul lato nord, seguito da Prospero Pacchioni, a cui si deve la ricostruzione del dormitorio sul lato nord a partire dal 1580. In fase di progetto si è affrontata l’annosa questio-ne della quota del chiostro grande. Si riteneva in passato che la quota attuale fosse il risultato di un

abbassamento dovuto ai militari, e da lì erano state avanzate ipotesi di rialzare il livello ad una quota presunta originaria. Una foto della seconda metà dell’Ottocento6 mostra invece l’intero piano basa-mentale chiuso a bugnato e, sotto le arcate, la serie di aperture quadrate a bocca di lupo del piano sot-tostante. Sebbene sia molto probabile che la quota di progetto fosse effettivamente più alta di quella attuale, fatto questo non indifferente per capire la lettura delle facciate d’impronta giuliesca, è diffi-cile pensare che a quella quota si arrivò mai, in quanto ciò avrebbe richiesto consistenti opere di riporto di terreno, non documentate. Al contrario, finito il peribolo del chiostro, la cui realizzazione si protrasse dal 1542 fino al 1622, si pensò non solo a non rialzare il terreno, bensì, dapprima nel 1636 e successivamente nel 1680, per rendere più salubri gli ambienti seminterrati, si levò progressi-vamente la terra, per giungere alla quota attuale, realizzando inoltre nel 1680 una grotta ninfeo po-sta al centro della facciata sud, riconoscibile nella nicchia rinvenuta nel corso dei lavori. Si è previsto quindi il ripristino del bugnato e della continuità del piano basamentale con le aperture originarie delle bocche di lupo, nell’aspetto documentato dalla fotografia tardo ottocentesca, mantenendo la quota attuale con una sistemazione a giardino che a livello solo percettivo restituisca la lettura dei prospetti e delle proporzioni, come era stata concepita nel progetto iniziale7. Ulteriori elementi a favore dell’ipotesi di una quota di progetto più alta di quella attuale vengono dalla posizione delle bocche di lupo originarie, richiuse dai militari, e ora riportate in luce (Fig. 7). L’edificazione si protrasse quindi nel tempo, attra-versando fasi costruttive e rifacimenti. La fattura delle singole parti, soprattutto nelle finiture, in

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quanto ad accuratezza e tecnica esecutiva, rende conto delle diverse fasi di realizzazione. La fattura pregiata dei bei capitelli ionici ‘all’antica’ in stuc-co del portico ovest, il primo ad essere realizzato, non venne eguagliata nelle restanti parti, dove si ricorse anche a capitelli in cotto. Le stesse policro-mie della fabbrica cinquecentesca vennero presto occultate da successive pitture di colore ocra. Mentre si completava la fabbrica, nel Seicento i

benedettini pensavano già ad un possibile amplia-mento sul lato est, con l’addizione di un altro dor-mitorio, di impianto analogo a quello realizzato sul lato nord, servito da una scala posta all’angolo nord-est. In previsione di realizzare l’addizione ri-masta sulla carta, di cui abbiamo testimonianza nelle aggiunte al disegno di Giulio della Torre8, la facciata esterna verso oriente non venne mai com-pletata, come dimostrano le impronte delle aper-

07. Chiostro grande ispirato da giulio Romano, lato est dopo la riapertura delle serliane e delle bocche di lupo, tamponate dai mi-litari.

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ture predisposte al piano superiore, per accedere alla galleria di progetto sul lato est, poi non rea-lizzata. Gli stessi portali, sulla parete perimetrale del portico verso oriente, rimasero a lungo aperti, vennero infatti tamponati solo successivamente dai militari. Il progetto ne prevede la riapertura.

Portico del chiostro grande. indagini stratigrafiche e lettura delle cromie

Le lesene in mattoni del portico, con i raffinati capitelli di ordine ionico in stucco bianco (o in cotto finito in stucco bianco), riecheggiano il bi-cromatismo del chiostro piccolo. Il fusto era colo-rato con un sottile strato di pittura rosso intenso, ancora ben leggibile nelle lesene del portico nord (verso le Sette sale). Le analisi di laboratorio pre-cisano le stratigrafie rilevate:

laterizio rossastro di sottofondo (parte mu-- raria);sagramatura di colore nocciola a base di calce - carbonatata e pochi inerti di natura pretta-mente carbonatica, taluni di colore rossastro;sottile pennellata di colore rosso riconducibile - ad una stesura, probabilmente data a colla, a base di ocra rossa e poco carbonato di calcio.

Seguono i numerosi strati sovrapposti: bruna-stro, bianco, grigio bluastro chiaro etc., fino a ben 13 strati. Nel capitolato del 1582, si specificano le tecniche di stabilitura, fregatura e pulitura dei fusti, che erano trattati e lisciati in modo da ricevere e man-tenere il colore, da dare non solo alle lesene, ma anche ai fregi, cornici e basi: «et fregar la colonna acciò possa ricever et mantener il colore che se gli darà, et essi maestri saranno obbligati a darli quel colore che gli sarà ordinato non solo a dette colonne, ma anco ai frisi, cornise et base9».

Il documento, senza specificare quali colori si vo-lessero usare, prova che il trattamento cromatico era previsto già nella fase di preparazione del fon-do. Questa testimonianza datata 1582 si riferisce ai lavori di aggiustamento e adattamento del portico sul lato nord, compiuti dal reggiano Prospero Pac-chioni con il contributo del bolognese Giulio della Torre, a seguito della parziale demolizione del dor-mitorio. L’intonaco delle parti murarie (sfondati) ha il colore sabbia dell’inerte usato nella miscela della malta. Vi è applicato sopra uno strato pitto-rico bianco dato a tre mani. Le cornici, frontoni, fregi dei portali sono bianchi, con parti di colo-re rosa (conchiglia sul portale in fondo al portico ovest sulla parete nord) e fiaccole di colore rosso.La scelta del bianco e del rosso conferma le cro-mie dominanti nel chiostro piccolo. Concorda inoltre con l’architettura delle facciate del chio-stro grande, restaurate dalla Soprintendenza nel 1989-1994. La relazione di Giorgio Torraca, sul-le indagini effettuate a quell’epoca, evidenziava nelle conclusioni: «La policromia originale della facciata sembra quindi riconducibile a tre colo-ri: grigio-azzurro per tutte le superficie bugnata (con eccezione dei fusti delle lesene), bianco per l’ornamentazione architettonica (cornici, modi-glioni, architravi, capitelli, basi, frontoni, cimase, ecc.) e rosso per le fasce orizzontali ed i riquadri». Torraca rileva inoltre che l’ultimo strato era di colore giallo ocra. Questo strato ocra di natura pulvirulenta, steso sulle lesene, sui capitelli in ges-so, sulle basi e sugli archivolti, si riscontra anche all’interno del portico sopra le cromie originali. L’immagine architettonica e pittorica del chiostro grande rimanda ad ambientazioni di ispirazione tardo-imperiale, come ritratte nelle pitture rina-scimentali. Si risente l’influenza di Giulio Ro-

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grandi furono interamente affrescati sulle volte e sulle pareti tra la fine del Settecento e i primi dell’Ottocento. Troviamo la sala con pitture di paesaggi e architetture dipinte (Fig. 8) e la sala della Giustizia con la raffigurazione dei Dodici Cesari sul fregio e le decorazioni a grottesche su fondo rosa, di età napoleonica. Anche queste del tutte ignote, ed entrambe riportate intera-mente in luce. Nel locale dell’ex cellerario, nel corpo ovest ac-canto alla chiesa, si è scoperta la del tutto ine-dita sala del 1820 che, per la simbologia delle decorazioni e l’impianto spaziale, fa pensare o ad un tempio ebraico o ad una sala massonica. Fu realizzata probabilmente da Domenico Marchel-li, lo stesso autore che nel 1818 aveva fornito il disegno della facciata sulla via Emilia. Il rinnovamento compiuto dopo la restaurazio-ne estense interessò dapprima la facciata, inse-rita nel progetto più ampio alla scala urbana della quinta stradale che abbracciava i prospetti sulla via Emilia fino all’Arco del Follo. Mar-chelli realizzò una facciata d’impronta neoclas-sica, interamente cieca, con ampie porzioni a bugnato liscio e cornicione sporgente. L’af-faccio, chiuso all’esterno, dava invece verso il chiostro interno. Sebbene non ci siano finestre sulla facciata verso la strada, l’architetto ne ri-propose il disegno nella serie di finte finestre su due registri, sopra l’alto piano basamentale, rappresentate a persiane chiuse. Il restauro ha riproposto le coloriture della facciata del 1818 e le finte persiane dipinte, sulla base delle tracce ancora riconoscibili sul prospetto laterale verso il sagrato della chiesa (Fig. 9). Tra i disegni di Domenico Marchelli, insieme a quelli della facciata compare una sezione che

mano, il policromatesmi di villa Lante e di San Benedetto in Polirone. La scelta del rosso per le lesene può avere anche un significato simbolico, è il colore prescelto per rappresentare il martirio dei Santi Pietro e Prospero. L’intervento nel portico, sebbene non portato a termine, è stato impostato e realizzato nelle prime campate del braccio ovest. Per le lesene del porti-co si è voluto conservare l’immagine segnata dal tempo, rinunciando a vani ripristini e imitazioni. Nello stesso tempo, si è tenuto conto della ne-cessità di omogeneizzare l’immagine e facilitare la lettura d’insieme, suggerendo le principali cromie degli elementi architettonici, con trattamenti lie-vi, sottotono e non coprenti. È da evitarsi infatti l’enfatizzazione del color cotto dei mattoni delle lesene, che non è propria di questa architettura, quanto mai lontana dalle intenzioni degli artefici, che sia nel chiostro piccolo che nel chiostro gran-de si affidarono a sapienti tecniche di simulazioni, volte ad imitare i marmi colorati. L’intervento ri-produce sottotono i cromatismi originali dell’or-dine architettonico: basi, capitelli e trabeazione di colore bianco; fusto delle lesene di colore rosso. È indispensabile inoltre minimizzare gli inestetismi degli inserti murari nuovi e degli strati di catrame sovrapposti. In particolare, il colore dei capitelli e dei fusti acquista particolare evidenza. Le lesene infatti scandiscono lo spazio e la sequenza delle campate nel magnifico cannocchiale visivo del portico con i monumentali portali sullo sfondo. le sette sale, la sala del 1820 e la Facciata sulla via eMilia

Passando all’ala nord del chiostro grande, dopo aver percorso il braccio ovest del portico, si attraversano le Sette sale. I due ambienti più

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raffigura l’ambiente dell’ex cellerario10; presumi-bilmente si tratta di uno studio preliminare alla trasformazione della sala dell’ex cellerario che, sulla base dell’iscrizione ancora leggibile, pos-siamo datare al 1820. In quegli anni, successivi

alla restaurazione estense, tramontato il proget-to napoleonico di trasformare l’ex monastero in sede dei tribunali, il complesso venne adibito a “Educandato per fanciulle”. Ma evidentemente la porzione ovest che aveva accesso dal sagrato

08. Sala decorata con quadrature, paesaggi e architetture dipinte, riportata in luce durante il restauro (ala nord del chiostro grande, Sette sale)

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della chiesa era separata e autonoma dal resto. La sala è decorata secondo il repertorio della sim-bologia ebraica con il candelabro a sette bracci, l’aurora, le are votive, finti cassettonati, pareti di colore verde e zoccolatura rossastra.

il MiglioraMento strutturale L’iter metodologico degli interventi strutturali qui illustrati si pone nella logica del migliora-mento, come inteso nelle Raccomandazioni del 198611 e nelle più recenti Linee guida per la va-lutazione e riduzione del rischio sismico (2006)12, con l’obiettivo quindi di aumentare il grado di sicurezza della costruzione, senza stravolgerne

il comportamento strutturale, nella prospettiva di un miglioramento delle condizioni generali, con interventi non invasivi, formulati tenendo conto dei principi propri del restauro: minimo intervento, compatibilità, reversibilità; con-ciliando le esigenze della tutela e della cono-scenza delle specifiche tecniche impiegate nella costruzione storica, con il recupero funzionale e la nuova destinazione del complesso. Le maggiori debolezze strutturali riguardava-no il corpo est del chiostro piccolo e l’ala del dormitorio sul lato nord del chiostro grande. Rispetto ad alcune soluzioni che evidenziavano una notevole vulnerabilità strutturale, si sono valutati gli accorgimenti propri della struttura originaria tardo cinquecentesca, e contestual-mente gli interventi successivi che ne avevano inconsapevolmente compromesso il comporta-mento strutturale. Gli interventi sono stati im-prontati al ripristino della continuità e solidità muraria e dello schema strutturale originario, migliorato nei punti di maggiore vulnerabi-lità, soprattutto attraverso presidi in ferro di varia foggia, catene, cerchiature, tiranti, staffe, controventature, che interagiscono tra loro in modo assicurare alle strutture un maggiore gra-do di sicurezza.

dorMitorio

La costruzione del dormitorio, sul lato nord del chiostro grande, aveva dato già in origine grossi problemi di stabilità. Dopo non molti anni dalla sua realizzazione (ca. 1560-’64), le coperture mi-nacciavano rovina, tanto che nel 1575 fu necessario demolirle. Furono quindi nominati nel 1579 e nel 1580 i periti per valutare i danni alla fabbrica, e dal 1580 fino al 1585 fu ricostruita quasi integralmen-

09. Facciata sulla via Emilia. Il restauro ha privilegiato l’aspet-to della facciata neoclassica, realizzata su progetto di Domenico Marchelli del 1818, profondamente snaturata dal tempo e dagli interventi dei militari. La facciata fu progettata interamente chiusa, con partiture a bugnato liscio e finte finestre; nel restauro si sono riproposte le cromie originarie e le decorazioni delle finte finestre con persiane chiuse

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te dalle fondamenta l’ala nord del chiostro grande, recuperando tratti delle muraglie della costruzione precedente. Nel 1676 e nel 1697 si ripararono le volte e le coperture del dormitorio, probabilmen-te danneggiate dal terremoto che colpì Reggio nel 1671. A partire dal periodo napoleonico e negli anni successivi furono effettuate consistenti demo-lizioni, tra cui quelle delle partiture trasversali che dividevano le celle dei monaci al piano superiore, mentre al piano inferiore vennero demoliti i muri interni di partizione delle due sale accanto a quella centrale. Nel rilievo-progetto di Pietro Marchelli del 186013, che precede di un anno l’insediamen-to dei militari, si riconosce che la galleria centrale del dormitorio era stata divisa in due, e sulle ali in luogo delle celle correvano due corridoi liberi. I muri longitudinali del dormitorio, privati dei contrasti trasversali, divennero in questo modo assai più vulnerabili. Dopo l’insediamento dei militari, si aprirono gran-di arcate nella galleria e sulla volta si aggiunsero alle catene originarie altrettante catene doppie ancora-te ai muri verticali delle lunette, invece che nella posizione corretta alle reni. Tiranti in ferro furono posti paralleli ai muri lunghi, ancorando ad essi la parete corta est. Massicce furono anche le aperture di canne fumarie e tamponamenti in muratura in foglio, che hanno contribuito in modo consistente ad indebolire le strutture verticali. Ragionando per macro elementi e osservando la sezione del dormitorio e l’articolazione in pianta ai vari piani, si evidenziano le situazioni di maggiore vulnerabilità, confermate dai cinematismi e dalle patologie di danno rilevate sulle strutture. Nelle coperture e nel sottotetto, i puntoni sulle ali eserci-tano una spinta verso l’esterno, i cui effetti si river-savano specialmente nel muro nord del sottotetto,

ruotato verso l’esterno; fisiologicamente debole anche perché costituito da un muro di mattoni ad una testa intervallato da pilastrini, in corrispon-denza dei puntoni. Porzioni della copertura e del solaio su questo lato erano difatti già crollate per effetto della rotazione del muro verso l’esterno e lo sfilamento delle travi. Rimosse nel corso dei lavori

10. Sezione del dormitorio, ala nord del chiostro grande. In-terventi finalizzati al contenimento della spinta dei puntoni sulle ali e al miglioramento strutturale della galleria voltata del dormitorio, mediante: nuove catene poste alle reni della volta in aggiunta a quelle esistenti, con capo chiave costituito da un profilato che corre lungo i muri longitudinali, a cui si collegano i tiranti, posti nel sottotetto sulle ali della volta, di ancoraggio dei puntoni liberi, con staffe a forchetta; controventature a cro-ce di S. Andrea sulle ali al piano primo, poste all’interno dei muri ricostruiti, di ripartizione delle celle

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le più recenti tinteggiature, si è potuto riscontrare nel dormitorio un quadro fessurativo non rileva-bile all’inizio, costituito da lesioni ad andamento prevalentemente verticale, talune delle quali attra-versavano la volta della galleria, già richiuse in ce-mento dai militari, che avevano poi ritinteggiato le pareti. Si trattava quindi di lesioni comunque non di recente formazione, ma indicative di passa-ti cinematismi e di una situazione di vulnerabilità, rispetto soprattutto ad eventuali azioni di natura sismica. La galleria del dormitorio lunga mt. 45 è coperta con una volta a botte ribassata e lunettata, costituita da mattoni posti in piano. Le volte degli ambienti più grandi al piano sottostante si presen-tavano lesionate in chiave nel punto dove poggia il muro superiore del dormitorio ‘in falso’ che, come si legge nella sezione, è privo del corrispondente

muro longitudinale al piano sottostante ed appog-gia invece sui setti trasversali che dividono le sot-tostanti sette sale (Fig. 10). Le volte e le murature del piano inferiore al seminterrato si presentavano in buone condizioni, con volte solide costituite da muratura a una testa.Nel progetto si era posta l’attenzione sul muro co-siddetto ‘in falso’ del dormitorio, prevedendo di ren-dere più solidale la struttura muraria della galleria con tirantature attive e pretese, allo scopo di conferi-re al muro un comportamento similare ad una trave appoggiata. Tale intervento si è rilevato nel corso dei lavori non idoneo alla reale consistenza dei muri, che soprattutto nelle parti alte della galleria presen-tavano fessurazioni, vuoti interni e una malta forte-mente decoesa. Le murature non offrivano quindi una resistenza e una compattezza tali da assicurare le condizioni preliminari per intervenire in sicurezza con tiranture attive interne. Alla luce di quanto si è potuto verificare, ci si è convinti sempre di più che lo schema strutturale di partenza obbediva ad una sua intrinseca logica di progetto. Come spesso avvie-ne, la debolezza di alcuni elementi era dovuta invece in massima parte agli incongrui interventi successi-vi. Per contenere gli effetti del muro ‘in falso’ del dormitorio, i costruttori originari ricorsero all’ausi-lio di archi di scarico a direzionare il carico del muro nei punti di maggiore resistenza, corrispondenti ai setti trasversali delle sale sottostanti. Quello meglio visibile è l’arco di scarico che insiste sopra la grande volta dell’ex refettorio, dotato anche di una catena in ferro posta alle reni e annegata nella muratura (Fig. 11). Soluzione questa del tutto particolare, che di-mostra una ricerca sperimentale di nuove tecnologie con presidi in ferro che risalgono alla riedificazione del 1580. Tale sofisticato e attento sistema struttura-le era stato del tutto invalidato dagli inconsapevoli

11. galleria del dormitorio al piano primo. Lungo il muro lon-gitudinale insiste l’arco di scarico, che sgravava la volta sotto-stante dal peso del muro ‘in falso’ soprastante. In passato, l’arco di scarico, dotato anche di catene alle reni, era stato tagliato, compromettendo il sistema strutturale originario. La foto illustra l’intervento di ripristino dell’arco di scarico nel corso dei lavori

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interventi successivi, quando dopo la conversione a caserma del 1861, nei muri lunghi del dormitorio vennero aperte grandi arcate. Una delle quali tagliò in modo incongruo l’arco di scarico con catena, di cui si è detto. I sondaggi effettuati hanno permesso di verificare che la catena appariva svincolata dai ca-pochiave e inflessa a seguire il seppure leggero abbas-samento della volta in chiave. L’intervento eseguito è stato orientato a ristabilire lo schema strutturale originario, con la ricomposizione dell’arco di scarico e la leggera ritesatura della catena. Come si riconosce nella pianta di progetto di Pro-spero Pacchioni del 1580, l’appoggio del muro so-prastante era assicurato, al piano di sotto, anche dai setti che dividevano i due ambienti simmetrici al lato di quello centrale, in modo da contenere la spinta degli arconi di rinforzo delle volte e degli archi di scarico superiori. Anche la pianta di poco successiva del bolognese Giulio della Torre confer-ma questa distribuzione degli ambienti. Lo stesso schema veniva proposto successivamente con l’am-pliamento, poi non realizzato, sul lato orientale del chiostro grande. La presenza in origine di questi brevi setti trasversali, poi demoliti, è confermata poi dalle tracce al livello della pavimentazione. Per meglio contenere, la spinta delle volte grandi, visto il mutato assetto subito dalle strutture, il progetto prevede, ad ulteriore compensazione, di incatenare almeno le volte dei due ambienti più grandi. L’intervento più significativo ha riguardato il mi-glioramento del sistema di copertura. La volta della galleria del dormitorio presentava le catene originarie intervallate da doppie catene poste dai militari e fissate sui muri verticali delle lunette, invece che alle reni della volta. Queste catene più recenti erano fissate all’esterno del muro con un profilato in ferro che correva sull’intera lunghezza

dei muri longitudinali nel sottotetto, caricando di un peso eccessivo lo stesso muro ‘in falso’. Nell’in-tervento eseguito sono state rimosse le catene ag-giunte dai militari, sostituite con catene fissate alle reni, infittendo quindi il passo delle catene antiche. Dall’altra era necessario contrastare la spinta dei puntoni liberi sulle ali del sottotetto.La soluzione a cui si è pervenuti è stata di creare un sistema con presidi in ferro, rispondente ad una lo-gica e ad una tecnologia di tipo tradizionale, del tut-to reversibile, che fungesse anche da collegamento con i puntoni sulle falde laterali e da irrigidimenti dei due muri longitudinali della galleria, mediante l’ausilio di controventature a croce di Sant’Andrea poste sulle ali della galleria (Fig. 10). Dopo aver eseguito le necessarie riprese murarie, le catene nuove sono state fissate e collegate tra loro mediante un profilato che corre longitudinalmente ai muri, rinforzati nel senso longitudinale con fibre di carbonio e alla sommità con una cordolatura in muratura armata in mattoni. Agli stessi profilati, e quindi tramite quest’ultimi alle catene della volta, sono stati fissati i tiranti in ferro, uno per ciascun puntone, dell’una e dell’altra falda, collegati all’estre-mità dei puntoni mediante staffe a forchetta (Fig. 12-13). In questo modo si è contenuta la spinta delle coperture sulle ali, mentre la muratura esterna ad una testa del sottotetto, che si presentava ruotata verso l’esterno, è stata ispessita e portata a due teste, creando sulla sommità una cordolatura di collega-mento orizzontale con muratura armata negli ultimi filari. Si procederà poi, secondo il progetto, alla ri-costruzione delle partizioni trasversali dei muri delle celle, alcune rinforzate con croci di S. Andrea, poste all’interno della muratura, in modo da creare un si-stema di controventature complanari tra loro, che renda più stabili i due muri lunghi della galleria.

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interventi diFFusi

A lavori avviati ci si è resi conto delle condizioni delle murature, che si presentavano più dissestate di quanto ci si aspettasse, a causa di numerosi vuoti in-terni aperti per ricavarvi una moltitudine di camini e canne fumarie. Si è intervenuti quindi a riparare le tante discontinuità, che di volta in volta, al di là di ogni plausibile ragionevolezza, apparivano nei punti più impensati, provvedendo quindi a numerosi risar-cimenti, volti a ripristinare la continuità della com-pagine muraria. Nelle parti alte, coeve ai successivi rifacimenti delle coperture, la muratura presentava in molti punti una struttura ‘a cassetta’ con pilastri-ni e muratura a sacco di riempimento, fortemente decoesa, che non assicurava un solido appoggio e collegamento alle coperture. Allo scopo di migliora-re l’appoggio delle strutture di copertura sono state previste cordolature a livello sommitale, con tralicci tipo ‘murfor’ posti in opera nei giunti orizzontali, e

dormienti in legno di collegamento orizzontale. Nei sottotetti erano frequenti gli appoggi delle catene li-gnee e dei puntoni direttamente su pilastrini liberi, che sono stati resi più stabili, rispetto all’eventuale azione sismica, con cerchiature e angolari in ferro e cordolature in muratura di collegamento.Le volte al piano rialzato del chiostro grande si pre-sentavano generalmente di fattura accurata. La valu-tazione sul loro stato di conservazione si è resa fatti-bile verificando in primo luogo il sistema costruttivo all’estradosso. Le volte sono realizzate in mattoni in piano sulle unghie, rinforzate sulle diagonali delle crociere con nervature estradossate, formate da mat-toni posti, a spina di pesce, in piano e in foglio. Il sistema si completa con i frenelli ad irrigidire le volte, soprattutto agli angoli. Sulle volte del lato ovest del chiostro grande, quello verso la chiesa, la pavimenta-zione originaria in cotto era posta direttamente sopra i mattoni a coltello, spaziati tra loro della lunghezza

12, 13. Il sottotetto a lavori eseguiti. I tiranti, collegati alle catene delle volte, ancorano l’estremità opposta dei puntoni mediante staffe a forchetta

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del mattone superiore. Sulle volte delle Sette sale, nel corpo nord del chiostro grande, si riscontrano nume-rosi accorgimenti costruttivi, anche con centinature in legno sopra le volte, in modo da ridurre i riempi-menti, e rinforzi murari invece nei punti di maggiore vulnerabilità, lungo le direttrici e agli angoli.

Chiostro piCColo

Le volte a botte lunettate dei due grandi ambienti del corpo est del chiostro piccolo presentavano un quadro fessurativo più preoccupante, aggravato dalle condizioni precarie delle strutture murarie e dai cinematismi che interessavano le strutture verticali e orizzontali all’angolo libero verso la via Emilia. Nel corpo est, vicino all’ingresso, i milita-ri avevano creato l’appartamento del generale con controsoffittature e tramezzature interne e con i servizi igienici che invadevano uno dei bracci del chiostro piccolo con le arcate tamponate. Liberate le strutture interne, sono tornate in luce le due sale originarie coperte da grandi volte lunettate in muratura. All’estradosso insisteva, staccato dalle

volte, il solaio superiore in legno, il cui peso in parte gravava sulle volte sottostanti tramite ap-poggi puntuali costituiti da pilastrini in mattoni, disposti in modo disordinato tra l’estradosso della volta ed il solaio. Qui si è sgravata la volta del peso del solaio, che è stato ricostruito con nuove travi in legno, tavolato, soletta di ripartizione, in modo da scaricare il peso sui muri perimetrali. L’intervento ha riguardato inoltre le coperture, realiz-zando: la ricostruzione della sommità delle murature molto decoese ed irregolari; parziali sostituzioni de-gli elementi più ammalorati dell’orditura principale e secondaria; interventi tesi a conferire maggiore sta-bilità alla capriata soprastante. Questa ha una strut-tura asimettrica con due catene allineate ma disgiun-te, le cui estremità appoggiano sui muri perimetrali e sul muro intermedio. Si è intervenuti con l’aggiunta di saette inclinate, migliorando il collegamento tra i singoli elementi e l’equilibrio dei nodi, in modo tale da assimilare la struttura ad una reticolare; ma soprattutto si sono rese le due catene della capriata tra loro solidali e continue (Fig. 14-15).

14. Le capriate del corpo est del chiostro piccolo, nel corso dei lavori

15. Schema delle capriate del corpo est del chiostro piccolo

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1 I lavori finanziati dal Ministero per i beni e le attività culturali nell’ambito della programmazione straordina-ria (L. 513/1999, € 5.164.568,99) sono stati condotti in due distinti appaltati: uno per i lavori di categoria OS2 relativi agli apparati decorativi e al restauro degli intonaci (€ 1.185.000,00), eseguiti dalla Cooperativa Archeologia di Firenze, iniziati il 14/10/2004 e termi-nati il 18/05/2009; l’altro per i lavori edili e impianti-stici (€ 3.237.018,88), realizzati dal Consorzio Consta di Padova. Committente dei lavori è stata la Soprin-tendenza per i beni architettonici e paesaggistici per le province di Bologna, Modena, Reggio Emilia, soprin-tendente arch. Sabina Ferrari; l’ing. Domenico Rivalta, seguito nel 2009 dall’arch. Elisabetta Pepe sono stati responsabili del procedimento; il progetto è stato re-datto dagli architetti Francesco Eleuteri, Maria Luisa Mutschlechner, Antonella Ranaldi, Paola Zigarella, con la consulenza dell’arch. Pier Luigi Cervellati; i lavori sono stati diretti dall’arch. Antonella Ranaldi e dall’ing. Domenico Rivalta. È in corso il collaudo da parte dell’arch. Graziella Polidori.

2 B. Adorni, E. Monducci (a cura di), I benedettini a Reg-gio Emilia. Dall’abbazia di San Prospero extra moenia ai chiostri e alla chiesa di San Pietro. Architettura e arte, I-II, Reggio Emilia 2002, corredato dell’intero corpus di documenti della fabbrica, provenienti dall’Archivio di Stato di Reggio Emilia, Monastero dei Santi Pietro e Prospero di Reggio Emilia, d’ora in poi citato in forma abbreviata ASRe, MSPP.

3 Cfr. A. Mazza, “…di non poco ornamento alla nostra città”: affreschi, dipinti, sculture nel complesso monastico dei Santi Pietro e Prospero a Reggio Emilia, in Adorni - Monducci, op. cit. alla nota 2, I, pp. 159-165. Simone Fornari è citato tra i pittori reggiani del Cinquecento da L. Lanzi, Storia pittorica, tomo III, Firenze 1834, 3a edizione, libro II, p. 28.

4 Convenzione del 1 ottobre 1525 in cui Don Lorenzo abate e don Leonardo, cellerario del monastero di S. Pro-spero, affidano al maestro Simone Fornari (alias Moresi-ni), la pittura ad affresco del chiostro piccolo di S. Pietro, parte con figure e parte con quadrature, per il prezzo di 400 lire di Milano. Sono testimoni dell’atto, i maestri Bartolomeo Clementi e Leonardo Pacchioni: “… Et pri-mo ha depingere tute le volte a quadroni cornixati, a colori

de marmori da Verona, et le cupolete, in quelli volti ge ha da far dui profeta per cupoleta, cioè uno per quadra, de chiaro scuro, et li cornisamenti contrafacti de marmori, sotto poi a dite cornixe ge va la vita de S.to Pedro depincta de chiaro scuro, interposito da un capitelo a lato; le colone dopie fincte de marmore de Verona…”, ASRe, MSPP, Liber Pactorum “Q”, c. 34r, in Adorni - Monducci, op. cit. alla nota 2, II, doc. 65, p. 27. Si prevedeva di decorare tutti e quattro i portici, al contrario i lavori si interruppero alla decora-zione completa del braccio ovest che porta la data marzo 1526.

5 B. Adorni, in Adorni - Monducci, op. cit. alla nota 2, pp. 19-20.

6 Reggio Emilia Biblioteca Panizzi, Archivio Fotografico, in Adorni - Monducci, op. cit. alla nota 2, I, p. 90; le bocche di lupo sono documentate anche nella pianta di Pietro Marchelli del 1860, pianta del piano seminterra-to, ASRe, Fondo mappe e disegni Marchelli.

7 Secondo F. Manenti Valli, Oltre misura. Il linguaggio della bellezza nel monastero benedettino di San Pietro a Reggio Emilia, Modena, 2008, i prospetti sarebbero proporzio-nati secondo la serie matematica del Fibonacci.

8 ASRe, MSPP, mappe e disegni, in Adorni - Monducci, op. cit. alla nota 2, I, p. 24.

9 ASRe, MSPP, Registro 1550-1575, cc. 68r-v, in Adorni - Monducci, op. cit. alla nota 2, II, doc. 733, pp. 93-94.

10 Domenico Marchelli, ASRe, Fondo mappe e disegni Marchelli.

11 Circolare del Ministero per beni culturali e ambientali n. 1032/1986 (Comitato Nazionale per la Prevenzione Patrimonio Culturale dal Rischio Sismico, 18 luglio 1986), Interventi sul patrimonio monumentale a tipolo-gia specialistica in zone sismiche: raccomandazioni, nota anche come Circolare Ballardini.

12 Linee Guida per la valutazione e riduzione del rischio del patrimoni culturale, del 2006, adottate con la Direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri per la valutazione e riduzione del rischio sismico del patrimonio culturale, del 12 ottobre 2007, entrata in vigore il 29 aprile 2008.

13 Pietro Marchelli, progetto per la trasformazione del monastero in caserma di cavalleria, 1860, ASRe, Fondo mappe e disegni Marchelli, pianta del piano primo, do-cumenta lo stato della fabbrica nel momento che prece-de l’insediamento della caserma Taddei.

Note

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L’intervento conservativo realiz-zato alla chiesa dell’abbazia di San Leonardo a Montetiffi, nel territorio del comune di Soglia-no al Rubicone, è stato finan-

ziato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri con il fondo dell’8 per mille dell’IRPEF.Criterio informatore delle opere di restauro pro-gettate ed eseguite è stato quello di restituire leg-gibilità al manufatto, rimuovendo le parti aggiun-te nel corso dei secoli che avevano occultato ele-menti caratterizzanti e privato della luce naturale l’interno dell’edificio e i suoi apparati decorativi, interrompere ove possibile i fenomeni di degrado presenti nel paramento murario esterno e garantire un’ulteriore sopravvivenza nel tempo, utilizzando metodologie e materiali scelti e impiegati con la massima attenzione e perizia, stante l’impossibilità di restituire la completa integrità fisica ai materiali costituenti che i processi secolari di degrado ave-vano fortemente compromesso. Sono state inol-tre compiute indagini, analisi e studi conoscitivi dell’intero manufatto e dell’ammasso roccioso su cui è stato edificato al fine di conoscere materiali, caratteristiche e tecniche costruttive necessarie per impostare un corretto intervento di restauro.La chiesa dell’abbazia di San Leonardo è un ma-nufatto imponente e austero che si erge sulla som-mità di un costone roccioso sovrastante la valle dell’Uso, edificato nel secolo XI in onore dei santi Martino e Bartolomeo e donato ai monaci bene-dettini dagli abitanti del borgo, artefici della co-struzione.È del 1120, come scolpito nell’altare a cippo del transetto a nord, la dedicazione ai santi Vicinio,

titolare della vicina Diocesi di Sarsina, Agostino, Nicola, Leonardo, Giorgio e Giovanni Evangeli-sta. La chiesa fu dedicata anche ai santi Michele arcangelo e Barnaba apostolo, a Quirico, Giulitta e Agnese, come scolpito nella coeva mensa d’alta-re del transetto a sud.L’abbazia fu oggetto nel corso dei secoli di restau-ri, addizioni e demolizioni che non ne hanno al-terato la struttura, compatta e solida, con poche aperture che evidenziano lo spessore dei muri, e arricchita all’interno da pitture e da elementi che articolano e scandiscono in senso plastico le pa-reti quali lesene, nicchie e motivi che discendono dall’architettura ravennate.L’intero edificio, al momento della sua edificazio-ne, era a croce latina con una navata massiva e avvolgente orientata est-ovest, con ingresso a est obbligato dalla conformazione del monte, che si presentava irto, circondato da calanchi e con un ristretto passaggio in sommità, e con un alto cam-panile che si innalzava dal transetto nord.La navata, sviluppata in profondità con abside e transetti ruotati verso nord, era in origine com-pletamente voltata a botte. Si concludono con volte in pietra anche i transetti, con gli archi della crociera di quello a nord che partono da peducci in pietra tutti diversi tra loro.Subì durante i secoli numerosi lavori di restauro e rinnovamento. Notizie si ricavano dalle descri-zioni fatte dai curatori abbaziali e testimoniate dalle epigrafi presenti all’interno del manufatto: due, murate nel lato sinistro della navata, ricor-dano che «Nell’anno del signore 1334, nel giorno 20 agosto, al tempo del reverendo signor Barto-lo abate di Montetiffi, questo lavoro fece a onore della Beata Vergine Maria dei cieli e finì la chiesa a onore di S. Maria, San Leonardo e S. Quirico e

lA ChIESA DEll’ABBAzIA DI S. lEonARDo A montEtIFFI, SoglIAno Al RUBIConE (FC)

Elena De Cecco, Valter Piazza, Cetty Muscolino

01. Veduta dell’abbazia di San Leonardo a Montetiffi

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142 142 La chiesa dell’abbazia di S. Leonardo a Montetiffi, Sogliano al Rubicone (FC)

Giulitta. Questo fecero i nostri maestri con dana-ro di Matteo, Marco e Giacomo».I primi interventi documentati risalgono dun-que al XIV secolo per rimediare ai danni causati dall’assalto dei ghibellini: la chiesa venne fortifi-cata e si munirono le aperture di inferriate, come testimoniato dalla presenza delle sedi per l’allog-giamento delle zanche.Nel 1600 la tradizione vuole che un incendio ab-bia fatto crollare la volta in pietra della navata e la sala capitolare presente sopra l’atrio di accesso; la copertura venne ricostruita con cinque capriate

lignee sostenenti un tetto a due falde e l’atrio ven-ne ricoperto con volta a botte.Sono invece da ascrivere a interventi compiu-ti nel Settecento le due cappelle laterali che si innestano a circa metà della navata e anche la messa in opera dell’altare maggiore in scaglio-la composto da sessantadue elementi di diversa grandezza, a meschia non unica, ma risultato della scomposizione di più paliotti riassemblati in base alla simmetria dei decori. Non è noto quando sia stata messa in atto la trasformazio-ne e quali e quanti fossero i pezzi originali; le

02. Facciata prima e dopo l’intervento di restauro

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scagliole sono a fondo nero con decori bianchi, realizzati graficamente a imitazione della tecnica incisoria, con sottili e accurati tratteggi, con al centro dell’altare il simbolo della croce.Nella metà del 1800, dopo il periodo napoleonico, numerosi e importanti interventi di restauro furo-no compiuti da don Pietro Gasperoni. L’abbazia era in forte stato di degrado: nell’Inventario Ab-baziale compilato il 6 marzo 1843 viene descritta con «muri senza intonacatura. Vi si rimirano sopra imagini di Santi dipinti alla grossolana. Ora conta sei altari, ma uno è sospeso, perché manca di pie-

tra consacrata. Il pavimento è tutto frantumato. In ogni parte spira antichità. Da alcuni anni a que-sta parte si ritrova in uno stato deplorabile, perché minacciava in più parti rovina. Quantunque abbia muri di una ampiezza tale, che sembrano inalzati per l’eternità, pure l’ingiuria de’ tempi, e la trascu-ratezza di chi vi prescedette l’aveano condotta..ad un masso di pietra. In vista dei ristauri ricevuti, gli Adoratori vi si potrebbero trattener dentro senza alcun pericolo, se non fosse minacciata da un can-tone del Campanile labente, che vi resta sopra. Ro-vinando questo porterebbe vistosissimo danno»1.

03. Riapertura delle finestre precedentemente tamponate

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È sempre da ascrivere all’Ottocento la sostituzione dei confessionali e della via Crucis e la posa in opera della cantoria lignea, in origine dipinta con motivi a finto marmo e attualmente con disegni di gusto po-polaresco con raffigurazione di strumenti musicali.Nel 1920 vennero compiuti lavori di sistemazio-ne della facciata fortemente degradata e compro-messa nel suo apparato lapideo che compresero la posa in opera di una sorta di foderatura della muratura con rifacimento dei due cantonali in

mattoni pieni ammorsati agli elementi in pietra e la sostituzione del cornicione di sommità.In seguito ai danni causati dalla seconda guerra mondiale il Genio Civile di Rimini intervenne con opere di consolidamento sul campanile, sulla coper-tura della chiesa, sul paramento lapideo, asportan-done internamente l’intonaco e tutti gli strati pitto-rici presenti, con successiva stuccatura dei paramenti portati a facciavista, sulla pavimentazione deteriora-ta, sugli infissi e con il rifacimento della scala di ac-cesso e di quella esterna per il campanile.Gli ultimi interventi sono da ascrivere al 2002, a opera della Diocesi di Rimini, e hanno riguardato la copertura e opere di consolidamento della cap-pella laterale destra, in stato di forte degrado, che purtroppo hanno causato la distruzione dell’altare.La chiesa nella sua parte originaria risulta costrui-ta con il materiale scavato e prelevato direttamen-te dal monte su cui poi fu fondata, un’arenaria giallo-ocra discretamente cementata, che le ana-lisi mineralogico-petrografiche compiute hanno identificato come calcarenite a bioclasti e tenden-zialmente microconglomeratica, con laminazioni ad andamento pseudoparallelo generanti piani di distacco preferenziale del materiale.Sull’ammasso roccioso su cui è stata edificata è sta-to effettuato uno studio geologico-geomorfologi-co con caratterizzazione geomeccanica, mediante rilevamento di campagna, indagini geognostiche in sito (con esecuzione di un sondaggio a caro-taggio continuo con prelievo di campioni fino alla profondità di 7 m) e un rilievo strutturale di dettaglio eseguito in parete al fine di caratteriz-zare lo stato di fatto e determinare le condizioni di stabilità del pendio, che sono risultate buone. Lo studio effettuato sul versante occidentale della rupe ha evidenziato alcuni potenziali cinematismi

04. L’interno dell’abbazia dopo i restauri

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quali lo scivolamento planare e lo scivolamento a cuneo, che interessano esclusivamente la parte superficiale dello stesso, mentre l’affioramento torbiditico al suo interno presenta un’alterazione e una disgregazione fisica sensibilmente inferiori, tali da identificare la roccia come resistente.Parallelamente alle indagini sulla pietra sono state condotte analisi mineralogico-petrografiche e gra-nulometriche delle malte di allettamento ascrivi-bili alla primitiva costruzione che hanno eviden-

ziato la presenza di calce aerea, sabbia di fiume locale, con piccoli resti conchigliari fossiliferi e rari frammenti litici di arenaria giallastra e siltiti, coccio pesto in tracce, scarsi frustoli carboniosi e frammenti di roccia calcarea rosata a spigolo vivo, probabili resti del calcare (Scaglia rossa o Rosso Amminitico) calcinato per la realizzazione della calce. Il rapporto legante-aggregato è risultato tendenzialmente di 1 a 2.Il paramento esterno della costruzione originaria aveva blocchi lapidei posti in opera quasi a secco, con uno strato di malta di massimo 3 mm. Unici elementi decorati e modanati all’esterno erano le aperture del lato a sud a trifora, una colonna tor-tile in corrispondenza dell’apertura del transetto sinistro e il motivo del coronamento dell’abside ad archetti pensili a doppio rincasso con superio-re motivo con elementi in laterizio contrastante rispetto alla muratura in pietra.Il paramento lapideo si presentava fortemente de-gradato con diffusi fenomeni di esfoliazione e sca-gliatura lungo i piani di sedimentazione, presenza di croste nere sui paramenti murari al riparo dalla pioggia e crescita di vegetazione infestante.Il progetto di restauro e consolidamento delle strutture murarie ha previsto il preconsolidamen-to degli elementi in precario stato di conservazio-ne, seguito da opere di disinfestazione ed elimina-zione della vegetazione infestante, dalla pulitura e rimozione di depositi superficiali coerenti, dalla rimozione e abbassamento delle connessure ese-guite durante interventi precedenti con materia-li che per composizione potevano interagire con la pietra o che avevano perduto la loro funzione conservativa o estetica, dalla posa in opera di nuo-va stuccatura con composizione simile all’origina-ria, dal consolidamento con puntuali operazioni

05. Camminamento interno che originariamente conduceva all’aula capitolare, oggi non più esistente

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di microstuccatura eseguite sulle singole pietre e da trattamenti di protezione finale.Il preconsolidamento degli elementi in precario stato di conservazione è stato effettuato mediante ristabilimento parziale della coesione con silicato di etile con impregnazione per mezzo di pennelli e siringhe, fino a rifiuto. Si è poi proceduto alle opere di disinfestazione ed eliminazione della vegetazione infestante mediante applicazione di biocida con rimozione manuale completa della vegetazione infestante aggrappata ai paramenti murari, comprese le radici profonde, poi a ope-re di disinfezione da colonie di microorganismi autotrofi o/e eterotrofi mediante applicazione di biocida (benzalconio cloruro al 4% in soluzione acquosa) e successiva rimozione meccanica, sia in caso di incrostazioni che in caso di pellicole.È stata eseguita la pulitura e rimozione di depositi superficiali coerenti, incrostazioni, concrezioni e fissativi alterati, mediante applicazioni di impac-chi di soluzioni di sali inorganici, di carbonato e bicarbonato d’ammonio, preceduta da saggi per la scelta della soluzione e dei tempi di applicazione idonei; tra questi anche le colature di resina pre-senti all’esterno nella cappella a nord molto tenaci e difficili da rimuovere con rischio di degrado del materiale lapideo.Le opere di restauro sono proseguite con operazio-ni di rimozione o abbassamento delle connessure eseguite durante interventi precedenti con ma-teriali che per composizione potevano interagire con la pietra o che avevano perduto la loro fun-zione conservativa o estetica, anche in presenza di elementi particolarmente fragili. Tale rimozione ha cercato di eliminare anche i residui delle inie-zioni effettuate durante i sopraddetti interventi del 2002 all’esterno della cappella laterale destra;

durante tali operazioni sono stati scoperti tutti i tubuli in plastica verde utilizzati per le iniezioni, alcuni dei quali sono purtroppo rimasti in vista.Successivamente, sulla base anche delle risultanze delle analisi mineralogico-petrografiche compiute sulle malte è stata posta in opera la nuova stucca-tura, avente come legante grassello di calce stagio-nato quarantotto mesi, e come aggregante arenaria setacciata (del medesimo litotipo dell’originale) e sabbia fine del fiume Po con una proporzione tra legante e aggregato di 1 a 2.Sugli elementi lapidei in precario stato di con-servazione poiché soggetti a forte degrado da esfoliazione, disgregazione, microfratturazione, microfessurazione, scagliatura e distacchi per impedire o rallentare l’accesso dell’acqua piova-na e/o dell’umidità atmosferica all’interno della pietra degradata si è intervenuti con opere di pre-consolidamento, con iniezioni di calce idraulica naturale, pozzolana micronizzata e fluidificanti e, successivamente, con microstuccature a base di malta a base di grassello di calce in modo da chiu-dere completamente i distacchi ed evitare che gli agenti patogeni possano continuare la loro ope-ra distruttiva. Ogni elemento lapideo, seppure privo di modanature e decori, è stato restaurato puntualmente e meticolosamente, variando nel-le stuccature delle microfratturazioni e microfes-surazioni gli additivi a base di polveri di marmo per fare in modo che queste si armonizzassero alla singola pietra e all’insieme e non risultassero in-terruzioni ed elementi di disturbo per la leggibili-tà complessiva dell’apparato murario.Le opere di restauro sono proseguite con la rimo-zione dei depositi superficiali e delle macchie solu-bili con impianto di nebulizzazione; parallelamente sono stati asportati gli intonaci in malta cementizia

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dell’imbotte della finestra della cappella a sud e del-la tamponatura dell’apertura sempre lato sud.Il paramento murario è stato consolidato con Silica-to di Etile con impregnazione per mezzo di pennelli e siringhe, fino a rifiuto, mentre la protezione fina-le per il controllo della microflora (licheni, muffe, micro-funghi), è stata eseguita con prodotto a base di 2,3,5,6-tetracloro-4 metil sulfonil piridina.Rispetto a quanto previsto dal progetto esecutivo non è invece stato possibile eseguire la rimozione del paramento di foderatura in pietre e laterizi le-gati da malta di calce e con stilature in cemento presente nella facciata e nel lato nord e sud, ese-guita nel 1920; infatti in seguito a indagini si è ve-rificato che all’interno la muratura era incoerente, a sacco e con scarso legante. Si è perciò proceduto esclusivamente alla rimozione della parte sommi-tale, ricostruendo e consolidando la muratura con operazioni di “scuci-cuci”, eseguite in maniera assolutamente limitata ai casi effettivamente ne-cessari, con pietre idonee e omogenee alle preesi-stenti, poste in opera a forza negli ammorsamenti e sulla superficie superiore di contatto e legate con malta di calce, a sostituzione di elementi lapidei che avevano perso le caratteristiche di resistenza, e dei materiali diversi (scaglie di pietra, mattoni nuovi) che risultavano non armonizzanti con il contesto. Le integrazioni sono state sia di recupe-ro che nuove, provenienti da una cava in località Tre Cavoli (Alfero), l’unica che presentava carat-teristiche litologiche e di coloritura simili agli ele-menti lapidei originali.Durante le operazioni di rimozione dell’intonaco dagli stipiti del portone di accesso sono venute alla luce le originali mensole che reggevano l’architra-ve in pietra, occultate dall’arco in laterizi; al fine di poterle lasciare in vista e di sgravare l’architrave

dal peso della muratura soprastante è stato effet-tuato un intervento di consolidamento ponendo in opera al di sopra di questo tre putrelle in ferro poggianti su piastre tirantate da barre filettate ai lati e fissate con dado e controdado. Inizialmente era stata messa in opera una cerchiatura metallica al di sotto dell’arco a sesto acuto in pietra, con funzione portante e coadiuvante durante le ope-razioni di consolidamento.Sempre in facciata si è provveduto a sostituire il parapetto in ferro della scala di accesso posto in opera durante i lavori di restauro del dopoguerra effettuati dal Genio Civile di Rimini negli anni 1950-1960, in stato di forte degrado, con altro in acciaio Cor-ten, sia per i gradini che per il balla-toio, realizzato mediante elementi imbullonati tra loro e non saldati e fissati alla base.Le opere sono proseguite con il “restauro della luce”. Rimosse le tamponature delle aperture pre-senti nella navata, poste in opera nei secoli passati, sono state scoperte sei finestrature diverse tra loro e uguali due a due: quelle del lato sud della navata (con motivo a bifora) e le due della zona presbite-riale (a feritoia) ascrivibili al primitivo impianto; quelle del prospetto nord, probabilmente succes-sive, a forma rettangolare.È stata inoltre riaperta anche la piccola finestra a feritoia presente nel transetto a sud, tamponata e mascherata da una armadiatura, la cui luce va a illuminare direttamente l’altare a cippo posto nel transetto a nord.Durante le operazioni di restauro delle decora-zioni presenti nella nicchia dell’apertura del tran-setto sinistro, rimuovendo lo strato di intonaco e gesso presente all’intorno dell’infisso, si è verifi-cato quanto era già stato ipotizzato, e cioè che la posizione, forma e dimensione dell’apertura non

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06. Transetto sinistro

era sicuramente quella originaria; in origine aveva dimensioni contenute ed era conclusa superior-mente con arco a tutto sesto, tipologicamente del tutto simile a quello presente tra atrio e navata. È stato consolidato l’architrave e posta in opera una cerchiatura metallica che funge sia da controtela-io del nuovo infisso, che da elemento di sostegno della muratura soprastante.Importante e significativo doveva essere il ruolo della luce all’interno dell’architettura della chiesa: la disposizione delle aperture e della luce che da esse entra può essere letta e interpretata con un significato che va al di là del valore visivo. Luce che allontana il buio, che permette di vedere, che indica Dio, che illumina il percorso verso la sal-vezza e che diventa la protagonista di riti religiosi durante particolari momenti liturgici o giorni ed eventi astronomici. Luce quindi che può essere paragonata a un’opera d’arte in cui la forma non può essere disgiunta dal contenuto, luce che di-venta materia che dà forma, sostanza e significato a elementi e simboli.

Le opere di conservazione sono poi proseguite all’interno con il consolidamento delle testate del-le capriate lignee, poste in opera nel XVII secolo in seguito ai danni riportati dalla struttura per il crollo della sala capitolare, e della volta del cammi-namento esistente nello spessore del muro di sini-stra della navata, che in origine conduceva alla sala summenzionata situata sopra il vano d’ingresso e che attualmente porta alla cantoria ottocentesca.È stata restaurata la pavimentazione in cotto, preceduta da indagini esplorative con il metodo georadar GPR, basato sul principio della propa-gazione di impulsi elettromagnetici nei materiali e sulla loro riflessione in corrispondenza delle su-perfici di discontinuità, sotto la sorveglianza della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emi-lia-Romagna: la profondità di indagine è arrivata a 2 m dal piano calpestabile e sono risultate cavità locali (tombe), tre zone con materiali di sottofon-do molto rimaneggiati, un evidente allineamento di fratturazione nella roccia di substrato in dire-zione nord-sud con piccoli vuoti in corrisponden-za di tale fenomeno di detensionamento e una presunta struttura di fondazione posta in opera probabilmente durante precedenti interventi di restauro e consolidamento del manufatto.Si è provveduto a dipingere a latte di calce con co-lori che si armonizzano con il paramento lapideo le pareti delle due cappelle laterali, che presenta-vano una coloritura azzurra non consona al luogo: tale dipintura era stata realizzata sopra lo strato a finto marmo ascrivibile al tardo Settecento, come evidenziato dai saggi stratigrafici eseguiti durante i lavori di restauro del 2004-2007.Relativamente agli elementi decorativi in pietra presenti all’interno, si sono restaurati il pulvino con ornato fitomorfo incassato a parete lato destro

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dell’atrio, risalente ai secoli X-XI, di ambito raven-nate; l’acquasantiera murata all’ingresso del cam-panile, a forma di mano porgente; relativamente al transetto a sud la mensa d’altare, la lapide do-cumentaria eseguita nel 1562 murata a parete in nicchia, il lavabo da sacrestia incassato in parete e la pietra tombale a terra parzialmente occultata dalla pedana dell’armadiatura settecentesca rimossa al fine di scoprire le decorazioni esistenti.Purtroppo è stato possibile procedere a opere di conservazione del paramento lapideo del solo transetto a sud, ricco di pitture visibili e che cela-va, nascoste dal mobile in legno di fattura roma-gnola, interessanti pitture.Anche se da numerose tracce superstiti si hanno chia-ri indizi che la decorazione pittorica dovesse interes-sare tutte la pareti dell’abbazia, i numerosi interventi e i molteplici rinnovamenti effettuati nel corso dei secoli hanno cancellato buona parte della primitiva ornamentazione che contribuiva con la ricca poli-cromia a renderla particolarmente suggestiva.Brani di sinopia sono ancora visibili, a un’osserva-zione accurata, sulla parete sinistra in prossimità

dell’incrocio col transetto, dove sembra di poter individuare una grande figura aureolata, e altri segni si intravedono sulle pareti della cappella in corrispondenza del transetto destro.Ma la decorazione più cospicua, se si eccettua la piccola edicola sul lato sinistro della navata, inte-ressa in particolar modo il transetto sinistro, ed è collocabile in un arco cronologico che va dal XII al XVI secolo.Nella volta è presente un ampio brano dell’into-nacatura originaria su cui insistono tracce della sinopia che mostrano i segni che scandivano le vele e una croce latina.La realizzazione pittorica più antica si dispone sull’intradosso di una nicchia che ha subito una significativa trasformazione e ampliamento del-la finestra centrale: l’ispezione dei conci murari ha chiarito che in origine la nicchia doveva avere un’apertura centrale a feritoia e che la successiva modifica, determinata probabilmente dal deside-rio di rendere più visibili altri affreschi successi-vamente eseguiti nell’arcata al centro della parete del transetto, ha comportato la totale perdita del-la raffigurazione che insisteva sul lato destro.Sul lato sinistro dell’intradosso è affrescata una figura femminile aureolata, probabilmente si tratta della rappresentazione della Vergine An-nunciata, collegata visivamente e iconografica-mente con l’opposta immagine dell’arcangelo Gabriele, perduta.La Vergine è posta all’interno di un riquadro chiaro bordato da una fascia rossa e da una se-conda color giallo intenso. Il manto rosso, che ricopre anche il capo, è impreziosito da un bordo decorato da candide perle che delimitano anche l’aureola. La tunica, segnata da ombreggiature verticali che suggeriscono le pieghe, è profilata

07. Dipinti del XIV secolo, transetto sinistro

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al collo e ai polsi dal medesimo motivo a perle bianche. La mano destra è sollevata all’altezza del petto, la sinistra tesa a trattenere goffamente il mantello; l’espressione del viso e lo sguardo severo esprimono un senso di turbamento.Pur nell’estrema semplificazione formale, che nella resa delle mani diviene quasi grossolana, la figura risulta estremamente efficace ed emana un forte senso di mistero e di interna vitalità.La decorazione prosegue sulla parete, e anche sull’intradosso della nicchia, con un raffinato mo-tivo a girali da cui fuoriescono pomi rossi e bruni su fondo bianco.La materia pittorica è sottilissima, quasi incorpo-rea, e i pigmenti aderiscono ai conci murari quasi senza preparazione sottostante.Nella grande nicchia della parete che conclude il transetto, prima dell’inizio dei lavori di restauro, era inserita una armadiatura a sportelli che, una volta aperti, hanno fatto intravedere sulla mura-tura sottostante abbondanti tracce di colore.Dopo aver rimosso il mobile si è potuto vedere che la nicchia e l’intradosso dell’arcata a tutto sesto che la delimita erano completamente affrescati. Nono-stante le vistose cadute di colore e i danni irrepara-bili conseguenti alla lunga permanenza del mobile a ridosso delle pitture il recupero è certo di grande interesse.Al centro si colloca la Madonna col Bambino in trono, affiancata a destra dalla Maddalena, ben riconoscibile per la lunga e fluente chioma bion-da e per la pisside che regge in mano, e a sinistra da un’altra santa di incerta identificazione per la mancanza di ulteriori attributi iconografici specifi-ci oltre al libro che sostiene con entrambe le mani. Della Vergine, il cui viso è del tutto sparito, si intra-vedono unicamente le mani dalle proporzioni di-

latate e alquanto sgraziate e alcuni brani del manto dalle pieghe mosse e curvilinee. Il Bambino, di cui si legge parte del viso e dei capelli ricciuti, benedice con la destra e tiene la sinistra chiusa a trattenere un elemento oggi non più visibile.Nell’intradosso dell’arcata sul lato sinistro è af-frescata l’elegante figura di santa Lucia, che reca nella destra la palma della gloria e nella sinistra gli occhi, simbolo del suo martirio.

08. Vergine Annunciata, XII-XIII secolo

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Sulla destra compare la figura di un santo fran-cescano, col saio e il cordone con i caratteristici tre nodi. La presenza, alla sinistra del santo, di un elemento circolare circondato da raggi serpenti-formi, fa ipotizzare che si tratti di S. Bernardino da Siena con in mano il caratteristico monogram-ma IHS. Le mani di tutti i personaggi risultano estrema-mente sommarie ed eccessivamente dilatate.La decorazione continua con un’ornamentazione floreale che nell’estremità superiore circonda il medaglione centrale completamente abraso.Tutti gli elementi formali, quali panneggi mossi e arricchiti da movimenti curvilinei, e i particolari accorgimenti tecnici della definizione delle aure-ole a rilievo e accuratamente incise con tratti ret-tilinei ed elementi circolari, inducono a datare il dipinto alla seconda metà del XIV secolo.La decorazione pittorica del transetto mostra inoltre sulla parete destra S. Benedetto con lun-ga barba bianca, libro e pastorale e al suo fianco san Giovanni Battista con la croce attorno a cui si snoda il cartiglio con l’iscrizione Ecce Agnus Dei; di fronte S. Scolastica, sorella di Benedetto, che tiene nella destra la croce e il rosario e nella sinistra il libro, e una santa, ritenuta da alcuni S. Giulitta, ma che per la presenza di un’ornata pisside e per la fluente chioma bionda, potrebbe essere S. Maria Maddalena.Tutte le figure sono poste all’interno di riquadri profilati da diverse cornici rettilinee.I dipinti, ascrivibili per la struttura formale alla fine del XVI secolo, purtroppo sono stati molto detur-pati da drastici trattamenti di pulitura che hanno totalmente asportato le cromie delle carnagioni, in special modo nelle figure femminili che conserva-no nei visi solo la preparazione a terra verde. I santi

sono riconducibili alla mano di un unico artista, di levatura particolarmente modesta.Sempre allo stesso periodo, ma a una diversa mano, può ricondursi la decorazione pittorica che riveste la piccola arcata sulla parete sinistra della navata, dove originariamente si doveva trovare un confes-sionale: al centro il monogramma IHS, sulla destra la figura di S. Leonardo in veste di diacono, che tie-ne nella mano destra, un turibolo e un libro nella sinistra e sulla sinistra un giovane angelo. La fattura è mediocre e un po’ di maniera.Come spesso avviene, anche riconsiderando tutte le modifiche, i cambiamenti strutturali e l’inseri-mento di successive cappelle in epoca barocca, per quanto riguarda questi brani pittorici non si può fare a meno di notare una diminuzione di qualità artistica dalle prime alle ultime decorazioni.

Nota

1 Don A. Bartolini, Montetiffi e la sua Abbazia, Cesena, Stilia Editore, 1967, p. 78.

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L’ oratorio di Sant’Enrico, dedicato anticamente a San Quirico e ci-tato come tale per la prima volta in un documento del 14491, si trova nella media valle del Taro

sulla sponda sinistra del fiume, su una paleofrana non completamente assestata, che reca tracce di frequentazione nel Mesolitico (fine IV millennio a.C.-inizio III)2 e i resti di un insediamento ru-stico di età romana. Si trattava probabilmente di uno dei possedimenti di quel Vario Felice citato nella Tabula Alimentaria veleiate, tra i proprieta-ri di vaste tenute nel pago Dianio, ubicato nella valle del Mozzola, tra le quali un Fundus Iu...ina-tus, del valore di 6.300 sesterzi, tradizionalmente riconosciuto proprio nella zona di Carcaila o nei pressi dei prati Carcaiolli citati negli estimi farne-siani, di cui il toponimo Calcaiola sembra essere la derivazione3.L’edificio versava in uno stato di grave degrado (Fig. 2) quando nel 2002 il Comune di Valmozzo-la iniziava, con fondi propri, l’iter progettuale per intraprenderne il recupero e la valorizzazione. Ad aula unica e abside semicircolare, aveva un in-gresso centrale in facciata e uno laterale murato, in uso almeno fino alla seconda metà dell’800.

Unica fonte di luce era rappresentata da una fi-nestra sul lato meridionale dell’aula e una piccola monofora nella conca absidale.Dell’oratorio rimanevano in piedi solo l’abside con il catino e la sua copertura in pietra, i muri longitudinali e parte di quello ovest (facciata). Erano crollate la copertura in legno e piane di pie-tra e la volta a botte lunettata soprastanti l’aula, quindi la facciata e la testata del lato longitudi-nale ovest, per altro ancora documentate in essere nel 1988. Il dilavamento dei letti di malta, che ne era conseguito, aveva causato il rilassamento delle murature e lo spostamento dei blocchi lapi-dei. I muri longitudinali liberi e senza ammorsa-ture strutturali erano pertanto roto-traslati verso l’esterno e il materiale di crollo nascondeva sia i livelli pavimentali che i setti murari fino ad una altezza variabile tra i 100 e i 140 cm. Sulla superficie interna della conca dell’abside ri-manevano limitate porzioni di un affresco che, almeno fino alla prima metà del secolo scorso, do-veva estendersi a tutta la semicupola del catino. Il degrado, sotto forma di rigonfiamenti, di cadute di intonaco, di sollevamento della pellicola pittorica e di macchie scure, dovute ad attacchi di agenti bio-deteriogeni e a umidità, aveva compromesso sia la leggibilità che l’aderenza al supporto murario.Solo nel 2005, grazie ad un finanziamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri, affidato dalla Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesag-gistici in gestione alla Comunità Montana Ovest, potevano iniziare i lavori. Dopo lo spostamento dei blocchi – accatastati secondo tipo e dimensione per essere riutilizzati nella successiva ricostruzione -, vennero alla luce la pavimentazione in pietra, quasi del tutto integra, una parte del muro di facciata, l’accesso e l’imposta del portone. Tale scoperta mise in discussione il progetto appro-

Il RECUPERo StRUttURAlE DEll’oRAtoRIo DI S. EnRICo DI CAlCAIolA DI VAlmozzolA

Manuela Catarsi, Cristina Anghinetti, Patrizia Raggio, Giovanni Signani, Barbara Zilocchi

01. Materiali dallo scavo archeologico (scala 1:2) (disegno di I. Fioramonti) 1.1 fr. di accettina in pietra verde levigata 1.2 fr. ceramico di età romana a pareti sottili 1.3 chiave in ferro d’età romana 1.4 lama di coltellino in ferro 1.5 fusaiola in terracotta 1.6 olla da fuoco medievale 1.7 moneta di Giovanni di Boemia 1.8 fr. di ceramica ingobbiata 1.9 anello con castone 1.10 fr. di ceramica graffita.

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154 154 Il recupero strutturale dell’oratorio di S. Enrico di Calcaiola di Valmozzola

Tale scoperta mise in discussione il progetto appro-vato, che prevedeva una copertura ed una chiusura frontale in acciaio satinato e vetro smerigliato, tan-to da richiedere una soluzione integrativa.Per attuare il progetto di risanamento e di consolidamento, necessariamente pensato per fornire un appoggio omogeneo ed un legame strutturale alle pareti, che non avevano fonda-zione propria, si iniziò con il presidiare e ri-mettere in asse i setti murari roto-traslati con spinte controllate, per poi smontare tutte le la-

stre pavimentali, dopo averle opportunamente rilevate e numerate.Lo scavo archeologico che ne è seguito, e di cui si danno qui di seguito i risultati principali, fun-zionale alle operazioni di restauro, ha consentito di riconoscere almeno quattro fasi edilizie (Fig. 3) e di retrodatare la fondazione dell’edificio sacro all’altomedioevo4. Un primo oratorio, già orientato est-ovest e di circa m 8,00 x 3,505, iscritto solo parzialmente all’interno dell’attuale, era sorto con funzioni probabilmente

02. Oratorio di S. Enrico (interno) prima del restauro

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e una breve aula rettangolare che risultava spingersi fino a poco oltre la facciata odierna. Ad esso sono da relazionare i resti di un altare intravisto sotto l’attuale, realizzato come le mu-rature dell’alzato in pietra locale, e almeno tre sepolture. Una tomba infantile in fossa terragna, orientata ovest-est, con copertura piana costituita da due embrici romani di riutilizzo, contenente un piccolo scheletro supino, con braccia lungo i fianchi e viso rivolto all’altare. Un frammento di coltellino in ferro, di cui rimane la lama triangola-re (Fig. 1.4), e una fusaiola in terracotta, di forma biconica molto schiacciata (Fig. 1.5), emerse in giacitura secondaria nei riempimenti di successive inumazioni nei pressi del perimetrale nord atte-stano l’utilizzo sepolcrale, purtroppo sconvolto da deposizioni successive, anche dell’esterno.Una seconda chiesa si era quindi sovrapposta alla precedente in epoca medievale. I suoi muri risul-tavano edificati con pietrame molto più regolariz-zato, anche se di dimensioni più ridotte, e legante di malta e cocciopesto. Di medesimo orientamen-to della precedente, essa aveva proporzioni mag-giori (m 9,70 x 4,95). In un momento non esattamente precisabile le murature, probabilmente a causa della ripresa del movimento franoso e delle infiltrazioni d’acqua, subirono importanti interventi di restauro, in pie-trame e piccoli frammenti laterizi di reimpiego, le-gati da una malta poco tenace. Si possono probabilmente attribuire a questa fase edilizia alcune delle sepolture ad inumazione, in nuda terra e cassa litica, trovate in parte sconvol-te, all’esterno dell’edificio. Si può porre con un buon margine di sicurezza la fine di questa seconda fase costruttiva entro i pri-mi decenni del XIV secolo, data la presenza, nei terreni contenenti le sepolture, di frammenti di

olle da fuoco di epoca medievale (Fig. 1.6) e, nel vespaio pavimentale della chiesa successiva, di un denaro mezzano della zecca di Parma di Giovanni di Lussemburgo re di Boemia, databile tra il 1333 e il 13357 (Fig. 1.7). Il terzo oratorio (XIV sec. – primi decenni XVIII sec.), realizzato dopo il completo abbattimen-to del precedente, di cui aveva utilizzato parte del pietrame, vide un ulteriore allungamento dell’aula verso ovest (m 11,10 x 4,95) (Fig. 4). Al suo interno sono state ritrovate due sepolture in cassa litica e due lacerti di un piano pavimen-tale in pietra coperto dal suolo successivo e dalle fondazioni della facciata attuale; all’esterno una tomba singola e due ossari, il primo addossato al perimetrale sud del sagrato contenente an-che alcune ceramiche graffite, il secondo, da cui provengono due anelli con castone (Fig. 1.9) e ceramiche grezze, in prossimità dell’angolo sud-ovest della facciata. L’area circostante all’oratorio vide la prosecuzio-ne dell’utilizzo cimiteriale con tombe ad inuma-zione ed ossari: lo studio preliminare osteologico ha evidenziato un’intenzionale riduzione delle ossa lunghe attuata per ripulire l’area sepolcrale e renderla libera per nuove inumazioni.Allo stesso orizzonte cronologico sembrano ap-partenere frammenti di ceramiche graffite (Fig. 1.10) e i resti di un boccale a corpo piriforme e bocca trilobata, ingobbiato e dipinto a ramina-ferraccia, a pennellate verticali (Fig. 1.8). Si tratta di un tipo ceramico il cui uso è documentato an-che nella pittura di natura morta sin dall’ultimo ventennio del ‘500, come ad esempio nelle tele di Annibale Carracci con i tipi del “Mangiafagioli”, oggi alla galleria Colonna di Roma e del “Man-giapolenta”, conservato a New York8. Notizie di questa fase edilizia sono desumibili an-

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03. Planimetrie delle fasi edilizie (elaborazioni di C. Anghinetti e D. Botti Abacus s.r.l)

Il recupero strutturale dell’oratorio di S. Enrico di Calcaiola di Valmozzola

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che dalla visite parrocchiali sia del Vescovo Ca-stelli (1576)9, che dei Vescovi Rangoni (1609)10 e Zandemaria (1739)11.La chiesa successiva, edificata intorno alla metà del XVIII secolo, presentava una facciata più ar-retrata e un sagrato che ricalcava il perimetro di una parte demolita dell’edificio precedente (m 7,50 x 4,95). Ad essa è riferibile l’affresco raffi-gurante quattro Santi all’interno di una cornice

rossa, di cui rimangono solo parzialmente leggi-bili due figure, una con calzari e veste gialla, l’al-tra con manto rosso, libro e bastone, conservato nel catino dell’abside (Fig. 5). Nel 1784 Giovanni Granelli Arciprete di S. Maria di Gusaliggio, dalla cui Pieve San Quirico dipendeva, dopo una vi-sita all’oratorio, scrive che nella parete del coro “fornito di volta bassa ma sufficiente” si trova una pittura “vile e svasata e rappresentante diverse inde-centi figure”12. Nel 1827 sono stati realizzati nuovi importanti lavori di ristrutturazione che comportarono la rea-lizzazione di una volta a botte e delle murature su cui la stessa si appoggiava, che risultano addossate ai muri longitudinali preesistenti (Fig. 6). La rela-zione della visita parrocchiale del Loschi (10 luglio 1827) attesta che il pavimento in quella data era ancora da ultimare e che andava apposto un vetro o un telo all’unica finestra fonte di illuminazione. I lavori di ristrutturazione erano stati così impor-tanti che addirittura comportarono un cambio di dedicazione, con conseguente necessità di una nuova benedizione (“Oratorium pene ex integro re-constructum est et visum est nova indigere benedic-tione”)13. Il nuovo Santo titolare diventa S. Enrico Imperatore, celebrato a Calcaiola con una messa sempre il 15 luglio “a spese de’ parroci”.Contestualmente alla fase di scavo sono proseguite le operazioni di cucitura dei muri dell’aula, di re-stauro dei paramenti con la stesura di biocida a largo spettro, la conseguente stuccatura a malta di calce idraulica della tonalità e consistenza di quella anti-ca, confezionata secondo i risultati delle analisi chi-mico-petrografiche e applicata secondo un criterio distintivo tra superfici esterne ed interne e tra quelle esistenti e le parti di muratura rimesse in opera. In particolare la stuccatura dei paramenti murari esterni superstiti è stata attuata con una stilatura

04. Ricostruzione tridimensionale della chiesa di terza fase (elaborazioni D. Romani Abacus s.r.l)

05. Particolare dell’affresco a fine restauro

Manuela Catarsi, Cristina Anghinetti, Patrizia Raggio, Giovanni Signani, Barbara Zilocchi

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ca, confezionata secondo i risultati delle analisi chi-mico-petrografiche e applicata secondo un criterio distintivo tra superfici esterne ed interne e tra quelle esistenti e le parti di muratura rimesse in opera. In particolare la stuccatura dei paramenti murari esterni superstiti è stata attuata con una stilatura meno regolare, parzialmente sbordante, in ma-niera da uniformarsi alla tessitura antica, su cui permanevano le tracce di una tenacissima malta di calce (faccia esterna della conca absidale). Il pa-ramento murario di facciata, ad esempio, è stato trattato con stilatura dei giunti a livello, mentre

sulla superficie del muro nord sono state eseguite stuccature meno regolari. Mentre procedevano le operazioni di scavo archeologico, sia all’esterno che all’interno dell’edificio, parallelamente si susseguivano le lavorazioni di restauro dei paramenti murari esistenti (stesura di silicato di etile sui blocchi lapidei, protettivo silossanico, stuccature a mal-ta di calce) e di cucitura muraria. Particolare cura è stata riservata all’arco di scarico del ca-tino absidale, sul quale sarebbe gravato il carico concentrato della trave di colmo del tetto. Per la sua parziale integrazione muraria è stata realiz-zata un’esatta centinatura e sono stati impiegati i blocchi lapidei provenienti dallo stesso cantie-re e opportunamente lavorati (Fig. 7). È seguito quindi il ripristino della copertura, costituita da struttura di legno di castagno, pannello di coi-bentazione e manto a piane di pietra arenaria.Per ottemperare alle norme in materia di mi-

06. Interno dell’edificio di ultima fase con murature di rinfor-zo longitudinali e imposta di volta a botte

07. Particolare del massetto alleggerito con rete posto all’estrados-so del catino absidale e arco presbiteriale ricostruito

Il recupero strutturale dell’oratorio di S. Enrico di Calcaiola di Valmozzola

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glioramento antisismico, sono state individuate le seguenti operazioni migliorative:1 - cordolature con dormienti in legno massello di castagno, fissati alla muratura con tassellature in acciaio inox;2 - arco armato interno al setto murario pog-giante sopra l’arco dell’abside, eseguito in strut-tura metallica e opportunamente inglobato nella struttura muraria in pietra.Parallelamente alle lavorazioni esterne, ovvero al completamento dello scavo archeologico ed al re-stauro dello pseudo-sacrato (cioè quanto rimaneva della chiesa della II-III fase), sono state avviate le procedure per il restauro dell’affresco presente nella conca absidale. Le sue superfici e quelle del catino sono state trattate, conservando le tracce di malta rinvenute e soprammesse tra loro operando un in-tervento rigorosamente conservativo, optando per la stesura di un intonachino di lieve spessore, nelle par-ti di muratura in vista, al fine di intravedere le pietre da costruzione; utilizzando malta di calce idraulica

(come per le stuccature del paramento murario in vista) e sabbione lavato. Per quanto riguarda i lacerti dell’affresco si sono eseguite le seguenti operazioni: fissaggio con carta giapponese e alcool polivinilico, consolidamen-to in profondità con malta di calce a basso peso specifico, pulitura con bicarbonato di ammonio e acqua demineralizzata deionizzata; consolida-mento superficiale limitatissimo (in quanto le parti superstiti dell’affresco erano tenacemente ancorate al supporto/intonaco) con alcool polivi-nilico, piccole stuccature con calce idraulica, con aggiunta di polvere di marmo bianco botticino e sabbia di tonalità gialla del Ticino; integrazione pittorica ad acquerello a rigatino (le integrazioni sono risultate minime).Sono seguite quindi le operazioni di consolida-mento con cordolature perimetrali passanti (chia-vi di taglio) a livello del piano di appoggio dei setti murari longitudinali e trasversale di facciata; inizialmente tali lavorazioni hanno interessato il lato sud e interno ovest, per poi estendersi a tutto il complesso (Fig. 8).Una volta terminato anche lo scavo archeologico all’interno dell’edificio, si è provveduto a risanare con vespaio la superficie pavimentale e al rimon-taggio delle lastre di pietra. Oggi l’oratorio di S. Enrico (Fig. 9), la cui cura spetta per lunga tradizione agli abitanti del luo-go14, è riaperto al culto.

08. Particolare dell’armatura del cordolo lungo il lato sud, in corrispondenza dell’abside

Manuela Catarsi, Cristina Anghinetti, Patrizia Raggio, Giovanni Signani, Barbara Zilocchi

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U. Raffaelli (a cura di), Oltre la porta. Serrature, chiavi e forzieri dalla preistoria all’età moderna nelle Alpi orientali, Trento 1996.

C. Ravanelli Guidotti (a cura di), Musei Civici di Imola. Le Ceramiche, Imola (BO), s.d.

Vivere il Medioevo. Parma al tempo della Cattedrale, Catalo-go della Mostra, Parma 7 ottobre 2006 – 14 gennaio 2007, Parma 2006.

M. ZANZUCCHI CASTELLI, La Tabula Alimentaria di Veleia. Nuovi contributi di ricerca, Parma 2008.

Bibliografia

09. L’Oratorio di Calcaiola oggi dopo i restauri

Il consolidamento degli apparati architettonici e decorativi, Atti del Convegno di Studi di Bressanone, Padova 2007.

Le pietre nell’architettura:struttura e superfici, Atti del Con-vegno di Studi di Bressanone, Padova 1991.

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E. Nasalli Rocca, Le giurisdizioni territoriali delle Pievi pia-centine secondo gli studi di A. Wolf, in “ASPP “, 1930.

Pavimentazioni storiche, Atti del Convegno di Studi di Bres-sanone, Padova 2006.

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161 161 Note

1 E. Nasalli Rocca, Le giurisdizioni territoriali delle Pievi piacentine secondo gli studi di A. Wolf, in “ASPP”, 1930, pp. 117-139.

2 Schegge di selce alpina e la penna di un’accettina in pietra verde levigata (fig. 1.1) provengono da un livello superfi-ciale contenenti resti di sepolture sconvolte (US 16).

3 M. Zanzucchi Castelli, Parma 2008, p. 186.4 “Ignorasi da chi, quando e come sia stato fondato” recita

infatti la visita del Vescovo mons. Cerati del 1784 (Ar-chivio Vescovile di Piacenza, visite parrocchiali Cerati). La sua attestazione più antica è in un documento del 23 febbraio 1449 concernente un’immissione in possesso di un Arciprete della Pieve di S. Maria di Gusaliggio), dov’è definito “di antica, ma sufficiente struttura”.

5 Quelle riportate d’ora in avanti sono le misure interne di lunghezza e larghezza dell’edificio.

6 Nel campo a ovest della chiesa affiorano pietrami e la-terizi di epoca romana. Frammenti di mattoni di età romana sono stati recuperati anche nello strato di pre-parazione, costituito da macerie, del sagrato (US 94) e nel già citato US 16, dove sono associati a ceramica a vernice nera e a ceramica a pareti sottili grigie decorate a strigilature (Fig. 1.2), databili nell’ambito della prima età imperiale. Al IV-V sec. d.C. si può invece datare una chiave in ferro a scorrimento (Fig. 1.3) [U. Raffael-li (a cura di), Trento 1996, p. 106, Fig. 41].

7 D/ + iohanes·r [· ?] Nel campo, entro contorno, co-rona. Contorno esterno. R/ + ·p·a·r·m·a Nel campo, entro contorno, croce patente. Contorno esterno. Per i confronti si veda M. Bazzini, scheda n. 199, p. 269, in Vivere il Medioevo, Parma 7 ottobre 2006 – 14 gennaio 2007, Parma 2006.

8 Vedi ad esempio C. Ravanelli Guidotti (a cura di), pp. 178-179.

9 29 agosto 1576: il Vescovo Castelli relaziona che l’ora-torio di S. Quirico appartiene alla Parrocchia di S. Gia-como di Branzone e S. Siro, che fanno riferimento alla Pieve di Gusaliggio. Il suo reddito ammonta a tre staia

di frumento e uno di spelta e vi si celebra la messa una volta sola all’anno in occasione della festa del Santo ti-tolare il 15 luglio. Il Vescovo evidenzia inoltre le cattive condizioni delle pareti dell’edificio (“parietes incrustati noviter indigente restauratione et dealbatione”) e poiché le porte non sono dotate di chiavistelli di ferro ordina che si provveda. Si parla inoltre di un altare “lapideum cum mensa ex lapidibus et calce” (Archivio Vescovile di Piacenza, visite parrocchiali Castelli).

10 La relazione stesa dal Vescovo Rangoni in visita all’oratorio ritorna sul problema della necessità di un restauro e non fa cenno all’affresco, ma manifesta la necessità che vengano imbiancate le pareti e dipinta l’immagine del santo titolare sopra l’ingresso principale. La Chiesa aveva infatti due ac-cessi: il minore, sul lato nord, fu tamponato quando venne eseguita la parete interna per l’appoggio della volta a botte crollata. Si notano ancora i gradini di accesso. (Archivio Vescovile di Piacenza, visite parrocchiali Rangoni).

11 Il Vescovo Zandemaria, in visita il 25 maggio 1739, constata che l’oratorio è “quasi distructum” e senten-zia che quasi tutto è da rifare: il pavimento, il soffitto, la porta, l’altare. I cancelli sono inadeguati e le pareti risultano ancora da intonacare e ridipingere (Archivio Vescovile di Piacenza, visite parrocchiali Zandemaria).

12 Archivio Vescovile di Piacenza, Visite Parrocchiali Cerati.13 Archivio Vescovile di Piacenza, Visite Parrocchiali Lo-

schi 1827.14 In occasione della ricostruzione del 1827 dalla Curia

Piacentina venne confermato che l’onere di manuten-zione generale non toccava alla chiesa ma ai titolari del giuspatronato Giuseppe Conti, Don Antonio Granel-li, Giovanni Madoni e Antonio Fratta, tutti abitanti a Calcaiola. Le stesse famiglie compaiono titolari del giu-spatronato il 23 luglio 1856 in occasione della visita del Vescovo Mons. Ranza (Archivio Vescovile di Piacenza, Visite Parrocchiali Ranza 1856) e il 7 luglio 1879 per quella di Mons. Scalabrini (Archivio Vescovile di Pia-cenza, Visite Parrocchiali Scalabrini 1879).

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storia del ritrovaMento

N el 1989, durante lavori di manu-tenzione ordinaria nel giardino di Piazza Ferrari, a Rimini, nello scavo per la rimozione della cep-paia di un albero abbattuto, ven-

nero casualmente intercettati i resti dell’edificio resi-denziale di epoca romana imperiale oggi noto come domus del chirurgo. Lo scavo archeologico, condot-to dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna sotto la direzione, prima, del dott. Jacopo Ortalli, allora funzionario della Soprin-tendenza per i Beni Archeologici, e successivamente dalla scrivente, in qualità di ispettore archeologo di zona per la stessa Soprintendenza, ha messo in luce parte di un’abitazione costruita in epoca romana re-pubblicana, poi modificata nel corso del II sec. d.C. con la creazione di un appartamento separato, loca-lizzato su un lato di un cortile a peristilio. La domus repubblicana doveva avere la facciata sul secondo decumano est della città, e si sviluppava fra questo e la zona in cui allora passava il fiume Marecchia, con una costa a strapiombo che chiudeva la città dalla parte del mare. Presentava, nei pochi sondaggi che si sono potuti aprire, pavimenti in cocciopesto de-corato e un ampio cortile a peristilio chiuso verso il mare da un portico a colonnato doppio entro il quale venne ricavato, nel II secolo d. C., il piccolo appartamento. Questo nuovo settore presentava pa-reti dipinte, motivi stilizzati derivati dal cd. III stile, con inserimento di piccoli paesaggi e di nature mor-te. Era servito da un ingresso secondario sul cardo e da un corridoio parallelo al cortile che collegava

una serie di ambienti dotati di pavimenti in mosai-co geometrico bianconero, e di uno policromo, con la raffigurazione del cantore Orfeo fra gli animali, nonché un ambiente dotato di riscaldamento e una piccola latrina. Era presente anche un secondo pia-no, anch’esso con pavimenti in mosaico i cui resti sono stati rinvenuti in crollo sui pavimenti sotto-stanti. Particolarmente interessante è la tecnica edi-lizia delle murature che presentano la parte inferiore in mattoni e quella superiore in argilla pressata.Il piccolo appartamento fu utilizzato nel III secolo da un medico-chirurgo, presumibilmente di estra-zione militare e forse proveniente dai confini orien-tali dell’Impero, che vi impiantò uno studiolo con annesso ambulatorio, dotato di una imponente attrezzatura medica sistemata in vario modo entro armadi, contenitori diversi o direttamente sul pavi-mento. Sempre durante il III secolo, probabilmen-te durante una incursione barbarica, il complesso fu distrutto da un incendio che, causando il crollo dei soffitti, ha conservato in posto tutti i materiali, dai mobili ai materiali d’uso. I reperti della domus comprendono una straor-dinaria dotazione medica che costituisce uno dei più importanti complessi mai rinvenuti nel mon-do romano, composta, oltre che da più di 150 strumenti chirurgici, da mortai, bilance e conte-nitori per la preparazione e la conservazione dei farmaci. Tutti questi oggetti erano localizzati en-tro la camera di Orfeo, presumibilmente lo studio del chirurgo, e nell’ambiente annesso, da identi-ficarsi come l’ambulatorio. Gli scavi hanno anche recuperato, sia in posto che dal crollo, vasellame da cucina e da mensa, un grande bacile marmo-reo, un frammento marmoreo restituente la base con il nome e il piede di una statua del filosofo Ermarco che ornava il portico. È stato inoltre rin-

Il ComPlESSo ARChEologICo DI PIAzzA FERRARI A RImInI SItUAzIonE AttUAlE E IPotESI DI REStAURo

Maria Grazia Maioli, Mauro Ricci, Monica Zanardi, Cetty Muscolino, Claudia Tedeschi

01. Rimini, Piazza Ferrari: veduta generale della Domus del Chirurgo in fase di scavo

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164 164 Il complesso archeologico di Piazza Ferrari a Rimini Situazione attuale e ipotesi di restauro

02. Rimini, Piazza Ferrari: planimetria dell’area archeologica (disegno C. Negrelli)

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165 165 Maria Grazia Maioli, Mauro Ricci, Monica Zanardi, Cetty Muscolino, Claudia Tedeschi

venuto, e ricomposto dai frammenti, un raffinato quadretto in pasta vitrea di produzione orientale (pinax) che riproduce un fondale marino con tre pesci dai vivaci colori, che doveva ornare la parete di uno degli ambienti. Fondamentale per la data-zione dell’evento bellico che causò la distruzione del complesso è il rinvenimento di un gruzzolo di un’ottantina di monete per le spese quotidiane, che ne fissa la data entro il 260 d.C., nonché di punte di lancia e giavellotto abbandonate sui pa-vimenti durante i rovinosi scontri che dovettero precedere l’incendio con la conseguente distru-zione della domus e l’abbandono dell’area. Sopra i resti della domus venne poi costruito un edificio palaziale di epoca tardoimperiale, da-tabile attorno alla metà del V sec. d.C., dotato di un’aula absidata, impianto di riscaldamento e ambienti con mosaici policromi. Nella zona venne successivamente ubicata una necropoli (con tombe a cassa e alla cappuccina) e infine un’abitazione medioevale in legno, dotata di un grande focolare, che presenta varie fasi. L’area presentava anche occupazioni di epoca malate-stiana e successiva, con preziosi rinvenimenti di maioliche e di oggetti d’uso. Data l’importanza del rinvenimento e delle strut-ture, si decise, congiuntamente al Comune di Ri-mini, di conservare mosaici e murature in posto e di musealizzare l’area mediante un contenitore progettato ad hoc. Il progetto per la costruzione del suddetto contenitore ha avuto vari impedimenti ed è stato completato solo nel 2007 con la realizzazio-ne della teca che copre attualmente il complesso; in attesa le strutture sono state protette ma lo scorrere del tempo ha portato necessariamente a problemi di conservazione e di manutenzione; la costruzione della teca ha allargato lo scavo, mettendo in luce

altre strutture e mosaici che non erano incorporati nel primo progetto e che sono stati conservati in vista mediante piani di percorrenza in vetro, illu-minazione e spazi ad hoc; la loro musealizzazione tuttavia, al momento, non è da considerarsi soddi-sfacente, dato che deve essere ancora dotata degli impianti presenti nella restante area.

Maria Grazia Maioli

Dallo scavo alla musealizzazione

Dal punto di vista della conservazione, il conte-sto archeologico di Piazza Ferrari è risultato molto complesso da gestire, dal momento che conserva un’ampia gamma di materiali eterogenei, quali strutture di laterizi e argilla pressata, materiale lapi-deo, intonaci dipinti e pavimenti musivi composti da malte che nel corso dei secoli hanno reagito e continuano a reagire in modo disomogeneo alle aggressioni operate, nel tempo, dal clima e dall’uo-mo. Bisogna tenere sempre presente che nel mo-mento in cui le strutture e i reperti archeologici vengono portati alla luce, i loro processi di degrado

03. Rimini, Piazza Ferrari: serie di mortai al momento del ritrovamento

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subiscono un’accelerazione perché dal punto di vi-sta microclimatico la stabilità che si è venuta a cre-are nel sottosuolo è compromessa da nuovi fattori chimici e fisici. Per questo il protrarsi negli anni delle campagne di scavo è stato un’ulteriore aggra-vante, anche se, contemporaneamente alla messa in luce, si sono effettuate operazioni di pronto intervento (pulitura, consolidamento e stuccatu-ra) mirate esclusivamente alla conservazione e alla messa in sicurezza dell’intero sito e con periodiche applicazioni di biocida, si è affrontato il problema del biodeterioramento (presenza di alghe, e pian-te infestanti) che poteva creare seri problemi di conservazione alle strutture archeologiche e agli apparati decorativi, sia dal punto di vista estetico che strutturale. Una volta terminati gli scavi, e in attesa della musealizzazione definitiva, è stata posta direttamente sulle strutture archeologiche, verticali ed orizzontali, una protezione con geo-tessile, ag-giungendo poi sui mosaici pavimentali uno strato di argilla espansa.

A questi lavori è seguita una sospensione di alcuni anni durante i quali sono state portate avanti le diverse fasi progettuali del contenitore museo e la sua realizzazione.La struttura che è stata costruita è un ambiente climatizzato costituito da leggere strutture metal-liche ed ampie vetrate nel quale è stato creato un percorso perimetrale di visita interno raccordato a passerelle sospese sui ruderi, prive di appoggi sulle superfici di scavo e allineate secondo gli stessi assi costruttivi delle murature antiche. In questo caso la valorizzazione del patrimonio archeologico in situ è garantita da una piena e diretta fruizione da parte della comunità. Nel 2007, dopo l’edificazione della grande teca-contenitore, si è proceduto alla rimozione delle protezioni, operazione non facile perché le pian-te infestanti avevano proliferato su tutta l’area archeologica, attecchendo diffusamente in su-perficie e infiltrando le radici anche attraverso il geo-tessile. Questa crescita biologica ha attec-

04. Rimini, Museo della Città, Sezione Archeologica: Serie di strumenti chirurgici in ferro e bronzo con resti del loro conte-nitore

05. Rimini, Museo della Città, sezione Archeologica: Pinax in pasta vitrea

Il complesso archeologico di Piazza Ferrari a Rimini Situazione attuale e ipotesi di restauro

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chito anche sotto il tessellato dei pavimenti mu-sivi contribuendo alla decoesione delle malte di allettamento e provocando, in molti casi, il sol-levamento o la perdita di tessere. In questa fase i lavori si sono concentrati sulla pulitura dell’in-tera area, mettendo in evidenza la stratigrafia: ogni situazione è stata mantenuta nell’originaria giacitura, così come ritrovata al momento dello scavo. Tutti gli elementi conservati nel sito sono stati trattati con biocidi e messi in sicurezza attraver-so stuccature e infiltrazioni localizzate di conso-lidante. Nei pavimenti musivi, oltre alle sopraci-tate operazioni, sono stati ripristinati i cordoli di contenimento per impedire la perdita di tessere nei bordi perimetrali e nelle lacune; sono state anche inserite delle puntellature mediante mar-tinetti e muretti in laterizio per conferire stabilità strutturale nei punti in cui i bordi si presentano a sbalzo. In situ sono state mantenute anche le sepolture presenti nell’area palaziale tardo antica e la scelta museale ha optato per la chiara lettura della loro funzionalità: le ossa degli inumati sono state ri-pulite e mantenute al loro interno, gli elementi in laterizio della tomba alla cappuccina sono stati incollati e ricollocati.La musealizzazione della domus del chirurgo ha riguardato non solo il sito archeologico, ma anche tutti gli oggetti rinvenuti in esso -ora esposti nel-la Sezione Archeologica del Museo della Città di Rimini, adiacente all’area archeologica- che sono stati oggetto di minuziosi restauri eseguiti nel La-boratorio di Restauro della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna.Le alterazioni più comuni riscontrate nei reperti rinvenuti nella domus sono quelle causate dall’in-

cendio avvenuto al momento dell’abbandono del-la casa e da incrostazioni e depositi di varia natura causate dalla lunga giacitura nel terreno; ognuna di queste alterazioni ha interagito con la struttura materica e con il naturale degrado propri di ogni tipologia di materiale.I reperti in bronzo sono quelli che maggiormente hanno risentito dell’effetto dell’incendio: il calore ha favorito la fusione e l’unione tra loro di diversi strumenti chirurgici che si presentavano partico-larmente fragili e quasi totalmente mineralizzati e attaccati da corrosione ciclica. Per loro è stato necessario alternare la pulitura di tipo meccanico con bagni in acqua distillata che favorissero l’eli-minazione dei sali solubili dei prodotti di corro-sione, eseguendo di volta in volta i test per la loro misurazione. In seguito si è proceduto al tratta-mento di stabilizzazione, consolidamento, incol-laggio dei frammenti, integrazione delle lacune e protezione finale.Anche i reperti in ferro si presentavano molto al-terati nella forma e nelle dimensioni originarie, e quindi di non facile lettura. Oltre allo strato di incrostazioni terrose frammiste ai prodotti di cor-rosione, quali ossidi ed idrossidi di ferro, erano presenti rigonfiamenti e fessurazioni che ne de-terminavano la fragilità e ne pregiudicavano la conservazione. All’operazione di pulitura, esegui-ta meccanicamente, sono seguite le operazioni di stabilizzazione del ferro, consolidamento, incol-laggio dei frammenti, integrazione delle lacune e infine di protezione.Le alterazioni più comuni riscontrate nelle ce-ramiche recuperate durante le varie campagne di scavo sono le fratture, spesso accompagnate da lacune, deformazioni e annerimenti. Sul ma-teriale ceramico, dopo un’accurata pulitura ese-

Maria Grazia Maioli, Mauro Ricci, Monica Zanardi, Cetty Muscolino, Claudia Tedeschi

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guita meccanicamente, si sono susseguite le fasi di lavaggio (in acqua distillata con tensioattivi), essiccamento, consolidamento e incollaggio dei frammenti. L’integrazione delle lacune (formale e pittorica) si è resa necessaria non solo per confe-rire stabilità all’oggetto ma per consentirne una chiara lettura stilistica. I vetri rinvenuti si presentavano deformati e fusi per effetto del calore: questa condizione ha aggra-vato notevolmente la loro conservazione dal mo-mento che il vetro antico è un materiale instabile

anche in condizioni ambientali ottimali. L’inter-vento di pulitura è stato eseguito meccanicamente e dove possibile si sono effettuati lavaggi in acqua distillata. A questa delicata operazione sono seguiti il consolidamento e l’incollaggio dei frammenti.I reperti lapidei si presentavano molto fram-mentati e ricoperti da concrezioni calcaree sep-pure in buono stato di conservazione dal punto di vista materico. Il restauro di questi oggetti si è concentrato principalmente sulla difficile rimozione della concrezioni calcaree, pulitura

06. Rimini, Piazza Ferrari: Domus del Chirurgo, veduta della stanza dell’Orfeo

Il complesso archeologico di Piazza Ferrari a Rimini Situazione attuale e ipotesi di restauro

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eseguita sia meccanicamente che chimicamen-te. Prima di essere incollati, i frammenti sono stati protetti con un primer applicato sulle su-perfici di frattura. Le integrazioni delle lacune sono state eseguite a livello rispetto alle super-fici originali con l’applicazione di una malta molto tonalizzante. Preme sottolineare che se l’area archeologica di Piazza Ferrari, ora inglobata nel suo contenitore-museo, ha riacquistato la propria leggibilità ed è ammirabile in tutta la sua bellezza, dal punto di vista conservativo il lavoro è appena iniziato. No-nostante la presenza di impianti di climatizzazio-ne e deumidificazione, il nuovo assetto ha causato modifiche al microclima e il primo problema da af-frontare è proprio la sua stabilizzazione. Altro mo-tivo da non sottovalutare è che tutti gli interventi conservativi sulle strutture e sui pavimenti musivi che si sono succeduti negli anni, e che hanno per-messo la loro conservazione fino ad oggi, sono stati effettuati da mani diverse, con l’utilizzo di svariati

prodotti e in assenza di un progetto unitario per-ché sempre eseguiti nell’ottica dell’emergenza. La recente musealizzazione offre ora l’occasione per poter realizzare una revisione generale del sito e individuare e programmare, mediante un progetto unitario, gli interventi finalizzati ad un corretto restauro filologico e alla redazione di un piano di manutenzione.

Mauro Ricci, Monica Zanardi

il restauro dei Mosaici: ProPoste e Punti di vi-sta dalla scuola Per il restauro del Mosaico di ravenna

Nell’agosto del 2008, nell’ambito delle attività di collaborazione con la Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna, la Scuola per il Restauro del Mosaico di Ravenna ha svolto una campagna di studio e pronto intervento sui pavimenti musivi dell’area archeologica finalizzata all’analisi del loro stato di conservazione. La valutazione delle morfologie di degrado si è estesa su tutta la superficie musiva ma, a causa della brevità dell’intervento dettata da ragioni di-dattiche, si è deciso di intervenire in maniera ge-nerale su tutti i mosaici e approfonditamente solo nelle aree a rischio di perdita. L’obiettivo era co-munque quello di comprendere l’area, studiarne le caratteristiche e porle in relazione con i mosaici e i loro deterioramenti.Nonostante le numerose cure di cui sono sem-pre stati oggetto, i mosaici soffrono di alcune patologie croniche, quali il distacco del tessel-lato musivo dagli strati sottofondali delle malte di allettamento e la crescita biologica di alghe ed erbe infestanti su alcuni strati e strutture ar-cheologiche.

07. Rimini, Piazza Ferrari: allievi della Scuola per il Restauro del Mosaico di Ravenna

Maria Grazia Maioli, Mauro Ricci, Monica Zanardi, Cetty Muscolino, Claudia Tedeschi

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08. Rimini, Piazza Ferrari: rilievo metrico

Le moderne tecniche di restauro e conservazione hanno permesso di mantenere questi straordinari manufatti nel loro sito originario attraverso mira-ti e minimi interventi, senza dover operare forti decontestualizzazioni, come strappi dei mosaici e trasferimenti in altri luoghi espositivi, come acca-deva in passato. Dal luglio 2008 i mosaici sono stati interessati da una serie di studi ed interventi, quali rilievi metri-

ci ed iconografici, studi delle antiche tecniche di costruzione, osservazioni macroscopiche dei ma-teriali unitamente a operazioni di pulitura fisica e consolidamento di tutti gli elementi mobili e a rischio di perdita. È stato rivolto un particolare interesse anche all’aspetto di fruizione estetica dei preziosi tappe-ti, oggi disturbata da una serie di elementi come ad esempio i cordoli di contenimento delle lacune

Il complesso archeologico di Piazza Ferrari a Rimini Situazione attuale e ipotesi di restauro

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e dei bordi perimetrali che, se prima della muse-alizzazione hanno rappresentato una salvaguardia temporanea dei mosaici, ora devono essere rimossi e sostituiti da interventi che valorizzino maggior-mente le opere. Di fatto, il restauro, a maggior ragione in casi di aree archeologiche conservate in sito, ha il compito di risolvere positivamente e aiutare la comprensione di alcuni aspetti che da un punto di vista storico-archeologico potrebbero risultare poco chiari e difettivi per il godimento dell’area. Infatti, la mancanza di completezza del-le strutture murarie – caratteristica con la quale il sito ci si è consegnato – rappresenta, storicamente parlando, un’istanza negativa: con il restauro, al contrario, abbiamo la possibilità di rendere rever-sibile questo valore negativo, mediante la valoriz-zazione degli aspetti tecnici di costruzione degli antichi mosaici. È una possibilità che il sito stesso ci offre in questo caso: l’intervento da noi propo-sto oltre alle tradizionali tecniche di restauro vede dunque la rimozione dei vecchi bordi di conte-nimento ed il consolidamento di tutte le sezioni perimetrali dei mosaici attraverso la realizzazione di malte composte con stesse composizioni e gra-nulometrie delle antiche; intervento questo che potenzia l’esistente attraverso una operazione di educazione visiva per il fruitore che può cogliere durante la sua visita anche aspetti più insoliti.

Cetty Muscolino, Claudia Tedeschi

09. Rimini, Piazza Ferrari: cantiere scuola della Scuola per il Restauro del Mosaico di Ravenna, fissaggio delle tessere mobili

Maria Grazia Maioli, Mauro Ricci, Monica Zanardi, Cetty Muscolino, Claudia Tedeschi

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N ell’inverno del 2007, in occa-sione della costruzione di nuo-ve abitazioni in località Mara-no di Castenaso, all’immediata periferia di Bologna, sono state

rinvenute tracce di frequentazione antropica rife-ribili all’età del Ferro. Per meglio definire la realtà archeologica, si è organizzato un gruppo di lavo-ro costituito da Ispettori Onorari e volontari. Le nuove indagini hanno individuato, dapprima, un segnacolo tombale, quindi alcune fosse, pertinen-ti -come si è poi appurato con lo scavo archeolo-gico- a sepolture.Data la complessità dell’indagine archeologica, lo scavo è stato affidato dalla committenza alla ditta Fenice archeologia e restauro. Nel corso dello scavo, diretto dal soprintendente dott. Luigi Malnati e dalla dott.ssa Caterina Cor-nelio, della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna, sono state riportate in luce nove sepolture, tutte contrassegnate da segnacolo funerario, databili al VII e VI secolo a.C. Il ritrovamento più eclatante è la stele pertinente alla tomba 7, un rettangolo sormontato da un di-sco, con decorazioni a bassorilievo: la cosiddetta Stele delle Spade.La stele si presentava adagiata sul terreno, in po-sizione obliqua rispetto alla linea di terra, con il lato posteriore rivolto verso l’alto. Tutto intorno i ciottoli del tumulo che, insieme alla stele, erano sprofondati all’interno della cassa lignea conte-nente il corredo. (Fig. 1) Prima di rimuovere la stele dal terreno sono stati eseguiti alcuni saggi di pulitura sul lato anteriore, ancora appoggiato sull’argilla, poiché si supponeva potesse essere de-

corato. Questi hanno confermato la presenza di tracce di decorazione a bassorilievo.Allo scopo di minimizzare i possibili danni causati dalle manovre messe in atto durante il prelievo, la stele è stata asportata creando sul retro -non deco-rato- un supporto rigido realizzato con bende ges-sate, avendo cura di proteggere preventivamente la superficie con più strati di pellicola trasparente. Le operazioni di scavo sono state eseguite dagli ar-cheologi della ditta Fenice affiancati, per le opera-zioni di pronto intervento, dal personale tecnico del laboratorio di restauro della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna. La stele, che si presentava fratturata in tre parti, è un manufatto in arenaria, roccia sedimentaria che si forma per litificazione di originarie sabbie di natura sia marina che alluvionale. Si tratta di una roccia che, a fronte di una facile lavorabilità, pre-senta problemi connessi ai processi di degrado. Al momento della messa in luce, l’arenaria -che interrata aveva trovato per secoli un microclima nel quale si era stabilizzata- è venuta a contatto con valori di umidità e temperatura totalmente diversi. Il fatto poi che fosse impregnata d’acqua rendeva la pietra ancora più fragile. Per questo motivo, una volta prelevata dal cantiere e traspor-tata al laboratorio di restauro della Soprintenden-za, è stata fatta asciugare lentamente, evitando bruschi sbalzi di temperatura allo scopo di ridur-re al minimo i danni causati dall’evaporazione dell’umidità presente. La superficie era interessata da micro fessure e rigonfiamenti che, un’asciuga-tura veloce e la conseguente migrazione massiccia di sali, avrebbero potuto accentuare.Prima di avviare qualsiasi operazione di restauro, è stato redatto un progetto d’intervento che ha scandito modi e tempi, definendo con precisione

lA StElE DEllE SPADE:ASPEttI ConSERVAtIVI

Antonella Pomicetti

01. La Stele sullo scavo

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174 174 La Stele delle Spade: aspetti conservativi

il programma che si intendeva attuare. In questa fase del lavoro ci si è avvalsi della collaborazione di diverse professionalità quali archeologi, esperti in diagnostica dei beni culturali, restauratori, di-segnatori, fotografi, progettisti di strutture per la musealizzazione.I principi base che hanno regolato l’intervento conservativo sono la reversibilità dell’intervento, la durabilità e stabilità nel tempo dei prodotti usati, la compatibilità degli stessi col materiale costitutivo, la salvaguardia della possibilità di in-tervenire con ulteriori interventi conservativi (ri-trattabilità) e il principio del minimo intervento e minima invasività.Il progetto d’intervento ha posto l’accento sulle principali problematiche evidenziate dall’osserva-zione macroscopica della superficie, prendendo in esame e sviluppando i seguenti aspetti:-documentazione sulle fasi del rinvenimento e del prelievo;-relazione dell’archeologo;-documentazione fotografica particolareggiata dello stato di fatto pre restauro (presunte tracce di policromie, aree degradate, tracce di lavora-zione);-indagini diagnostiche preliminari su presunte tracce di policromie, caratterizzazione del mate-riale lapideo e cause del degrado;-prove in situ condotte su aree circoscritte ma rap-presentative del manufatto volte a individuare la corretta metodologia dell’intervento di restauro (pulitura, consolidamento ecc.) sulla base dei ri-sultati delle indagini eseguite; -intervento di restauro, con preconsolidamento localizzato delle zone decoese del materiale lapi-deo, pulitura della superficie, consolidamento, incollaggio dei frammenti e stuccature;

-progettazione e realizzazione di supporto per l’esposizione in sicurezza della stele;L’osservazione macroscopica della superficie ha consigliato di approfondire alcuni aspetti: 1) per definire meglio la metodologia dell’intervento di restauro 2) per dare risposte certe ai dubbi relativi, soprattutto, alla presunte tracce di policromia.

Stato di conServazione preliminare all’inter-vento di reStauro

La stele è decorata a bassorilievo su un solo lato; il retro si presenta disomogeneo a causa di sca-gliature del materiale lapideo che in alcuni casi hanno causato la perdita di porzioni della superfi-cie. In alcuni punti dello spessore della stele sono apprezzabili fessurazioni più o meno profonde lungo le linee di sedimentazione dell’arenaria. La superficie appariva, in entrambi i lati, ricoperta da uno strato di argilla – ben adeso al substrato – che in parte celava alcuni particolari del bassorilievo. (Fig. 2)Il manufatto, soprattutto nel lato decorato, era localmente interessato da vere e proprie incrosta-zioni di natura calcarea fortemente ancorate alla superficie; in altri punti appariva in buono stato di conservazione mentre in una porzione del di-sco la disgregazione granulare dell’arenaria aveva causato la perdita di alcuni elementi decorativi. In alcune zone del bassorilievo, l’arenaria si pre-sentava con una cromia che ha fatto supporre che la stele recasse tracce di colore. Risultano presenti infatti una diffusa colorazione gialla, anche nella sezione di rottura, una limitata cromia rossastra, soprattutto in corrispondenza di alcuni rilievi rappresentanti armi, e un materiale brunastro di diversa consistenza rilevabile in vari punti ma so-prattutto sui dischi solari. (Fig. 3)

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175 175 Antonella Pomicetti

Le analisi per identificare la presenza di residui di policromia sono state eseguite dal prof. Pietro Ba-raldi del Dipartimento di Chimica dell’Università di Modena e Reggio Emilia. Si riporta di seguito un estratto dalla sua relazione.«La superficie della stele presenta zone nelle quali appare una cromia differente dal fondo generale del lapideo, in particolare zone gialle,

rossastre e brune. Al microscopio appaiono de-terminate da una serie di frammenti minuscoli e granulari colorati rispettivamente in giallo, in rosso e in marrone. Per poter identificare la presenza di residui di policromia occorre proce-dere a identificare materiali pigmentari, leganti e componenti normali del materiale lapideo di supporto.

02. La Stele prima del restauro con l’individuazione dei punti di prelievo dei campioni

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176 176

Sono stati eseguiti alcuni microprelievi nei punti pre-cedentemente individuati a rappresentare la cromia evidente sulla pietra. (Fig. 2) I microprelievi sono stati numerati e portati al Dipartimento di Chimi-ca. Le polveri sono state depositate su una superficie piana e analizzate in microscopia Raman granulo per granulo per verificare statisticamente quali materiali fossero presenti. I materiali rinvenuti sono ossidi di

ferro (ematite, goethite e magnetite), quarzo, albite, anatasio (impurezze), carbone. Il quarzo appare co-lorato con gli ossidi di ferro. Non appaiono segni di stesure o strati di materiali colorati sopra la superficie del lapideo. Sono sparsi a gruppi in posizioni casuali granuli rossi o gialli. I granuli di carbone fanno pen-sare a un processo o di degrado di materiale organico presente ab antiquo sul lapideo o di prodotti di com-

03. Policromie presunte

La Stele delle Spade: aspetti conservativi

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bustione di materiale organico; la stessa presenza di magnetite in alcuni punti fa pensare a ossidi di ferro che hanno subito un riscaldamento a temperature superiori ai 500°C.Per una più precisa ricerca di policromia superstite è stato fatto riferimento alle indagini sul materiale lapideo costitutivo della stele (arenaria) per verifi-care quali fossero i componenti normalmente pre-senti in esso. Il prof. Stefano Lugli, che ha eseguito le analisi sull’arenaria, identifica nelle sezioni lucide gli stessi componenti identificati con la microsco-pia Raman sui presunti residui di policromia. L’identificazione di materiali insoliti, come ad esempio il cinabro, già impiegato in ambito etru-sco per le pitture tombali, sarebbe stata una prova decisiva della presenza di policromie, considerato che questo composto non è presente nella com-posizione dell’arenaria. Allo stato attuale delle indagini archeometriche non si hanno prove sufficienti per affermare che la stele fosse policroma».

Antonella Pomicetti

05. Particolare dopo la pulitura05. Particolare prima dell’intervento di pulitura

Le analisi mineralogico petrografiche sono state eseguite dal Prof. Stefano Lugli del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Modena e Reggio Emilia. Si riporta, di seguito, un estratto dalla sua relazione.«Il campione di roccia è stato consolidato attra-verso impregnazione sottovuoto in resina epossi-dica bicomponente (araldite). Dal campione consolidato è stata ricavata una sezione sottile per l’osservazione al microscopio ottico in luce trasmessa secondo metodologia standard.- Caratteristiche macroscopiche (secondo nor-mativa UNI EN 12407): Arenaria a grana fine poco cementata di colore grigio-giallastro. Sono presenti estese superfici macchiate da ossidi e/o idrossidi di ferro derivanti dall’alterazione natu-rale della roccia.- Caratteristiche al microscopio ottico (secondo nor-mativa UNI EN 12407): Arenaria a grana finissi-ma a cemento carbonatico. Componenti principali:

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178 178 La Stele delle Spade: aspetti conservativi

quarzo (sia cristalli singoli che granuli policristallini), frammenti di rocce carbonatiche microcristalline e spatiche, feldspati, biotite, muscovite, frammenti di gusci di foraminiferi, glauconia, noduli di ossidi e/o idrossidi di ferro, frammenti di selce.Il contenuto paleontologico è caratterizzato dal-la presenza di foraminiferi planctonici globigeri-niformi non identificabili (analisi effettuata dal dott. Cesare Andrea Papazzoni).La porosità della roccia è notevole.

Fenomeni di degrado

Le tipologie dei fenomeni di degrado indivi-duabili all’esame macroscopico e microscopico vengono di seguito descritte utilizzando le rac-comandazioni UNI 11182:2006 13/04/06 Beni culturali - Materiali lapidei naturali ed artificiali - Descrizione della forma di alterazione - Termini e definizioni. Il degrado è legato principalmente alla caratteri-stica di scarsa cementazione e di notevole porosità della roccia. L’effetto è quello di marcata disgrega-zione granulare.È presente anche il fenomeno della macchia legata all’ossidazione naturale di solfuri di ferro presenti in grande quantità nella roccia.

ConClusioni

Si tratta probabilmente di arenaria provenien-te dalle formazioni arenacee pleistoceniche a cementazione variabile tipiche del margine ap-penninico bolognese. Potrebbe trattarsi di are-naria appartenente alla formazione delle Sabbie di Imola (sabbie gialle Pleistocene Medio, circa 650.000-800.000 anni fa).Rocce arenacee di questo tipo venivano cavate nelle immediate vicinanze della città di Bologna appena

fuori Porta Castiglione (località Le Grotte), Santa Margherita al Colle e Barbiano.La marcata disgregazione granulare del litotipo è stata sicuramente accentuata dalla parziale dis-soluzione dello scarso cemento carbonatico per dilavamento da parte delle acque meteoriche e/o di falda. Il fenomeno della macchia doveva essere in gran parte presente nella lastra di roccia già al momento dell’estrazione in cava».

intervento di restauro

Le indagini erano necessarie al progetto di re-stauro ma insufficienti a definirlo. Servivano a elaborare un’ipotesi dell’intervento ma la verifica dell’efficacia di prodotti, tempi e modi non po-teva avvenire se non attraverso una serie di test pratici condotti su aree circoscritte ma rappresen-tative del manufatto.Sono state eseguite prove di pulitura e consoli-damento allo scopo di definire la metodologia dell’intervento che ha previsto le seguenti fasi.

06. Pulitura della superficie

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179 179 Antonella Pomicetti

- Preconsolidamento localizzato delle aree a forte decoesione o a rischio di caduta di materiale, ese-guito con silicato di etile.- Pulitura superficiale del fronte e del retro della stele: dato lo stato di conservazione e le prove di pulitura in situ, si è deciso di non intervenire con un lavaggio generalizzato della superficie. I depositi argillosi sono stati ammorbiditi con acqua demine-ralizzata e tensioattivo e asportati -ove il substrato lo consentiva- meccanicamente con bisturi a lama arrotondata, utilizzando, secondo necessità, o il mi-croscopio ingranditore o lampade dotate di lente. Leggera spolveratura con pennello a setole lunghe e morbide per rimuovere i residui della pulitura meccanica e lavaggi localizzati con acqua demine-ralizzata e tensioattivo, irrorando la soluzione con spruzzette e tamponando la superficie con com-presse di carta assorbente. Il tutto con la massima cautela data la fragilità dello strato superficiale. In alcuni casi, erano presenti durissime concre-zioni di natura calcarea che, dove il substrato in arenaria risultava coerente, sono state abbassate fino alla totale eliminazione; in altri punti si è deciso di conservarle per evitare che la forte ade-sione col substrato decoeso, causasse la perdita di superficie decorata.La pulitura ha messo in luce particolari fino al momento inediti dell’apparato decorativo, nuovi elementi che sono allo studio del soprintendente dott. Luigi Malnati, che ne curerà la pubblicazio-ne. (Figg. 4,5,6,7)- Consolidamento e incollaggio. A pulitura con-clusa, la stele è stata consolidata per immersione con silicato di etile e i tre elementi fratturati sono stati posti in connessione ed incollati con resina epossidica applicata sulle fratture precedentemen-te trattate con resina acrilica. La resina acrilica

07. Pulitura quasi conclusa

(Paraloid B72), reversibile in solvente, rende pos-sibile la reversibilità dell’incollaggio eseguito con resina epossidica. La scelta di non inserire perni di rinforzo è stata motivata, oltre che dall’esiguo spessore e dalla tipologia della roccia, dal rispetto del principio della minima invasività. (Fig. 8)Le stuccature, eseguite solo sul retro, in corri-spondenza della frattura al di sotto del disco, sono state realizzate con un impasto composto da polvere di arenaria, sabbia e resina acrilica in emulsione acquosa.

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180 180 La Stele delle Spade: aspetti conservativi

08. La Stele a restauro concluso (fronte)

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L’intervento è stato realizzato da personale interno al Laboratorio di Restauro della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia-Romagna. A tale proposito un ringraziamento ai colleghi Mauro Ricci e Micol Siboni per la collaborazione prestata in alcune fasi del lavoro e al soprinten-dente dott. Luigi Malnati per la fiducia e l’oppor-tunità che mi ha accordato.

09. Progetto di musealizzazione. BFA Architetti

Antonella Pomicetti

Progetto Per la Musealizzazione della stele La musealizzazione della stele è frutto della col-laborazione, ciascuno per le proprie competenze, tra chi scrive e i progettisti, BFA Bartolini Fiam-minghi Architetti.Il progetto espositivo è stato condizionato dal-la scelta di non utilizzare un sistema di perni per ricomporre i tre frammenti della stele. Per realizzare il supporto è stato individuato un si-stema di appoggio e uno di ancoraggio. Il pri-mo è stato ottenuto modellando il supporto sul profilo inferiore della stele, per garantire il sostegno verticale, mentre per il secondo sono state utilizzate staffe metalliche di ancoraggio che impedissero il ribaltamento anteriore e la-terale. Le staffe sono state protette nel punto di contatto con l’arenaria con materiale inerte (Etafoam).Per esaltare al massimo le qualità materiche e i rilievi di lavorazione della stele è stata scelta una luce a spot radente. La direzione dal basso ha con-sentito di aggiungere un effetto di sospensione al reperto. Per il supporto sono stati scelti i colori blu oltre-mare scuro, per la parte alta, e rosso di Marte, per il pannello inferiore. La quota superiore di quest’ultimo pannello ricostruisce il piano ipote-tico di sezione dell’originario suolo di posa della stele. (Fig. 9)Dall’8 maggio 2009, la stele è esposta al pubblico nel MUV, Museo della Civiltà Villanoviana, inau-gurato lo stesso giorno a Villanova di Castenaso, a poca distanza dal luogo del ritrovamento.Va sottolineato lo sforzo finanziario dell’ammini-strazione comunale di Castenaso che ha contri-buito a sostenere i costi di restauro della stele e realizzato la struttura museale che la ospita.

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183 183 Schede Tecniche

Francesca Boris, Manuela Mattioli

Il globo terrestre di Vincenzo Coronelli dell’Archivio di Stato di Bologna

Ministero per i Beni e le attività culturali

direzione regionale per i Beni culturali e paesaggistici dell’eMilia-roMagna

Archivio di Stato di BolognaPiazza De’ Celestini, 4 – 40123 - Bologna

DIRETTOREDott.sa Elisabetta Arioti

TEL. 051 223891FAX 051 220474E-MAIL [email protected] www.archiviodistatodibologna.it

riFeriMenti tecnici

BENE OGGETTO DELL’INTERVENTO Globo terrestre di Vincenzo Coronelli

PROPRIETA’ Statale

IMPORTO COMPLESSIVO DEI LAVORI€ 13.200,00

FINANZIATOREMinistero per i beni e le attività culturali

PROGETTISTADott.sa Francesca Boris

DIRETTORE DEI LAVORIDott. Gian Piero Cammarota

DIRETTORE OPERATIVOManuela MattioliIMPRESADitta Manuela Mattioli – Restauro opere d’arte - Bologna

antonietta Folchi

Un esempio di restauro: l’archivio notarile antico di Ferrara

Ministero per i Beni e le attività culturali

direzione regionale per i Beni culturali e paesaggistici dell’eMilia-roMagna

Archivio di Stato di FerraraCorso della Giovecca 146 – 44100 - Ferrara

DIRETTOREDott.sa Antonietta Folchi

TEL. 0532 206668 – 0532 208700FAX 0532 207858E-MAIL [email protected]

riFeriMenti tecnici

BENE OGGETTO DELL’INTERVENTO “Atti dei notai di Ferrara” (aa. 1465-1594)

PROPRIETA’Statale

IMPORTO COMPLESSIVO DEI LAVORI€ 10.938,39

FINANZIATOREMinistero per i beni e le attività culturali

PROGETTISTACecilia Prosperi

DIRETTORE DEI LAVORICecilia Prosperi

DIRETTORE OPERATIVO

IMPRESASalvarezza Restauro s.r.l., Roma

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184 184 Schede Tecniche

gianluca Braschi

Il restauro del Cabreo AB 265 “Terreni appartenti ai Pavolotti di Rimini”

Ministero per i Beni e le attività culturali

direzione regionale per i Beni culturali e paesaggistici dell’eMilia-roMagna

Archivio di Stato di RiminiPiazzetta San Bernardino 1 - 47900 Rimini

DIRETTOREDott. Gianluca Braschi

TEL. 0541 784474FAX 0541 784474E-MAIL [email protected] www.archiviodistato.rimini.it

riFeriMenti tecnici

BENE OGGETTO DELL’INTERVENTO Cabreo AB 265

PROPRIETA’Statale

IMPORTO COMPLESSIVO DEI LAVORI€ 400,00

FINANZIATORETina & Mary, Hotel Memory

PROGETTISTARiccardo Bolognesi

DIRETTORE DEI LAVORIDott. Gianluca Braschi

DIRETTORE OPERATIVODott. Gianluca Braschi

IMPRESACooperativa Sociale Cento Fiori Onlus

andrea de pasquale

La raccolta di carte nautiche della Biblioteca Palatinasilvana gorreri

Le carte nautiche della Biblioteca Palatina di Parma: un piano strategico di restauro

Ministero per i Beni e le attività culturali

direzione regionale per i Beni culturali e paesaggistici dell’eMilia-roMagna

Biblioteca Palatina - ParmaStrada alla Pilotta 1 – 43100 - Parma

DIRETTOREAndrea De Pasquale

TEL. 0521 220411FAX 0521 235662E-MAIL [email protected] www.bibliotecapalatina.beniculturali.it

riFeriMenti tecnici

BENE OGGETTO DELL’INTERVENTO Carte e Atlanti nautici (Ms. pal. 0; Mss. parm. 1613, 1615-1624)

PROPRIETA’Statale

IMPORTO COMPLESSIVO DEI LAVORI€ 73.576,00 IVA inclusa

FINANZIATORIMinistero per i beni e le attività culturali; Società Value Retail Management (Fidenza Village) s.r.l.; Banca Popolare dell’Emilia-Romagna

PROGETTISTEDott.sa Silvia Scipioni e dott.sa Silvana Gorrieri

DIRETTORE DEI LAVORIDott.sa Silvana Gorrieri

DIRETTORE OPERATIVOProf. Paolo Crisostomi

IMPRESAStudio Paolo Crisostomi s.r.l., via Clementina 6, 00100 Roma

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185 185 Schede Tecniche

corrado azzollini, luciano serchia

Inediti dal restauro: paesaggi dipinti nel Palazzo del Giardino di Parma

Ministero per i Beni e le attività culturali

direzione regionale per i Beni culturali e paesaggistici dell’eMilia-roMagna

Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici per le province di Parma e PiacenzaPiazza Bodoni 6 – 43100 - Parma

SOPRINTENDENTE Arch. Luciano Serchia

TEL. 0521 212311FAX 0521 212390E-MAIL [email protected]

riFeriMenti tecnici

BENE OGGETTO DELL’INTERVENTO Palazzo Ducale del Giardino

PROPRIETA’Comunale

IMPORTO COMPLESSIVO DEI LAVORI€ 750.000,00

FINANZIATOREMinistero per i beni e le attività culturali

PROGETTISTAArch. Luciano Serchia

DIRETTORE DEI LAVORIArch. Luciano Serchia

IMPRESAFelsina Restauri srl

graziella polidori

Il duomo di Modena “capolavoro del genio creatore umano”. Il restauro del paramento lapideo

Ministero per i Beni e le attività culturali

direzione regionale per i Beni culturali e paesaggistici dell’eMilia-roMagna

Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici per le province di Bologna, Modena e Reggio EmiliaVia IV Novembre n° 5 – 40123 - Bologna

SOPRINTENDENTE Arch. Paola Grifoni

TEL. 051 64513114 FAX 051 264248E-MAIL [email protected]

riFeriMenti tecnici

BENE OGGETTO DELL’INTERVENTODuomo di Modena

PROPRIETA’Capitolo Metropolitano

IMPORTO DEI LAVORI

€ 150.000,00 + 150.000,00 (MiBAC) - € 1.075.000,00 (Capitolo Metropolitano)

FINANZIATOREMinistero per i beni e le attività culturali; Capitolo Metropolitano

PROGETTISTAArch. Graziella Polidori, ing. Mario Silvestri

DIRETTORE DEI LAVORIArch. Graziella Polidori. ing. Mario Silvestri

DIRETTORE OPERATIVOGeom. Vincenzo Vutera

IMPRESACandini Arte s.r.l. – Castelfranco Emilia (MO)

Page 188: RestauRi in emilia-Romagna

186 186 Schede Tecniche

antonella ranaldi

Restauri della chiesa del SS. Salvatore a Bologna

Ministero per i Beni e le attività culturali

direzione regionale per i Beni culturali e paesaggistici dell’eMilia-roMagna

Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici per le province di Bologna, Modena e Reggio EmiliaVia IV Novembre n. 5 – 40123 - Bologna

SOPRINTENDENTE: Arch. Paola Grifoni

TEL. 051 6451311FAX 051 264248 E-MAIL [email protected]

riFeriMenti tecnici

BENE OGGETTO DELL’INTERVENTOChiesa del SS. Salvatore a Bologna

PROPRIETA’Demanio dello Stato

IMPORTO COMPLESSIVO DEI LAVORI€ 103.290,00 per i lavori condotti nel 2007-08 (in continuità con i precedenti cinque lotti di intervento di importo ciascuno di € 206.580,00)

FINANZIATOREMinistero per i beni e le attività culturali

PROGETTISTAArch. Antonella Ranaldi e arch. Francesco Eleuteri

DIRETTORE DEI LAVORIArch. Antonella Ranaldi

DIRETTORE OPERATIVOGeom. Umberto Frassinella

IMPRESAStudio Biavati di Bologna

andrea capelli

Il palazzo ex Enpas a Bologna. Lavori di restauro delle superfici esterne Ministero per i Beni e le attività culturali

direzione regionale per i Beni culturali e paesaggistici dell’eMilia-roMagna

Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici per le province di Bologna, Modena e Reggio EmiliaVia IV Novembre, 5 – 40123 - Bologna

SOPRINTENDENTE Arch. Paola Grifoni TEL. 051-6451311FAX 051 264248E-MAIL [email protected]

riFeriMenti tecnici

BENE OGGETTO DELL’INTERVENTO Palazzo ex ENPAS ora INPDAP

PROPRIETA’INPDAP

IMPORTO COMPLESSIVO DEI LAVORI : € 150.000,00 (in tre stralci € 50.000,00 ciascuno)

FINANZIATORE Ministero per i beni e le attività culturali

PROGETTISTAArch. Andrea Capelli

DIRETTORE DEI LAVORI Arch. Andrea Capelli

DIRETTORE OPERATIVOGeom. Dario Biondi

IMPRESAMarmiroli srl di Bagnolo in Piano (Reggio Emilia)

Page 189: RestauRi in emilia-Romagna

187 187 Schede Tecniche

Gianfranca rainone

Gli altari delle chiese di S. Giuliano a Bologna e di S. Domenico a Budrio

ministero per i beni e le attività culturali

direzione reGionale per i beni culturali e paesaGGistici dell’emilia-romaGna

Soprintendenza per i beni storici, artistici ed etnoantropologici per le province di Bologna, Ferrara, Forlì-Cesena, Ravenna e RiminiVia delle Belle Arti 56 – 40126 - Bologna

SOPRINTENDENTEDott. Luigi Ficacci

TEL. 051 42 09 411 FAX 051 25 13 68 E-MAIL: [email protected]: www.pinacotecabologna.it

riferimenti tecnici

BENE OGGETTO DELL’INTERVENTOAltari in cotto e stucco della chiesa di S. Domenico a Budrio (BO)

PROPRIETA’Azienda pubblica di servizi alla persona –“Donini-Damiani”, Via Marconi, 6 Budrio

IMPORTO COMPLESSIVO DEI LAVORI€ 50.000,00

FINANZIATOREMinistero per i beni e le attività culturali

PROGETTISTA Arch. Gianfranca Rainone

DIRETTORE DEI LAVORIArch. Gianfranca Rainone

IMPRESARoberta Baruffaldi, Via Pirani, 11, Casumaro di Cento (Ferrara)

antonella ranaldi I chiostri di S. Pietro a Reggio Emilia. Note sui restauri

ministero per i beni e le attività culturali

direzione reGionale per i beni culturali e paesaGGistici dell’emilia-romaGna

Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici per le Province di Bologna, Modena e Reggio EmiliaVia IV Novembre n. 5 – 40123 - Bologna

SOPRINTENDENTE:Arch. Paola Grifoni

TEL. 051 6451311FAX 051 264248 E-MAIL [email protected]

riferimenti tecnici

BENE OGGETTO DELL’INTERVENTOEx monastero dei SS. Pietro e Prospero a Reggio Emilia, denominato Chiostri di San Pietro

PROPRIETA’Comunale

IMPORTO COMPLESSIVO DEI LAVORI€ 4.422.018,88 di cui € 1.185.000,00 per i lavori di restauro degli apparati decorativi e intonaci antichi (OS2); € 3.237.018,88 per i lavori edili e impiantistici (OG2 e OG11)

FINANZIATOREMinistero per i beni e le attività culturali

PROGETTISTI Architetti Francesco Eleuteri, Maria Luisa Mutschlechner, Antonella Ranaldi, Paola Zigarella, con la consulenza dell’arch. Pier Luigi Cervellati

DIRETTORE DEI LAVORIArch. Antonella Ranaldi e ing. Domenico Rivalta

DIRETTORI OPERATIVIGeom. Dario Biondi e Geom. Antonio Noto

IMPRESE“Cooperativa Archeologia” di Firenze per i lavori di categoria OS2; “Consorzio Consta” di Padova per i lavori di categoria OG2 e OG11

Page 190: RestauRi in emilia-Romagna

188 188 Schede Tecniche

elena de cecco, valter piazza, cetty Muscolino

La chiesa dell’abbazia di S. Leonardo a Montetiffi, Sogliano al Rubicone

Ministero per i Beni e le attività culturali

direzione regionale per i Beni culturali e paesaggistici dell’eMilia-roMagna

:Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici per le province di Ravenna, Ferrara, Forlì-Cesena, RiminiVia san Vitale, 17 – 48121 - Ravenna

SOPRINTENDENTE:Arch. Antonella Ranaldi

TEL. 0544 543711FAX 0544 543732E-MAIL [email protected] www.soprintendenzaravenna.beniculturali.it

riFeriMenti tecnici

BENE OGGETTO DELL’INTERVENTO Chiesa dell’abbazia di San Leonardo, località Montetiffi, Sogliano al Rubicone (FC)

PROPRIETA’Parrocchia di S. Lorenzo Martire di Sogliano al Rubicone (FC)

IMPORTO COMPLESSIVO DEI LAVORI€ 700.000,00

FINANZIATOREPresidenza del Consiglio dei Ministri (L. 128/2004)

PROGETTISTAArch. Elena De CeccoRimini

DIRETTORI DEI LAVORIArch. Domenico Cardamone, arch. Valter Piazza

DIRETTORI OPERATIVI Dott.ssa Cetty Muscolino, arch. Elena De Cecco, geom. Danilo Pantieri

IMPRESETRIADE s.r.l., Afragola NA (per gli interventi di restauro del paramento lapideo)Laboratorio di Restauro di Giunchi Andrea, Cesena FC (per le opere di restauro delle decorazioni pittoriche all’interno della chiesa)

Page 191: RestauRi in emilia-Romagna

189 189 Schede Tecniche

Manuela catarsi, cristina anghinetti, patrizia raggio, giovanni signani, BarBara zilocchi

Il recupero strutturale dell’oratorio di S. Enrico di Calcaiola di Valmozzola

Ministero per i Beni e le attività culturali

direzione regionale per i Beni culturali e paesaggistici dell’eMilia-roMagna

Soprintendenza per i beni archeologici dell’Emilia-RomagnaMuseo Archeologico Nazionale Palazzo della Pilotta – 43100 - Parma

SOPRINTENDENTE dott. Luigi Malnati

TEL. 0521 233718FAX 0521 386112E-MAIL [email protected]

riFeriMenti tecnici

BENE OGGETTO DELL’INTERVENTO Oratorio di S. EnricoValmozzola, loc. Calcaiola - Parma

PROPRIETA’Diocesi di Piacenza

IMPORTO COMPLESSIVO DEI LAVORI€ 150.000,00

FINANZIATOREPresidenza del Consiglio dei Ministri (L. 128/2004)

PROGETTISTIarch. Giovanni Signani e arch. Barbara Zilocchi con la collaborazione per le ricerche d’archivio della dott.sa Cornelia Bevilacqua

DIRETTORI DEI LAVORIarch. Barbara Zilocchi (Supervisione: Soprintendenza B.A.P. per le province di Parma e Piacenza, arch. Paola Madoni, Soprintendenza B.S.A.E. per le province di Parma e Piacenza, dott.sa Lucia Fornari Schianchi e dott.sa Mariangela Giusto)

DIRETTORI OPERATIVIarch. Barbara Zilocchi (restauro architettonico); dott.sa Manuela Catarsi (scavo archeologico)

IMPRESEAbacus s.r.l. (scavo archeologico); Socei s.r.l. (restauro architettonico)

Page 192: RestauRi in emilia-Romagna

190 190 Schede Tecniche

Maria Grazia Maioli, Mauro ricci, Monica zanardi, cetty Muscolino, claudia tedeschi

Il complesso archeologico in piazza Ferrari a Rimini. Situazione attuale e ipotesi di restauro

Ministero per i beni e le attività culturali

direzione reGionale per i beni culturali e paesaGGistici dell’eMilia-roMaGna

Soprintendenza per i beni archeologici dell’Emilia-Romagna Via delle Belle Arti 52 – 40126 - Bologna

SOPRINTENDENTE Dott. Luigi Malnati

TEL. 051 223773 – 051 220675FAX 051 227170E-MAIL [email protected] www.archeobologna.beniculturali.it

SOPRINTENDENZA Soprintendenza per i beni architettonici e paesaggistici per le province di Ravenna, Ferrara, Forlì-Cesena e RiminiVia S. Vitale 17– 48100 - Ravenna

SOPRINTENDENTE Arch. Antonella Ranaldi

Tel. 0544 543711Fax 0544 543732e-mail sbap-ra@beniculturali.itwww.soprintendenzaravenna.beniculturali.it

riferiMenti tecnici

BENE OGGETTO DELL’INTERVENTO Domus del Chirurgo – Rimini, Piazza Ferrari

PROPRIETA’Demanio dello Stato e Comune di Rimini

IMPORTO COMPLESSIVO DEI LAVORISpese di funzionamento

FINANZIATOREComune di Rimini

PROGETTISTA

DIRETTORI DEI LAVORIDott.sa Maria Grazia Maioli e dott.sa Cetty Muscolino

DIRETTORI OPERATIVIMauro Ricci, Monica Zanardi, Claudia Tedeschi

IMPRESAScuola per il Restauro del Mosaico di Ravenna

Page 193: RestauRi in emilia-Romagna

191 191 Schede Tecniche

AntonellA Pomicetti

La Stele delle Spade: aspetti conservativi

ministero Per i beni e le Attività culturAli

direzione regionAle Per i beni culturAli e PAesAggistici dell’emiliA-romAgnA

Soprintendenza per i beni archeologici dell’Emilia-RomagnaVia delle Belle Arti 52 – 40126 - Bologna

SOPRINTENDENTE Dott. Luigi Malnati

TEL. 051 224402 - 223773FAX 051 227170E-MAIL [email protected] www.archeobologna.beniculturali.it

riferimenti tecnici

BENE OGGETTO DELL’INTERVENTO Stele in arenaria

PROPRIETA’Demanio dello Stato

IMPORTO COMPLESSIVO DEI LAVORISpese di funzionamento

FINANZIATOREMinistero per i beni e le attività culturali e Comune di Castenaso

PROGETTISTADott.sa Antonella Pomicetti, restauro eseguito presso il laboratorio di restauro della Soprintendenza per i beni archeologici dell’Emilia-Romagna

DIRETTORE DEI LAVORIDott.sa Antonella Pomicetti

Page 194: RestauRi in emilia-Romagna

Finito di stamparenel mese di settembre 2009

Euro 25,00 i.i.

Page 195: RestauRi in emilia-Romagna
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RestauRi in emilia-Romagna

attività degli istituti mibac nel 2008

Atti del ConvegnoFerrara 27 marzo 2009

Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici dell’Emilia-Romagna

Ministero per i Beni e le Attività Culturali

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RestauRi in emilia-Romagna

attività degli istituti mibac nel 2008

Atti del ConvegnoFerrara 27 marzo 2009

Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici dell’Emilia-Romagna

Ministero per i Beni e le Attività Culturali

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