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DANIELE SILVESTRI
ROUSSEAU NEMICO DELLA LIBERTÀ?
La libertà nel pensiero di Rousseau e l’interpretazione di Isaiah Berlin
2
Introduzione
Lord Acton, famoso storico, disse che Rousseau “aveva prodotto con la sua
penna un effetto maggiore di Aristotele, o di Cicerone, o di S. Agostino, o di S.
Tommaso d’Aquino, o di qualunque altro uomo che sia mai vissuto”1. Seppure
questo giudizio abbia la sua buona componente di iperbole retorica, non c’è
dubbio che la filosofia del pensatore di Ginevra sia sempre alla ribalta, sia per
i suoi contenuti concettuali sia per il suo approccio che è per tanti aspetti ben
più vicino alla nostra sensibilità di contemporanei di quello di tanti altri filosofi,
magari più vicini a noi sulla linea del tempo.
Uno dei punti che lo indica alla nostra attenzione come un personaggio con
cui fare i conti ogni qual volta ci interroghiamo sul nostro presente è quello
che in maniera vorrei dire definitiva ha indicato Ernst Cassirer con la sua
consueta profondità di indagine storica:
“Rousseau sembra trovarsi anche nel suo intimo di fronte a un dilemma insolubile. Il problema della teodicea sembra ora di un’oscurità impenetrabile. Poiché non possiamo ricondurre il male a Dio, né possiamo ricercarne la radice in una disposizione dell’umana natura, dove dobbiamo trovarne la fonte e l’origine? In Rousseau la soluzione di questo problema consiste tutta nell’aver spinta la responsabilità in un punto, dove mai prima d’allora era stata ricercata – nell’aver in certo qual modo creato un nuovo soggetto della responsabilità, dell’imputabilità. Questo soggetto non è l’uomo singolo, ma la società umana. (…) Questa è la soluzione data da Rousseau al problema della teodicea – con questa soluzione egli ha di fatto posto questo problema su un terreno interamente nuovo. Egli lo ha sospinto fuori della cerchia della metafisica e lo ha sospinto al centro dell’etica e della politica.”2
È questa “sociodicea” che è arrivata fino a noi, magari nella banalità del
11 Citato in BERLIN, I., La libertà e i suoi traditori, Adelphi, Milano 2005, p.58.
2 CASSIRER, E., Il problema Gian Giacomo Rousseau, La Nuova Italia, Firenze 1948, p.59-62
3
ritornello “È tutta colpa della società” o nelle profonde analisi di quanti,
ispirandosi alle più diverse idee filosofiche e politiche, hanno indicato nello
spazio della convivenza umana il campo di battaglia fra bene e male che in
altri tempi, secondo le immagini dell’Apocalisse giovannea, si trovava nei cieli.
Rispetto a questo ampio spazio di indagine che è quello della relazione fra
l’uomo e la società, ho voluto poi concentrare questa mia ricerca su una
tematica particolare che è quella della libertà, memore del giudizio che nelle
sue Lezioni di storia della filosofia, Hegel dà di Rousseau come del primo
filosofo che abbia fatto della libertà umana il principio della filosofia politica.
Anche in questo ambito, Rousseau mostra chiaramente come ha saputo
trasformare un tema altrimenti metafisico (tutte le discussioni sul libero arbitrio
che prima e dopo di lui hanno animato la scena filosofica) in uno etico-politico.
La triplice articolazione di libertà naturale (che da Rousseau è data quasi per
socntata nella sua essenza e quindi non ulteriormente indagata), civile e
morale di cui egli ci parla nel Contratto sociale tenterò di esplorarla per
cogliere come essa si rapporti con il progetto politico che in quest’opera è
espresso e come questo progetto, che nella salvaguardia della libertà trova il
proprio obiettivo principale, si ponga in relazione con le problematiche
esposte da Rousseau nei suoi due primi scritti, soprattutto il Discorso
sull’origine e il fondamento della diseguaglianza.
Nella seconda parte di questo breve lavoro, ho voluto, come si usa fare nei
congressi filosofici di oggi, mettere accanto a Rousseau un discussant, ma a
differenza dei discussants accademici, che raramente vanno oltre il porre
qualche educata domanda, quello che ho scelto di mettere di fronte al
pensiero del Ginevrino è di quegli interlocutori veramente senza peli sulla
lingua.
Esploreremo infatti il pensiero sulla libertà di Isaiah Berlin, esponente del
pensiero liberale del XX secolo, che di Rousseau e della sua presunta
filiazione ideologica ha scritto in diversi libri e non certo usando i suoi toni più
soft, come si può arguire da uno di questi testi, intitolato indicativamente La
libertà e i suoi traditori. Ma, soprattutto, Berlin è autore di un saggio, Due
concetti di libertà, che in questa area di studi ha fatto epoca, creando dibattiti
e rilanciando ulteriori analisi che non sono ancora terminate. Il discussant è
dunque, almeno così mi sembra, di tutto rispetto e alla vis polemica che a
4
Berlin non manca quando parla di Rousseau, si affianca una capacità di
analisi e di riflessione filosofica che renderà questo incontro-scontro molto
stimolante per la nostra riflessione.
5
Rousseau nel quadro del pensiero politico del suo tempo
Il pensiero di Rousseau non è comprensibile se non lo collochiamo nel quadro
della filosofia politica del periodo a lui immediatamente precedente e quella a
lui contemporanea alla quale reagisce portando un contributo alla definizione
del concetto di libertà e del rapporto di questa con l'autorità che è del tutto
originale e che tuttora si pone come qualcosa con cui ci si deve confrontare
ogni volta che si affronta questo tema.
Daremo qui breve conto di questo quadro per poi affrontare direttamente il
pensiero del filosofo di Ginevra.
I pensatori liberali del Seicento e del Settecento hanno fondato le loro
concezioni su presupposti giusnaturalistici e a partire da questa matrice
concettuale un eminente studioso, Norberto Bobbio, ha sottolineato
fortemente (e giustamente) la dimensione politico-giuridica del liberalismo, e
quindi lo ha definito come una dottrina che afferma la limitazione dei poteri
dello Stato in nome dei diritti naturali individuali, inerenti a ogni uomo in
quanto tale (i cosiddetti diritti innati). In questa definizione liberalismo e
giusnaturalismo sono strettamente connessi.
"La dottrina liberale - ha scritto infatti Bobbio - è l'espressione, in sede politica,
del più maturo giusnaturalismo: essa, infatti, si appoggia sull'affermazione che
esiste una legge naturale precedente e superiore allo Stato e che questa
legge attribuisce diritti soggettivi, inalienabili e imprescrittibili, agli individui
singoli prima del sorgere di ogni società, e quindi anche dello Stato. Di
conseguenza lo Stato, che sorge per volontà degli stessi individui, non può
violare questi diritti fondamentali (e se li viola diventa dispotico), e in ciò trova
i suoi limiti; anzi, esso deve garantirne la libera esplicazione, e in ciò trova la
sua funzione, che è stata detta 'negativa' o di semplice 'custode' ”. Bobbio ha
opportunamente aggiunto che, per quanto riguarda i principî filosofici, il
liberalismo è espressione dell'individualismo razionalistico, proprio della
filosofia illuministica, per il quale l'uomo in quanto essere razionale è persona,
e ha un valore assoluto, prima e indipendentemente dai rapporti di interazione
coi suoi simili. Come persona, il singolo è superiore a qualsiasi società di cui
6
entra a far parte, e lo Stato, a sua volta, è soltanto un prodotto dell'uomo (in
quanto sorge da un accordo o da un contratto fra gli uomini stessi), e non è
mai una persona reale, bensì solo una somma di individui aventi ciascuno la
propria sfera di libertà. I diritti fondamentali, che lo Stato deve garantire, pur
variando da autore ad autore, e da costituzione a costituzione, si possono
raggruppare in due grandi categorie: diritti che riguardano la libertà dallo Stato
nella sfera spirituale (libertà di pensiero, di religione, ecc.); diritti relativi alla
libertà dallo Stato nella sfera economica (diritto di proprietà, libertà di
intrapresa economica, di commercio, ecc.)3. Questa definizione di Bobbio
riconduce giustamente il liberalismo alle sue origini, che sono
giusnaturalistiche e contrattualistiche e infatti la prima grande e organica
concezione liberale è quella di Locke.
I Due trattati sul governo civile di Locke furono pubblicati nel 1690 ma la loro
redazione risale almeno a un decennio prima, sicché si può dire che la teoria
politica in essi svolta costituisca tanto l'autocoscienza teorica quanto il
coronamento del processo di demolizione dell'assolutismo degli Stuart,
processo che con alterne e drammatiche vicende caratterizza la storia inglese
del XVII secolo e culmina nella 'gloriosa rivoluzione' del 1688. Il secondo di
questi Trattati ha infatti come obiettivo essenziale quello di dare una piena e
coerente giustificazione del principio secondo cui i diritti dei cittadini non
possono essere mai violati dal potere politico, il quale deve essere quindi un
potere limitato, fondato sul consenso e sulla fiducia dei cittadini medesimi.
Locke combatte perciò in primo luogo la concezione dispotica del potere
sovrano (concezione che aveva avuto il suo massimo campione in Hobbes), e
lo fa dando una particolare caratterizzazione dello stato naturale e del
passaggio da quest'ultimo alla società civile o politica (political or civil society).
Secondo Locke, infatti, nello stato naturale gli individui vivono, almeno in un
primo tempo, in una condizione pacifica, godendo dei diritti inerenti a ogni
uomo sin dalla nascita (il diritto alla vita, il diritto alla libertà e il diritto alla
proprietà). Lo stato naturale, lungi dall'essere quella “guerra di tutti contro
tutti” che aveva ipotizzato Hobbes, in cui l'individuo è continuamente
3 BOBBIO, N., voce Liberalismo in BOBBIO N., MATTEUCCI N., PASQUINO G. a cura di Dizionario di politica UTET, Torino 1983.
7
minacciato persino nella vita costituisce per Locke una società notevolmente
sviluppata, in cui sono presenti diversi istituti (la famiglia, il rapporto padrone-
servo) e rapporti economico-sociali molto articolati, fondati sulla moneta e
sull'accumulazione illimitata di ricchezza (e quindi corrispondenti a
un'economia mercantile assai matura). L'abbandono dello stato naturale e il
passaggio alla società civile o politica diventano necessari perché a un certo
punto lo stato naturale degenera in stato di guerra (in esso, infatti, in
mancanza di leggi positive e di giudici che le facciano rispettare, ognuno deve
farsi giustizia da solo). Senonché, a differenza di quanto avveniva in Hobbes,
il patto stipulato fra gli individui per dar vita alla società civile o politica (la sola
che può tutelare adeguatamente gli istituti sociali ed economici sviluppatisi già
nello stato di natura) non implica per Locke una completa alienazione di tutti i
diritti individuali al sovrano; al contrario, attraverso il patto gli individui entrano
in società conservando tutti i loro diritti naturali (che dunque devono essere
garantiti dalle leggi positive), tranne uno: il diritto di farsi giustizia da soli. Ne
segue che il potere sovrano non può acquisire più di quanto gli sia stato
trasmesso, e quindi non è un potere illimitato, non è legibus solutus, non può
violare i diritti naturali individuali, non può imporre alcunché ai cittadini, né
sotto il profilo economico e sociale, né sotto il profilo spirituale e intellettuale. Il
potere politico è, insomma, un potere fiduciario. Ma proprio perché è tale,
esso trova la sua concretizzazione più importante nel potere legislativo
(espressione della volontà della maggioranza dei cittadini). Il potere legislativo
è quindi il potere supremo, rispetto al quale il potere esecutivo (che compete
al re) è senz'altro subordinato. Legislativo ed esecutivo sono poteri
nettamente separati, in quanto esercitano funzioni nettamente distinte (il
primo ha il compito di fare le leggi, il secondo di farle eseguire). E come il
potere esecutivo non può limitare in alcun modo il potere legislativo, così
quest'ultimo non può venir meno alla fiducia che il popolo ha riposto in esso
(non può far leggi in contrasto con le leggi naturali, non può trasferire in altre
mani il potere di far leggi, ecc.). Il popolo ha il pieno diritto o di deporre
l'esecutivo che conculca il legislativo, o di rovesciare il legislativo venuto
meno alla sua fiducia, e di eleggere un nuovo legislativo: un diritto che il
popolo può esercitare anche con la forza, poiché, dice Locke, alla forza si può
reagire soltanto con la forza (il pensatore inglese riconosce dunque al popolo
8
il diritto di resistenza).
La stessa preoccupazione che ha mosso Locke (porre dei limiti al potere dello
Stato) ha mosso anche Montesquieu (1689-1755), il quale poté intravvedere
gli ultimi splendori del regno di Luigi XIV, assistere alla crisi della reggenza e
alla progressiva involuzione dello Stato assoluto. Nello Spirito delle leggi
(1748) Montesquieu ha presente tanto la monarchia francese quanto la
monarchia inglese, e naturalmente le considerazioni che egli svolge in
riferimento all'una e all'altra sono assai diverse, essendo diversi i rispettivi
contesti sociopolitici. E tuttavia si tratta di considerazioni che muovono da
un'unica preoccupazione: è assolutamente necessario limitare il potere
politico, è assolutamente necessario dividerlo e frazionarlo il più possibile;
solo così si potrà porre un freno a quella che è la tendenza insita nel potere
medesimo (in ogni potere), di abusare delle proprie prerogative, di prevaricare
sulla società civile e di limitare gravemente o addirittura distruggere le libertà
dei sudditi. Quale sia l'ideale politico di Montesquieu - ideale che fa della sua
riflessione un momento essenziale nella storia del pensiero liberale - emerge
nettamente dalla bipartizione che egli traccia tra governi moderati e governi
immoderati: una bipartizione che costituisce la chiave di volta dell'opera
politica di Montesquieu. Governo moderato è quello fondato su un opportuno
bilanciamento o equilibrio dei vari poteri e dei vari corpi che lo compongono,
nel senso che l'uno limita l'altro senza prevaricare su di esso; il che significa
che ciascun potere e ciascun corpo non agisce arbitrariamente, ma osserva
regole ben precise e si muove all'interno di confini ben delineati. Se questo
delicato meccanismo può essere osservato in un determinato stadio della
monarchia francese - basata appunto su un complesso bilanciamento o
equilibrio fra potere regio (limitato dalle leggi fondamentali), corpi intermedi
(nobiltà, città, clero, coi loro diritti e i loro privilegi) e Parlamenti (costituiti da
giudici indipendenti) - esso può essere osservato anche e soprattutto nella
monarchia inglese, di tanto più evoluta e matura. Qui vige un sistema di
distinzione e al tempo stesso di bilanciamento dei poteri, che sarebbe troppo
schematico e riduttivo definire di pura e semplice separazione dei poteri
medesimi (una definizione, d'altro canto, che non si ritrova in Montesquieu).
Distinzione perché, come dice il pensatore francese, "tutto sarebbe perduto
se la stessa persona, o lo stesso corpo di grandi, o di nobili, o di popolo,
9
esercitasse questi tre poteri: quello di fare le leggi, quello di eseguire le
pubbliche risoluzioni, e quello di giudicare i delitti o le liti dei privati" (XI, 6).
Legislativo, esecutivo e giudiziario devono essere dunque poteri distinti, cioè
non possono essere uniti nella stessa persona o nello stesso corpo politico,
poiché, ove questo avvenisse, verrebbe meno quel frazionamento del potere,
e quel reciproco controllo fra le singole parti che lo costituiscono, che è la
conditio sine qua non per evitare il dispotismo. Ma al tempo stesso ci troviamo
di fronte a un bilanciamento dei poteri (e non a una loro meccanica
separazione). Infatti, lo stesso corpo legislativo è diviso in due parti (Camera
alta e Camera bassa), che si tengono a freno fra loro grazie alla reciproca
facoltà di impedirsi. Le leggi, d'altro canto, non entrano in vigore se non
vengono approvate dal re. Il che significa che l'intero sistema politico non può
funzionare senza l'assenso e il concorso dei vari elementi che lo compongono
(monarca, Camera alta, Camera bassa), e che basta il dissenso di uno di
questi per incepparlo. Ma proprio qui è la miglior garanzia di un governo
moderato, in cui nessun interesse particolare e nessuna frazione della società
è in grado di imporre la propria volontà contro quella degli altri. Governo
moderato è dunque per Montesquieu quel governo che tiene conto della
molteplicità e della diversità degli interessi, che riesce a trovare un punto di
equilibrio o di compromesso fra loro. Su questa base sorge un sistema di
civile convivenza, in cui vengono rispettati i diritti e gli interessi di tutti, ed è
bandito ogni atto di forza e ogni abuso politico.
Il governo fondato sulla distinzione e sul bilanciamento dei poteri è dunque
per Montesquieu il governo moderato per eccellenza. L'alternativa a esso è il
governo immoderato o dispotico, in cui il principe riunisce nella propria
persona tutte le magistrature. Ma questo governo, che annulla tutti i diritti dei
sudditi, ha come proprio principio la paura. In esso i sudditi devono al despota
un'obbedienza incondizionata, quale che sia la sua volontà o quali che siano i
suoi capricci. Sono impossibili accomodamenti, controproposte, discussioni,
accordi. I sudditi sono creature che obbediscono a una creatura che vuole, e
a essi, come gli animali, non restano che l'obbedienza o il castigo. E con
queste parole Montesquieu non poteva dare del dispotismo una
caratterizzazione più negativa, e pronunciarne una condanna più aspra e più
ferma. L'influsso dell'opera di Montesquieu (soprattutto della sua riflessione
10
relativa all'Inghilterra) sul pensiero politico e sulla storia politica è stato
enorme. Egli è stato uno degli scrittori più letti dalla classe dirigente
americana del XVIII secolo (nel Federalist le citazioni da Montesquieu sono
numerose). Le prime costituzioni scritte - la Costituzione americana del 1776
e quella francese del 1791 - si considerano applicazioni della sua teoria della
distinzione dei poteri.
11
La concezione della libertà nel quadro del pensiero antropologico e politico di Rousseau
Legame sociale e dipendenza ovvero su un presunto individualismo di Rousseau
Un primo problema che va affrontato esaminando il pensiero di Rousseau è
quello della polarità individuo-società così come essa si manifesta nella
natura umana. Quest’ultima espressione è, in Rousseau così come in altri
pensatori dell’epoca, un’espressione senz’altro esposta a qualche rischio dato
che il cosiddetto “stato di natura” è uno strumento concettuale molto
importante nel suo pensiero per cui le affermazioni da lui fatte non è sempre
agevole decidere se riferirle allo natura umana in quanto tale (pur con tutti i
problemi che alla nostra comprensione questo concetto crea) o all’uomo
socializzato.
Non pochi interpreti hanno attribuito al filosofo di Ginevra una concezione
individualista, e sotto un certo profilo egotista, dell’uomo moderno e a
connotare in questo senso i contenuti del suo pensiero hanno contribuito in
misura rilevante le interpretazioni kantiana e neo- kantiana, che, più o meno
esplicitamente, hanno rimarcato la presenza di alcune ascendenze
giusnaturalistiche nell’opera di Rousseau: in primis, il peso accreditato al
valore dell’indipendenza individuale nell’elaborazione del principio di
autodeterminazione politica4.
4 Sulla matrice “individualista” del pensiero etico-politico di Rousseau e sugli influssi che tale pensiero ha esercitato su Kant, si vedano i seguenti saggi: E.CASSIRER, Il problema Jean-Jacques Rousseau(1938), Firenze, La Nuova Italia, 1948; R. DERATHÉ, Jean-Jacques Rousseau et la science politique de son temps, Paris, PUF, 1950; tr. it. di R. Ferrara, Jean-Jacques Rousseau e la scienza politica del suo tempo, Bologna, Il Mulino, 1993; R. MONDOLFO, Rousseau e la coscienza moderna, Firenze, La Nuova Italia, 1954. Secondo questi autori, la concezione morale dell’Emile e della Nouvelle Héloïse è unitaria e si ricollega strettamente alla concezione della libertà civile formulata da Rousseau nel Contratto sociale. Istituendo questo nesso, il ginevrino avrebbe precorso gli sviluppi della filosofia kantiana che, con l’elaborazione del concetto di “autodeterminazione”, ha accreditato la libertà dell’individuo sia in senso etico (autonomia morale) sia in senso giuridico (indipendenza). Ma, come ha precisato Bobbio, «per Rousseau il problema fondamentale è quello della formazione della volontà generale: la sola libertà possibile nello stato è che i cittadini diano leggi a se stessi. La libertà coincide non con l’autodeterminazione individuale, ma con l’autodeterminazione collettiva». Questa distinzione,
12
Esamineremo questo problema preliminare con un’analisi di alcune parti della
sua opera relative al tema della formazione del legame sociale. Ci si
soffermerà in particolare sulla configurazione delle relazioni “maîtres-
domestiques”, la cui struttura asimmetrica sembra conferire una forte
coloritura ambivalente alla presunta matrice individualista del pensiero
rousseauiano.
Rousseau tratta dei rapporti tra maîtres e domestiques nella Lettera X, 4 della
Nouvelle Héloïse, il romanzo con il quale l’autore confidava di trasmettere alla
grande platea dei lettori un messaggio di «concordia e di pace pubblica»,
partendo dalle vicende occorse a Clarens, paesino immaginario del Valois
vicino alle sponde del lago Lemano. A Clarens, all’indomani del loro
matrimonio, vanno a vivere i signori di Wolmar, una coppia di venerati coniugi
della piccola nobiltà di campagna. Essi si trasferiscono in una vecchia tenuta
di famiglia opportunamente rimodernata, insieme a pochi ed eletti amici e a
un esiguo numero di fidati domestici.
Con la collaborazione dei nativi, i signori di Wolmar danno luogo alla
formazione di una micro-società ideale «nella quale regnano l’ordine, la pace
e l’innocenza; dove si vede riunito, senza apparato e senza fasto, tutto quanto
risponde al vero destino dell’uomo»5: un modello sociale alternativo a quello
frivolo e dissoluto della moderna città cosmopolita così aborrita da Rousseau
fin dal suo primo scritto.
Rousseau pubblica la Nouvelle Héloïse due anni dopo l’articolo Economie
politique apparso nel volume V dell’Encyclopédie (1755). Egli non è ancora
pervenuto alla sintesi di quella teoria democratica della sovranità che, solo
qualche anno dopo, avrebbe trovato compimento nel Contrat social (1762),
permettendogli di rendere compatibile la struttura del legame sociale con i
principi di eguaglianza e libertà. A buon diritto, dunque, Starobinski può
pensare che la società del “Contratto” sia agli antipodi di quella di Clarens, e
dire che l’asimmetria esistente tra maîtres e domestiques è l’indice probante sufficiente a dissipare l’equivoco dell’ermeneutica neo-kantiana, mi permette d’introdurre il presente studio muovendo da una diversa angolazione interpretativa. Si veda N. BOBBIO, Da Hobbes a Marx. Saggi di storia della filosofia, Napoli, Morano, 1965. Ma anche, da tutt’altra prospettiva filosofica, C.TAYLOR, Radici dell’Io, Feltrinelli, Milano 1993.
5 J.-J. ROUSSEAU, Giulia o La Nuova Eloisa, lett. X, 4, a cura di E. Pulcini, Rizzoli, Milano 1992.
13
di un ordine politico classicamente padronale6.
Eppure, il confronto tra la struttura del rapporto di servitù vigente a Clarens e
la struttura diseguale, a doppio legame, del rapporto “maître-esclave”
descritto in quegli stessi anni nel Discours sur l’inégalité (1755), ci mette di
fronte a due configurazioni molto diverse della relazione politica di
dipendenza. La posizione di supremazia riconosciuta ai maîtres di Clarens
non fa pensare, infatti, a un’autorità assoluta, né tantomeno a un potere
arbitrario e corrotto. Sembra piuttosto indicare una funzione regolativa della
condizione subalterna dei servitori, che trasforma uno stato di uguaglianza al
più basso livello (la diffusa povertà delle famiglie d’origine) in uno stato
comune di dipendenza, inclusivo di piccole differenze di ruolo e di rango
commisurate ai servizi prestati e ai meriti riconosciuti.
Un’incompatibilità, tuttavia, emerge quando si esamina la struttura delle
rispettive relazioni di dipendenza che, dando luogo all’obbligo, determina la
matrice dell’unione nelle due diverse realtà.
Se valutiamo la struttura associativa del legame sociale prevista dal Contrat,
ci accorgiamo infatti che la dipendenza dell’individuo dalla Città (non meno
stretta di quella del domestique dal maître) è resa vincolante dalla legge
fondativa del patto sociale. Con il patto sociale le relazioni di dipendenza,
storicamente fondate su rapporti politici di diseguaglianza, mutano la loro
struttura iniqua e acquistano finalmente una forma volontaria e legittima. In
base a questa fondativa convenzione, ciascuno s’impegna con tutti a
rispettare gli obblighi assunti e in cambio si vede riconosciuto il diritto di
partecipare alla sovranità così costituita. La struttura di legame del modello
politico-associativo, anche se mantiene una configurazione asimmetrica dei
rapporti di potere, è perciò matrice di relazioni di eguaglianza che escludono
la gerarchia e l’autorità tra individuo e individuo. È quanto si evince dalla
definizione dell’atto di sovranità che dà origine e forma all’associazione
politica: non è un ordine da superiore a inferiore, né un comando da padrone
a schiavo, ma una convenzione tra il corpo dello Stato e ciascuno dei suoi
membri.
A Clarens, invece, non esiste una legge o anche solo una convenzione 6 J. STAROBINSKI, Jean-Jacques Rousseau. La trasparenza e l’ostacolo, Il Mulino, Bologna 1982.
14
politica che permetta ai sujets di assurgere alla posizione correlativa di
citoyens. Il rapporto di dipendenza che sussiste tra domestiques e maîtres
non è reversibile come accade invece nell’ordinamento della società politica,
dove la volontà (particolare) dei capi di governo è subordinata alla volontà
(generale) del popolo riunito in assemblea. In questo senso, il “contratto” che i
domestiques stipulano con i maîtres è antitetico a quello associativo: ai
servitori, infatti, si chiede «di servirli a modo loro».
Clarens rappresenta dunque un modello di società nel quale l’obbligo ha un
fondamento diverso da quello postulato da Rousseau nella sua opera di diritto
politico. L’atto di costituzione originaria, del resto, non è l’espressione della
volontà generale incondizionatamente sovrana, ma della volontà dei soli
maîtres che sono “sovrani” nella loro proprietà.
Tuttavia la volontà dei maîtres è sorretta dall’aspirazione a una condizione di
bonheur che travalica i confini egoistici della proprietà economica e, a questo
fine, si propone di valorizzare l’insieme delle relazioni domestiche. Senza
nulla togliere alle motivazioni dell’intérêt, Rousseau-Saint-Preux indica nella
devozione e nell’attaccamento reciproco dei domestiques e dei maîtres la
matrice originale del legame sociale a Clarens:
“ma c’è un mezzo anche più efficace, il solo al quale non si pensa per interesse e
consiste nell’acquistarsi l’affetto di quella brava gente accordandogli il proprio... Si fa
tutto per devozione; si direbbe che queste anime venali si purificano entrando in questo
soggiorno della saggezza e dell’unione. Si direbbe che una parte dei lumi del padrone
e dei sentimenti della padrona si sono trasfusi in ognuno dei domestici, da tanto sono
giudiziosi, benefici, onesti e superiori alla loro condizione.”7
La relazione di dipendenza servile, dunque, ha fondamento in una sfera
essenzialmente pre-politica, in quella dimensione temperata dell’affettività
naturale che regola le relazioni umane nell’ambiente domestico della famiglia.
La società di Clarens, tuttavia, non rappresenta la versione aggiornata di un
modello politico che aderisce ai canoni della teoria paternalista che Rousseau
rifiuterà esplicitamente nelle sue opere politiche di maggior impegno. È
piuttosto la rappresentazione di un universo comunitario in cui si svolgono, 7 Ivi, p.469.
15
secondo modalità coerenti di mutuo servizio, tutte le forme dello scambio
sociale. Da questo punto di vista, lo specifico rapporto di dipendenza vigente
a Clarens, sebbene asimmetrico, crea un vincolo tra domestici e proprietari
che è fonte di obbligo reciproco; e costituisce il prototipo di una società che
esclude l’autoritarismo come principio di regolazione della convivenza umana:
“non c’è mai né malumore né malanimo nell’ubbidienza, perché non c’è né alterigia né
capriccio nel comando, perché non si domanda niente che non sia sensato e utile, e
perché si rispetta abbastanza la dignità dell’uomo anche se servo per non impiegarlo in
cose che lo avviliscano.”8
Come sarà per l’ordinamento civile del Contrat social, anche per Clarens la
formazione del legame sociale presuppone l’istituzione di opportune relazioni
di dipendenza, quale condizione necessaria per mettere al bando qualsiasi
forma di potere personale. Attraverso i servizi che i domestiques si prestano
vicendevolmente sotto la saggia direzione dei maîtres si rafforzano l’unità del
gruppo e una generale disposizione alla fiducia e all’aiuto: così intima è la
collaborazione nelle relazioni domestiche che esse si stemperano nella più
egualitaria relazione amicale.
Il fine dell’autorità padronale, pertanto, non è l’accumulo della ricchezza
mediante lo sfruttamento delle risorse naturali e umane. È invece la
conservazione dell’ambiente e del tenore di vita mediante la valorizzazione
dell’autostima e dell’amore per la comunità in coloro che dipendono da essa.
In un tale sistema di relazioni, l’obbligo può circolare liberamente, senza
interventi costrittivi, e con la sicurezza che tutti i doveri necessari alla
convivenza vengano rispettati. Al punto che Saint–Preux può commentare
ammirato:
“insomma, non ho mai visto una casa dove ognuno fa tanto bene il proprio lavoro
senza pensare che serve.”9
8 Ivi, p.491
9 Ivi, p.467.
16
La relazione di dipendenza inerente al servizio domestico, invece di
configurare un rapporto di sottomissione forzato e alienante, si rivela una
struttura del modello formativo particolarmente adatta a contesti in cui
prevalgano condizioni sociali di diseguaglianza. La sua funzione è di regolare
almeno lo stato di “eguaglianza dei dipendenti” e di favorire l’elaborazione dei
sentimenti etici indispensabili alla realizzazione dei compiti che hanno per
oggetto la ricerca dell’utilità comune e per fine la concordia sociale. La
formazione delle disposizioni di attaccamento al valore della comunità
prepara, infatti, quel sentimento di riconoscenza che è impercettibilmente
connesso al sentimento dell’obbligo: è questa struttura della dipendenza a
distinguere un servitore qualsiasi da un vero domestique, il quale appare
convinto del prestigio della sua posizione perché rimane appagato dalla
valorizzazione della sua condizione.
Proprio perché la società di Clarens è più affine a una società naturale
allargata che a una società politica regolata dalle leggi civili, Rousseau può
abbozzare con la Nouvelle Héloïse la revisione dei principi individualistici e
utilitaristici che sono alla base del contrattualismo moderno; e predisporre, in
forma ancora involuta e sperimentale, i contenuti che costituiranno l’ideale
etico-politico del “moi commun” e il principio della dipendenza di ciascuno da
tutti nella formulazione più rigorosa del Contrat social.
L’opposizione che Rousseau stabilisce nella sua opera tra dipendenza
naturale e dipendenza sociale (e politica) ha perciò come presupposto
invariabile lo stato di dipendenza universale degli uomini tra loro: prima,
dipendenza dalla natura; poi, dipendenza dalla società. Tuttavia lo stesso
Rousseau ha dato luogo a un equivoco laddove, distinguendo le due specie di
dipendenza, ha connotato l’una come “buona” e l’altra come “malvagia”.
L’equivoco è diventato poi un vero paradosso quando, collegando gli sviluppi
del controverso paragrafo dell’Emile con i principi del diritto politico, egli ha
sostenuto che la dipendenza dalla Città è la conditio della libertà individuale.
Infine il paradosso si è rivelato un problema dai contorni enigmatici, come
attesta la formula del Contrat social dove si legge che con la cessione
volontaria dell’indipendenza naturale ciascun associato dovrebbe rimanere
«altrettanto libero di prima».
La questione assume un aspetto meno inquietante, senza peraltro perdere il
17
suo grado di tensione interna, se si valuta la struttura del legame sociale
sottostante alle diverse forme di relazione umana considerate da Rousseau
nei vari contesti dell’opera. Se si eccettua la condizione dello “stato di natura
puro”, in cui l’uomo vive esclusivamente per se stesso, ogni altra condizione,
in quanto presuppone una relazione, implica uno stato di dipendenza: così
nello “stato di natura” come nello stato dell’associazione politica; sia nei
rapporti tra i sessi sia nel rapporto tra signori e servitori.
Se non ci fosse dipendenza, insomma, non ci sarebbe legame sociale e
senza legame sociale non si realizzerebbe l’unione o l’associazione tra due o
più individui. Non solo verrebbe meno ogni consorzio sociale, ma anche
sarebbe preclusa all’individuo la via del perfezionamento e la sua libertà
resterebbe allo stato potenziale e inconsapevole delle origini. Lo stato di
dipendenza è quindi una condizione necessaria sia dell’esistenza della
società sia della libertà umana. Il fatto è però che ogni relazione, in quanto
sociale, è soggetta a corruzione.
Non appena essa cade fuori dalla trama imbastita dalla reciprocità degli stati
di affettività naturale, e si rende teatro di volizioni o di atti sistematici che si
servono dell’affettività per strumentalizzare il bisogno, ecco che la dipendenza
cambia finalità e da molla dell’unione si trasforma in struttura di dominio. La
storia ipotetica del genere umano rappresenta, per Rousseau, un progressivo
realizzarsi di questo fenomeno degenerativo.
Dal momento che lo stato di dipendenza è una condizione della relazione,
anche la società più piccola ne richiede l’impianto. Solo la perfetta solitudine
potrebbe dunque conferire una piena indipendenza. Ma, secondo Rousseau,
da quando l’uomo ha cominciato a godere dei benefici di una vita di relazione,
la compagnia dei propri simili è stata sempre preferita alla vita solitaria.
Anche nello “stato di natura” – ricordiamolo – la condizione migliore per
l’uomo non sta nella vita errabonda e solitaria ma nel commerce indépendant,
dove relazioni di dipendenza sotto il profilo socio-affettivo corrispondono a
relazioni d’indipendenza sotto il profilo politico. D’altra parte, a un giudizio più
meditato, la struttura di tale modello della dipendenza appare tutt’altro che
perfetta se, come ammette Rousseau, il progresso tecnico e sociale ne ha
provocato una rapida dissoluzione.
Come uscire da un simile circolo? Il Ginevrino sembra applicare anche a
18
questo livello lo schema di pensiero già rilevato da Starobinski e da questi
efficacemente sintetizzato con la formula “le remède dans le mal”10. Poiché la
condizione di dipendenza è universale e irreversibile, il solo rimedio
opponibile al suo degrado appare quello di conferirle legittimità politica,
predisponendo i meccanismi istituzionali a prevenire “qualsiasi” forma di
dipendenza personale.
Di qui la ricerca di opportuni metodi di formazione della società e
dell’individuo che, mantenendo attivi gli stati di dipendenza affettiva,
concorrano a rinsaldare i legami intersoggettivi per conseguire mete comuni
di perfezionamento. Sotto il profilo della formazione del legame sociale non ci
sono sostanziali differenze metodologiche tra il modello dell’associazione
politica e il modello micro-sociale della comunità di Clarens sopra esaminato.
Sia che la dinamica inter-soggettiva abbia una mediazione istituzionale, sia
che essa trovi una spinta primaria nell’ attaccamento naturale, ci troviamo di
fronte in entrambi i casi a modelli di dipendenza che costituiscono e
conservano l’unione mediante la regolazione dell’accordo reciproco delle
volontà individuali.
Si può comprendere, giunti a questo punto, come l’etica rousseauiana non
può essere assimilata all’etica individualista del giusnaturalismo e del
contrattualismo pre-illuminista e illuminista: proprio perché l’individuo è il
soggetto di relazioni ordinate da una struttura della dipendenza, la sua libertà
appare sempre regolata da un “io comune” e mai da una volontà individuale.
D’altra parte, apparirà anche più chiaro perché l’etica rousseauiana non è
un’etica dell’autonomia in senso propriamente kantiano. Non lo è allo stesso
modo che la supremazia della legge in Rousseau non nasce, come in Kant,
da un atto di autodeterminazione individuale ma sempre dalla volontà
generale che scaturisce da un atto di autodeterminazione collettiva, dallo
specifico atto di sovranità riposto nel patto di associazione.
10 J. STAROBINSKI, Le remède dans le mal. Critique et légitimation de l’artifice à l’âge des lumières, Paris, Gallimard, 1989, pp. 165-208.
19
L’articolazione della libertà nel Contratto sociale
Come abbiamo già accennato, il “problema fondamentale” esplorato dalla
teoria politica di Rousseau è di delineare istituzioni sociali e politiche tali che
“ognuno, unendosi con tutti gli altri, cionondimeno obbedisca solo a se stesso
e rimanga libero come prima11”. Non è immediatamente chiaro se la sua
teoria raggiunga questo obbiettivo oppure no. I suoi critici hanno contestato,
oltre che il valore delle sue assunzioni di base, anche gli esiti definiti totalitari
della sua teoria, soprattutto in quanto richiede la totale alienazione di tutti i
diritti dell’individuo verso la comunità e arriva ad affermare che i cittadini che
non cooperano con le istituzioni “dovrebbero essere costretti a essere liberi”.
Fra questi interpreti, noi esamineremo successivamente soprattutto
l’interpretazione critica di Isaiah Berlin con la sua teoria dei due tipi di libertà,
negativa e positiva, che vede proprio Rousseau primo, almeno in ordine
cronologico, sul banco degli imputati.
Rousseau distingue fra vari tipi di libertà. Il tipo più fondamentale, in quanto
genealogicamente prioritaria, è la libertà naturale che abbonda nello stato di
natura: il diritto illimitato dell’essere umano verso qualunque cosa che lo tenti
e che egli è capace di raggiungere. Questa concezione negativa della libertà
coglie le nostre intuizioni filosofiche al riguardo considerandola come una
mera assenza di costrizioni (la libertà negativa di Berlin). Ogni istituzione
politica, però, dovrà in qualche misura canalizzare e contenere la libertà
dell’individuo intesa in questo senso e Rousseau ammette senza problemi
che l’uomo deve rinunciare alla propria libertà naturale quando si unisce alla
società. Ciò che guadagniamo in cambio di questa libertà è ciò che il filosofo
ginevrino chiama la libertà civica, e cioè la certezza che i nostri diritti (o
almeno quanto ne resta) saranno difesi dalla comunità intera in quanto i diritti
“naturali”, in mancanza di questa sicurezza sono praticamente senza valore.
Rousseau quindi identifica la libertà morale come una forma di libertà positiva
(sempre utilizzando la terminologia di Berlin), nella quale l'azione
dell'individuo deve conformarsi alla vera volontà di questi: “poiché l'impulso
11 ROUSEEAU J.-J., Contratto sociale in ROUSSEAU, Scritti politici cit., vol.2 p. 93.
20
del semplice appetito è schiavitù e l'obbedienza alla legge che qualcuno
prescrive a se stesso è libertà”12. La libertà morale quindi sarebbe realizzata
se ciascun individuo volesse per se stesso le leggi della propria comunità
politica. Questo potrebbe essere realizzato attraverso quello che Rousseau
chiama la “volontà generale”, un concetto centrale nella sua filosofia politica.
Proprio come una persona singola gioca molti ruoli differenti nella propria vita
e ha un differente insieme di interessi in relazione a ciascun ruolo, così egli
può avere una volontà distinta corrispondentemente a questi diversi ruoli e
interessi. Rousseau identifica la nostra volontà in senso più nobile come
quella che esercitiamo nel nostro ruolo di cittadini in accordo con gli interessi
comuni della nostra società. Questo è sia parte della volontà di ciascuno che
condivisa da ogni altro membro della società, dato che gli interessi in
questione sono comuni a tutti. Ogni legge promulgata in accordo con la
volontà generale sarà quindi una legge promulgata da perlomeno una parte
della volontà di ciascun individuo. In questo modo, se seguiamo
l'argomentazione, si può capire come costringere una persona a seguire la
legge possa essere “costringerla a essere libera”13.
Questa specie di giustificazione ovviamente ci colpisce come qualcosa di
assai poco plausibile in quanto semplicemente ignora la volontà particolare
dell'individuo e i suoi propri interessi che noi invece ci aspetteremmo
oltrepassare di gran lunga gli interessi condivisi con la volontà generale.
L'argomento sopra esposto richiede che i cittadini abbiano un tale sentimento
civico e una tale omogeneità di scopi che i loro interessi condivisi si allineino e
perfino sopravanzino quelli propri a ciascun individuo. Solo in questo modo
una persona può sinceramente abbracciare la volontà generale. Se questo
non avviene, egli non può realmente affermare le leggi secondo le quali è
costretto a vivere e quindi non può raggiungere una genuina libertà morale.
Rousseau apparentemente riconobbe il problema in quanto egli delineò un
programma politico tale da portare a compimento un radicale cambiamento
culturale secondo il quale “ogni cittadino è niente e non può essere altro che
12 ROUSEEAU J.-J., Contratto sociale in ROUSSEAU, Scritti politici cit., vol.2 p. 97-98.
13 ROUSEEAU J.-J., Contratto sociale in ROUSSEAU, Scritti politici cit., vol.2 p. 96.
21
niente se non comunione con tutti gli altri”14. Ma il pensiero di Rousseau non è
per lo più così radicale quanto questa citazione lascerebbe supporre e
sarebbe errato interpretare Rousseau come colui che distrugge ogni
individualità in quanto egli riconosce che i singoli hanno una qualche sfera di
interessi privati che è complementare al loro ruolo pubblico di cittadini e
lamenta che “in questo branco chiamato società” si è persa ogni caratteristica
individuale.
Il problema, così come Rousseau lo vedeva, era che il necessario livello di
coesione sociale non poteva praticamente essere raggiunto esclusivamente
appellandosi all'interesse dell'agente razionale. La sua soluzione fu una sorta
di programma di educazione che consisteva nel promuovere il patriottismo e il
sentimento civico mediante il potere di strumenti che si appellano ai
sentimenti, quali il simbolismo, la musica, la ritualità e la religione. Prima di
stigmatizzare questo programma come manipolatorio e nemico della libertà, si
deve riconoscere che esso era semplicemente una forma di socializzazione
che ha prevalso sulle altre. Questo programma non cerca di strappare ai
cittadini la loro individualità ma piuttosto di rivestirli di uno spirito civico forte
abbastanza da plasmare una società di individui in un'autentica comunità.
Un aspetto di questa comunità che un lettore moderno potrebbe trovare
particolarmente disturbante è l'obbligatorietà della religione civile secondo
Rousseau e, in particolare, la sua prescrizione della pena di morte per
l'ipocrisia religiosa. Ma, eliminando questa stranezza per noi
inaccettabilmente sanguinaria, molto del resto del pensiero di Rousseau è
rimarcabilmente liberale e tollerante. La cosiddetta “religione civile” che tutti
dovrebbero abbracciare non è in effetti una religione in senso tradizionale
quanto una serie di requisiti dall'ispirazione particolarmente pragmatica che
ogni credo socialmente accettabile dovrebbe soddisfare. La tolleranza che è
al cuore del pensiero di Rousseau è messa in evidenza dalla sua insistenza
che “si dovrebbero tollerare tutte quelle religioni che tollerano le altre fintanto
che i loro dogmi non hanno niente che contrasta coi doveri del cittadino”15.
14 ROUSEEAU J.-J., Contratto sociale in ROUSSEAU, Scritti politici cit., vol.2 p. 115.
15 ROUSEEAU J.-J., Contratto sociale in ROUSSEAU, Scritti politici cit., vol.2 p. 204.
22
Rousseau suggerì alcuni positivi requisiti, come la credenza in una divinità
benevola, ma tutti questi suggerimenti furono fatti per ragioni esclusivamente
pratiche. Il filosofo di Ginevra afferma esplicitamente che gli articoli della
religione civile non sono “dogmi di una religione ma sentimenti di
socievolezza senza di cui è impossibile essere un buon cittadino” e continua
dicendo che coloro che rifiutano di accettare questi principi dovrebbero essere
banditi “non come empi ma come asociali” 16. Così, sebbene Rousseau (come
i suoi contemporanei) credesse che questi principi fossero necessari per la
coesione sociale, la sua argomentazione, presa nel suo complesso,
permetterebbe di farne a meno se la credenza empirica sulla loro utilità
sociale dovesse dimostrarsi mal riposta. Quindi, a dispetto dell'impressione
iniziale, la teoria rousseauiana dovrebbe in effetti implicare una significativa
libertà religiosa.
Anche supponendo di accettare il programma culturale allo scopo di
rafforzare la volontà generale, la libertà morale non è ancora assicurata. Si
potrebbe obbiettare che il governo dei migliori, che Rousseau sostiene, è
antitetico alla libertà morale che richiede che le persone siano padrone di se
stesse. Da un punto di vista puramente teoretico, questa obiezione sarebbe
errata in quanto Rousseau distingue fra governo e sovranità insistendo sulla
supremazia di quest'ultima. Il popolo è il legislatore e la sua sovranità è
inalienabile; il suo ruolo è quello di disegnare quelle leggi generali per mezzo
delle quali la società è messa in grado di funzionare. I funzionari governativi,
al contrario, devono semplicemente applicare queste leggi generali alle
“azioni particolari”. In pratica, un magistrato corrotto potrebbe usare i propri
poteri non per i fini della società ma per i suoi personal17i ma, almeno
teoricamente, sono i cittadini immaginati da Rousseau che decidono davvero
le leggi per la propria comunità sociale.
Se ci concentriamo sull'individuo visto come un cittadino attivo piuttosto che
come un soggetto passivo arriviamo a una comprensione alternativa della 16 ROUSEEAU J.-J., Contratto sociale in ROUSSEAU, Scritti politici cit., vol.2 p. 203.
17 Oppure, come Rousseau stesso ammette nelle Lettere dalla Montagna, il governo può, anche senza mettere in conto la corruzione, prendere una sorta di autonomia e continuità che lo portano a distinguersi sempre più dal popolo legislatore e sovrano; cfr. Lettere dalla Montagna, VII in ROUSSEAU, Scritti politici cit., vol.3, p.15.
23
libertà nella società concepita da Rousseau. La sua concezione della libertà
morale potrebbe essere vista come assai simile a quella che Benjamin
Constant descrive come la “libertà degli antichi” che consisteva in una
partecipazione continuativa e attiva alla gestione collettiva del potere politico.
Tale libertà sarebbe una conseguenza necessaria della volontà generale che
esiste solo nel presente, interpretazione questa che è fortemente sostenuta
da un passaggio del Manoscritto di Ginevra (la prima versione del Contratto
Sociale): “Prendere impegni per l'avvenire è in contrasto con la natura della volontà che
non comanda a se stessa; ci si può, sì, obbligare a fare, ma non a volere; e c'è
molta differenza tra l'eseguire quanto si è promesso, e il volerlo ancora,
quand'ance lo si fosse promesso in precedenza. Ora, la legge non deve essere
un atto della volontà generale di ier, ma di quella di oggi, e noi ci siamo
impegnati a fare non ciò che tutti hanno voluto, ma ciò che tutti vogliono”18
Qui vediamo chiaramente come la libertà morale di Rousseau possa
concepirsi solo come una continua partecipazione alla vita politica. Secondo il
filosofo del Contratto Sociale la cieca obbedienza alle leggi stabilite, lungi
dall'essere un'obbligazione del cittadino è piuttosto un'evasione dai suoi
doveri politici. Rousseau afferma che la legge è “solo l'esplicitazione della
volontà generale” e quindi la legge non ha più stabilità di quanta ne ha la
volontà generale su cui è fondata; trattare le leggi del passato come fossero
incise nella pietra equivale a dissolvere la volontà generale e quindi il dovere
centrale di un cittadino non è quello di obbedire alle leggi ma piuttosto quello
di partecipare alla continua generazione della volontà generale.
In questo senso si può interpretare in modo assai più liberale la frase di
Rousseau sull'obbligare a essere liberi. Il potere coercitivo è assolutamente
impotente a rimpiazzare gli atteggiamenti sottomessi o compiacenti con una
genuina partecipazione politica e questo non fa altro che porci di fronte in
modo ancora più forte l'utopia che sta al cuore del progetto di Rousseau
poiché sarebbe necessaria una sorta di forza interiore che ci costringa
attraverso il suscitare attrazione e desiderio di fronte all'incompleta
18 ROUSSEAU J.-J.,Manoscritto di Ginevra lib.II, c.2 in ROUSSEAU, Scritti politici cit. vol.2, p.41.
24
realizzazione di noi stessi così come essa è al presente, cioè un autentico
desiderio da parte nostra di raggiungere una genuina libertà morale. Poiché
siamo riluttanti a riconoscere la nostra servitù morale, così dovrebbe essere
compito dei nostri concittadini quello di insistere nell'insegnarci cosa è la
verità e, una volta che l'abbiamo conosciuta, il nostro desiderio per l'autentica
libertà dovrebbe essere ciò che ci spinge ad agire in modo tale da
raggiungerla.
Fin qui noi abbiamo esaminato le concezioni di libertà in cui essa è incarnata
dalla volontà generale, tuttavia Rousseau si preoccupa anche di altri tipi di
libertà che sono il risultato della volontà generale. Immediatamente dopo la
frase riguardante l'obbligare a essere liberi, segue un appello a una
giustificazione esterna a questo imperativo: “poiché è questa la condizione
per cui consegnando ogni cittadino alla propria patria, lo garantisce contro
ogni schiavitù”19 di cui quelle economiche e psicologiche sono qui
particolarmente rilevanti.
Centrale nella teoria psicologica di Rousseau è la distinzione fra due forme di
volgere lo sguardo su se stessi, e cioè l'amour de soi e l'amour propre20:
“L'amore di sé è un sentimento del tutto naturale ch eporta ogni animale vegliare
sulla propria conservazione e che nell'uomo, governato dalla ragione e
modificato dalla pietà, dà luogo all'umanità e alla virtù. L'amor proprio, invece, è
solo un sentimento relativo, artificioso, nato dalla società, che porta l'individuo a
far più caso di sé che d'ogni altro, e che ispira agli uomini tutto il male che si
fanno a vicenda, costituendo la vera sorgente dell'onore”21
L'interpretazione della libertà come indipendenza si focalizza su questa
distinzione caratterizzando l'amore di sé come un atteggiamento autentico nei
riguardi di se stessi in contrasto con lo sguardo sociale e artificioso dell'amor
proprio che ci conduce invece a divenire dipendenti e schiavizzati dalle 19 ROUSEEAU J.-J., Contratto sociale in ROUSSEAU, Scritti politici cit., vol.2 p. 96.
20 In questa sezione del nostro lavoro restiamo a quella interpretazione di questa distinzione che è la più diffusa in quanto ancora funzionale al discorso che stiamo qui conducendo. Verso la fine di questo lavoro, la metteremo parzialmente in discussione.
21 ROUSEEAU J.-J., Discorso sull'origine della disuguaglianza in ROUSSEAU, Scritti politici cit., vol.1 p. 239
25
opinioni altrui. Anche in questo caso, in quanto si distingue fra un vero sé,
oggetto dell'amour de soi, e un falso sé, oggetto invece dell'amour propre,
una libertà caratterizzata solo negativamente come non interferenza in uno
spazio privato non è sufficiente a garantire che i cittadini possano raggiungere
quello sguardo libero e indipendente su se stessi su cui si basa l'amour de
soi.
Non è per niente chiaro come la società di Rousseau possa superare questo
problema, forse la pietà e la simpatia generate dalla coscienza dell'unità
possono aiutare a moderare l'amour propre, forse una tendenza naturale a
essere più simpatetici verso chi ci è maggiormente simile potrebbe, sostenuta
dalla sostanziale uguaglianza sociale e dall'omogeneità dei fini, inibire la
rivalità sociale. Come minimo si può pensare che il contratto sociale, fornendo
a tutti coloro che lo sottoscrivono un ugual grado di rispetto, permetta loro di
sviluppare una consapevolezza di sé come cittadini uguali a ogni altro agli
occhi della totalità della società e soddisfi quindi, almeno parzialmente,
l'istinto che si materializza nell'amour propre senza che essi divengano
psicologicamente dipendenti da altre persone per questo senso della propria
dignità. Così, nonostante che in ultima analisi l'amor proprio sia ineliminabile,
la teoria sociale di Rousseau permetterebbe almeno di moderarlo in qualche
modo e di conseguenza permetterebbe anche di raggiungere un più alto
grado di libertà morale.
Ciò che finora abbiamo identificato come libertà morale positiva può essere
caratterizzata meglio anche in senso negativo. Nelle sue Lettere dalla
Montagna, Rousseau scrive: “La libertà consiste meno nell'agire secondo la
nostra volontà che nel non essere soggetti alla volontà altrui”22. Potremmo
prendere questo punto di vista ricollegandolo a quanto abbiamo detto sopra
riguardo alla libertà psicologica, vista qui come parte della libertà civica,
intesa in senso ampio come essere liberati dalla dipendenza personale.
Sarebbe però un errore confondere la libertà con la totale indipendenza
poiché la dipendenza è una caratteristica ineliminabile dell'essere umano,
quantomeno di quello che vive in società; come Rousseau stesso riconosce,
gli unici esseri umani perfettamente indipendenti sono quelli della fase pre- 22 Lettere dalla Montagna, VIII in ROUSSEAU, Scritti politici cit., vol.3 p. 40.
26
sociale dello stato di natura.
Il compito cruciale del contratto sociale di Rousseau non è quindi quello di
assicurarci la pura e semplice indipendenza, bensì quello di formare
un'associazione di persone in cui la reciproca interdipendenza sia compatibile
con la libertà. Per Rousseau, infatti, l'unico modo di raggiungere questo
obiettivo è quello di trasformare la nostra dipendenza sociale spostandone il
centro di gravità dalle altre persone intese come singoli individui con la loro
collocazione nella gerarchia sociale da cui ricerchiamo approvazione alla
società intesa nel suo complesso, “cosicché ogni cittadino si trovi in una
perfetta indipendenza da tutti gli altri e in un'estrema dipendenza dalla città, il
che si ottiene sempre coi medesimi mezzi, perché solo la forza dello Stato
realizza la libertà dei suoi membri“23. Si potrebbe quindi dire che le istituzioni
sociali e le leggi mediano le nostre ineliminabili relazioni di dipendenza perché
esse siano meno lesive della nostra libertà.
La forma di dipendenza da cui ci si dovrebbe liberare, quella forse più
eclatante, è la dipendenza economica che sorge inevitabilmente in presenza
di grosse differenze nel benessere materiale. Rousseau raccomanda “quanto
alla ricchezza, che nessun cittadino deve essere abbastanza ricco da poterne
comprare un altro, e nessuno tanto povero da essere costretto a vendersi”24.
Rimane ovviamente un'ampia interdipendenza economica all'interno della
società dovuta alla divisione materiale del lavoro ma il cambiamento cruciale
consiste nell'alleviare la dipendenza personale. La generale eguaglianza di
benessere aiuta a prevenire le situazioni in cui coloro che stanno peggio
devono sottomettersi alla volontà di coloro che sono ricchi per poter
soddisfare i propri bisogni materiali.
Questa concentrazione sulla dipendenza personale richiede di essere
motivata. A prima vista, può non esserci una sostanziale differenza fra
l'essere obbligati da un individuo e l'esserlo da parte di una legge collettiva: in
entrambi casi, potremmo lamentarci, siamo ugualmente obbligati e la nostra
libertà personale è ugualmente limitata. Rousseau anticipa questa obiezione
23 ROUSSEAU, J.-J., Contratto Sociale, lib.II, c.12 in ROUSSEAU, Scritti politici cit., vol.2 p. 127-128.
24 ROUSSEAU, J.-J., Contratto Sociale, lib.II, c.11 in ROUSSEAU, Scritti politici cit., vol.2 p. 125.
27
in un frammento inedito a cui ci si è riferito a proposito dell'argomento della
libertà morale precedentemente discusso ma che ugualmente si applica al
problema dell'uguaglianza:
“Sottoposti alla legge si resta liberi; non così quando si obbedisce a un uomo, perché
in quest'ultimo caso obbedisco alla volontà altrui, mentre obbedendo alla legge
obbedisco solo alla volontà pubblica che è tanto mia quanto di chiunque. D'altra parte
un padrone può permettere a uno ciò che proibisce a un altro; la legge, invece non fa
eccezione alcuna; perciò la condizione di tutti è uguale e non ci sono quindi né
padroni né servitori”25 ()
Nella seconda parte di questo brano, Rousseau sostiene che la legge ci
garantisce un livello di libertà che è uguale a quello di tutti gli altri cittadini ma,
potremmo domandarci, quanto è elevato questo livello poiché, se non siamo
servi di altri uomini, sicuramente siamo servi della legge? Dovremmo dunque
capire se c'è una qualche minaccia alla libertà presente nella dipendenza
persona su cui la legge possa trionfare.
Si potrebbe sostenere che la dipendenza personale pone una ben definita
minaccia all'autonomia dovuta alla natura capricciosa dell'essere umano e
della sua volontà. Decisioni imprevedibili in quanto arbitrarie possono
eventualmente entrare in conflitto con le volontà di coloro che sono sottoposti
a un superiore capriccioso. I cittadini possono essere messi al riparo da
questo rischio proprio grazie alla funzione protettiva di una legge che impone
l'ordine a quello che altrimenti potrebbe divenire un caos sottoposto solo
all'arbitrio personale. Da qui l'approvazione di Rousseau per l'uguaglianza
formale di fronte alla legge dato che la peggiore delle leggi è migliore del
migliore dei padroni in quanto questi ha delle preferenze ma la legge non ne
ha mai.
È importante notare qui che la legge è universale non solo in quanto essa si
applica a tutti ma anche in quanto essa è l'espressione di tutti. Questa
caratteristica di una legge che sia autenticamente tale, cioè quella di esse
l'incarnazione della volontà generale che ci possiede tutti, ci protegge
ulteriormente dalla capricciosità precludendo la possibilità di leggi arbitrarie o
25 ROUSSEAU J.-J., Frammenti politici, IV, 6 in ROUSSEAU, Scritti politici cit., vol.2 p.245.
28
discriminatorie. Tale legislazione non sarebbe ammissibile perché essa non
riceverebbe il consenso razionale di larghe parti della popolazione e, quindi,
mancando in questo senso di universalità non potrebbe essere espressione
della volontà generale e non sarebbe quindi un'autentica legge.
Queste tre considerazioni – la dipendenza psicologica, la dipendenza
economica e l'universalità della legge come protezione dell'arbitrio –
suggeriscono come lo Stato delineato da Rousseau sia una precondizione
necessaria per portare avanti la libertà civica. Vale a dire che la volontà
generale vuole i mezzi che sono indispensabili a prevenire che ci si debba
sottomettere a una volontà estranea. Poiché, se un individuo non vuole
negare se stesso, la sua caratteristica fondamentale deve essere quella di
volere la propria libertà. Se accettiamo il principio che volere un fine comporti
volere anche i mezzi necessari a conseguirlo, ne segue che una caratteristica
fondamentale della nostra vera volontà è che essa coincide con la volontà
generale, che ne siamo consapevoli o no.
Questa conclusione, in qualche misura controintuitiva, identifica una relazione
oggettiva fra la volontà generale e noi stessi in quanto essa si rivela vera
indipendentemente dalle nostre idee o convinzioni in materia. Questa
caratteristica della libertà civica potrebbe contrastare con la libertà morale che
è intrinsecamente soggettiva per sua natura, essendo quella forma di libertà
che sorge dalla nostra affermazione consapevole delle leggi secondo cui
decidiamo di vivere la nostra esistenza. Questo contrasto può spingerci fino
ad affermare che esistono due distinte condizioni di raggiungimento della
piena libertà politica: quella delle leggi che devono essere oggettivamente
liberatrici, in quanto portano avanti la libertà civica, e quella dei cittadini che
devono abbracciare coscientemente le leggi dello Stato come loro proprie
cosicché esse possano incarnare la libertà morale.
Come tutte le teorie contrattualistiche, una certa parte di libertà naturale è
sacrificata alla sicurezza della libertà civica. Caratteristica unica della teoria di
Rousseau è il concetto di libertà morale – vivere secondo le leggi che noi
stessi abbiamo stabilito. In accordo con l'interpretazione più semplice, questo
è possibile per mezzo del concetto di volontà generale rafforzato da un
programma culturale che incoraggia la coesione sociale e una visione
condivisa dell'interesse comune. La caratterizzazione che Rousseau dà della
29
volontà generale incarna anche la continua partecipazione politica richiesta
dalla “libertà degli antichi” così come la caratterizza Benjamin Constant. La
natura egualitaria della società di Rousseau potrebbe aiutare a moderare la
tendenza, inevitabile in una società, verso l'amour propre invece di
incoraggiare, cosa assai più difficile, un autentico sguardo verso se stessi. In
ultimo, il contratto sociale produce queste condizioni oggettive necessarie a
riconciliare la nostra generale interdipendenza con l'autonomia individuale.
30
Isaiah Berlin critico di Rousseau
La vita e il quadro generale del suo pensiero
Isaiah Berlin nacque a Riga nel 1909 da una famiglia ebraica e visse, per
quanto ancora in tenera età, le due rivoluzioni russe del 1917 e fu proprio in
seguito alla rivoluzione bolscevica d’Ottobre che la sua famiglia emigrò in
Gran Bretagna nel 1921. Berlin segui un percorso di studi di indirizzo
filosofico e politico-economico e divenne insegnante a Oxford, primo ebreo a
raggiungere un tale traguardo.
All’inizio della sua carriera accademica si dette, secondo il clima filosofico
allora imperante a Oxford, alla filosofia di stile analitico e linguistico anche se
dimostrò fin da questi primi passi un grande interesse per la storia delle idee e
per la teoria sociale e politica di cui è testimonianza una biografia intellettuale
di Marx pubblicata nel 1939 e ancora punto di riferimento in materia.
Durante la Seconda Guerra Mondiale in cui fu al servizio del Foreign Office
come funzionario di collegamento negli Stati Uniti, mentre era impegnato
nell’azione politica concreta, rivide il suo percorso filosofico, decidendo di
abbandonare gli studi di filosofia pura per studi di impronta storica in cui
sperava di poter dare un contributo più incisivo e originale.
Berlin aveva sempre avuto idee liberali in campo politico ma negli anni ’50 del
XX secolo, in pieno clima di Guerra Fredda, la difesa del liberalismo divenne
una delle sue preoccupazioni dominanti anche nel campo degli studi. Questa
difesa non scadde però in nessun momento al livello di una ricerca asservita
a fini politici ma si svolse sempre a un livello di riflessione elevato che lo rese
sgradito non solo a chi abbracciava gli ideali marxisti incarnati allora
dall’Unione Sovietica ma anche a chi avrebbe voluto da parte sua un impegno
assai più militante nel contrastare le idee comuniste. Fu in questo periodo che
formulò uno dei capisaldi del suo pensiero e cioè il pluralismo dei valori, un
pluralismo che da lui viene messo in contrasto con ogni tipo di monismo,
31
fosse questo di tipo epistemologico, morale o politico.
Negli anni ’60 si dedicò soprattutto allo studio delle reazioni all’Illuminismo
incarnate soprattutto dal Romanticismo tedesco.
Già in questo periodo, i capisaldi del suo pensiero erano più o meno delineati
(ne è una dimostrazione il famoso saggio “Due concetti di libertà” pubblicato
nel 1958) e da qui in poi egli si dedicò a raffinare e rielaborare queste idee
senza che esse subissero trasformazioni radicali.
Come abbiamo già detto, il suo pluralismo dei valori ebbe effetti importanti
anche a livello epistemologico ed egli nella sua riflessione tenne sempre
fermo il principio che le scienze umane hanno un metodo proprio che non può
essere confuso con quello delle scienze naturali, opponendosi così in maniera
netta a qualunque tentativo di colonizzazione metodologica del campo da lui
praticato da parte di chi propendeva per l’estensione del metodo scientifico
delle scienze fisiche anche al campo storico-culturale. Le scienze naturali,
sosteneva Berlin, nella loro ricerca di leggi universali vanno alla ricerca di
tutto quello che accomuna i fenomeni studiati mentre le scienze umane vanno
alla ricerca di ciò che rende un fenomeno differente dagli altri e quindi unico.
Non interessa allo storico sapere cosa possa accomunare Cesare, Napoleone
e Hitler bensì sapere cosa rende ognuno di questi personaggi assolutamente
unico nella storia.
Dal punto di vista teoretico, come abbiamo detto, il pluralismo dei valori è
forse l’affermazione centrale di Berlin e quindi spendiamo ancora qualche
parola per spiegare meglio questo concetto perché esso ha un ruolo
assolutamente non secondario anche nella riflessione dello studioso inglese
sulla libertà che è l’oggetto principale della nostra esposizione del suo
pensiero.
Berlin non ha espresso una teoria sistematica sulla natura dei valori e così la
sua prospettiva deve essere ricavata a partire dai suoi scritti sulla storia delle
idee. Questa fa sì che le sue affermazioni in merito siano, frammentate e a
volte ambigue anche se non contraddittorie.
Egli sembra appoggiare la visione dell’età romantica, ma che può essere fatta
risalire a Kant, che i valori sono essenzialmente una creazione umana e non
entità dotate di una loro autonomia ontologica che devono essere scoperti da
qualche parte nella realtà, magari deducendoli dalla natura dell’universo o
32
dell’essere umano. Essi sono creati dall’uomo ma è proprio per questo che
hanno un profondo radicamento in noi. Da qui deriva una teoria morale
secondo la quale sono gli esseri umani a essere la realtà moralmente più
rilevante e che ogni azione va valutata proprio per i suoi effetti sugli esseri
umani stessi. Qui si intravede una profonda convinzione di Berlin che vedeva
un grave errore nel guardare alle teorie piuttosto che alla realtà umana e
considerava che il male più grande fosse sacrificare gli esseri umani ai valori
astratti. Da questa prospettiva deriva anche il valore particolare attribuito da
Berlin alla libertà rispetto agli altri possibili valori.
Questa affermazione che i valori sono creazione umana, tuttavia, non scivola
mai nel totale relativismo in quanto ci sono, anche se questa è una
constatazione empirica e non una conclusione dedotta a priori, alcune
caratteristiche invarianti negli esseri umani che rendono, almeno in certe
epoche storiche, alcuni valori più importanti di altri o addirittura assolutamente
necessari. Anche da qui Berlin ricava una ragione a favore del posto speciale
che egli dà alla libertà rispetto agli altri valori.
Infine, Berlin insiste nel dire che ogni autentico valore si impone per se stesso
e non perché esso sia convertibile in termini di qualche altro valore od
obiettivo.
È precisamente da qui che nasce la contestazione che egli fa del cosiddetto
monismo filosofico che egli denomina talvolta “Fallacia Ionica” o “Ideale
Platonico” e che egli definisce nei termini di questi 3 punti principali:
1. Tutte le domande autentiche hanno una e una sola risposta vera e
tutte le altre risposte possibili sono errori.
2. Ci deve essere un percorso praticabile per scoprire la risposta vera che
è in linea di principio conoscibile, anche se può essere al momento
ancora sconosciuta.
3. Le risposte vere, quando sono trovate, sono tutte compatibili le une
con le altre e formano un tutto unico poiché nessuna verità può essere
incompatibile con una qualunque altra. Questo presupposto, a sua
volta, si basa sull’assunzione che l’universo sia un tutto armonico e
coerente.
33
Per Berlin i primi due assunti sono del tutto inapplicabili alla conoscenza
umana e questo comporta che anche il terzo, e cioè una sorta di armonia
prestabilita dell’universo che si riflette nell’armonia della conoscenza, sia
insostenibile.
Per il filosofo inglese, i valori genuini sono molteplici e possono talvolta, anzi
spesso, entrare in conflitto tra di loro senza che questo voglia dire che uno di
essi sia errato o mal compreso, né questo conflitto si può risolvere col dire a
priori che uno sia assolutamente più importante dell’altro. I conflitti di valori
sono “una componente intrinseca della vita umana; l’idea di un compimento
umano assolutamente totale è una chimera…queste collisioni di valori sono
l’essenza di ciò che essi sono e di ciò che noi siamo; … un mondo in cui tali
conflitti sono risolti è un mondo che noi non conosciamo e che non possiamo
neppure comprendere.”26.
Berlin basa queste affermazioni su fondamenti empirici, “sul mondo che noi
incontriamo nell’esperienza quotidiana” in cui “siamo posti di fronte a scelte
fra più fini che si ritengono egualmente ultimi e richieste che sono egualmente
assolute la realizzazione di alcune delle quali comporta necessariamente il
sacrificio delle altre”27. Egli riteneva tuttavia che questo pluralismo riflettesse
non solo una situazione contingente bensì una caratteristica necessaria della
vita morale dell’uomo e dei valori che ne sono le componenti essenziali.
L’idea di una totalità perfetta, della soluzione ultima è non solo irrealizzabile in
pratica ma anche concettualmente incoerente. Eliminare i conflitti di valori
richiederebbe una tale trasformazione che sfocerebbe, alla fine, nel
rovesciamento di quegli stessi valori.
Il pluralismo di Berlin non era una dottrina isolata ma era sostenuto e guidato
da altre idee che lo completavano. Fra queste, la centralità della libertà, che
discuteremo più in profondità fra poco. In secondo luogo, un’idea profonda di
umanesimo che si traduce nel fatto che gli esseri umani concreti sono la
priorità morale più importante. Il filosofo riteneva che, nel tentativo di
orientarsi nei conflitti di valore, la prima indicazione di rotta da tenere fosse
26 BERLIN,I., Due concetti di libertà in IDEM, Libertà, Feltrinelli, Milano 2010, p.333
27 Ibidem.
34
sempre quella di evitare sofferenze estreme agli esseri umani. Ogni conflitto
può essere addolcito, le pretese possono essere messe a confronto, i
compromessi possono essere raggiunti. L’obiettivo deve essere quello di
evitare, per quanto possibile, situazioni senza via di uscita e scelte
intollerabili. La filosofia stessa non può dirci come fare in queste situazioni,
sebbene possa aiutarci a sviscerare un conflitto morale in tutte le sue
implicazioni; unica guida è la concretezza della situazione in gioco.
Una delle caratteristiche principali della visione di Berlin sul pluralismo dei
valori è l’enfasi da lui posta sull’atto di scegliere fra valori diversi. Nell’ottica
del pluralismo, questo implica che non c’è un’unica scelta giusta da fare e
questo per Berlin era un motivo per sostenere l’importanza della libertà o
meglio dell’impossibilità di imporre con la forza una pretesa unica soluzione
corretta. Se il pluralismo implica la necessità del conflitto di valori e questo
può avvenire non solo su singole scelte ma anche sulla scala di modi di vita
complessivi, allora l’essere umano è realmente tale quando può esprimere se
stesso e la propria singolarità di carattere, di storia, di appartenenze facendo
scelte: è questa una caratteristica irrinunciabile di una personalità
autenticamente umana.
Il contributo più conosciuto di Berlin alla teoria politica è stato senz’altro il suo
saggio sulla distinzione fra libertà positiva e libertà negativa. Daremo ora
conto dell’argomentazione esposta nel saggio che è stata non di rado male
interpretata anche a causa di alcune ambiguità dell’esposizione dell’autore.
In Due concetti di libertà28 Berlin cerca di spiegare la differenza fra due
differenti modi di pensare la libertà politica che hanno avuto corso nel
pensiero dell’età moderna e che, egli crede, sono all’origine delle lotte
ideologiche della sua epoca. Berlin chiama questi due modi di pensare la
libertà negativa e positiva29. La distinzione non è di immediata comprensione
28 Pubblicato in originale nel 1958 come prolusione per la sua assunzione della cattedra di Chichele Professor di Teoria Sociale e Politica a Oxford e poi rivisto per la pubblicazione in volume nel 1968. In italiano, ora è pubblicato in BERLIN, I., Libertà, Feltrinelli, Milano 2010, pp. 169-222.
29 Questa distinzione risale almeno a Kant ed è apparsa, almeno in qualche forma, nelle opere di T.H. Green, Bernard Bosanquet e Boris Chicherin. È stata utilizzata anche da Guido De Ruggiero, R.G. Collingwood e J.P. Plamenatz. Berlin stesso riconobbe in Benjamin Constant il principale ispiratore del suo pensiero anche se la distinzione di Berlin fra libertà positiva e negativa può avere un qualche debito anche con la distinzione di Rousseau fra la libertà dell’essere umano e quella del cittadino e alla distinzione più generale, comune fra i filosofi morali di cui il Ginevrino era l’esponente più importante,
35
perché, mentre la libertà negativa viene definita in modo sintetico e chiaro,
egli dà della libertà positiva due differenti definizioni di base da cui derivano
due distinte concezioni.
La libertà negativa viene definita da Berlin come libertà da, cioè l’assenza di
costrizioni sul soggetto che agisce, costrizioni a lui imposte da altre persone.
La libertà positiva viene da lui definita sia nei termini di libertà di, cioè la
capacità (e non la semplice opportunità) di perseguire e realizzare gli obiettivi
voluti, che nei termini di autonomia o di padronanza di sé opposta alla
dipendenza da altri.
L’esposizione di Berlin viene ulteriormente complicata dal fatto che egli
combina insieme l’analisi concettuale con la storia delle idee. Egli associa la
libertà negativa con la tradizione liberale classica così come è emersa e si è
sviluppata in Francia e in Inghilterra dal XVII al XIX secolo, ma l’esposizione
che le è dedicata è molto sintetica e chiaramente favorevole. Più complessa
ed estesa è l’esposizione dedicata alla libertà positiva su cui Berlin si
concentra poiché, egli sostiene, questo è un concetto ambiguo ed è anche
un’idea che ha subito una lunga, e ultimamente sinistra, trasformazione.
Berlin risale nella sua trattazione della libertà positiva alle teorie che si
concentrano sull’autonomia o sulla capacità di dominare se stesso da parte
del soggetto agente30. Fra queste teorie è proprio quella di Rousseau che
Berlin trova particolarmente pericolosa perché, nell’interpretazione del filosofo
inglese, Rousseau ha uguagliato la libertà con il dominio di sé e questo con
fra libertà naturale e libertà morale.
30 Berlin cita la predicazione degli Stoici sull’autodisciplina e l’abnegazione di sé come un modo di resistere, e di rimanere non corrotti, ad autorità terrene irresistibilmente potenti; cita anche l’insistenza di Rousseau che la sola società giusta è quella in cui le persone conservano la loro libertà trasmutandola dal governo di sé individualistico nello stato di natura all’autogoverno collettivo del popolo per mezzo del popolo, cosicché l’obbedienza all’autorità civile è obbedienza a se stessi e quindi è libertà piuttosto che soggezione; cita infine, la filosofia di Kant dell’autonomia morale, dove l’inalienabile libertà e dignità dell’individuo sta nel fatto che esso agisce in accordo con una legge morale che egli dà a se stesso ed è quindi riconosciuto come un essere morale capace di libere scelte e che non dipende da nessun altro. Berlin ha una considerevole simpatia per la prospettiva kantiana, sebbene egli credesse che essa abbia ispirato gravi errori. Egli riconosceva anche come l’ideale stoico fosse ammirevole ma lo accusava che esso restava in buona parte meramente verbale in quanto raggiungere l’indipendenza mediante la rinuncia ai desideri che potrebbero renderlo dipendente dagli altri, per quanto sublime la si possa considerare, nondimeno resta il fatto che l’individuo che compie questa scelta sia, dopo averla fatta, meno libero di quanto era prima in quanto, per quanto liberamente autoimposti, ci sono indubbiamente dei legami interni (ma che derivano da altri esterni) che gli impediscono di agire come realmente vorrebbe.
36
l’obbedienza alla “volontà generale”. Con questa espressione, secondo Berlin,
Rousseau intendeva essenzialmente il bene comune, e cioè il bene dei
cittadini in quanto cittadini. Ma la volontà generale è indipendente e non di
rado in contrasto con quanto i singoli individui vogliono in quanto questi,
sostiene Rousseau, spesso si ingannano riguardo ai loro reali interessi.
Questa idea contrasta con la prospettiva morale e politica di Berlin in due
modi. Il primo è che essa presuppone l’esistenza di un unico vero interesse
pubblico, un unico insieme di decisioni pubbliche che realizza meglio di ogni
altro ciò che è meglio per tutti i cittadini e questo va chiaramente contro il
pluralismo professato da Berlin. Il secondo è che esso si basa su un falso
concetto di ciò che è il soggetto. Nella sua filosofia, Rousseau parte da una
concezione convenzionale, e per Berlin corretta, del soggetto e della sua
volontà individuale per approdare a un’idea di soggetto come citoyen – che
significa, come abbiamo visto che il soggetto ha senso compiuto solo come
membro di una comunità. Rousseau trasforma così il soggetto dall’individuo
empirico con i suoi effettivi desideri a un individuo costituito astrattamente con
i desideri che, in quanto cittadino, dovrebbe avere e che sono gli unici
veramente buoni per lui o per lei, che lo sappia o no.
Nella ricostruzione di Berlin questo slittamento diviene ancora più rilevante, e
più sinistro, nelle filosofie dei discepoli tedeschi di Kant di cui Fichte è il
modello31. Il filosofo tedesco partendo da posizioni fortemente
individualistiche e libertarie finisce per diventare un cantore del Volk, del
popolo tedesco visto non come un popolo fra gli altri ma come il popolo per
eccellenza. La libertà autentica viene qui raggiunta solo immergendosi
totalmente nell’entità collettiva di ordine superiore che sola permette di
entrare in contatto col proprio vero Sé, visto come un noumeno inattingibile
per via empirica, raggiungibile solo per la mediazione dell’entità collettiva. Da
qui allo Spirito oggettivo che si risolve nello Stato di Hegel il passo è
ovviamente breve32 e per Berlin queste idee sono presaghe dei totalitarismi
basati sulla razza e la nazione che nel XX secolo furono incarnati dal 31 Nel volume Freedom and his Betrayal che raccoglie una serie di trasmissioni radiofoniche tenute da Berlin alla BBC nei primi anni ’50, il capitolo su Fichte segue immediatamente quello su Rousseau. (edizione italiana La libertà e i suoi traditori, Adelphi, Milano 2005)
32 E infatti, nell’opera appena citata, il capitolo su Hegel viene subito dopo quello su Fichte.
37
fascismo e dal nazismo.
Per quanto il resoconto di Berlin possa essere contestato sia sul piano
concettuale che su quello della ricostruzione storica, è più importante a
questo punto chiarire che, sebbene nel saggio Due concetti di libertà la libertà
positiva ne esca veramente male, questo non vuol dire che il filosofo inglese
vedesse in essa solo una distorsione generatrice di totalitarismo e violenza.
Egli scrive infatti:
“I due sensi centrali di ‘libertà’ che mi proponevo di indagare sono questi. Mi rendevo conto che erano diversi, che si trattava di risposte a due domande distinte; ma nella mia mente, pur essendo imparentati fra di loro non si scontravano. La risposta a una domanda non determinava necessariamente la risposta all’altra: entrambe le libertà erano fini ultimi dell’uomo, entrambe erano necessariamente limitate, ed entrambi i concetti potevano essere pervertiti nel corso della storia umana.”33
Ciò che nel saggio del 1958 Berlin attacca sono i molti modi con cui la
nozione di libertà positiva, come lui la delinea, è stata usata per negare,
pervertire e distruggere sia la libertà negativa che le forme autentiche di
libertà positiva. Gli obiettivi polemici del filosofo di Oxford non sono dunque la
libertà positiva in sé ma piuttosto alcuni presupposti metafisici su cui essa si
basa e mediante i quali essa è stata distorta: il monismo e la concezione del
“vero Sé”, sia questo visto in chiave individuale o collettiva. Non ci troviamo
dunque di fronte a un incontro di lotta che vede protagonisti la libertà
negativa, sostenuta da Berlin, contro la libertà positiva quanto piuttosto a uno
scontro tra individualismo, empirismo e pluralismo, questi sì sostenuti senza
eccezione dallo studioso inglese, contro collettivismo, monismo, olismo e
metafisica razionalistica da lui aspramente combattuti.
Nell’esposizione di Berlin, la principale connessione fra il pluralismo dei valori,
da lui messo al centro del proprio pensiero, e il liberalismo è la centralità in
entrambe le linee di pensiero del ruolo del soggetto che sceglie. Infatti, i
conflitti di valore che il pluralismo considera strutturali all’autentica esistenza
umana (contrariamente alle astrazioni razionalistiche su una natura umana
33 BERLIN,I., Retrospettiva finale in IDEM, Libertà, Feltrinelli, Milano 2010, p.333.
38
vista come un’armonia, magari in fieri, ma senz’altro possibile) richiedono alle
persone di fare scelte, scelte non solo su ciò che il soggetto deve fare ma
anche su quello che il soggetto vuole essere. Chi deve scegliere su questioni
tanto cruciali vuole ovviamente avere voce in capitolo sul compiersi di queste
scelte ed è, come abbiamo già accennato, proprio questo processo di
assunzione di responsabilità nei riguardi delle proprie scelte il fulcro su cui si
basa un’autentica identità umana di agente morale.
Perché si dovrebbe negare agli individui l’opportunità di scegliere per se
stessi? Una prima risposta è che gli individui, per molte ragioni possibili, fanno
scelte sbagliate e quindi è necessario costringerli a fare le scelte giuste. Ma,
come abbiamo già visto, il pluralismo nega proprio che ci possa essere una
singola risposta giusta ai conflitti di valore che si presentano, bensì molteplici
risposte (bensì non qualunque risposta, differenza che distingue il pluralismo
dal relativismo) possono essere risposte autenticamente umane anche se
esse possono condurre a privilegiare alcuni valori sacrificandone altri dato
che una perfetta armonia di tutti i valori è impossibile.
Allo stesso tempo, mentre il pluralismo dei valori è un argomento a favore
dell’importanza della libertà, esso ha anche la funzione di fattore che modifica
e modera il liberalismo ed evita che Berlin, come molti sostenitori della libertà
negativa del XX secolo e oltre, diventi un libertario. Libertà negativa e positiva
sono entrambi dei valori e devono equilibrarsi reciprocamente e la libertà è un
valore fra gli altri che può confliggere con essi e che va a sua volta bilanciato.
Per questo il filosofo inglese è più sensibile di altri libertari, frequenti
soprattutto in ambito anglosassone, alla possibilità di questi conflitti e alla
possibilità che una certa quota di libertà, in circostanze determinate, possa
dover essere sacrificata alla giustizia, all’uguaglianza o alla sicurezza. Il
liberalismo di Berlin ha dunque un approccio tipicamente pragmatico e
apprezza l’importanza di mantenere un ben dosato equilibrio fra la libertà e
altri valori. Lungi quindi dalla prospettiva del filosofo inglese di essere un
sostenitore di un indiscriminato laissez faire:
“La libertà negativa poteva essere interpretata come laissez faire economico, cioè con una politica che permette ai proprietari di distruggere, in nome della libertà, la vita dei bambini nelle miniere, o ai proprietari di fabbriche di distruggere la salute o il carattere
39
degli operai dell’industria; ma questa era, a mio giudizio, una perversione e non il significato fondamentale del concetto per gli esseri umani.”34
Nondimeno, Berlin rimane un liberale poiché sostiene che preservare un certo
spazio di libertà individuale sia una priorità politica irrinunciabile. Egli giustifica
questa affermazione appellandosi a una versione empirista della legge
naturale in quanto l’esistenza di certi diritti naturali basati sul modo in cui gli
esseri umani concreti sono costituiti mentalmente o fisicamente e l’immoralità
d alterare la vita umana impedendo la realizzazione delle loro aspirazioni è
avvertita come una disumanizzazione. Per quanto il pluralismo dei valori non
assegni alla libertà una supremazia assoluta su tutti gli altri beni possibili per
un’esistenza umana, esso le attribuisce un’importanza speciale in quanto le
persone devono essere libere per poterli conseguire e la società deve
garantire una quota di libertà necessaria alle persone perché possano portare
avanti quelli che J.S. Mill chiama “esperimenti di vita”.35
La critica a Rousseau
Se il saggio Due concetti di libertà ci permette di avere un’idea
sufficientemente precisa del complesso del pensiero di Isaiah Berlin su
questo tema, per poter cogliere in modo più approfondito quali sono le critiche
che il filosofo inglese porta contro Jean Jacques Rousseau altri due scritti ci
possono risultare ancora più utili. Questi sono La libertà e i suoi traditori, che
abbiamo già citato più sopra, e L’età romantica36 in cui il pensiero del saggio
del 1958 è anticipato e preparato ma con riferimenti assai più estesi agli autori
34 Ibidem.
35 Cfr. il saggio di Berlin John Stuart Mill e gli scopi dell’esistenza in IDEM, Libertà, Feltrinelli, Milano 2010, p.223-258.
36 Questo testo è la trascrizione solo parzialmente rivista da Berlin di una serie di lezioni preparate nel 1951-1952 e tenute nel febbraio-marzo 1952. Queste lezioni furono però messe per iscritto già con l’intenzione di farne un libro anche se la revisione di esso non fu mai completata. Titolo originale: Political Ideas in the Romantic Age; edizione italiana L’Età Romantica, Bompiani, Milano 2009.
40
con cui Berlin entra in polemica, fra cui appunto Rousseau. Nel primo, che
come abbiamo detto è la raccolta dei testi di sei trasmissioni fatte da Berlin
per la BBC, la seconda e la terza trasmissione trattano ampiamente il
pensiero del filosofo ginevrino; il secondo scritto, trattando del tema della
libertà, affronta anch’esso, ampiamente e con notevole spirito polemico, il
pensiero rousseauiano.
Ci baseremo, per seguire l’interpretazione che Berlin fa del pensiero di
Rousseau, del primo scritto, molto chiaro e articolato, integrandolo di volta in
volta con il secondo se necessario.
In La libertà e suoi traditori, nella trattazione dedicata al filosofo di Ginevra, il
primo passo di Berlin è andare alla ricerca di quale sia l’originalità del suo
pensiero, al di là dei luoghi comuni (“Rousseau filosofo del sentimento”) e di
quanto era stato già detto da altri prima di lui (tutta la tematica del contratto
sociale.). Berlin dice che, se il problema principale della filosofia politica è il
rapporto tra libertà e autorità37, Rousseau cambia radicalmente l’approccio
che è stato utilizzato dai pensatori precedenti per affrontare e risolvere questo
dilemma. Mentre in precedenza le risposte a questa domanda si basavano sul
tentativo di tracciare una linea di confine che dividesse il territorio in cui
regnava la libertà dell’individuo da quello in cui regnava l’autorità di chi
deteneva il potere pubblico in qualche forma e l’unica differenza fra le varie
risposte stava nella proporzione fra l’uno e l’altro dominio, Rousseau respinge
totalmente questa logica ma soprattutto, usa i due termini su cui si gioca la
contrapposizione, libertà e autorità, riempiendoli di un significato differente.
La libertà è per Rousseau un valore assoluto, qualcosa in mancanza di cui,
come abbiamo già detto, l’uomo non è più tale ma uno schiavo, un non-uomo.
Ma per il filosofo di Ginevra l’essere liberi non è il puro e semplice decidere in
assenza di coercizioni esterne (questa sarebbe quella che Berlin nel suo
saggio del 1958 chiamerà la libertà negativa) perché non ogni atto non
necessitato dall’esterno è degno di essere chiamato libero. Solo gli atti che
siano qualificabili come moralmente giusti sono realmente liberi: se, accecato
dalle passioni, compio ciò che è sbagliato, sono non libero quanto lo sarei se 37 Che Berlin formula con questa domanda “Perché un individuo deve obbedire ad altri individui?”. Cfr. BERLIN, I., La libertà e i suoi traditori, Adelphi, Milano 2005, p.23; IDEM, L’Età Romantica, Bompiani, Milano 2009, p.93.
41
qualcuno mi avesse costretto a compiere quel gesto sotto minaccia di morte.
Entra dunque, a questo punto, nel campo concettuale di questa analisi della
libertà umana un’altra polarità che è quella delle leggi morali, polarità che
concorre a definire la mia umanità né più né meno di quanto fa la libertà. Per
Berlin, la forte insistenza su questo aspetto è un frutto delle radici calviniste di
Rousseau:
“Egli (Rousseau ndr) è, dopo tutto, un cittadino di Ginevra potentemente influenzato dalle tradizioni calviniste della città, e pertanto la visione delle regole del vivere non abbandona mai la sua mente. (…) Rousseau sente appassionatamente tutto questo. Afferma che queste leggi, queste regole di vita non sono convenzioni; non sono espedienti utilitari inventati dall’uomo al semplice scopo di realizzare qualche fine soggettivo o magari anche di lungo periodo. Niente di tutto questo.”38
Ci troviamo dunque di fronte a un altro valore assoluto e paradossalmente,
contrario al primo e Rousseau si trova di fronte al terribile compito di metterli
insieme. Contrariamente agli autori a lui precedenti, come abbiamo detto
poco fa, egli deve assolvere questa impresa senza avvalersi di compromessi
lesivi dell’uno o dell’altro di questi valori perché nessuno dei due ammette di
essere depotenziato. Come fare dunque?
Berlin definisce la famosa formulazione del problema in questione che
troviamo nel Contratto Sociale39
“Non c’è dubbio che il paradosso trovi qui una formulazione appropriatamente paradossale.”40
38 BERLIN, I., La libertà e i suoi traditori, cit., p.69. Berlin correda questa affermazione con una citazione di Rousseau stesso: “Tutte le regole del diritto naturale sono incise nei cuori degli uomini meglio che in tutti i guazzabugli di Giustiniano.”, ROUSSEAU, Considerazioni sul governo di Polonia in Scritti politici, cit., vol.3, p.229.
39 “Trovare una forma di associazione che difenda e protegga con tutta la forza comune la persona e i beni di ogni associato, e mediante la quale ognuno, unendosi a tutti, non obbedisca tuttavia che a se stesso e resti libero come prima”. È questo il problema fondamentale” ROUSSEAU, J.-J., Contratto sociale in IDEM, Scritti politici, cit., vol.2, p.93.
40 BERLIN, I., La libertà e i suoi traditori, cit., p.69.
42
La risposta di Rousseau è ben nota:
“ognuno, dandosi a tutti, non si dà a nessuno, e poiché non vi è nessun associato sul quale non si acquisti lo stesso diritto che gli si cede su di sé, si guadagna l'equivalente di tutto ciò che si perde e una maggior forza per conservare ciò che si ha”41
una risposta che Berlin definisce
“suggestiva (…) oscura e misteriosa”42
e che egli si dedica ad analizzare nei suoi presupposti che rendono possibile,
almeno secondo il filosofo di Ginevra, trovare questo punto di intersezione fra
la libertà e l’autorità all’interno della costruzione rousseauiana del Contratto.
Il primo presupposto, come abbiamo già sopra accennato, è una modifica del
concetto di libertà come lo si intende nel linguaggio comune. Non si tratta qui
semplicemente di non essere costretti a fare qualcosa contro la propria
volontà ma di non essere impediti da niente e nessuno a raggiungere ciò che
la propria natura, nel suo nucleo più autentico, desidera. Potremmo dire che
l’essere umano non è libero se il dettato della legge a lui esteriore si
identificasse con il dettato della legge a lui interna? Ovviamente no, perché gli
verrebbe ordinato di compiere solo quanto lui vuole già autonomamente.
Si presenta però un problema: se si tratta di trovare la concordia fra i desideri
profondi di un individuo e quanto la legge ordina questo può, nella prospettiva
di Rousseau, essere considerata una soluzione accettabile, ma come fare
quanto, come è normale che accada nella società, i diversi individui hanno
desideri confliggenti fra di loro? Era a questo punto che in Hobbes scatta
l’esigenza del patto sociale, proprio per evitare gli effetti distruttivi del conflitto
fra i desideri diversi degli individui che per questo entrano in contrasto fra di
loro. Rousseau risolve questo problema in maniera diversa dai suoi
predecessori e, soprattutto, senza che questo comporti un compromesso fra
41 ROUSSEAU, Contratto sociale, cit., p.94.
42 BERLIN, I., La libertà e i suoi traditori, cit., p.72.
43
le due polarità che abbiamo visto, quella della libertà e quella dell’autorità
della legge morale. Poiché ciò che ogni persona veramente desidera, al di là
dei falsi desideri indotti dalle convenzioni sociali, sgorga dalle profondità della
natura umana e questa natura è identica in tutte le persone che non si
lasciano deviare rispetto alle sue esigenze, i loro desideri non potranno che
essere in armonia fra di loro perché la natura stessa è armonia:
“Rousseau sa che, siccome la natura è armonia (e sta qui la grande dubbia premessa di quasi tutto il pensiero settecentesco), ciò che io realmente voglio non può cozzare con ciò che qualcun altro realmente vuole. Il bene è infatti ciò che soddisferà realmente le esigenze razionali di ogni individuo; (…) Se dunque la natura è armonia, allora qualunque cosa soddisfi un singolo uomo razionale deve necessariamente essere quanto meno compatibile con qualunque cosa soddisfi altri uomini razionali.”43
Arriviamo qui al secondo fondamentale presupposto della prospettiva
antropologica e politica di Rousseau: la natura autentica dell’uomo, come
d’altronde la natura dell’universo che in questa si riflette, è armonica e
conseguentemente i fini e i desideri, posto che siano autentici, di tutti coloro
che si lasciano guidare da questa natura non possono non armonizzarsi fra di
loro. È evidente come, secondo l’ottica del pensiero di Berlin che abbiamo
sopra esposto, questo presupposto non è altro che una delle molte
incarnazioni di quel monismo metafisico che è per lui la fonte di tutte le
distorsioni del concetto di libertà. La volontà generale, concetto centrale nella
costruzione politica rousseauiana, per il filosofo inglese non è altro che
l’incarnazione sociale di questa armonia della natura e lo Stato che si regge
su questa volontà non può fare niente che danneggi alcuno dei suoi membri,
a patto, beninteso, che questi si lascino guidare dalla voce della natura che
risuona in loro e non si lascino sviare dai falsi desideri indotti dalla società,
incarnazione del tutto secolarizzata ma non meno diabolica del serpente del
giardino di Eden. È a questo punto che secondo Berlin avviene la transizione
fra la nozione di contratto sociale, che aveva prima di Rousseau già una
lunga storia con il suo portato di individualismo, estremamente conflittuale
43 BERLIN, I., La libertà e i suoi traditori, cit., p.74-75 (le evidenziazioni del testo sono mie).
44
come in Hobbes o semplicemente competitivo ma con un certo fair play tutto
anglosassone come in Locke, in un qualcosa di radicalmente diverso perché il
risultato di esso nel Contratto sociale è un’entità sovrapersonale ma, poiché
dotata di una sua volontà, la volontà generale appunto, un’entità che
trascende ogni singolo membro che la compone:
“C’è un momento mistico in cui Rousseau misteriosamente passa dalla nozione di un gruppo di individui che intrattengono rapporti liberi e volontari, e che perseguono ciascuno il proprio vantaggio personale, alla nozione di sottomissione a qualcosa che da un lato coincide con me stesso, ma dall’altro è più grande di me – è il tutto, è la comunità.”44
Il monismo della natura armonica genera dunque una visione dello Stato di
tipo organicistico-collettivistico perché non ci sono posti diversi per i diversi
individui, dato che gli individui sono tutti uguali (l’egualitarismo
rousseauiano!), ma perché l’organismo sociale ha un’esistenza propria che è
ormai indipendente e autonoma rispetto agli individui che gli hanno “dato la
vita”.
Ma, continua Berlin, a questo punto Rousseau si trova di fronte a un ulteriore
problema: l’esperienza quotidiana ci mostra che la maggior parte degli uomini
non segue la voce della natura che risuona dentro di loro e che il naturale
amour de soi viene continuamente distorto dal socialmente indotto amour
propre e quindi uno Stato, per quanto costruito in accordo con tutti i dettami
della volontà generale, non potrebbe reggersi se non coartando queste
persone e i loro desideri. Che fine fa allora la libertà? Non viene inghiottita
dall’autorità, anche se questa autorità è “secondo natura”?
È qui che Berlin trova l’ennesima eredità velenosa, forse la più mortifera, che
Rousseau lascia alla filosofia politica a lui successiva:
“Per Rousseau, dire che un uomo vuole ciò che è cattivo, sebbene potenzialmente voglia ciò che è buono, è come dire che c’è in lui una qualche parte segreta che è il suo ‘vero’ io; che se fosse se stesso, se fosse come dovrebbe essere, se fosse il suo vero io,
44 BERLIN, I., La libertà e i suoi traditori, cit., p.84.
45
allora cercherebbe il bene. Di qui all’affermazione che esiste un senso in cui egli è già in cerca di questo bene, ma non lo sa, il passo è breve.”45
Il modo per riconciliare il principio del rispetto assoluto della libertà con il fatto
che concretamente la libertà degli individui va in direzioni contrastanti che, se
rispettate tutte, condurrebbero alla distruzione dello Stato è, così Berlin legge
il percorso concettuale di Rousseau, quello di introdurre una scissione interna
a ciascun individuo la cui libertà fattuale non sia in sintonia con la volontà
generale. Quindi, se lo Stato rispetta la libertà del vero Io e coarta quella
dell’Io falso, dice Berlin, il gioco è fatto: lo Stato sta insieme e la libertà è
rispettata nella sua sacralità assoluta. È questo, secondo il filosofo inglese, il
significato della frase di Rousseau che afferma che la società può costringere
gli individui a essere liberi. A questo punto, il giudizio di Berlin sul filosofo di
Ginevra, che pure non era stato fin qui per niente tenero, diventa spietato:
“Costringere un uomo a essere libero significa costringerlo a comportarsi in maniera razionale. (…) E se mai scoprirà in che cosa consiste il suo vero io, me ne sarà grato: sta qui il nocciolo di questa famosa dottrina, e dopo Rousseau non c’è stato in Occidente un solo dittatore che non abbia utilizzato questo mostruoso paradosso per giustificare il suo comportamento. I giacobini, Hitler, Mussolini, i comunisti: tutti hanno utilizzato il tipo di ragionamento che consiste nel dire che gli uomini non sanno realmente cosa vogliono, e che quindi volendolo per loro, volendolo per conto loro noi gli diamo ciò che in qualche senso occulto, senza saperlo, essi stessi ‘in realtà’ vogliono.”46
È evidente da questo giudizio come per Berlin l’accusa portata contro
Rousseau di aver gettato con la sua filosofia un seme del totalitarismo è
tutt’altro che ingiustificata e il principio del totalitarismo, almeno nel senso
comune (Berlin scrive queste parole prima che Hannah Arendt scrivesse la
sua opera su Le origini del totalitarismo e prima del dibattito che seguì
quest’opera) con cui il termine viene utilizzato che è precisamente quello di un
45 BERLIN, I., La libertà e i suoi traditori, cit., p.85.
46 BERLIN, I., La libertà e i suoi traditori, cit., p.86-87.
46
potere che non solo riempie tutti gli spazi della società ma aspira a invadere
anche l’interiorità dei propri soggetti, cosa che neppure il peggior Leviathano
hobbesiano aveva pensato di poter portare a compimento.
47
Valutazione critica del giudizio di Berlin su Rousseau
Come abbiamo detto sopra, i due concetti su cui si fonda il giudizio di Berlin
su Rousseau sono il monismo metafisico di cui questi sarebbe
rappresentante, esemplificato dall’idea di una natura armonica in cui tutto
dovrebbe “ritornare a uno” e quello di una distinzione fra un vero Io (che si
fonda appunto sulla natura di cui l’uomo è parte integrante) e un falso Io
(prodotto invece delle convenzioni sociali) con la conseguenza che lo Stato
potrebbe governare solo tenendo conto dei supposti desideri dell’Io vero,
calpestando e reprimendo quelli dell’Io falso. Andremo quindi ora ad
analizzare più attentamente questi due concetti cercando di capire se
l’interpretazione che ne dà Berlin è corretta e quindi se il suo giudizio è
sufficientemente fondato.
È evidente una netta contrapposizione in Rousseau fra la natura e la
cultura47, ma di quale natura si tratta qui? Non siamo qui nel campo, certo da
lui conosciuto perché a lui contemporaneo, del naturalismo illuministico per il
quale aumentando le capacità della ragione, e con questa conoscendo meglio
la natura, gli uomini diventerebbero migliori. Anzi, queste idee sono state
aspramente criticate dal Ginevrino fin dal suo primo scritto e questa critica è
stata portata avanti anche nelle opere successive come ci testimonia
quest’altra citazione dall’Emilio:
“Coscienza! Coscienza! Istinto divino, immortale e celeste voce; guida sicura di un essere ignorante e limitato ma intelligente e libero; giudice infallibile del bene e del male, che rende l’uomo simile a Dio! Tu ci indichi la eccellenza della sua natura e la moralità delle sue azioni; senza di non sento in me stesso nulla che mi elevi al di sopra delle bestie, oltre il triste privilegio di smarrirmi di errore in errore, con l’aiuto di un intelletto sregolato e di una ragione senza principio!”48
Anche se spesso questa opposizione al progresso è stata interpretata nel
47 “Tutto è bene uscendo dalle mani dell’Autore delle cose, tutto degenera fra le mani dell’uomo”. ROUSSEAU, J.J., Emilio, Sansoni, Firenze 1972, p.6.
48 Ibidem, p.292 (mia la sottolineatura del testo ndr).
48
senso di un “primitivismo” di cui Rousseau sarebbe stato fautore, non è di
questo che si tratta. L’obiettivo rousseauiano è che l’uomo si liberi dall’etero-
dipendenza calcolatrice, da un’esistenza costruita sulla base dell’opinione
altrui e dell’ambizione che nasce dalle relazioni sociali per arrivare infine, non
a un “ritorno alla natura”, bensì a un’alleanza tra natura e ragione, o meglio
tra natura da una parte e società e cultura dall’altra. In questo senso la
coscienza di cui il Vicario Savoiardo canta le lodi è la voce di una natura
libera dalla dipendenza dagli altri individui ma sempre dentro il quadro di una
società e delle sue relazioni senza di cui la coscienza, in quanto operante
attraverso il linguaggio, neppure potrebbe sorgere, e la volontà generale
rappresenta le esigenze di questa stessa natura espresse all’interno di un
quadro di leggi pubblicamente accettate. Sia che si intraprenda per arrivare a
questa “Nuova Alleanza” la strada individuale proposta dall’Emilio sia che si
intraprenda quella collettiva e politica proposta dal Contratto sociale è
comunque necessaria una certa austerità nella vita materiale, è necessaria
una sorta di precondizione materiale perché indubbiamente egli è contro una
società dove le relazioni fanno nascere nell’uomo falsi bisogni e vorrebbe una
società che, sull’esempio di quella di Clarens nella Nouvelle Heloise, si
accontenta di poche cose ed essenziali e ogni altra struttura di vita economica
gli sembra un ostacolo alla realizzazione del suo obiettivo49. Da questo nasce
un’altra caratteristica della Nuova Alleanza del Ginevrino: mentre nella visione
politica di un Aristotele le necessità economiche della sopravvivenza
dell’individuo, e quindi della società, entrano in conflitto con la sua vita di
cittadino e da qui nasce la giustificazione della schiavitù come modalità che la
società della pòlis escogita per tenere i propri cittadini liberi per la
partecipazione attiva alla politica, Rousseau pensa invece che queste due
esigenze siano riconducibili all’unità e quindi non è tanto la vita politica in sé e
per sé che dona allo Stato del Contrat la sua identità, ché anzi i cittadini vi
partecipano assiduamente ma con misura non replicando certo la giornata
passata all’agorà degli Ateniesi celebrati sempre come modello di vita
49 Sarebbe interessante qui analizzare in questa prospettiva la cosiddetta disputa sul lusso che Rousseau intrattenne con Voltaire ma questo sarebbe un intero filone di ricerca che avrebbe bisogno di uno spazio che qui non abbiamo. Su questo argomento si può comunque utilmente leggere BORGHERO, C. (a cura di), La polemica sul lusso nel Settecento francese, Einaudi, Torino 1974.
49
politica50, bensì l’unità che i cittadini stessi hanno e conservano fra di loro. Per
dirla con una sorta di battuta non si rimpiange tanto l’agorà di Atene bensì la
quercia delle valli svizzere51.
Ma c’è ancora qualcosa d’altro che differenzia Rousseau dal resto del
naturalismo settecentesco e che ci restituisce una concezione della natura
che solo in parte riflette quell’armonia che gli attribuisce Berlin ed è una forte
consapevolezza, tutta agostiniana via la spiritualità calvinista in cui Rousseau
era stato educato, della polarità fra bene e male, della battaglia, che nel cuore
umano ha il suo luogo di elezione, che questi due armati conducono
incessantemente l’uno contro l’altro52. Se il male, come abbiamo detto sopra,
è identificato con l’eterodipendenza, il bene sarà allora ovviamente identificato
con il trovare in sé e solo in sé i motivi del proprio agire (e qui possiamo in
effetti trovare una prospettiva che è in linea con la libertà positiva di Berlin) e
la natura non è dunque qualcosa che si debba cercare intorno a noi e perché
costituisca per noi un modello di comportamento, secondo l’approccio
oggettivizzante della filosofia e della scienza del suo tempo, ma essa va
ritrovata piuttosto dentro di noi, essa sta al termine di un lungo percorso di
ritorno a se stessi, alla propria interiorità e di un’analisi dei nostri sentimenti e
50 È forse per questo che Rousseau, ben più di Atene, si ispira agli austeri Spartani come modello di cittadinanza?
51 “La pace, l’unione, l’uguaglianza sono nemiche delle sottigliezze politiche. Gli uomini retti e semplici sono difficili da ingannarsi per via della loro semplicità; le lusinghe e i pretesti raffinati con loro non hanno successo; non sono neanche abbastanza fini per essere ingannati. Quando si vedono presso il popolo più felice del mondo gruppi di contadini regolare gli affari dello stato sotto una quercia e condursi sempre saggiamente, ci si può impedire di disprezzare le raffinatezze delle altre nazioni, che si rendono illustri e miserabili con tanta arte e tanti misteri?” J.J. ROUSSEAU, Contratto sociale, lib. IV, cap.1 in ROUSSEAU, Scritti politici cit., vol.2 p.171.
52 “Due amori quindi hanno costruito due città: l’amore di sé spinto fino al disprezzo di Dio ha costruito la città terrena, l’amore di Dio spinto fino al disprezzo di sé la città celeste. In ultima analisi, quella trova la gloria in se stessa, questa nel Signore. Quella cerca la gloria tra gli uomini, per questa la gloria piú grande è Dio, testimone della coscienza. Quella solleva il capo nella sua gloria, questa dice al suo Dio: Tu sei mia gloria e sollevi il mio capo. L’una, nei suoi capi e nei popoli che sottomette, è posseduta dalla passione del potere; nell’altra prestano servizio vicendevole nella carità chi è posto a capo provvedendo, e chi è sottoposto adempiendo. La prima, nei suoi uomini di potere, ama la propria forza; la seconda dice al suo Dio: Ti amo, Signore, mia forza. Nella prima città, perciò, i sapienti, che vivono secondo l’uomo, hanno cercato i beni del corpo o dell’anima o tutti e due; Nell’altra città invece non v’è sapienza umana all’infuori della pietà, che fa adorare giustamente il vero Dio e che attende come ricompensa nella società dei santi, uomini e angeli, che Dio sia tutto in tutti.” (AGOSTINO, La città di Dio, Rusconi, Milano, 1984, pag.691-692).
50
delle nostra inclinazioni53. Per così dire, anche la natura intesa in senso
oggettivo può essere riconosciuta solo nella sua voce che risuona nella nostra
soggettività, voce che però ha bisogno di essere liberata dai rumori di fondo
delle inclinazioni disordinate e delle passioni sfrenate. Non possiamo non
trovare qui, se confrontiamo Rousseau con Agostino, un parallelo di quanto
possiamo trovare nel percorso metafisico di Cartesio. Questi cercava il
fondamento del conoscere e poteva trovarlo solo nel Cogito come primo
fondamento con Dio che fungeva solo da rincalzo e da puntello. Rousseau,
partito agostinianamente alla ricerca della verità dentro di sé, non trova prima
di tutto, come il vescovo di Ippona, che in interiore hominis habitat Deus bensì
vi trova solo il proprio Io, un Io che certamente come la statua di Glauco va
purificato e ripulito ma che, una volta completato questo “restauro” non ha
bisogno di appoggiarsi a nient’altro che a se stesso per attingere alla
conoscenza del bene e della verità. È questa la natura di Rousseau, una
natura dunque che sì, in parte, si contrappone alla società e alla cultura ma
che, per ritornare a se stessa non ha altre possibilità concretamente
realizzabili che quella di ritrovare con quelle un modus vivendi, un equilibrio,
sia esso individuale che sociale e politico.
Il secondo concetto chiave nella ricostruzione del “Pubblico Ministero” Berlin
contro l’imputato Rousseau, reo nelle parole del filosofo inglese di essere nel
novero dei traditori della libertà, è la scissione fra vero e falso Io, scissione
che permetterebbe a chi governa di farlo in favore del vero Io trascurando i
desideri e gli interessi di quello falso anche quando, ed è il caso più
frequente, questi desideri e interessi fossero gli unici a essere avvertiti ed
espressi dagli individui.
Ogni prospettiva interpretativa del pensiero di Rousseau che si basa su
questa scissione interiore, riflesso soggettivo di una altrettanto profonda
scissione fra società e natura, si basa sul dualismo, evidentissimo nel
pensiero del Ginevrino, fra amour de soi e amour propre, naturale il primo,
53 “Ne ho visti molti che filosofavano assai più dottamente di me, ma la filosofia era loro, per così dire, estranea. Volendo essere più sapienti degli altri, studiavano l’universo, per sapere come era ordinato, nello stesso modo in cui avrebbero studiato una macchina che si fosse loro presentata allo sguardo, così, per pura curiosità. Studiavano la natura umana per poterne parlare con cognizione ma non per conoscere se stessi; si davano da fare per istruire gli altri, ma non per farsi luce dentro.” ROUSSEAU, J.J., Le fantasticherie del passeggiatore solitario, Rizzoli BUR, Milano 1979, p.178.
51
artificiale il secondo, innato istinto dell’uomo secondo natura l’amore di sé,
artificiosa costruzione frutto delle relazioni sociali l’amor proprio, soggetto
autentico e autonomo il primo, maschera da portare al cospetto degli altri il
secondo. È solo un univoco carattere positivo del primo e negativo del
secondo che tiene insieme questa costruzione ed è questa chiara
suddivisione fra buoni e cattivi che unifica la gran parte della storiografia
rousseauiana.
Ma se il binomio concettuale fosse meno polarizzato di quanto normalmente
la volgata rousseauiana tende a pensare?
In effetti, c’è una linea di interpetazione del pensiero di Rousseau che va in
questa direzione. Iniziata da Nicholas Dent, sostenuta da John Rawls (che la
fa risalire a Kant) e da Frederick Neuhouser sembra, negli ultimi studi
rousseauiani in lingua anglosassone, aver del tutto sostituito l’interpretazione
classica54.
Proviamo, seguendo questa linea di interpretazione, a ripercorrere i vari stadi
che dallo stato di natura vanno alla società civile per vedere come essi
possono essere reinterpretati in questa diversa prospettiva.
Nel primo stadio dello sviluppo umano, lo stato di natura propriamente detto,
le nostre facoltà non sono sviluppate. Allora siamo mossi dall’amour de soi
(l’amore naturale per noi stessi) e da desideri semplici come il desiderio di
cibo, di riparo, di sonno, e di sesso. E sebbene proviamo compassione per gli
altri, il che è la fonte delle virtù sociali55, questo stadio è ancora animalesco.
Cioè, è lo stadio di un animale pigro, irriflessivo, e tuttavia felice e piuttosto
innocuo, un animale che non è incline a infliggere dolore agli altri. Ma, anche
se considerati come animali, gli esseri umani sono distinti dagli altri animali
sotto due aspetti molto importanti.
In primo luogo, essi possiedono la capacità di esercitare la libera volontà, e
54 DENT, N. J. H. Rousseau: An Introduction to his Psychological, Social and Political Theory, Blackwell, Oxford, 1988; DENT, N. J. H., voci “Amour de soi,” “Amour propre,” and “Denaturing,” A Rousseau Dictionary, Blackwell, Oxford 1992; DENT, N. J. H., Rousseau, Routledge, London, 2005; J. RAWLS, Lectures on the History of Political Philosophy, (a cura di S. Freeman) Harvard University Press, Cambridge, Ma 2007); F. NEUHOUSER, “Rousseau on the Relation between Reason and self-Love [Amour-Propre]”, Internationales Jahrbuch des Deutschen Idealismus, 1 (2003), pp. 221–39.
55 J.J. ROUSSEAU, Discorso sull’origine e i fondamenti della disuguaglianza in ROUSSEAU, Scritti politici cit., vol.1 p. 163-164
52
così le potenzialità di agire alla luce di ragioni valide; a differenza degli
animali, essi non sono guidati dai soli istinti.
Secondo, gli esseri umani sono perfettibili, cioè hanno le potenzialità per
migliorare se stessi attraverso lo sviluppo delle loro facoltà e la loro
espressione nella cultura del tempo. Un aspetto della nostra perfettibilità, che
dipende dal linguaggio, è che siamo esseri storici. Ciò significa che la
perfettibilità risiede tanto nella specie quanto nell’individuo, e si mostra nello
sviluppo storico della civiltà. La realizzazione particolare della nostra natura
dipende dalla cultura della società in cui viviamo. Al contrario, gli animali
diventano tutto ciò che saranno relativamente in pochi mesi, e oggi sono
uguali a come erano migliaia di anni fa56.
Tuttavia, quando l’uomo si fu differenziato dagli altri animali attraverso lo
sviluppo culturale – per mezzo del linguaggio e delle prime semplici forme di
organizzazione sociale (famiglie e piccoli gruppi) – l’uomo cominciò a
preoccuparsi di due cose: innanzitutto, il benessere naturale e i mezzi per
mantenerci in vita e, secondo, delle opinioni altrui a suo riguardo di noi e della
sua posizione relativa nel gruppo sociale. Le prime preoccupazioni sono
l’oggetto dell’amour de soi (l’amore naturale per noi stessi), il quale, come ho
notato prima, è la preoccupazione per il proprio bene così come è dato da
certi bisogni naturali comuni all’uomo e agli altri animali. I secondi sono
oggetto dell’amour propre, una forma diversa di attenzione per se stessi che
sorge solo in società. Si tratta della preoccupazione naturale per una
posizione sicura nelle relazioni con gli altri che implica il bisogno di essere
accettati dagli altri come eguali.
Sottolineo che, nella prospettiva di questi autori, l’amour propre ha una forma
naturale, assieme al suo oggetto proprio, così come una forma innaturale, che
ha un proprio oggetto, pervertito o innaturale. Nella sua forma naturale o
propria (la sua forma appropriata alla natura umana), l’amour propre è il
bisogno che ci spinge ad assicurare a noi stessi un eguale status rispetto agli
altri e una posizione fra i membri del nostro gruppo in base alla quale siamo
accettati come una persona che ha bisogni, desideri e interessi che devono
essere presi in conto sulla stessa base di quelli di ogni altro. Ciò significa che 56 Ibidem, p.150.
53
sulla base dei nostri bisogni e delle nostre necessità possiamo avanzare
pretese che sono accettate dagli altri come pretese che impongono limiti
legittimi alla loro condotta. Chiedere riconoscimento da parte degli altri e
averne bisogno implica che, a nostra volta, questo riconoscimento lo si dia in
cambio anche agli altri. Infatti, essendo mossi da questo amour propre
naturale, siamo pronti ad assicurare agli altri esattamente la stessa posizione,
e a riconoscere i limiti legittimi che i loro bisogni e le loro pretese legittime
impongono a noi, a patto che – e questo è essenziale – il nostro status eguale
sia accettato e reso sicuro all’interno degli assetti sociali.
Al contrario, l’amour propre innaturale o pervertito (spesso tradotto
semplicemente con “vanità”) si rivela in vizi come la vanità e l’arroganza, nel
desiderio di essere superiori e di dominare gli altri, e di essere ammirati da
loro. Il suo fine innaturale o pervertito consiste nel voler essere superiori agli
altri e nel far sì che essi occupino posizioni inferiori alla nostra.
Coloro che sostengono questa prospettiva interpretativa portano a favore di
quella che potremmo chiamare la visione ampia dell’amour propre due
ragioni: la prima è che se la società fosse condannata al solo amour propre
pervertito, non ci sarebbe praticamente nessuna speranza di costruire una
società diversa da quella che Rousseau, ma anche noi, aveva sotto gli occhi.
Allora perché scrivere il Contratto sociale? La soluzione alla condizione
umana che Rousseau offre nel Contratto è coerente con il Secondo discorso
solo se si adotta le visione ampia dell’amour propre. Senza di essa, il
pensiero di Rousseau diventa molto più cupamente pessimista, e il tipo di
società politica dipinto nel Contratto sociale appare del tutto utopico.
La seconda ragione è che in sé non c’è nessuna contraddizione fra richiedere
per sé il riconoscimento altrui di persona degna di rispetto e il concedere un
uguale riconoscimento agli altri, vale a dire che nella concezione di un amour
propre rettamente inteso non c’è niente di intrinsecamente illogico.
John Rawls nelle sue Lezioni sulla storia della filosofia politica, oltre a queste
ragioni, cita anche a sostegno di questa tesi un brano di Kant che gli sembra
essere in linea con questa prospettiva di interpretazione:
Le disposizioni all’umanità possono essere collocate sotto il titolo generale dell’amore di sé, sempre fisico, ma tuttavia comparato
54
(per cui si richiede la ragione); in quanto ci si giudica felici o infelici solo in confronto con gli altri. Da questo amore di sé deriva l’inclinazione dell’uomo ad acquistarsi un valore nell’opinione altrui; ed originariamente, ad acquistarsi, senza dubbio, solo il valore dell’uguaglianza, per cui a nessuno permettiamo la supremazia su noi stessi, sentendo insieme la costante preoccupazione che altri possa aspirarvi; sì che da questo timore, a poco a poco, spunta l’ingiusto desiderio di acquistare noi stessi la supremazia sugli altri. Su questa inclinazione, cioè sulla gelosia e sulla rivalità, possono innestarsi i vizi più grandi: inimicizie segrete pubbliche contro tutti coloro che consideriamo estranei a noi; ma questi vizi non derivano propriamente per se stessi dalla natura, come se essa fosse la loro radice. Essi invece, per il timore che altri acquisti su di noi una superiorità da noi odiata si manifestano come nostre inclinazioni a procurarci, per nostra sicurezza, questa preponderanza sugli altri [...] I vizi che si innestano su questa inclinazione possono essere chiamati anche vizi della cultura e, nel loro più al- to grado di cattiveria [...] come, per esempio, nell’invidia, nell’in- gratitudine, nella gioia dei mali altrui, ecc., essi ricevono il nome di vizi satanici.57
La ragione ci mostra chiaramente che se l’amour propre non è, come dice
Kant, innanzi tutto un desiderio che mira semplicemente all’eguaglianza, e se,
una volta che dalle istituzioni sociali gli venga garantita tale eguaglianza non è
pronto ad attribuire per reciprocità la stessa eguaglianza agli altri, quale
fondamento psicologico si dà nella natura umana, per come la concepisce
Rousseau, che renda possibile la società che lui sperava di costruire anche
mediante il Contratto sociale?
Ma allora, se dobbiamo accettare questa prospettiva, quale differenza ci
sarebbe fra l’amour propre naturale e l’amour de soi che, nell’interpretazione
tradizionale costituiva la polarità opposta di quello?
La differenza è semplice e allo stesso tempo sufficientemente netta da
giustificare questa articolazione più complessa rispetto al più semplice
schema binario: l’amour de soi non ha bisogno di nessuna controparte
sociale, esso è intrinseco all’individuo in quanto tale anche senza nessuna
relazione con altri individui; l’amour propre naturale, e ancora di più quello
pervertito, è un sentimento invece essenzialmente relazionale, esso ha
bisogno di un contesto sociale in cui, sia secondo la modalità più retta che in
57 KANT, I., La religione entro i limiti della sola ragione, Laterza, Bari 1985, p. 26.
55
quella più distorta, possa svilupparsi. Dunque, si potrebbe anche dire,
rovesciando i termini, che l’amour propre naturale non è altro che l’amour de
soi allorquando esso si manifesta all’interno delle relazioni sociali.
Ovviamente, di gran lunga molto più diffusa è l’idea che l’amour propre sia
semplicemente ciò che ho chiamato l’amour propre innaturale o pervertito, e
nient’altro che questo e questo sia perché i testi, nella loro interpretazione più
diretta sembrano indicare l’interpretazione tradizionale piuttosto che questa
più recente e poi perché questo nuovo modo di intendere la distinzione fra
l’amour propre e l’amour de soi sembra tagliare alla radice un altro luogo
comune storiografico dell’interpretazione rousseauiana, e cioè la
contrapposizione netta e irrimediabile di natura e cultura.
Comunque si voglia risolvere questo problema di interpretazione del pensiero
di Rousseau, mi sembra che questo excursus ci abbia dato sufficienti
elementi per mettere in crisi una visione troppo nettamente dualistica
dell’antropologia del filosofo di Ginevra quale è quella di Berlin per cui,
seppure le radici agostiniane di Rousseau indicano, come abbiamo già detto,
una certa tendenza al dualismo, questa tendenza ha piuttosto caratteristiche
morali che non quelle assai più profondamente radicate nella psicologia e
antropologia dell’uomo rousseauiano che sono attribuite dal filosofo di Oxford
al filosofo di Ginevra.
In conclusione, direi che il percorso interpretativo di Berlin, per quanto sia
fondato su elementi effettivamente esistenti in Rousseau, è troppo sbrigativo
nell’attribuirgli tutte le responsabilità che sono esposte nei suoi scritti.
Affermazioni come:
“Ogni teoria giacobina o totalitaria che consenta a singoli individui o a gruppi di individui di imporre la propria volontà sugli altri, sia che a questi vada bene oppure no, non in nome di un contratto a cui gli altri abbiano partecipato consapevolmente, né per ragioni utilitaristiche, né in nome di astratti principi del tutto avulsi dalla natura umana, ma in nome del vero io di questi altri, che essi affermano di voler liberare proprio con la coercizione – ‘obbligare a essere liberi’ è vera erede di Rousseau”58
58 BERLIN, I., L’Età Romantica, Bompiani, Milano 2009, p.243.
56
sembrano decisamente fuori misura soprattutto confrontandosi con i testi in
cui si trova soltanto l’affermazione, luogo comune della politica di tutti i tempi,
che talvolta il popolo non sa cosa vuole ed è compito del governante agire nel
vero interesse della collettività anche quando questa non riconosce questo
interesse.
Perché dunque questo accanimento di Berlin nei confronti del filosofo di
Ginevra?
Non posso evitare di pensare, dopo aver letto alcuni lavori di Berlin, che egli
avesse nei confronti di Rousseau una spiccata antipatia personale59; allo
stesso tempo, ridurre tutto a questo sarebbe banalizzare il discorso.
Credo che la risposta vada cercata in egual misura nel quadro filosofico di
fondo e nella vicenda personale di Berlin.
Partiamo da quest’ultima.
Come abbiamo già detto nelle note biografiche sul filosofo inglese, egli ha
conosciuto direttamente gli effetti negativi del totalitarismo bolscevico in
quanto la sua famiglia fu costretta a emigrare in seguito alla Rivoluzione
d’Ottobre; ancora assai giovane, avendo partecipato alla Seconda Guerra
Mondiale, per quanto non da combattente ha vissuto intensamente i drammi
provocati dai totalitarismi nazi-fascisti. Vicende come queste, unite al fatto che
una buona parte della sua produzione più importante è stata messa per scritto
nel periodo della Guerra Fredda (e varie frasi lasciate cadere all’interno dei
suoi testi lasciano capire come questa tensione internazionale avesse un
preciso riflesso nella sua interiorità) ci fanno capire come Berlin avesse
sviluppato una spiccata sensibilità nei confronti di tutte quelle prospettive
filosofiche che entrassero in collisione con i principi della libertà individuale
che erano, per lui, di tradizione schiettamente liberale, l’unico possibile
baluardo contro il sorgere di totalitarismi ideologici, qualunque fosse
l’ideologia che li ispirasse. Questa forte sensibilità, unità alla tendenza, tipica
di chi, come lui, fa storia delle idee, a cercare in questo campo paternità e
59 Espressioni come “Egli scrive con la peculiare qualità del monomaniaco cronico”, “Egli appartiene a quella speciale categoria di fanatici ispirati che si sono messi, sopra un carattere immaginativo e violentemente impressionabile, la camicia di forza di un rigido apparato logico”, “È un pazzo con un suo sistema, che infiamma numerosi freddi e sobri intelletti, rivestendo i suoi sentimenti incendiari con argomentazioni lucidamente deduttive” (Ibidem, p.232-233) manifestano certo che Rousseau non poteva sperare da Berlin alcun trattamento di favore.
57
filiazioni concettuali può forse aver giocato un qualche ruolo in questo suo
complesso anti-Rousseau.
Ma un peso ugualmente forte credo che lo si debba attribuire alla sua filosofia
del pluralismo dei valori che non può non entrare in conflitto con un pensatore
dalla prosa brillante e dalle convinzioni monolitiche come quelle del filosofo
ginevrino. Chi, come questi, senta di aver ricevuto una sorta di investitura
divina a trasformare con le proprie idee e con le proprie parole la natura
umana60, si sente portatore di un “monoteistico” verbo che non ammette
sfumature o tentennamenti. Le polemiche contro il progresso delle arti e delle
lettere, la polemica contro Voltaire sul lusso, tutti gli scritti autobiografici di
Rousseau ci testimoniano che egli, al di là di eventuali manifestazioni
psicologiche e comportamentali borderline, è stato posseduto per tutta la
durata della sua esistenza da un unico daimon. Come si può essere benevoli
con un tale personaggio quando l’essenza del proprio credo filosofico è, come
nel caso di Berlin, che non c’è un’unica risposta vera a una qualunque
domanda e che non è possibile mettere d’accordo tutti i possibili valori in un
insieme armonioso o, ancor di più, riassorbirli in un super-valore che li
riassuma tutti? È semplicemente impossibile!
Personalmente, per quanto le prospettive filosofiche di Berlin mi trovino
sostanzialmente d’accordo su molti punti, trovo che il trattamento che questi
ha riservato a Rousseau abbia un po’ sorpassato i limiti imposti dalla
massima tacitiana sine ira et studio che dovrebbe guidare il lavoro di
qualunque studioso. Ugualmente, il quadro dipinto da Berlin, per quanto
discutibile in alcune sue parti, è affascinante e coinvolgente e ci consente di
penetrare più in profondità nel pensiero di molti autori, ivi compreso
Rousseau, non fosse altro perché, laddove sentiamo che le riflessioni di
Berlin non sono completamente condivisibili esse, comunque, ci impongono di
scavare ulteriormente alla ricerca di una comprensione sempre maggiore del
pensiero di quanti ci hanno preceduti e del mondo in cui viviamo che anche di
quel pensiero è il risultato.
60 Come non pensare che le parole che nel Contratto sociale descrivono il legislatore, “Chi affronta l’impresa di dare istituzioni a un popolo deve, per così dire, sentirsi in grado di cambiare la natura umana” (Contratto sociale, lib.2, c.7 in ROUSSEAU, Scritti politici cit., vol.2 p. 115) non le attribuisse, almeno un poco, a se stesso.
58
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ROUSSEAU, J.-J., Le fantasticherie del passeggiatore solitario, Rizzoli BUR,
Milano 1979.
ROUSSEAU, J.-J., Giulia o La Nuova Eloisa, a cura di E. Pulcini, Rizzoli,
Milano 1992.
STAROBINSKI, J., Jean-Jacques Rousseau. La trasparenza e l’ostacolo, Il
Mulino, Bologna 1982
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INDICE
INTRODUZIONE ................................................................................................... 2
ROUSSEAU NEL QUADRO DEL PENSIERO POLITICO DEL SUO TEMPO ......................... 5 LA CONCEZIONE DELLA LIBERTÀ NEL QUADRO DEL PENSIERO ANTROPOLOGICO E POLITICO DI ROUSSEAU ..................................................................................... 11 Legame sociale e dipendenza ovvero su un presunto individualismo di Rousseau ....................................................................................................... 11 L’articolazione della libertà nel Contratto sociale ........................................... 19 ISAIAH BERLIN CRITICO DI ROUSSEAU ................................................................. 30 La vita e il quadro generale del suo pensiero ................................................ 30 La critica a Rousseau ..................................................................................... 39 VALUTAZIONE CRITICA DEL GIUDIZIO DI BERLIN SU ROUSSEAU .............................. 47 BIBLIOGRAFIA CONSULTATA .............................................................................. 58