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1 Scienza, politica e propaganda. Il Manifesto del razzismo italiano: storiografia e nuovi documenti di Tommaso Dell’Era Prima parte La storiografia 1. I primi studi (anni quaranta-cinquanta) Per lungo tempo la storiografia sulla persecuzione degli ebrei in Italia nel periodo fascista e sul razzismo italiano non ha adeguatamente approfondito le vicende relative al Manifesto degli scienziati razzisti 1 , spesso limitandosi a registrare l’avvenimento e a elencare i nomi dei cosiddetti firmatari e aderenti così come risultavano dalle cronache e dai documenti del tempo. La spiegazione di questa lacuna relativa al “primo documento ufficiale con cui prende le mosse la politica della razza” 2 in Italia è da ricercare in numerosi fattori che si riferiscono più in generale a tale ambito storiografico e che in questa sede non possono essere esaminati 3 . E’ tuttavia possibile quanto meno sottolineare, come già è stato fatto, che una delle cause risiede nell’esclusione del razzismo teorico dal concetto di persecuzione e, conseguentemente, che ciò ha condotto insieme ad altre 1 Il documento, pubblicato su Il Giornale d'Italia con il titolo Il fascismo e i problemi della razza, fu noto anche come Manifesto della razza o Manifesto degli scienziati razzisti; come si vedrà più avanti, uno dei protagonisti dell’elaborazione e della compilazione del Manifesto, Guido Landra, definirà più tardi tale documento Manifesto del razzismo italiano. Tale denominazione, che corrisponde alle finalità con cui il testo fu redatto, è pertanto quella che si è scelto di utilizzare nel titolo del presente lavoro, conservando nel suo svolgimento i due nomi citati all’inizio di questa nota perché utilizzati quasi da tutta la storiografia, oggetto di questa prima parte dello studio. E’ significativo il fatto che il primo numero della rivista “La Difesa della Razza” pubblicò il 5 agosto 1938 il manifesto con il titolo Razzismo italiano. Altri protagonisti e altri documenti indicano ulteriori qualifiche per definire il manifesto. Sulle complesse questioni relative alla denominazione e all’interpretazione della natura del documento (in particolare rispetto alla posizione di Michele Sarfatti, che preferisce definirlo diversamente) cfr. più avanti e la seconda parte di questo studio, che sarà pubblicata in un lavoro complessivo dedicato al tema per la casa editrice Utet. Ringrazio per i preziosi suggerimenti bibliografici Andrea Argenio e Giovanni Ceci. Il presente lavoro, che sarà pubblicato anche in un volume collettivo presso la casa editrice Elio Sellino (che qui si ringrazia), tiene conto della storiografia esistente alla data di consegna, aprile 2005; per i volumi e gli scritti che si occupano delle vicende del Manifesto usciti da quel momento fino alla data di pubblicazione di questo saggio rimando a un'ulteriore trattazione. 2 G. Israel-P. Nastasi, Scienza e razza nell’Italia fascista, il Mulino, Bologna 1998, p. 10. 3 Per un’attenta disamina cfr. Ibidem, pp. 7-20 e, con alcune precisazioni che verranno fatte più avanti, M. Toscano, Ebraismo e antisemitismo in Italia. Dal 1848 alla guerra dei sei giorni, FrancoAngeli, Milano 2003, pp. 208-243 (si tratta del saggio intitolato Fascismo, razzismo, antisemitismo. Osservazioni per un bilancio storiografico estremamente ricco di riferimenti bibliografici e il più completo sul tema).

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Scienza, politica e propaganda. Il Manifesto del razzismo italiano:

storiografia e nuovi documenti di

Tommaso Dell’Era

Prima parte

La storiografia

1. I primi studi (anni quaranta-cinquanta)

Per lungo tempo la storiografia sulla persecuzione degli ebrei in Italia nel periodo fascista e sul razzismo italiano non ha adeguatamente approfondito le vicende relative al Manifesto degli scienziati razzisti1, spesso limitandosi a registrare l’avvenimento e a elencare i nomi dei cosiddetti firmatari e aderenti così come risultavano dalle cronache e dai documenti del tempo. La spiegazione di questa lacuna relativa al “primo documento ufficiale con cui prende le mosse la politica della razza”2 in Italia è da ricercare in numerosi fattori che si riferiscono più in generale a tale ambito storiografico e che in questa sede non possono essere esaminati3. E’ tuttavia possibile quanto meno sottolineare, come già è stato fatto, che una delle cause risiede nell’esclusione del razzismo teorico dal concetto di persecuzione e, conseguentemente, che ciò ha condotto insieme ad altre

1 Il documento, pubblicato su Il Giornale d'Italia con il titolo Il fascismo e i problemi della razza, fu noto anche come Manifesto della razza o Manifesto degli scienziati razzisti; come si vedrà più avanti, uno dei protagonisti dell’elaborazione e della compilazione del Manifesto, Guido Landra, definirà più tardi tale documento Manifesto del razzismo italiano. Tale denominazione, che corrisponde alle finalità con cui il testo fu redatto, è pertanto quella che si è scelto di utilizzare nel titolo del presente lavoro, conservando nel suo svolgimento i due nomi citati all’inizio di questa nota perché utilizzati quasi da tutta la storiografia, oggetto di questa prima parte dello studio. E’ significativo il fatto che il primo numero della rivista “La Difesa della Razza” pubblicò il 5 agosto 1938 il manifesto con il titolo Razzismo italiano. Altri protagonisti e altri documenti indicano ulteriori qualifiche per definire il manifesto. Sulle complesse questioni relative alla denominazione e all’interpretazione della natura del documento (in particolare rispetto alla posizione di Michele Sarfatti, che preferisce definirlo diversamente) cfr. più avanti e la seconda parte di questo studio, che sarà pubblicata in un lavoro complessivo dedicato al tema per la casa editrice Utet. Ringrazio per i preziosi suggerimenti bibliografici Andrea Argenio e Giovanni Ceci. Il presente lavoro, che sarà pubblicato anche in un volume collettivo presso la casa editrice Elio Sellino (che qui si ringrazia), tiene conto della storiografia esistente alla data di consegna, aprile 2005; per i volumi e gli scritti che si occupano delle vicende del Manifesto usciti da quel momento fino alla data di pubblicazione di questo saggio rimando a un'ulteriore trattazione. 2 G. Israel-P. Nastasi, Scienza e razza nell’Italia fascista, il Mulino, Bologna 1998, p. 10. 3 Per un’attenta disamina cfr. Ibidem, pp. 7-20 e, con alcune precisazioni che verranno fatte più avanti, M. Toscano, Ebraismo e antisemitismo in Italia. Dal 1848 alla guerra dei sei giorni, FrancoAngeli, Milano 2003, pp. 208-243 (si tratta del saggio intitolato Fascismo, razzismo, antisemitismo. Osservazioni per un bilancio storiografico estremamente ricco di riferimenti bibliografici e il più completo sul tema).

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motivazioni alla negazione dell’esistenza di un razzismo italiano autonomo e indipendente da quello tedesco4. Al contrario, la formazione di una tematica razziale in Italia si verificò “all’interno delle scienze demografiche, eugenetiche e antropologiche”, assumendo ben presto la dimensione di una questione politica5. Ora, se è vero, come ha documentato De Felice, che i due settori in cui la politica razziale incontrò maggiore adesione e consenso furono quelli dei giovani e della cultura6 e se nel dopoguerra la vicenda dei “conti con il fascismo” si risolse con l’amnistia del 1946 e il sostanziale ritorno nell’università, dal punto di vista dei titolari di cattedra e dei posti di potere, salvo poche eccezioni, alla situazione esistente durante il fascismo7, non si può sfuggire alla conclusione di due autori che recentemente hanno aperto una nuova linea di ricerca storiografica sul razzismo fascista: “Come stupirsi allora se, nell’ambito degli studi storici sulla politica della razza durante il fascismo, la “questione degli intellettuali” è stata trascurata? Non era da attendersi che chi deteneva gli strumenti dell’analisi storica fosse disponibile a rivolgerli contro se stesso o soltanto contro i propri colleghi, che già l’amnistia politica aveva lavato di ogni colpa per i misfatti commessi o per le grandi e piccole viltà”8. Di pari passo con questa svalutazione, o scarso approfondimento, dell’importanza e del ruolo che teorie e teorici razzisti svolsero nell’ambito della politica razziale fascista, si è spesso verificata la svalutazione e la sostanziale incomprensione dei meccanismi della propaganda politica applicata al tema del razzismo nell’ambito di un regime totalitario come quello fascista (nonostante anche a questo tema De Felice abbia dedicato lunghe e coraggiose pagine, che tuttavia risentono di un’impostazione non sempre adeguata rispetto alla nozione di propaganda politica). In sostanza, non solo si è spesso contribuito a perpetuare uno dei motivi principali della propaganda fascista (il fascismo ha discriminato e non perseguitato gli ebrei), ma non si è a lungo compresa la ragione di tale

4 Affermano infatti Israel e Nastasi che “non si può fare alcun serio passo in avanti nella comprensione storica di questo buio capitolo della storia nazionale, se non si assume che la persecuzione razziale antisemita in Italia non si identifica soltanto con la vicenda della deportazione e dell’annientamento di alcune migliaia di (ex) cittadini italiani, ma in primo luogo con tutte le attività teoriche, pratiche e legislative che esclusero gli ebrei dalla comunità nazionale per un periodo di almeno cinque anni. Non soltanto: nella nozione di persecuzione occorre includere tutte le attività e le campagne volte a realizzare quella esclusione, nella misura in cui erano favorite dal regime e promosse da ambienti che avevano una posizione egemonica o di grande influenza nella vita sociale e politica del paese” (G. Israel-P. Nastasi, Scienza e razza nell’Italia fascista, cit., p. 16; cfr. anche il riferimento all’interpretazione di De Felice a p. 10 e a p. 14 n. 5). 5 Ibidem, rispettivamente p. 13 e p. 10. 6 Cfr. R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, 4 ed., Einaudi, Torino 1993, pp. 386 ss. (ma già nella prima edizione del 1961 cfr. le pp. 441-442). Sul valore innovativo e documentario di quest’opera, come pure sul mancato approfondimento in essa di alcuni temi cfr. più avanti. 7 L’espressione è tratta naturalmente da H. Woller, I conti con il fascismo. L’epurazione in Italia 1943-1948, il Mulino, Bologna 1997. Nuove ricerche consentono, tuttavia, di parlare per l’università di epurazione bloccata e di occasione mancata di una reale riforma, dopo un periodo iniziale di severa epurazione, in particolare da parte alleata. Per il tema dell’epurazione cfr. la parte monografica della rivista “Ventunesimo Secolo”, a. II, n. 4, ottobre 2003, pp. 9-178; per la storiografia sul ruolo dell’università nella persecuzione razziale in Italia mi permetto di rinviare a T. Dell’Era, La storiografia sull’università italiana e la persecuzione antiebraica, “Qualestoria”, a. XXXII, n. 2, dicembre 2004, pp. 117-129. 8 G. Israel-P. Nastasi, Scienza e razza nell’Italia fascista, cit., p. 8.

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“formula di opinione” (discriminare, non perseguitare), che risiede in uno dei principi fondamentali della propaganda politica9. Tanto che, oltre a qualificare il razzismo e l’antisemitismo italiani come “blandi” rispetto al nazismo, troppo spesso si è ritenuto che l’adesione all’antisemitismo di Stato da parte degli uomini di cultura fosse dovuta in larga parte a opportunismo, conformismo e acquiescenza, riservando ai redattori della rivista “La Difesa della Razza” il ruolo di semplici imitatori del razzismo tedesco di marca biologica. Ciò ha impedito al tempo stesso di approfondire la dimensione teorica del razzismo italiano e di indagarne le premesse e le radici almeno in alcuni importanti settori della tradizione culturale e soprattutto scientifica italiana da un lato; dall’altro ha condotto a ridimensionare la portata dell’operazione culturale e propagandistica del Manifesto, soffermandosi solo sulla sua pseudoscientificità, addirittura, in qualche modo, rivalutando quel razzismo che invece si porrebbe “sul terreno di una problematica culturale degna di questo nome”10. Il presente saggio si propone di rendere conto e di esaminare in maniera critica la storiografia sulla vicenda del Manifesto degli scienziati razzisti, riservando a una seconda parte l’analisi delle più recenti acquisizioni archivistiche, anche inedite, frutto di una ricerca ancora in corso, e l’esposizione dei suoi risultati sul piano interpretativo più generale. Nei primi studi dedicati alla persecuzione antiebraica del fascismo, come già si è notato, le vicende del Manifesto vengono descritte e citate solo per quanto riguarda la sua pubblicazione e l’elenco dei firmatari o aderenti: così, ad esempio, nell’opera di Eucardio Momigliano11. Momigliano afferma che il documento era in antitesi con il razzismo tedesco, che escludeva gli italiani dai popoli ariani, e fa risalire la campagna antisemita agli “ordini di Berlino”. Nel suo

9 Per dirla con Giacomo Sani: “poiché i messaggi non cadono nel vuoto, ma vengono interpretati e decodificati alla luce di orientamenti preesistenti, la propaganda tende a inserire l’idea, l’opinione o il messaggio nuovo nella struttura degli elementi preesistenti” (G. Sani, voce Propaganda in N. Bobbio- N. Matteucci-G. Pasquino (diretto da), Dizionario di politica, TEA, Milano 1990, p. 879). Il processo di adeguamento del testo al recettore e alle sue esigenze produce la formula di opinione che può essere definita come il fattore di conformità (teoria di Fattorello, analizzata in L. Cedroni, T. Dell’Era, Il linguaggio politico, Carocci, Roma 2002, pp. 167-174). Pertanto, la persecuzione, per potersi effettivamente realizzare in un paese cattolico come l’Italia con una lunga tradizione di antisemitismo religioso, doveva presentarsi sotto la veste della discriminazione (senza con ciò perdere il proprio carattere, appunto, persecutorio). 10 R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, cit., ed. 1993, p. 393 (ma già nell’edizione del 1961 pp. 447-448), dove l’autore, pur senza avere alcuna intenzione di dichiarare accettabile la teoria spiritualistica della razza, si riferisce ad Acerbo ed Evola come razzisti convinti e degni di rispetto (perché “seppero percorrere” la propria strada “con dignità e persino con serietà”, p. 392), opposti a Landra e Cogni “pallide e pedisseque vestali del razzismo nazista” (ivi). La linea dei primi, in particolare di Acerbo, avrebbe addirittura consentito di promuovere una critica interna al razzismo fascista sul punto dell’antisemitismo (il riferimento è al volume di Vincenzo Mazzei Razza e nazione pubblicato nel 1942). Ciò sarebbe confermato anche dai tentativi di elaborazione di un nuovo testo sostitutivo del Manifesto di cui esistono numerose versioni, in parte pubblicate anche da De Felice, che però su questo punto, in ragione della sua impostazione, cade in un profondo equivoco. D’altra parte, basandosi anche sul giudizio di Farinacci, De Felice attribuisce all’antisemitismo fascista un carattere esclusivamente politico e non scientifico, solo strumentalmente spiritualistico per segnare la propria differenza con il razzismo nazista e per non dare l’impressione di una sua imitazione e trascrizione in Italia: cfr. Ibidem, pp. 243-245. 11 Cfr. E. Momigliano, Storia tragica e grottesca del razzismo italiano, A. Mondadori, Milano 1946, pp. 53-62. Giustamente Toscano rileva come l’elemento comune a queste opere fosse una “interpretazione basata sull’estraneità dell’Italia all’antisemitismo, imposto al fascismo dalla Germania nazista” (M. Toscano, Ebraismo e antisemitismo in Italia, cit., p. 214).

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volume, egli si riferisce anche ad una riunione con il segretario del partito fascista Starace che viene datata 2 luglio 1938 e presenta con notevoli imprecisioni l’elenco del “”gruppo di scienziati” autore del manifesto razzista”12. Soffermandosi solo su Pende, egli sottolinea che il noto scienziato non firmò il documento e che in un articolo su “Vita Universitaria” del 5 ottobre del 1938 confermò la sua posizione, già formulata in precedenza, basata sulle tesi espresse nel 1933; tale posizione, che provocò l’attacco da parte di Interlandi sul giornale “Il Tevere”, viene da Momigliano qualificata come di “aperto dissenso”, con il rammarico, tuttavia, del suo silenzio successivo e l’indicazione del carattere timido e prudente del suo tentativo13. Momigliano afferma anche che nella riunione con Starace fu votata una deliberazione di conferma del Manifesto; tipica di questa interpretazione è la sottolineatura del carattere coercitivo del consenso italiano al fascismo e la netta distinzione tra il razzismo del 1938 e le precedenti politiche fasciste di miglioramento della sanità della razza, con l’attribuzione di un significato retorico a tale termine e la negazione di ogni rapporto tra la politica coloniale e l’instaurazione dell’Impero da una parte e il successivo razzismo e antisemitismo di Stato dall’altra14.

Maggiori particolari si possono ricavare da Antonio Spinosa, in una serie, incompleta e interrotta, di articoli sulle persecuzioni razziali del fascismo pubblicati sulla rivista Il Ponte tra il 1952 e il 1953 su invito di Piero Calamandrei15. Spinosa inquadra le vicende del Manifesto, con cui la campagna razziale diventa a pieno titolo una delle priorità della politica fascista16, nell’ambito del razzismo di Stato interpretato come un’imposizione tedesca a Mussolini, che a sua volta l’avrebbe imposta al paese in conseguenza del suo atteggiamento machiavellico17. Il

12 E. Momigliano, Storia tragica e grottesca del razzismo italiano, cit., p. 54. Rilevando la mancanza nell’elenco di antropologi illustri, come Gioacchino Sera, Momigliano definisce Businco giornalista sportivo, Franzì un pediatra “molto legato alla Pubblica Sicurezza”, Zavattari “un insegnante alla Scuola Veterinaria”, Savorgnan “uno studioso di Statistica”, Cipriani un “direttore di un museo antropologico”, Visco “un insegnante di scienza dell’alimentazione”, il neurologo Donaggio e Pende “due medici esercitanti”, mentre Landra, ossia colui che compilò il documento con Mussolini, e Ricci vengono qualificati come “due personaggi assolutamente ignoti, i nomi dei quali sono irreperibili anche nei più completi annuari del fascismo” (pp. 54-55). 13 Ibidem, pp. 55-56. 14 Ibidem, pp. 56-58. Nelle pagine successive Momigliano arriva a dichiarare “perfettamente antirazzista” il brano del discorso di Mussolini a Trieste del settembre 1938 in cui si preannunciavano le eccezioni all’applicazione della politica di separazione per quegli ebrei che presentassero indiscutibili meriti militari o civili; sostiene che la chiesa cattolica era ostile sia al razzismo tedesco sia a quello italiano e che la legislazione italiana fu spesso “la semplice traduzione in italiano” di quella tedesca, differendone solo per la maggiore ferocia dovuta all’“eccesso di zelo, che è comune ai neofiti” (pp. 58-62). Qualche anno più tardi, Guido Bedarida nel suo Ebrei d’Italia (Tirrena, Livorno 1950) sosteneva il carattere filotedesco e non spontaneo dell’antisemitismo italiano del 1938 e definiva il Manifesto un documento pseudoscientifico al servizio della politica (cfr. pp. 18 e ss. e pp. 29 e ss.). 15 Cfr. A. Spinosa, Le persecuzioni razziali in Italia, “Il Ponte”, luglio 1952, pp. 964-978; agosto 1952, pp. 1078-1096; novembre 1952, pp. 1604-1622; luglio 1953, pp. 950-968, ripubblicati con modifiche in A. Spinosa, Mussolini razzista riluttante, Bonacci, Roma 1994 (da cui si cita nelle parti corrispondenti all’edizione originale). Toscano ricorda la collaborazione con l’Unione delle comunità israelitiche italiane e la consulenza di Salvemini (cfr. M. Toscano, Ebraismo e antisemitismo in Italia, cit., p. 215 e n. 32). 16 Cfr. A. Spinosa, Mussolini razzista riluttante, cit., p. 39. E’ evidente che la fonte di Spinosa, per alcune di queste considerazioni, è costituita dall’opera di Momigliano. 17 Cfr. Ibidem, p. 17.

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Manifesto del razzismo italiano, per l’autore, venne pubblicato “dopo una laboriosa preparazione sotterranea”, “scritto quasi completamente da Mussolini”, ma “redatto da un gruppo di studiosi”18. L’elenco dei firmatari riportato da Spinosa viene corredato dal commento che in realtà questi non erano che assistenti universitari (scienziati tra virgolette) ignoti, alcuni, come Franzì, legati alla Pubblica Sicurezza, mentre titolari di cattedra e illustri scienziati declinarono l’invito (come ad esempio Gioacchino Sera, circostanza di cui Spinosa non riporta alcuna prova documentaria)19. L’unico personaggio al quale l’autore dedica maggiore attenzione è Nicola Pende, che sarebbe comparso col suo nome più a causa dei “suoi sentimenti di fascista che di razzista nei termini pseudo-scientifici del Manifesto”20. A tal proposito, Spinosa sostiene che Pende smentì la sua partecipazione con l’articolo su “Vita Universitaria” (che però indica erroneamente come pubblicato nel 1939 e non nel 1938), senza tuttavia riuscire a evitare l’attacco di Interlandi su “Il Tevere”, e spiega in questi termini la mancanza di ulteriori sue reazioni: “Se poi la cosa non ebbe seguito e Pende non insistette e non si spiegò con maggiore chiarezza, fu per mancanza di coraggio morale di fronte alle minacce del regime. Proprio sulla pusillanimità di quest’uomo, il settimanale “Israel” basa le principali accuse del suo Processo a Pende, dal quale il dubbioso razzista esce malconcio”21.

Spinosa, inoltre, sottolinea il carattere propagandistico dell’intera operazione, che vide l’intervento diretto di Alfieri, allora ministro della Cultura Popolare, e in un secondo momento del partito fascista tramite il suo segretario Starace, il quale con un comunicato in data 25 luglio rendeva noti i nomi degli studiosi firmatari o aderenti al documento22. L’interpretazione di Spinosa insiste sul carattere tutto politico dell’antisemitismo fascista, affermando che il Manifesto e le sue giustificazioni “scientifiche” furono smentite dalla successiva riunione del Gran Consiglio del 6 ottobre del 1938, che produsse la Dichiarazione sulla Razza: il razzismo del Manifesto era basato su un fondamento biologico, quello della Dichiarazione (Spinosa utilizza anche il nome Carta della Razza) su premesse politiche. In tal modo l’autore accredita la versione di un’opposizione, o quanto meno di una pura strumentalizzazione, tra politica e scienza, precludendosi la via a un approfondimento delle premesse di tale operazione e, in fondo, a

18 Ibidem, p. 38 e nn. 14, 15, 16. Per la paternità del documento, Spinosa si basa sul diario di Ciano alla data del 14 luglio 1938, e riporta, sulla base di quanto scritto il 15 luglio, la comunicazione a Ciano della successiva riunione con gli studiosi in cui Starace, segretario del Pnf, doveva dichiarare loro la presa di posizione ufficiale del fascismo rispetto al problema della razza, che significava, secondo Mussolini discriminare e non perseguitare. 19 Cfr. Ibidem, p. 39. 20 Ivi. 21Ivi; Spinosa si riferisce al numero 14-15 di “Israel” del 13 gennaio 1949, a. 24 in cui venivano pubblicate una lettera di Pende e la risposta del direttore Carlo Alberto Viterbo che dimostrava la mancata smentita di Pende. Lo stesso Viterbo scrisse a Spinosa una lettera, che fu pubblicata nell’articolo del novembre 1952 su “Il Ponte” (e riportata nella già citata pubblicazione di Spinosa alla p. 54 n. 45), in cui riaffermava la sua ricostruzione dei fatti e rettificava la data di pubblicazione dell’articolo di Pende su “Vita Universitaria”. Cfr. anche G. Israel-P. Nastasi, Scienza e razza nell’Italia fascista, cit., Appendice III, pp. 385-393 in cui vengono riportati entrambi i testi pubblicati su “Israel”. 22 Spinosa data erroneamente il comunicato 27 luglio e svaluta le affermazioni di Starace, sostenendo, sulla base del diario di Ciano, che il testo del comunicato era stato scritto da Mussolini (cfr. Spinosa, op. cit., pp. 55 ss.).

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un’autentica comprensione del razzismo e dell’antisemitismo italiano. Anche Ruggero Zangrandi, sul terreno più della testimonianza, della denuncia e della polemica che su quello della ricostruzione storica, si limita a riportare l’elenco dei firmatari del Manifesto, con alcune inesattezze a commento, inquadrando comunque tale operazione nell’ambito di una netta distinzione tra politica demografica e razzismo e interpretando l’adesione degli intellettuali al razzismo nel fenomeno più generale del conformismo23.

2. L’interpretazione di Renzo De Felice (anni sessanta-ottanta) All’inizio degli anni sessanta compaiono una serie di lavori, alcuni dei quali

destinati a lasciare una traccia profonda nell’ambito degli studi sulla storia degli ebrei durante il fascismo. I volumi collettanei pubblicati dalla Federazione Giovanile Ebraica d’Italia e dal Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea, ricchi di analisi, testimonianze e documenti, sulla vicenda del Manifesto non aggiungono particolari novità rilevanti24. Nel secondo di questi volumi, il testo di Salvatore Jona Contributo allo studio degli ebrei in Italia durante il fascismo presenta l’elenco di coloro che furono ritenuti i firmatari del documento (che viene erroneamente indicato come pubblicato il 5 agosto 1938), sostenendo che “queste dichiarazioni [del Manifesto] costituirono il fondamento ideologico delle leggi razziali”25; aggiunge poi che “il Prof. Pende ha sempre smentito di avere apposta la sua firma al Manifesto della Razza. Può darsi che sia vero: ma è inconfutabile che egli, il 26 luglio 1938, partecipò autorevolmente alla manifestazione presso il segretario del p.n.f. Achille Starace, in cui venne sancito in sede politica il manifesto. Sembra anche che il Pende abbia chiesto dichiarazioni supplementari della Commissione Razza: ma, di fronte alla minaccia di ostracismo dei suoi scritti, desistette, allineandosi supinamente e adattandosi quanto meno ad apparire come l’avallante scientifico del manifesto”26.

Nell’opera che rappresenta per molti aspetti una svolta nella ricerca, anche se ormai datata nell’interpretazione e nella documentazione, Renzo De Felice dedica anch’egli poco spazio alle vicende del Manifesto (pur se in misura comunque maggiore rispetto ai lavori precedenti)27. Secondo la sua ricostruzione il

23 Cfr. R. Zangrandi, Il lungo viaggio attraverso il fascismo, Einaudi, Torino 1947, 2a ed. Feltrinelli 1962, ed. Mursia 1998 pp. 613-616 e pp. 403-429. 24 Cfr. Fgei-Cdec, Gli ebrei in Italia durante il fascismo, Torino 1961; Cdec, Gli ebrei in Italia durante il fascismo n. 2, a cura di G. Valabrega, Milano 1962; Cdec, Gli ebrei in Italia durante il fascismo n. 3, a cura di G. Valabrega, Milano 1963. 25 S. Jona, Contributo allo studio degli ebrei in Italia durante il fascismo, in Cdec, Gli ebrei in Italia durante il fascismo n. 2, cit., pp. 18-19. 26 Ibidem, nota a p. 19. 27 Cfr. R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Einaudi, Torino 1961. Per diversi giudizi su quest’opera rimando alle indicazioni bibliografiche in M. Toscano, Ebraismo e antisemitismo in Italia, cit., pp. 216-222 che colloca questo volume, “la prima ricostruzione organica della politica fascista nei confronti degli ebrei tra il 1919 e il 1945” (p. 217), nell’ambito della visione che emerge nel dopoguerra secondo cui il popolo italiano era sostanzialmente estraneo all’antisemitismo e la maggiore responsabilità di esso era da attribuirsi all’alleanza con la Germania nazista; questo nonostante le novità che senza alcun dubbio tale lavoro presentava rispetto alla “storiografia italiana sul fascismo, l’ebraismo, l’antisemitismo, sotto il profilo tematico, metodologico e interpretativo” (ivi).

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Manifesto degli scienziati razzisti nasce sotto la guida del Ministero della Cultura Popolare e del segretario del Pnf Starace28. Dato che la causa principale della svolta antisemita di Mussolini risiede, secondo lo storico, nell’alleanza con la Germania mentre altri fattori sono solo concause29, il Manifesto fu un’operazione politica, sostanzialmente senza precedenti anche di natura scientifica in Italia, mirante a fornire una base biologica e scientifica al nuovo razzismo italiano e a sancire l’alleanza con i nazisti. Su tale base, come De Felice espliciterà più tardi, si sarebbe poi potuto sviluppare un razzismo spiritualista più adatto a garantire l’autonomia ideologica del fascismo e a rassicurare gli italiani, e in particolare la chiesa cattolica, di non volersi accodare alle posizioni naziste. Data questa impostazione, risultava superfluo approfondire eventuali legami tra scienza e politica nel fascismo come premessa al razzismo e all’antisemitismo e indagare più a fondo il ruolo degli intellettuali nel regime, anche in relazione all’ideologia fascista. D’altra parte, De Felice afferma che lo stesso Mussolini aveva del razzismo una concezione creativa e ““spiritualistica”, che nulla aveva a che vedere con l’antropologia e la biologia”30, ma non spiega in cosa ciò consistesse, credendo alla distinzione che il duce fece diversi anni dopo il 1938 tra il suo razzismo morale, di esaltazione della razza italiana di “padroni” e le norme di carattere eugenetico tese al miglioramento della razza italiana (pur rilevando che si trattava di affermazioni tese “a giustificare il proprio operato”31), senza quindi rinvenire alcun nesso, giustificato tra l’altro dalla presenza di una tematica di tipo razziale, tra quelle politiche e il successivo antisemitismo di Stato.

Escluso dunque un approfondimento della dimensione scientifica, o ritenuta tale, del Manifesto e dei suoi protagonisti (dimensione peraltro negata perché dichiarata inesistente), De Felice affronta il documento dal punto di vista politico, riconoscendogli l’aspetto propagandistico, anch’esso tuttavia poco approfondito. Lo storico afferma sì che il Manifesto degli scienziati razzisti aveva “lo scopo di offrire la piattaforma scientifico-ideologica all’antisemitismo di Stato”, ma anche che “entrare nel merito “scientifico” di questo manifesto è inutile, la sua inconsistenza da questo punto di vista è stata dimostrata più volte e, come si è

28 Cfr. R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, cit., ed. 1961, p. 284. 29 Cfr. Ibidem, pp. 286-287 dove De Felice esclude in ogni caso un intervento diretto della Germania nazista; concause sono anche l’ideologia della nuova civiltà e dell’uomo nuovo fascista, ossia il mito della razza di Mussolini su cui De Felice nel ‘61 scrive: “gli scopi e i limiti del “razzismo” mussoliniano non andarono mai, sino alla conquista dell’Etiopia, oltre la realizzazione di una politica sanitaria, demografica ed eugenetica e, più latamente, oltre l’aspirazione di sostituire negli italiani alla coscienza “borghese” dell’“Italietta” una coscienza “imperiale” di Roma, non oltre – insomma – la vitalizzazione e il potenziamento fisico e morale degli italiani. Nulla nelle affermazioni e nelle realizzazioni “razzistiche” mussoliniane susseguitesi sino alla fine del 1937 (comprese le decisioni del Gran Consiglio del fascismo del 3 marzo 1937) può far pensare neppur lontanamente ad un vero razzismo di stampo biologico e ad una politica sul tipo di quella nazista” (pp. 278-279). Tale interpretazione complessiva venne ribadita da De Felice nell’edizione del 1993. 30 Ibidem, p. 296 (ed. 1961). 31 Ibidem, p. 295 e per il riferimento alle affermazioni mussoliniane, tra l’altro di presa di distanza dal Manifesto, cfr. pp. 293-294. Più avanti, De Felice, pur riconoscendo le responsabilità individuali di molti, sostiene che la maggiore responsabilità fu di Mussolini, “della sua incosciente megalomania di trasformare gli italiani e, con i tedeschi, di trasformare il mondo, in nome di principi e di ideali che erano la negazione di ogni principio e di ogni ideale” (p. 299; nell’edizione del 1993 a proposito di questi ideali De Felice aggiunge: “pur non essendo quelli dei tedeschi e spesso contrapponendosi addirittura ad essi”).

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visto, neppure i più tenaci assertori della campagna antisemita gli diedero da questo punto di vista credito”32. La ricostruzione della storia segreta del documento ne registra la pubblicazione anonima sulla stampa il 14 luglio 1938, con la comunicazione dei nomi degli estensori il 25 luglio tramite un comunicato del Pnf. De Felice interpreta il ritardo della pubblicazione dei nomi con il fatto che, a suo giudizio, il testo pubblicato era diverso dall’originale redatto dai dieci studiosi indicati nel comunicato e opera invece di un rimaneggiamento di Mussolini (secondo quanto indica Ciano nel suo diario) e forse di funzionari del Minculpop e del Pnf; d’altra parte, egli indica anche la scarsa autorità scientifica e accademica di cinque dei firmatari, assistenti universitari (anche se in realtà Lidio Cipriani era professore incaricato), mentre dell’altra metà, i professori ordinari, solo Pende viene ritenuto una figura di primo piano33. Che il testo fosse stato rimaneggiato da Mussolini su una dichiarazione di base firmata dagli studiosi, De Felice lo deduce anche dalle proteste di Pende e Visco, dalla richiesta del primo di pubblicare un nuovo testo e dalla minaccia di ostracismo almeno nei suoi confronti da parte del Minculpop, che così ottenne “il loro silenzio e il tacito riconoscimento della loro paternità del manifesto che, altrimenti, con le sole firme di pochi giovani e di alcune persone di media levatura scientifica avrebbe certo perso anche quella poca autorità che gli veniva appunto dalle firme di Pende e di Visco. Il che, se non diminuisce la responsabilità morale di tutti i firmatari del manifesto, serve però a spiegare come anche dei veri scienziati finirono per avallare di fatto un testo che sotto tutti i punti di vista, scientifico, politico e morale, rimane una delle cose più meschine e gravi del periodo fascista”34.

Nelle successive edizioni della sua opera, a proposito poi della testimonianza di Bottai sulla riunione del Gran Consiglio del 6 ottobre 1938, lo storico reatino non crede all’affermazione secondo cui Mussolini avrebbe dettato il Manifesto, perché in realtà egli “si era limitato infatti solo ad alcuni interventi sul testo preparato dagli scienziati sotto l’egida del ministero della Cultura Popolare”; mentre dall’intera operazione sarebbero stati tenuti fuori sia Interlandi sia il partito fascista svolgendovi invece un ruolo importante un antropologo assistente di Sergio Sergi, Guido Landra, che Mussolini avrebbe incaricato sin dall’ottobre del 193735.

Con la pubblicazione nel 1981 del volume della biografia di Mussolini dedicato agli anni tra il 1936 e il 1940 l’interpretazione defeliciana subisce una revisione parziale, nel senso di una maggiore attenzione e importanza attribuita alla questione demografica nella politica mussoliniana e alla coscienza razziale nell’ideologia dell’uomo nuovo fascista, pur mantenendo il giudizio sul suo razzismo come “essenzialmente psichico-spirituale”36. Se Mussolini prima del 1938 non fu razzista o antisemita, pur avendo la sua formazione culturale un “fondo d’antisemitismo tradizionale”37 e condividendo egli pregiudizi antisemiti, un certo 32 Ibidem, pp. 324-325 (ed. 1961). 33 Cfr.Ibidem, p. 325. 34 Ibidemn, p. 326. De Felice cita anche alcuni documenti d’archivio contenuti nel fascicolo Pende del Ministero della Cultura Popolare, gli attacchi del Tevere nei suoi confronti, la polemica del 1949 con la rivista “Israel” sopra ricordata. 35 R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, edizione 1993, p. 303 n. 6. 36 Cfr. R. De Felice, Mussolini il duce. Lo Stato totalitario 1936-1940, Einaudi, Torino 1996 (2a ed.), pp. 489, 292 e in generale 290 ss. 37 Ibidem, p. 312 n. 133.

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peso nella sua evoluzione ideologica ebbe l’opposizione tra lo spirito della razza giudeo-cristiana e quella greco-romana; tuttavia, per De Felice “il fatto decisivo, quello che dovette far sì che tutte queste cause tendenziali facessero corpo e inducessero Mussolini ad imboccare la via dell’antisemitismo di Stato, fu un altro. Fu il nuovo corso preso dai rapporti italo-tedeschi”38. E la versione della storia del Manifesto permane identica: il documento fu redatto da un gruppo di scienziati (sempre indicato in corsivo) sotto la guida del Ministero della Cultura Popolare e con l’intervento di Mussolini, a cui lo storico attribuisce nuovamente tutta la responsabilità dell’introduzione dell’antisemitismo di Stato; al rimaneggiamento contribuirono anche alcuni funzionari del Ministero39. Oltre a interessanti considerazioni, elaborate già in precedenza, sulla recezione del Manifesto da parte cattolica (una parte notevole delle alte gerarchie nota la distinzione tra le tesi del Manifesto e quelle del razzismo tedesco, considerato materialistico e anticristiano, ritenendo possibile armonizzare il razzismo fascista con la dottrina cattolica sia nel suo aspetto coloniale sia nel suo aspetto antisemita della discriminazione e non della persecuzione proprio nella misura in cui non investe teorie filosofiche), De Felice ritorna sul fatto che anche Acerbo avanzò critiche all’impostazione storico-scientifica del problema della razza presente nel documento, richiamando a tal proposito un suo appunto al ministro della cultura popolare40.

Come è già stato notato da altri, l’interpretazione di De Felice, pur profondamente innovativa nell’ambito della storiografia del tempo, risentiva della cultura e degli orientamenti dell’Italia degli anni sessanta41. Nonostante la revisione e l’arricchimento della sua lettura, apportata tra il 1981 e il 1988 anche sulla scorta degli studi di Mosse42, la visione di De Felice rimaneva sostanzialmente inalterata quanto alle affermazioni fondamentali e all’impostazione storiografica complessiva. Anzi, si può affermare, come pure è già stato fatto, che proprio il suo concetto di razzismo, che ha come modello la definizione data da Mosse sulla base dell’esperienza nazista, impediva di accettare l’esistenza di un razzismo e di un antisemitismo autonomi dal punto di vista culturale rispetto a quello tedesco e di comprendere appieno il carattere autenticamente razzista e antisemita della versione spiritualistica43. E, d’altra parte, l’accettazione dell’idea, diffusa nelle culture politiche italiane del dopoguerra, dell’incompatibilità tra psicologia popolare e cultura italiana da una parte (i termini sono già di per sé significativi) e razzismo e antisemitismo dall’altra, è strettamente connessa all’affermazione che il

38 Ibidem, p. 315. 39 Cfr. Ibidem, p. 866 n. 1. 40 Cfr. Ibidem, pp. 492-496 e pp. 497-498, n. 76; l’appunto di Acerbo non presenta data, ma viene collocato da De Felice tra la fine del dicembre 1939 e l’inizio del gennaio 1940 e si riferisce, secondo lo storico, a critiche avanzate in una delle riunioni del Gran Consiglio dell’ottobre del 1938. 41 Cfr. su questo in particolare M. Toscano, Ebraismo e antisemitismo in Italia, cit., p. 221. 42 Cfr. Ibidem, pp. 226 ss., dove Toscano si sofferma sulle concause di politica interna rispetto al primato assegnato all’alleanza con i tedeschi – la funzione del razzismo nella svolta totalitaria della seconda metà degli anni trenta, la politica antiborghese volta alla creazione di un nuovo italiano, la politica imperiale che richiedeva una dignità e una coscienza razziale – e sull’evoluzione ideologica, oltre che sul razzismo inteso come criterio distintivo tra fascismo e nazismo. 43 Per una critica dell’interpretazione mossiana e della conseguente visione storiografica, cfr. G. Israel-P. Nastasi, Scienza e razza nell’Italia fascista, cit., pp. 16-20.

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fascismo “come non fu razzista, non fu nemmeno antisemita” né all’origine, né successivamente, e quando adottò la politica antisemita per la maggioranza dei fascisti l’adesione “fu soprattutto dettata da conformismo e opportunismo”, fatta eccezione per alcuni giovani che s’illusero44. In tal modo, l’impostazione generale bloccava lo sviluppo e l’approfondimento del ruolo svolto dagli scienziati e dagli stessi intellettuali nel razzismo e nell’antisemitismo fascista (nonostante le numerosissime notazioni e notizie riferite, per la prima volta nella storiografia, da De Felice, che gli procurarono anche diverse ostilità e difficoltà, non solo accademiche, fino al noto caso Piccardi)45.

3. Da A. James Gregor a Meir Michaelis (anni sessanta-settanta)

Dopo il volume di De Felice fino alla fine degli anni settanta, salvo due notevoli eccezioni, nelle poche pubblicazioni comparse sulla storia degli ebrei in Italia tra le due guerre e sul razzismo italiano, scarsa è l’attenzione dedicata al Manifesto46. Se Preti rileva il nesso tra il razzismo coloniale e l’antisemitismo, d’altra parte ripropone i consueti giudizi sulla scarsa rilevanza dei firmatari del documento, definito pseudoscientifico, e le vicende dell’opposizione di Pende e di Visco. Nel suo volume del 1965 lo stesso Preti aveva affrontato i miti dell’impero e della razza in una visione congiunta, affermando tuttavia che se fu imperialista sin dalle origini, il fascismo non nacque invece né antisemita, né razzista: il termine razza indicava il popolo e rispondeva al carattere nazionalista del fascismo. Ciò nonostante, Preti rileva come in un regime del tipo di quello fascista, che si basava su principi di carattere aristocratico e antiegualitario, una politica di discriminazione e persecuzione delle minoranze non poteva incontrare riserve ideologiche e dottrinarie47. Con la guerra d’Etiopia la dittatura si trasformò nello Stato totalitario; all’emergere del mito imperiale e alla colonizzazione demografica si unì una politica, non necessaria, di separazione razziale nei confronti delle popolazioni indigene. Dal 1937 a ciò si affiancò il tema della razza, trattato in chiave prevalentemente spiritualistica, mentre con il Manifesto del 1938 il problema razziale venne affrontato con un indirizzo di carattere biologico, se pur, afferma Preti, con toni diversi da quelli tedeschi48.

Un’eccezione all’indirizzo, sopra ricordato, prevalente nella storiografia è costituita dall’opera di Gregor del 1969 sull’ideologia del fascismo, in cui l’autore

44 Cfr. R. De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, ed. 1993, pp. IX-X (le citazioni sono tratte da p. IX) e le pp. 27 e ss. 45 Cfr. M. Toscano, Ebraismo e antisemitismo in Italia, cit., p. 222 e n. 66. Tracce di tali ostilità, e di altre di diversa natura, sembrano essere presenti ancora oggi in una certa storiografia che fatica a effettuare una corretta contestualizzazione delle opere storiche che non rinunci a un giudizio e a una conseguente critica costruttiva, ma che consenta di andare oltre De Felice stesso, preferendo invece adottare una linea politico-culturale anacronistica e dai dubbi risultati scientifici. 46 Cfr. in particolare L. Preti, Impero fascista africani ed ebrei, Mursia, Milano 1968 (in precedenza autore di I miti dell’impero e della razza nell’Italia degli anni ’30, Opere Nuove, Roma 1965), che tra i politici antisemiti e i teorici del razzismo enumera Farinacci, Preziosi, Orano, Evola e Giulio Cogni – erroneamente chiamato Guido – e sul Manifesto accoglie la versione della paternità mussoliniana, sostenendo che fu firmato da “pretesi scienziati” (cfr. pp. 114 ss.; per i teorici pp. 100-113). 47 Cfr. L. Preti, I miti dell’impero e della razza nell’Italia degli anni ’30, cit., p. 23. 48 Cfr. Ibidem, pp. 60 ss. Il Manifesto degli “scienziati” razzisti è ripubblicato alle pp. 113-115.

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dedica ampio spazio alla trattazione del razzismo fascista e del Manifesto del razzismo italiano49. Gregor si propone di “1) fornire una trattazione storicamente esatta ed obiettiva dell’ideologia del fascismo mussoliniano e, 2) proporre una tipologia generale dei movimenti rivoluzionari di massa che rifletta il pensiero contemporaneo, con particolare riguardo alla descrizione ed all’analisi dei movimenti totalitari”50. Ponendosi esplicitamente sul piano della storia delle idee politiche, l’autore affronta solo marginalmente l’ambito politico e istituzionale del fascismo, adottando l’approccio di una “trattazione espositiva e descrittiva” dell’ideologia fascista “che offre gli spunti preliminari alla spiegazione storica e politica”51. Non è possibile in questa sede discutere la concezione dell’ideologia adottata da Gregor e i risultati del suo lavoro, né affrontare criticamente la sua metodologia e la sua tipologia dei movimenti e regimi totalitari52: ai fini del nostro studio è invece importante rilevare che egli considera il razzismo una componente dell’ideologia fascista, autonoma, anche se in parte influenzata, dal razzismo nazista. Definito il fascismo come “il primo regime di movimento rivoluzionario di massa che aspirasse a impegnare la totalità delle risorse umane e naturali di una comunità storica per lo sviluppo nazionale”, l’autore sostiene che il perseguimento del fine della modernizzazione richiedeva “lo Stato totalitario ed il partito unico autoritario”53 e in tale quadro colloca il razzismo fascista, inteso come uno degli sviluppi dottrinari dell’ultimo decennio di vita del fascismo. Nell’ambito della ricostruzione schematica del contesto ideologico in cui si sviluppa il razzismo fascista Gregor sostiene che l’ideologia fascista si compose di due elementi: una “tradizione sociologica protofascista” di carattere nazionalista (i cui esponenti sarebbero, tra gli altri, Olivetti, Panunzio, Corradini e Gini sulla base delle teorie di Gumplowicz, Pareto, Mosca, Michels, Sorel, Le Bon e Sighele) e l’idealismo neo-hegeliano di Giovanni Gentile e dei suoi allievi. Le due tradizioni convissero entro il fascismo, opponendosi tra loro come concezione “naturalistica” e scientista da una parte e come visione morale e volontaristica della comunità e della società umana dall’altra (Gregor rileva anche l’utilizzo del linguaggio della scienza sociale e di quello normativo della filosofia); la sintesi di queste due componenti ideologiche, operata dal fascismo senza tuttavia eliminare la tensione tra le due correnti, assegna alle masse il ruolo “naturalistico” e alle élites che agiscono sulle masse quello cosciente e morale: per i fascisti “il governo aveva dimensioni morali oltre che naturali. Il dominio della élite era giustificato da argomenti morali”54. La tesi fondamentale di Gregor consiste nella negazione dell’interpretazione del razzismo fascista come “semplice imitazione pedissequa del Nazionalsocialismo”55 e nell’affermazione del suo carattere endogeno come “una delle espressioni del nazionalismo totalitario che divenne il nucleo della dottrina fascista dopo il 1918, espressione non incompatibile con l’ideologia

49 Cfr. A. J. Gregor, The Ideology of Fascism. The Rationale of Totalitarianism, Free Press MacMillan, New York – London 1969; trad. it. L’ideologia del fascismo, Edizioni del Borghese, Milano 1974. 50 A. J. Gregor, L’ideologia del fascismo, cit., p. 11. 51 Ibidem, pp. 12 e 11. 52 Cfr. in prima istanza i giudizi che Emilio Gentile ha espresso su Gregor in più occasioni nei suoi lavori. 53 A. J. Gregor, L’ideologia del fascismo, cit., p. 13. 54 Ibidem, p. 227. 55 Ibidem, p. 228.

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pienamente articolata come si manifestò nel 1932”56; successivamente, la dottrina fascista della razza subì la contaminazione degli elementi estranei del nazionalsocialismo. Egli distingue pertanto almeno quattro periodi di sviluppo del razzismo fascista, senza negarne, come vedremo, una forma di continuità: il decennio 1922-1932, gli anni compresi tra il 1933 e il 1938, il periodo 1938-1943 e il biennio 1943-1945. E’ importante sottolineare come tale interpretazione elaborata alla fine degli anni sessanta (nonostante i limiti che la posizione di Gregor presenta), pur riconoscendo il ruolo svolto dall’influenza tedesca, affermi l’esistenza di un razzismo fascista da essa indipendente e a essa precedente e la sua non incompatibilità con l’ideologia fascista degli anni trenta. Polemizzando con l’uso estensivo del termine fascista, Gregor sostiene con decisione la differenza tra il razzismo fascista e quello nazionalsocialista (ritenendo deplorevole la loro identificazione), nell’ambito di una tassonomia che sembra avere l’intenzione di rilevare le differenze specifiche di un fenomeno a suo giudizio presente in tutta la storia umana, dato che il razzismo viene definito come “un qualsiasi sistema di proposizioni riguardanti il comportamento umano individuale o collettivo che considera la derivazione razziale o i tratti razziali fenotipici importanti variabili esplicative”57. Tale razzismo ha avuto, a suo giudizio, un ruolo secondario nel pensiero definito protofascista e fascista almeno fino al 1935, per poi assumere un’importanza di primo piano solo nel 1940 “nella letteratura dottrinaria ed ideologica fascista”58. Il razzismo fascista della prima fase, dal 1918 al 1932 per quanto riguarda le dichiarazioni di Mussolini, sarebbe secondo Gregor identico al nazionalismo: per Mussolini e il futurismo nazionalista il termine razza si identifica con quello di popolo e nazione, l’orgoglio di razza significa la coscienza nazionale italiana, la qualifica di ariano e di mediterraneo viene riferita agli italiani. A tal proposito, Gregor richiama le opere di Giuseppe Sergi e di Pareto, in cui si trattava del ramo mediterraneo della razza ariana. L’intero discorso è finalizzato a dimostrare che “il razzismo delle origini fu sostanzialmente un innocuo prodotto del pensiero protofascista italiano e non italiano”59, senza caratteristiche biologiche “ereditarie e statiche”, che il volontarismo fascista implicava la possibilità di cambiare gli italiani, che, infine, “il Fascismo, così come il Futurismo e il Nazionalismo, si preoccupava della Nazione, intesa come un aggregato sociale che ha una continuità morale, culturale e storica”60. In questo quadro, le politiche fasciste del primo periodo vengono definite da Gregor come “programmi di carattere essenzialmente demografico ed eugenetico”, che “miravano a migliorare la quantità e la qualità della popolazione italiana” e su tale questione egli si riferisce esplicitamente, tra l’altro, al famoso discorso mussoliniano dell’ascensione61; tali politiche sarebbero state già presenti nei manifesti futuristi prebellici e del periodo bellico. In tal senso, appunto come nazionalismo, viene interpretato il razzismo fascista del primo periodo con alcune importanti 56 Ibidem, p. 257. 57 Ibidem, p. 228, dove è evidente in tale definizione l’influenza di almeno una parte della tradizione sociologica che Gregor ritiene essere stata una delle componenti ideologiche del fascismo. 58 Ivi. 59 Ibidem, p. 229. 60 Ibidem, pp. 230-231 significativo è il fatto che Gregor citi su questo punto in nota gli scritti e i discorsi politici di Alfredo Rocco. 61 Le citazioni sono tratte da Ibidem, p. 231; cfr. p. 376 nota 23.

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precisazioni: Gregor afferma l’esistenza di tracce di biologismo negli scritti nazionalisti prefascisti di Oriani, nella sua distinzione, elaborata nel 1909 e apprezzata da Mussolini, tra il carattere ineliminabile della razza e la nazionalità; Mussolini stesso avrebbe in seguito dato rilievo politico, storico e culturale alle differenze tra le razze umane, nella nota prefazione al libro di Korherr; sia nel nazionalismo, sia nel futurismo sarebbe stato presente “un ambiguo e mal articolato antisemitismo”62, se pur come preoccupazione secondaria che trovava comunque eco in alcune dichiarazioni di Mussolini. Tuttavia, il contesto in cui si esprimevano le affermazioni antisemite di Mussolini era quello dei pregiudizi teorici e dei luoghi comuni, talora anche violenti, del nazionalismo, del futurismo, del sindacalismo rivoluzionario e della chiesa cattolica d’inizio novecento. In tal senso, Gregor concorda con il giudizio defeliciano sul Mussolini di questo periodo e sul suo antisemitismo, rilevando comunque la presenza di una sua “certa diffidenza” verso gli ebrei63; allo stesso tempo egli insiste sull’opposizione di Giovanni Gentile ai nazionalisti per la loro concezione naturalistica e “biologica” della nazione e ad ogni visione di superiorità o inferiorità dei popoli e delle razze, nonostante l’attenuarsi di questa sua posizione dopo la prima guerra mondiale. E’ pur vero, sostiene l’autore, che la fusione nel fascismo di nazionalismo, idealismo e futurismo non impedì al nazionalismo stesso di rimanere un elemento “più coriaceo” degli altri. La dottrina razziale del fascismo, per quanto secondaria nel quadro dell’ideologia fascista formulata nel primo periodo, presentava secondo Gregor dei caratteri ben definiti. Anzi, tale teoria razziale sarebbe stata presente e immutata per tutto il periodo fascista, subendo solo delle “incrostazioni” nel suo scontro con la teoria razzista nazista e per gli “sforzi compiuti dall’Italia fascista per concederle spazio”64. In questo quadro teorico, in cui emerge il legame tra Stato, nazione e razza e che aveva visto la sua “espressione accademica nelle opere di Corrado Gini, in particolare in Nascita, evoluzione e morte delle Nazioni”, gli accademici italiani avevano inserito il concetto di razza nello “schema concettuale preesistente”65 del nazionalismo e della nazione vista come una comunità organica la cui volontà si esprime nello Stato. La razza era intesa in senso dinamico come il risultato di un processo storico in cui oltre a fattori di carattere demografico e genetico intervenivano varianti e circostanze di tipo politico; le razze e le popolazioni mutano sia per fattori interni sia per fattori esterni, le grandi razze dando così luogo alle piccole razze. Gregor insiste sul carattere politico della variabilità razziale entro questa dottrina, affermando che ogni razza “è il prodotto di un isolamento sociale politicamente voluto, di influenze selettive e di pratiche di riproduzione che tendono a stabilizzare tipi specifici in specifiche sacche ecologiche. La formazione delle razze deve esser quindi intesa come un processo politico dinamico e storico”66. Rispetto alla “dimensione politica e dinamica del processo biologico di formazione delle razze”67, in cui intervengono anche fattori ambientali, le razze in senso antropologico sono delle pure astrazioni

62 Ibidem, p. 232. 63 Cfr. Ibidem, p. 233. 64 Ibidem, p. 234. 65 Le citazioni sono in Ivi. 66 Ibidem, p. 235. 67 Ivi.

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elaborate a fini di classificazione, dei prototipi che consentono, con un valore euristico, di parlare di razze pure. Nonostante l’eterogeneità della costituzione razziale, una nazione può costituire l’ambito di una nuova razza in formazione; lo Stato, come “volontà cosciente della Nazione”, con provvedimenti di tipo demografico ed eugenetico, può intervenire determinando la formazione di questo nuovo tipo razziale medio, relativamente omogeneo, e difendendo la sua integrità. Come ogni altra nazione, anche quella italiana costituiva una razza in una particolare fase del suo sviluppo, e, naturalmente, era di gran lunga preferibile una nazione costituita da elementi affini e non eterogenei. Secondo Gregor, la teoria fascista della razza riferiva tale termine alla “popolazione politicamente definita”68 e non in senso morfologico o tassonomico; gli italiani erano inseriti tra i popoli ariani, il loro tipo ideale era rappresentato dall’ario nordico69. Nella ricostruzione di tale concezione dinamica della razza, Gregor si richiama non solamente a Corrado Gini e alla prima fase del razzismo fascista, ma all’ultimo decennio del regime e ad autori diversi tra loro come Acerbo, Capasso, Canella, Landra, Marro, Niceforo e Maggiore senza distinguere le differenze anche rilevanti tra le diverse correnti scientifiche e privilegiando la tradizione sociologica, per ragioni di sistematicità e, probabilmente, di rilevanza e di consonanza con le sue fonti testimoniali. In effetti, la coincidenza, che Gregor ritiene di rilevare, tra la dottrina razziale fascista matura e le convinzioni espresse da Mussolini sin dal 1917 viene spiegata facendo riferimento alla concezione della razza di Gumplowicz, che influenzò sia Mussolini stesso sia la tradizione sociologica protofascista, proprio uno degli elementi, come si è visto, confluiti nell’ideologia fascista. Secondo l’autore, il concetto di razza e di gruppo etnico di Gumplowicz fu accolto nella letteratura scientifica italiana insieme all’affermazione della possibilità di trasformazione del gruppo etnico in una razza antropologica, in una popolazione relativamente omogenea, rappresentando la nazione una razza in formazione. Anche Nicola Pende, definito “uno dei principali teorici fascisti della razza”, con il suo principio biotipologico unitario avrebbe sviluppato “esattamente la concezione gumplowicziana come base della concezione fascista della razza”, mentre Corrado Gini avrebbe già maturato tale concezione nella sua opera del 1930, influenzando in senso gumplowicziano i lavori di Canella70. L’influenza di Gumplowicz sulla dottrina razziale fascista sarebbe documentata, indirettamente, anche dall’azione analoga svolta dalle teorie del gumplowicziano Arthur Keith, che secondo Gregor si rivelerebbe nella concezione di Canella e di Biasutti della nazione come realtà antropologica e biologica che concorre alla formazione di una razza; o in Montandon, in tale senso parzialmente riconosciuta da Landra, anch’egli definito “uno dei teorici razzisti dell’Italia fascista”71. La prova di tale influenza si rinvenirebbe inoltre nel ruolo svolto dalla nozione di etnocentrismo nelle concezioni degli accademici italiani72. Il particolare legame instaurato, nelle

68 Ibidem, p. 237. 69 “Il termine mediterraneo, anche se tecnicamente corretto, suggeriva ai fascisti una affinità con i semiti, politicamente inammissibile” (Ivi). 70 Le citazioni sono in Ibidem, p. 238; per Gini il riferimento è a Nascita, evoluzione e morte delle Nazioni. 71 A. J. Gregor, L’ideologia del fascismo, cit., p. 238. 72 Cfr. Ibidem, p. 239.

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condizioni ideali di sviluppo, tra razza, popolo e nazione attraverso la concezione dinamica della razza proposta da Gumplowicz e recepita, come si è visto, dalla tradizione sociologica italiana che concorre alla formazione della dottrina razziale fascista, fece sì che il razzismo fosse assorbito nel nazionalismo totalitario fascista; il razzismo nazionalsocialista, invece, non accettava secondo Gregor l’idea dinamica di razza, ma piuttosto ne privilegiava una concezione statica slegata, a suo giudizio, dalla nazione. Ciò sarebbe confermato anche dal fatto che Mussolini, nella lettura della teoria razzista di Gobineau, rilevò l’incompatibilità tra determinismo biologico e classificazione tassonomica delle razze da una parte e nazionalismo dall’altra73. Definita in tal modo la dottrina razziale fascista, che costituirebbe un elemento di conferma della caratteristica di sostanziale continuità dell’ideologia del fascismo nel suo sviluppo storico, Gregor sostiene l’estraneità delle affermazioni di superiorità e inferiorità razziale e soprattutto dell’antisemitismo introdotto da Mussolini nel 1938 e definito “inutile, inadatto e moralmente indifendibile”74. L’incompatibilità dell’antisemitismo con il razzismo fascista è affermata e spiegata con il suo carattere tattico e strumentale in relazione all’alleanza con la Germania, non richiesto esplicitamente da Hitler, ma voluto da Mussolini per facilitare i rapporti tra i due popoli. Il risultato fu, secondo Gregor, di creare forti tensioni entro il sistema dottrinario del fascismo. Lo stesso Gregor, tuttavia, non esclude la possibilità che dal nazionalismo fascista sarebbe potuta emergere una forma di antisemitismo, proprio per il carattere totalitario dello Stato fascista che richiedeva la completa assimilazione di tutti gli elementi presenti al suo interno; ma la cosa sarebbe stata assai improbabile, dato che gli ebrei in Italia non raggiungevano una consistenza numerica notevole75. Il periodo che va dal 1933 al 1938 evidenzia un cambiamento nell’atteggiamento del fascismo rispetto alla dottrina nazista della razza, ma non nella sua analisi, mentre il Manifesto del razzismo italiano sarebbe un documento ufficiale di presa di posizione verso la questione della razza che rivelerebbe l’esistenza di pressioni esterne. Gregor documenta i rapporti ostili tra il fascismo e la teoria nazionalsocialista della razza, sia nei giudizi giovanili di Mussolini riguardo alle teorie di Gobineau, Chamberlain e Lapouge (considerate interpretazioni semplicistiche)76, sia nelle prese di posizione dei teorici e degli studiosi italiani. Il nocciolo di tale opposizione stava nel carattere materialista, anticristiano e antiromano della teoria nazista della razza, nella sua affermazione della superiorità dei popoli nordici dal punto di vista culturale e nell’interpretazione della storia sotto questo angolo visuale. Gregor sostiene che dal 1933 al 1936 tutta la stampa italiana manifestò giudizi contrari al razzismo nazista e a questo proposito ricorda, tra gli altri, gli articoli di Mosca del ’33 e di Gentile del ’3677, rilevando che, nonostante la moderazione dei toni introdotta negli anni successivi, anche dopo il 1938 non vi fu mai un’adesione completa alle 73 Cfr. Ivi. 74 Ibidem, p. 240. 75 Cfr. Ivi, laddove egli cita anche lo scontro tra fascismo e chiesa cattolica e l’opposizione di Gentile, Spirito, Panunzio e Costamagna “all’antisemitismo derivato dall’alleanza con la Germania nazionalsocialista”, anche se, ad esempio, il sostegno di Costamagna al razzismo italiano dopo il 1938 fu pubblicamente affermato in più riprese. 76 Tanto che Gregor può ribadire che “l’Italia fascista non ha mai pedissequamente scimmiottato la teoria nazionalsocialista della razza” (Ibidem, p. 241). 77 Cfr. Ibidem, p. 242.

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posizioni naziste che esprimevano un razzismo di tipo statico e morfologico e di carattere tassonomico e biologico. L’unica eccezione sarebbe stata rappresentata da una minoranza di fascisti, di cui viene indicata come esempio l’opera di Giulio Cogni Il razzismo del 193778. Il volume di Cogni viene definito un’“interpretazione “spirituale” del nordicismo” e come “l’ultimo ed unico serio tentativo di sintesi delle teorie razziali nazionalsocialiste nel corpo del pensiero fascista”, realizzabile “soltanto a spese del suo contenuto gnoseologico”79. Le fonti di Cogni erano costituite da Rosemberg (parafrasato dal teorico italiano) con l’integrazione di Günther, ma la nozione di nordico, identificata con ariano, non andava a suo parere intesa come un concetto antropologico, in riferimento a caratteristiche puramente fisiche: l’ariano esprimeva determinati attributi e qualità di carattere spirituale, nonostante il fatto che, secondo Gregor, Cogni non stabilisse una correlazione tra caratteri fisici e “ordine gerarchico di valori spirituali”80. L’identità razziale spirituale rimaneva comunque difficilmente individuabile, di carattere mistico, tanto che Gregor avvicina la teoria di Cogni a quella di Evola. Tale tentativo di sintesi fu fatto oggetto di critica dagli stessi fascisti, che ne rilevarono, tra l’altro, l’inadeguatezza da un punto di vista tattico e il suo pratico insuccesso. Il Manifesto del razzismo italiano viene analizzato da Gregor nel suo aspetto di sistemazione coerente della teoria fascista della razza81: il documento, che secondo l’autore fu rivisto e corretto probabilmente da Mussolini prima della pubblicazione, presenta tuttavia, accanto a questa dimensione di sintesi, l’altra dimensione delle preoccupazioni tattiche immediate di diversa natura. Ciò portò alla compresenza nel Manifesto di tesi contraddittorie e di parecchie confusioni, che sostanzialmente possono essere fatte risalire, secondo Gregor, ai due indirizzi fondamentali del popolazionismo e del determinismo biologico o della concezione antropologica classica. Da una parte, infatti, il Manifesto esprime il rifiuto dell’affermazione a priori dell’esistenza di razze superiori e inferiori; tale rifiuto è fondato sul primato della politica e del nazionalismo entro il fascismo: quell’affermazione avrebbe costituito un’autentica minaccia all’integrità della nazione, perché si sosteneva che in ogni comunità nazionale fossero presenti diverse razze minori che in tal modo sarebbero state elevate a vere e proprie caste. Oltre a questa posizione, che secondo Gregor esprime una preoccupazione tattica, sul piano filosofico il determinismo biologico si opponeva al volontarismo e all’idea della responsabilità morale, mentre sul piano dottrinario l’interpretazione biologica della storia come lotta di razze metteva in crisi nuovamente il primato della politica82. In sostanza, “il razzismo fascista si distingueva dal razzismo nordico come abbiam visto, perché sosteneva un’interpretazione sostanzialmente storicistica, politica e dinamica, contro l’orientamento antistorico, biologico ed essenzialmente statico delle teorie nazionalsocialiste”83. La razza per i fascisti non era un’entità “tassonomica”, ma un

78 Per la preparazione e la pubblicazione di questo testo, così come per la teoria razzista di Cogni cfr. la seconda parte di questo studio. 79 Ibidem, p. 243. 80 Ivi. 81 Cfr. Ibidem, pp. 244-254. 82 Cfr. Ibidem, p. 246. 83 Ibidem, p. 245.

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prodotto del processo storico: ciò consentiva ad alcuni teorici fascisti di rifiutare l’idea della purezza razziale, ma allo stesso tempo di affermare l’integrità della razza italiana. Secondo Gregor, quindi, “la dottrina razziale fascista costituì, perciò, un’applicazione relativamente coerente di un ben preciso insieme di concetti fondamentali che ne costituivano il patrimonio fin dal periodo protofascista”84.

Dall’altra parte, tuttavia, il Manifesto esprimeva chiaramente i propri debiti verso il biologismo, conseguenza, almeno in parte, dell’alleanza con il nazismo. Quest’affermazione viene supportata dal fatto che nel momento stesso in cui nel documento si nega la superiorità di alcune razze rispetto ad altre, molti di coloro che furono “impegnati nella sua formulazione”85 erano convinti assertori dell’inferiorità da un punto di vista biologico degli africani, perché appartenenti alla razza negra. Queste convinzioni vennero sostenute sulla “Difesa della Razza”, tra gli altri, da Lidio Cipriani e Leone Franzì e ciò fornisce l’occasione a Gregor di distinguere tra gli “apologeti fascisti” e gli “scienziati sperimentatori quali Mario Canella che, pur convinto del fatto che le razze sono caratterizzate da differenze psicologiche ereditarie, tentava di porre in risalto la complessità di qualsiasi giudizio riguardante le differenze razziali ereditarie. Dato il periodo in cui fu scritto, il suo Princìpi di psicologia razziale è un interessante trattato su un argomento scientifico assai dibattuto. Naturalmente, oggi, molte delle conclusioni cui giunse potrebbero essere molto meglio puntualizzate (come riconoscerebbe lo stesso Canella)”86. In affermazioni come questa sembra di poter cogliere non solo una sottovalutazione dell’apporto scientifico, in senso stretto, e di Canella stesso, alla questione razziale e al razzismo fascista, e un’accettazione della validità della nozione di razza, ma anche un’influenza della lettura di Corrado Gini sull’intepretazione di Gregor87. La tendenza generale della convinzione dell’inferiorità biologica della razza negra veniva giustificata con argomenti di natura differente (inferiorità di tipo genetico o dovuta a fattori ambientali), motivati, nel periodo in questione, dai teorici fascisti per ragioni sostanzialmente di carattere politico e non scientifico. In relazione alle vicende coloniali, Gregor accetta la tesi secondo cui il fascismo non affermò la superiorità razziale in quanto tale: la legislazione di carattere razzista (ma, significativamente, egli non utilizza questo termine) è vista essenzialmente in relazione a motivazioni di carattere politico e tattico e al tentativo, tipico della tradizione futurista e nazionalista, di trasformare gli italiani in una razza di dominatori. In tal modo, quindi, si opera una sottovalutazione del razzismo coloniale nell’ambito del razzismo fascista.

L’inserimento del determinismo biologico nel Manifesto, inoltre, sarebbe dovuto alla necessità di creare “uno schema dottrinario che soddisfacesse anche i nazionalsocialisti, con cui i rapporti divenivano di giorno in giorno più stretti”: trattandosi di un “biologismo non sentito”88, si ebbe il distacco della dottrina razziale dall’attualismo, che Mussolini, secondo Gregor, considerava la filosofia ufficiale del fascismo. Pertanto, egli conclude, l’influenza del nazionalsocialismo

84 Ivi. 85 Ibidem, p. 247. 86 Ibidem, p. 380 n. 132. 87 Gini, che come si è visto, ebbe una certa influenza su Canella, viene infatti ringraziato da Gregor nella prefazione insieme a Giovanni Perona “per le molte indicazioni fornitemi a proposito del contenuto e della struttura del pensiero fascista” (Ibidem, p. 15). 88 Le citazioni sono in Ibidem, p. 248.

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provocò l’emergere in primo piano di “un argomento secondario della letteratura nazionalista” in un senso più marcatamente biologistico, con la conseguente minaccia di crisi della “coerenza interna della ideologia fascista”89. Le contraddizioni derivanti dalle due impostazioni presenti nel Manifesto sono individuate principalmente nella presenza di una definizione di razza in senso antropologico classico (morfologico con caratteristiche fisiche ereditarie) e di un’altra in senso popolazionista, con l’inclusione di fattori culturali e di caratteristiche spirituali e psichiche ereditarie (il riferimento in questo caso va ad autori come Zavattari, Donaggio, Marro e ancora Canella): l’ereditarietà di queste ultime sarebbe dimostrata dalla continuità storica e culturale degli italiani, fatto che veniva a confermare l’unità e l’integrità della razza italiana. Ma l’ereditarietà stessa di tali caratteristiche psichiche comuni sarebbe, secondo Gregor, una conseguenza dell’uniformarsi al biologismo nazista e del recupero del biologismo nazionalista. La sintesi impossibile tra queste due concezioni contrastanti, operata per motivi politici su una base scientifica preesistente, sarebbe pertanto la causa delle confusioni presenti nel documento. E’ interessante notare come Gregor attribuisca a Guido Landra (assieme ad altri teorici fascisti) la difesa dell’integrità e dell’unità razziale della nazione italiana di fronte all’uso nazista della concezione antropologica classica o morfologica: è questa preoccupazione che sta all’origine dell’introduzione della concezione popolazionista della razza nel Manifesto accanto all’iniziale concezione morfologica90.

Da queste premesse Gregor può concludere affermando che “l’accordo politico tra Germania nazionalsocialista e Italia fascista richiedeva un orientamento sostanzialmente unitario. Sarebbe stato tatticamente impolitico respingere integralmente il biologismo, che quindi venne reintepretato dai teorici fascisti (non senza difficoltà teoriche) in maniera tale da non costituire una minaccia per l’integrità della Nazione”; ciò spiegherebbe quindi perché “sin dal 1938 numerosissimi teorici fascisti minori tentarono una sintesi del razzismo biologico e del nazionalismo”91. In questo quadro, la legislazione antisemita e l’introduzione dell’antisemitismo statale sarebbero dovute ai rapporti con il nazismo proprio in quanto giustificabili solo con un determinismo biologico. Ciò comportò posizioni incoerenti anche nella giustificazione dei provvedimenti adottati dal governo contro gli ebrei. Non potendo giustificare l’antisemitismo con criteri antropologici puri, alcuni teorici fascisti ricorsero al concetto di etnia e di “razza psicologica” (il riferimento è ancora a Canella). La giustificazione razionale dell’antisemitismo si tradusse sostanzialmente in “tentativi di sovrapposizione di brandelli di un razzismo mistico e biologico di importazione, conseguenza della sempre più stretta alleanza con la Germania nazionalsocialista, al neoidealismo della filosofia fascista”92. Mussolini sacrificò la coerenza ideologica del fascismo alla necessità politica dell’alleanza con la Germania, ma l’antisemitismo, afferma Gregor, era estraneo

89 Le citazioni sono in Ivi; Gregor sostiene anche che è difficile stabilire se il fascismo da solo avrebbe teorizzato le differenze tra le razze umane in un senso di superiorità e inferiorità (cfr. Ibidem, p. 247). 90 Cfr. Ibidem, p. 250; il riferimento è a una conferenza di Landra a Berlino nel 1939. 91 Ivi. 92 Ibidem, p. 253; Gregor ricorda a questo proposito i giudizi di Mussolini su Rosemberg nei colloqui con Ciano e quelli sul Manifesto confidati a Spampanato a proposito dell’unità spirituale, economica e geografica del popolo italiano.

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sia alla tradizione idealista gentiliana (e al comportamento pratico di Gentile) sia alle convinzioni di Mussolini stesso, che non avrebbe avuto pregiudizi sistematici nei confronti degli ebrei, dati i suoi stretti rapporti personali con molti di essi. In sostanza, l’atteggiamento antiebraico mussoliniano era dovuto a ragioni politiche e non teoriche, circostanza che condusse alla trasformazione della questione ebraica in questione politica come mezzo per accattivarsi i favori della Germania nazista. Gregor concorda quindi con il giudizio di De Felice sulla rilevanza dell’alleanza con la Germania; ciò lo conduce a sottovalutare, in qualche modo, la portata e la realtà dell’antisemitismo fascista, quando afferma che oltre al suo valore tattico, esso “rappresentò sempre un peso per le coscienze dei fascisti”93. Avendo individuato il razzismo italiano nella concezione popolazionista della razza e identificato l’antisemitismo coerente con il determinismo biologico, Gregor giunge, conseguentemente, ad affermare che la legislazione antisemita poteva basarsi solo sul biologismo (unico concetto in grado di legittimare la discriminazione razziale), ma che a livello teorico ciò era incompatibile con il volontarismo fascista e l’intera sua costruzione ideologica. Da qui sorgerebbe quindi la spiegazione spiritualistica e pertanto “forse l’unico serio antisemita dell’Italia fascista”94 sarebbe stato Giovanni Preziosi. L’epoca della Repubblica Sociale Italiana sarebbe stata caratterizzata dallo scontro tra la linea di Gentile e quella di Preziosi sulla questione razziale, con la prevalenza di quest’ultimo, dopo l’assassinio del filosofo nel 1944, e la sua nomina a capo dell’Ispettorato Generale per la Razza, che coincide per Gregor con la fase più tragica dell’antisemitismo fascista: conclusione, questa, che sembra dimenticare gli avvenimenti precedenti del 1943 e l’esplicita persecuzione delle vite degli ebrei con la nascita della RSI. Con ciò, tuttavia, Gregor non scarica Mussolini dalle sue responsabilità, anche se si sforza di mostrare ancora una volta come il suo antisemitismo non fosse di natura teorica, ma politica (in particolare nell’opposizione al sionismo), non ne costituisse un aspetto essenziale e fosse stato determinato dall’alleanza italo-tedesca.

L’interpretazione di Gregor, se da una parte afferma l’esistenza di un razzismo fascista autonomo da quello tedesco e individuato nella convergenza tra tradizione sociologica pre e “proto-fascista” di origine gumplowicziana e il nazionalismo totalitario, dall’altra fa dipendere l’antisemitismo, elemento ritenuto sostanzialmente estraneo, esclusivamente (o prevalentemente) dall’alleanza con la Germania, indicando l’incoerenza e la crisi della dottrina razziale fascista nell’introduzione, in un impianto di carattere popolazionista, di elementi di determinismo biologico. Il grande rilievo assegnato all’ideologia fascista e al Manifesto del razzismo italiano, assieme alla sottolineatura del concetto dinamico di razza e a quanto sopra indicato a proposito del razzismo fascista, costituiscono sicuramente una novità nel panorama storiografico italiano dell’epoca; dell’intero razzismo italiano, tuttavia, viene sottolineata principalmente la componente sociologica, lasciando poco spazio all’analisi delle altre tradizioni scientifiche italiane, che spesso vengono accomunate in una tendenza uniforme di carattere tattico e politico, senza distinguere le differenze tra le varie correnti e badando soprattutto alle costruzioni razziste sistematiche del periodo successivo al 1938. In questo quadro, come si è già notato, il ruolo degli studi di antropologia coloniale e

93 Ibidem, p. 254. 94 Ibidem, p. 255.

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del razzismo coloniale stesso viene sottovalutato, assieme alle caratteristiche spirituali del tradizionale antisemitismo cattolico e alla funzione che esso ebbe nella preparazione di un terreno ostile e discriminatorio nei confronti degli ebrei. Comune all’interpretazione di De Felice, poi, è la svalutazione dell’importanza delle politiche di carattere demografico ed eugenico adottate dal fascismo prima del 1938. Come abbiamo visto, tale interpretazione risente anche dell’influenza della lettura del fascismo, nel secondo dopoguerra, e dell’impostazione di Corrado Gini95.

Nell’Introduzione al volume dedicato all’antisemitismo italiano nel periodo fascista, Ugo Caffaz propone, proprio in polemica con l’interpretazione di De Felice, una distinzione tra razzismo biologico e razzismo spirituale, tema che meriterebbe considerazioni più ampie che non è possibile svolgere in questa sede96. Più rilevante dal nostro punto di vista è l’opera di Michaelis97. Nell’ambito di un’impostazione che intende dimostrare il condizionamento e l’influenza delle esigenze dell’alleanza con la Germania nazista sulla politica antisemita fascista, nonostante la mancanza di un’interferenza diretta, ed entro una concezione del fascismo come un totalitarismo dinamico che rende conto della creazione del nemico ebraico98, Michaelis ripercorre le vicende del Manifesto della razza sulla base di documentazione inedita. Tra le novità più interessanti c’è l’attribuzione a Guido Landra della paternità del Manifesto della razza, pur con la sottolineatura della decisione presa dal duce, dell’intervento di Mussolini sul testo e con l’accettazione dell’idea di Gregor che i teorici del fascismo avessero avvertito, nella compilazione del documento, la pressione d’influenze estranee99. Michaelis infatti ritiene che il “decalogo razzista” di Mussolini fosse senza dubbio di origine tedesca, nonostante la propaganda fascista si sforzasse di mostrare l’originalità del razzismo italiano100. Per quanto riguarda Landra, il rapporto di Rudolf Frercks

95 Non è possibile in questa sede esaminare, per il tema che ci interessa, gli altri contributi di Gregor e in particolare il suo ultimo testo: A. J. Gregor, Mussolini's Intellectuals. Fascist Social and Political Thought, Princeton University Press 2005. 96 Cfr. U. Caffaz, L’antisemitismo italiano sotto il fascismo, La Nuova Italia, Firenze 1975 (l’Introduzione è alle pp. 1-31); nel numero speciale, intitolato La difesa della razza, della rivista “Il Ponte”, a. XXXIV, nn. 11-12, 30 novembre-31 dicembre 1978, pp. 1301-1532, il Manifesto viene ripubblicato (pp. 1507-1509). 97 Cfr. M. Michaelis, Mussolini and the Jews: German-Italian Relations and the Jewish Question in Italy 1922-1945, Clarendon Press, Oxford 1978; edizione italiana Mussolini e la questione ebraica. Le relazioni italo-tedesche e la politica razziale in Italia, Comunità, Milano 1982. In precedenza, Michaelis aveva scritto numerosi articoli sulla storia degli ebrei in Italia nel periodo fascista. 98 Cfr. Ibidem, p. 10 e pp. 15-21; è questo concetto di totalitarismo, per Michaelis, l’elemento comune tra fascismo e nazismo che rende possibile affermare che il fascismo non giunse da solo all’antisemitismo razzista, ma che anche l’alleanza con la Germania nazista, che condusse alla legislazione antisemita, era coerente con le caratteristiche del movimento fascista. 99 Cfr. Ibidem, p. 137. 100 Cfr. Ibidem, pp. 159 ss., dove l’autore riporta una serie di documenti in favore della tesi dell’imitazione del razzismo nazista. Cfr. anche le pp. 165-182 in cui viene riferito il contenuto di documenti inediti di osservatori tedeschi compresi tra il 15 luglio e il 19 ottobre 1938 che tuttavia, almeno parzialmente, sembrano condurre a un’interpretazione diversa da quella sostenuta da Michaelis. Poche pagine prima, Michaelis non nega che il fascismo fosse “giunto a una qualche forma di “dottrina razziale” indipendentemente dall’influenza tedesca… la proibizione di rapporti interraziali in Africa fu decretata infatti prima della nascita dell’Asse” (p. 135), ma il carattere antisemita lo assunse solo dopo l’alleanza col nazismo e quindi il razzismo italiano fu “una

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consente a Michaelis di affermare che il giovane assistente di antropologia era stato incaricato di stendere un “manifesto sui principi razziali del fascismo”101 dopo aver sostenuto in diversi promemoria “la necessità di un’attività politica razziale” e aver cercato, con successo, di raggiungere Mussolini attraverso Interlandi102. Landra stesso era stato scelto assieme ad altri firmatari – che si erano limitati “ad apporre la propria firma sul documento, per ordine di Starace” - e non Cogni, perché i primi sembravano garantire “l’originalità e la solidità scientifica dell’approccio italiano alla questione razziale”103, mentre la partecipazione del secondo era inopportuna, vista la sua esaltazione della razza nordica. In conclusione, il volume di Michaelis, pur sostenuto da una solida base documentaria in gran parte inedita che fornisce numerose e rilevanti nuove notizie sulle vicende del Manifesto, si ferma a una ricostruzione accurata degli eventi inquadrata nella riconferma della propria interpretazione, avanzata sin dal 1960, dell’origine tedesca, anche se indiretta, del razzismo antisemita fascista. Manca un’analisi delle premesse scientifiche e culturali del razzismo italiano, tanto che dei dieci firmatari o aderenti solo tre vengono citati nel volume (Landra, Visco, Franzì)104.

4. La nuova stagione di studi - Da Mauro Raspanti a Mario Toscano (1988-1996) A partire dal 1988, cinquantenario della promulgazione delle leggi razziali, si apre una nuova stagione di studi che vede affermarsi, in alcuni casi, nuove e più efficaci interpretazioni delle vicende della persecuzione antiebraica fascista e del razzismo italiano105. Per quanto concerne il nostro tema, se da una parte vengono ribadite le interpretazioni tradizionali106, dall’altra tra gli studi pubblicati in

conseguenza dell’Asse e un’imitazione del modello tedesco” (p. 161). Per la discussione di interpretazioni diverse cfr. pp. 129-135. 101 Cfr. Ibidem, p. 180. 102 Questo naturalmente non autorizza a concludere che Mussolini avesse agito su pressione della frazione filotedesca del suo entourage, dato che, afferma Michaelis, “è ampiamente dimostrato da tutti i documenti, editi e inediti, a nostra disposizione che il capo della fazione filotedesca del partito fascista e il segreto animatore della campagna razziale era Mussolini stesso. Non ci fu antisemita italiano che non ebbe il suo incoraggiamento fra il 1936 e il 1938” (p. 189). 103 Ibidem, p. 180. 104 Per altre critiche all’interpretazione di Michaelis cfr. M. Toscano, Ebraismo e antisemitismo in Italia, cit., pp. 223-225, in particolare in relazione al mancato approfondimento dell’originalità del razzismo italiano e al suo giudizio sulle vicende della Rsi. Toscano, giustamente, inquadra la visione di Michaelis nell’ambito del suo giudizio sulla storia dell’emancipazione ebraica rispetto allo Stato nazionale e sull’estraneità del razzismo alla storia e alle tradizioni italiane. 105 Cfr. l’efficace sintesi di Mario Toscano, Ibidem, pp. 227-243 che muove dai lavori pubblicati a partire dal 1982. Non concordo tuttavia pienamente su alcuni rilievi critici e sull’interpretazione generale che sembra emergere da queste pagine. 106 Cfr. ad esempio A. Cavaglion-G. P. Romagnani, Le interdizioni del Duce. A cinquant’anni dalle leggi razziali in Italia (1938-1988), Meynier, Torino 1988, pp. 19-26 (si tratta di un’antologia critico-documentaria ripubblicata in nuova edizione ampliata nel 2002 per Claudiana); G. Montalenti, Il concetto biologico di razza e la sua applicazione alla specie umana, in Conseguenze culturali delle leggi razziali in Italia, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 1990, pp. 25-39, per il Manifesto cfr. pp. 36-37 n. 2, con qualche inesattezza sulle discipline insegnate dai firmatari, alcuni giudizi discutibili e non documentati su eventuali proteste che personaggi competenti e culturalmente

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quest’ultimo quindicennio ve ne sono alcuni che hanno apportato contributi notevoli alla storia e all’interpretazione del Manifesto, pur nella divergenza delle interpretazioni complessive. Già nel 1988 e nel 1994, i saggi di Giorgio Israel e Pietro Nastasi avevano iniziato a sondare i rapporti tra il mondo scientifico italiano e la politica razziale del fascismo, individuando l’esistenza di un razzismo italiano autoctono che costituisce il terreno su cui s’innesta la politica della razza del regime107. Nello stesso 1994 il saggio di Mauro Raspanti dedicato ai razzismi del fascismo affermava l’esistenza di differenti correnti e concezioni razziste in Italia (il razzismo biologico, il nazional-razzismo, il razzismo esoterico-tradizionalista), con la precisazione, però, che “ognuno di questi razzismi propone una diversa gerarchizzazione dei saperi: l’elemento biologico, ad esempio, è presente in tutti, ma con un’importanza diversa a seconda degli ambiti”108; tali correnti venivano analizzate dall’autore dal punto di vista ideologico e della politica istituzionale del regime in relazione alle vicende dell’Ufficio Razza del Ministero della Cultura Popolare. La principale novità rispetto al tema del Manifesto è la presentazione di documenti inediti, tra cui un’importante lettera di Guido Landra a Mussolini del 27 settembre 1940 in cui il giovane antropologo ripercorre le tappe della preparazione del documento: approvazione da parte di Mussolini di appunti di Landra su “consigli tecnici per il razzismo” inviatigli tramite Sebastiani e incarico affidato a Landra tramite Alfieri (ministro della Cultura Popolare) di “costituire un comitato scientifico per lo studio e l’organizzazione della campagna razziale” (febbraio 1938); udienza, alla presenza di Alfieri, di Landra presso Mussolini, che gli impartisce direttive precise sul problema razziale, lo incarica di studiarlo e di creare presso il Ministero della Cultura Popolare un Ufficio Studi scegliendosi dei collaboratori per “stabilire entro cinque o sei mesi i punti fondamentali per iniziare la campagna razziale in Italia”; direttive personali da parte di Alfieri e incarico a Landra di mettere per scritto i punti essenziali del pensiero di Mussolini sul tema razziale (24 giugno 1938); stesura, da parte di Landra, del decalogo denominato Manifesto del Razzismo Italiano (o Carta della Razza come egli stesso precisa) che qualificati avrebbero avanzato se fossero stati coinvolti (il riferimento è a Sergio Sergi, Gioacchino Sera, Giulio Cotronei, Guido Vernoni) e, al contrario, una testimonianza di Zavattari sulle firme d’ufficio apposte al documento dal comunicato del Pnf; S. Zuccotti, L’olocausto in Italia, Tea, Milano 1995 (ed. or. 1987), pp. 58-59. 107 Cfr. G. Israel, Politica della razza e persecuzione antiebraica nella comunità scientifica italiana, in La legislazione antiebraica in Italia e in Europa, Atti del Convegno nel cinquantenario delle leggi razziali, Roma, 17-18 ottobre 1988, Camera dei Deputati, Roma 1989, pp. 123-162; E’ esistita una “scienza ebraica” in Italia?, in Cultura ebraica e cultura scientifica in Italia, a cura di A. di Meo, Atti del Convegno della Fondazione Istituto Gramsci in occasione della “Settimana di cultura ebraica”, Roma, 4-13 novembre 1992, Editori Riuniti, Roma 1994, pp. 29-52. Di questo testo cfr., in particolare, per le critiche a De Felice, l’inquadramento dei rapporti tra scienza e politica razziale e tra fenomeni d’importazione tedesca e razzismo italiano, le pp. 43-50; nello stesso volume cfr. G. Cosmacini, Clinici, biologi, igienisti ebrei e la “nuova medicina dell’Italia Imperiale”, pp. 69-82 e P. Nastasi, Leggi razziali e presenze ebraiche nella comunità scientifica italiana, pp. 103-155 incentrato sulle conseguenze della politica della razza nel campo matematico e con interessanti documenti inediti; di questo stesso autore cfr. La Comunità Matematica Italiana di fronte alle leggi razziali, in Giornate di Storia della Matematica, a cura di M. Galuzzi, Atti del Convegno di Cetraro 1988, Editel, Cosenza 1992, pp. 332-444. Da questi lavori emergono i profili di alcuni scienziati che comparvero quali firmatari del Manifesto degli scienziati razzisti. 108 M. Raspanti, I razzismi del fascismo, in La menzogna della razza. Documenti e immagini del razzismo e dell’antisemitismo fascista, a cura del Centro Furio Jesi, Catalogo della Mostra di Bologna 27 ottobre-10 dicembre 1994, Grafis, Bologna 1994, p. 73.

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fu poi stampato con “solo qualche lieve modificazione” (tale stesura avvenne “immediatamente” secondo la testimonianza di Landra); pubblicazione del Manifesto su Il Giornale d’Italia con un commento anonimo scritto da Landra (14 luglio 1938); incarico a Landra, da parte di Mussolini e tramite Alfieri, di costituire un comitato di dieci studiosi che però vede sorgere discussioni e divergenze, in particolare da parte di Pende e Visco anche alla presenza di Starace, che ne impediscono il funzionamento senza tuttavia riuscire a evitare, grazie al risoluto intervento di Alfieri, il rispetto delle “direttive dottrinali” di Mussolini (mese di luglio, successivamente alla pubblicazione del Manifesto); inizio del funzionamento dell’Ufficio Razza (16 agosto 1938)109. Con questo documento veniva così fatta ulteriore luce sulla paternità del “Manifesto con cui ebbe ufficialmente inizio la politica della razza del Fascimo”110, di cui Landra si dichiara il compilatore. Il Manifesto è quindi opera di Mussolini con la cooperazione di Landra come “estensore materiale del documento”111, ma anche come elaboratore di alcune proposte che probabilmente trovarono accoglienza nella formulazione di Mussolini. Raspanti sottolinea il carattere biologico del razzismo espresso dal Manifesto e rileva come esso saldasse la visione del razzismo coloniale (che aveva trovato una sua espressione legislativa già nel 1937) con l’antisemitismo. Egli sottolinea anche i legami tra Landra e Interlandi112. Importanti sono pure i documenti, riportati sempre da Raspanti, relativi al contrasto tra Pende e Visco da una parte e Landra e Alfieri dall’altra, con la momentanea sconfitta di Pende e la successiva vittoria della sua posizione, grazie alla rivalutazione delle sue teorie e all’avvicendamento di Visco a Landra al vertice dell’Ufficio Razza113. L’intera ricostruzione di Raspanti è inquadrata in un’interpretazione che sottolinea come l’antisemitismo di Stato fu probabilmente deciso nell’autunno-inverno 1936 e non è attribuibile solamente all’alleanza con la Germania, ma, sostiene l’autore citando Collotti, ad altre ragioni di carattere internazionale (la conquista dell’Etiopia, il declino del fattore del sionismo nella politica fascista) e interno (l’ideologia del nuovo italiano e la realizzazione del totalitarismo): “non incidente di percorso, quindi, ma radicalizzazione dell’insofferenza e dell’intolleranza nei confronti della presenza all’interno del regime di componenti portatrici di identità differenziate, che potevano manifestare un’alterità irriducibile, considerate corpi estranei da combattere e da eliminare”114.

109 Cfr. Appendice I, a cura di M. Raspanti in Ibidem, pp. 367-368. La lettera continua riportando notizie sul periodo in cui Landra fu a capo dell’Ufficio Razza (che ebbe diverse denominazioni nel corso della sua storia) e, dopo la sua sostituzione con Visco nel febbraio 1939, divenne docente di politica della razza nel Centro di Preparazione Politica del Pnf. Per la storia dell’Ufficio Razza cfr. i lavori citati più avanti; rimando anche a una mia prossima pubblicazione con documenti inediti. Il documento è pubblicato anche nel volume di Israel e Nastasi alle pp. 377-379. 110 Lettera di Guido Landra del 27 settembre 1940 riportata in La menzogna della razza. Documenti e immagini del razzismo e dell’antisemitismo fascista, cit., p. 368. 111 M. Raspanti, I razzismi del fascismo, cit., p. 75. 112 L’indirizzo biologico, secondo Raspanti, orientò anche una parte della legislazione razzista del fascismo: cfr. Ibidem, pp. 76-78. 113 Cfr. Ibidem, alle pp. 78-79 e per la seconda fase dell’Ufficio Razza alle pp. 79-86. 114 Ibidem, p. 86. Anche se questo giudizio andrebbe precisato in relazione alle vicende dell’emancipazione e del grado di integrazione degli ebrei in Italia. Il riferimento è a E. Collotti, Fascismo, fascismi, Sansoni, Firenze 1989. Il volume La menzogna della razza contiene anche un interessante articolo di P. Chiozzi su uno dei firmatari del Manifesto, Autoritratto del razzismo: le

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Sempre del 1994 è la pubblicazione del volume di Michele Sarfatti Mussolini contro gli ebrei in cui l’autore adotta un’impostazione che lo conduce ad analizzare solo il ruolo di Mussolini nella creazione dell’antisemitismo di Stato nel 1938 e, all’interno di questo, ad approfondire la fase dell’azione antiebraica mussoliniana rispetto a quelle dell’enunciazione e della convinzione115. Ora, se è vero senza alcun dubbio che a Mussolini “va riconosciuto il ruolo centrale nella decisione di rendere l’Italia antisemita e nella direzione generale della politica persecutoria”, pure questa unica prospettiva non consente di indagare adeguatamente il ruolo importante svolto dagli intellettuali nella politica della razza fascista, né il suo contesto e le sue premesse culturali116. Quanto al Manifesto, Sarfatti lo denomina Il fascismo e i problemi della razza (titolo ricavato dall’articolo pubblicato su Il Giornale d’Italia) e lo data 13 luglio, sostenendo che il documento è oggi noto anche come Manifesto degli scienziati razzisti (titolo definito addirittura fuorviante117), ma senza fornire alcuna prova documentaria della “originalità” di quel titolo rispetto agli altri né della datazione indicata118. In tal modo, in virtù della sua impostazione che attribuisce il testo a Mussolini (pur con la notazione, sulla base dei lavori di De Felice e Cortellazzo, che egli intervenne su un testo già elaborato), l’autore si preclude la possibilità di comprendere a fondo anche la dimensione propagandistica del documento, oltre a quella di carattere scientifico e culturale119. Più corretta appare l’ipotesi di spiegazione dell’intervallo di nove giorni tra la trasmissione della bozza del comunicato stampa del partito fascista (16 luglio 1938) e la comunicazione alla stampa con leggere modifiche il 25 luglio120. Più avanti Sarfatti, analizzando congiuntamente Manifesto e comunicato del Pnf, sostiene la presenza di una diversità, a suo giudizio evidente, tra le due proposte teoriche, la prima di un razzismo antiebraico differenzialista e

fotografie antropologiche di Lidio Cipriani, pp. 91-94; un saggio di Collotti L’antisemitismo tra le due guerre in Europa, pp. 101-112, che inquadra l’antisemitismo di Stato italiano nella dimensione internazionale più ampia, ma ne individua le caratteristiche e le varianti rispetto al caso tedesco nel razzismo coloniale e, in maniera più discutibile, nell’“esigenza di riscattare una sorta di complesso di inferiorità nei confronti della Germania nazista ponendosi su un piede di parità” e nella “volontà di enfatizzare, di spingere al livello più drastico, una questione razziale in Italia proprio per giustificare l’accanimento contro una minoranza per altri versi esigua e soprattutto non visibile” (p. 110), nell’ambito della totale irregimentazione della società. Pur dichiarando il razzismo fascista un affare interno all’Italia, Collotti non ne indaga le radici culturali profonde, in particolare dal punto di vista scientifico; da segnalare anche il saggio di A. Mignemi, Profilassi sanitaria e politiche sociali del regime per la “tutela della stirpe”. La “mise en scène” dell’orgoglio di razza, pp. 63-72, con alcune notizie sulla mostra dell’E42 e su Pende. 115 Cfr. M. Sarfatti, Mussolini contro gli ebrei. Cronaca dell’elaborazione delle leggi del 1938, Zamorani, Torino 1994, in particolare le pp. 6-7. 116 Ibidem, p. 6. Diverso il discorso di Sarfatti sul rifiuto delle “ipotesi interpretative deformanti”, a mio avviso corretto (cfr. pp. 7-8). 117 Cfr. Ibidem, p. 94. 118 Cfr. Ibidem, pp. 18-20 e n. 2 a p. 78. 119 A p. 94, infatti, Sarfatti scrive che il documento e il comunicato del Pnf del 25 luglio “ebbero il ruolo di annunciare ufficialmente l’avvenuta svolta razzista e antiebraica del fascismo e di fornirne le motivazioni”. Cfr. anche M. A. Cortellazzo, Il lessico del razzismo fascista (1938), “Movimento operaio e socialista”, a. VII, n. 1, gennaio-aprile 1984, pp. 56-66. L’analisi è condotta riferendosi anche ai diari di Bottai, Ciano e al volume di Giorgio Pini, Filo diretto con Palazzo Venezia, Cappelli, Bologna 1950. 120 Cfr. M. Sarfatti, Mussolini contro gli ebrei, cit., pp. 20-21 e n. 3 p. 78; Sarfatti esclude che il comunicato sia stato redatto da Mussolini e lo attribuisce piuttosto a Starace.

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non gerarchico, la seconda di un classico antisemitismo, fatto che, secondo l’autore, “ripropone la questione del rapporto che vi fu tra campagna per la creazione di una “coscienza di razza” (alla quale tra l’altro Mussolini dedicò l’articoletto del 25 luglio) e campagna antiebraica. Su tutto ciò è necessario continuare a ricercare e a riflettere; ma in questa sede occorre limitarsi a constatare che i due documenti non fornivano alcuna indicazione intorno alle caratteristiche concrete della sempre più prossima normativa antiebraica (preannunciavano però un qualche tipo di limite, di carattere razzista, alla libertà di matrimonio)”121. Riflessione tuttavia impossibile senza la considerazione delle altre dimensioni di cui si è parlato sopra, che influiscono certamente sulle politiche del fascismo precedenti al 1938 e sull’adozione del razzismo e dell’antisemitismo di Stato.

Per sottolineare ancora il carattere di documento di annuncio e giustificazione della svolta antiebraica del fascismo, legato a una nuova impostazione, Sarfatti sostiene, a proposito dell’Informazione diplomatica n. 18 redatta il 5 agosto e dell’indicazione del numero di ebrei presenti nel territorio metropolitano italiano ivi contenuta, che “la cifra di 44.000 era riferita agli ebrei tali per appartenenza religiosa e/o culturale. Ma già la richiesta del 29 luglio degli elenchi degli ebrei dissociati aveva recepito la nuova impostazione razzista del documento Il fascismo e i problemi della razza del 13 luglio. E il “prossimo speciale censimento” annunciato da Mussolini il 5 agosto fu condotto secondo criteri razzisti (o presunti tali), e non religiosi e/o culturali”122. Altra tappa fondamentale, sempre nell’ambito, tuttavia, dell’interpretazione prettamente politica, nella ricostruzione delle vicende del Manifesto è rappresentata dall’articolo di Mario Toscano del 1996 sulla testimonianza di uno dei protagonisti, Marcello Ricci123. L’autore inquadra la vicenda delle origini del Manifesto e della costituzione dell’Ufficio Razza nell’impostazione più generale della svolta razzista del fascismo come “parte integrante e significativa della trasformazione totalitaria del regime promossa da Mussolini nella seconda metà degli anni Trenta”124. Dalla nuova documentazione acquisita grazie a Marcello Ricci, allora giovane assistente incaricato dell’Istituto di Zoologia dell’Università di

121 Ibidem, p. 95.L’articolo citato è Scoperta!, pubblicato anonimo il 26 luglio su “Il popolo d’Italia” accanto al comunicato del Pnf. Cfr. Ibidem, pp. 21-22. Esiste comunque l’autografo (cfr. p. 78 n. 4). 122 Ibidem, p. 144. 123 Cfr. Marcello Ricci: una testimonianza sulle origini del razzismo fascista, a cura di Mario Toscano, “Storia contemporanea”, a. XXVII, n. 5, ottobre 1996, pp. 879-897, ripubblicato (nella sua sola parte introduttiva) in M. Toscano, Ebraismo e antisemitismo in Italia, cit., pp. 175-184 con il titolo La genesi del Manifesto della razza. 124 Cfr. Ibidem, p. 880 dove in nota 5 l’autore riporta le fonti: De Felice (il volume della biografia di Mussolini dedicato al periodo 1936-40), Michaelis e un interessante contributo di Emilio Gentile, La nazione del fascismo. Alle origini del declino dello Stato nazionale, in Nazione e nazionalità in Italia, a cura di G. Spadolini, Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 65-124 “per una prima ricostruzione del rapporto tra razzismo, politica imperiale e idea fascista di nazione negli anni Trenta”. Tale saggio è stato ricompreso, in versione ampliata, nel volume di Emilio Gentile, La grande Italia. Ascesa e declino del mito della nazione nel ventesimo secolo, Mondadori, Milano 1999 (ma già pubblicato in altra collana nel 1997), alle pp. 147-225, con la sottolineatura del tentativo fascista di rivoluzione antropologica e di rigenerazione degli italiani e della distinzione nella cultura fascista tra razzismo biologico e razzismo spirituale in termini che in questa sede non possono essere discussi. Per una sintesi della posizione di Gentile sul razzismo e l’antisemitismo fascista cfr. E. Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione, Laterza, Roma-Bari 2002, ad es. alle pp. 27-28.

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Roma sotto la direzione di Edoardo Zavattari, Toscano trae spunti per indicare nuove direzioni di ricerca (l’approfondimento delle correnti ideologiche del razzismo italiano e delle sue potenzialità di coinvolgimento nella costruzione dello Stato totalitario). I documenti presentati nella testimonianza di Ricci (il telegramma di Alfieri per la convocazione di una riunione il 2 luglio e una bozza preparatoria del Manifesto) confermano, secondo Toscano, il ruolo di Mussolini nella preparazione del testo, quello di coordinamento di Alfieri e l’intervento di Landra nell’elaborazione del documento, nella creazione di un circolo di studiosi e nell’organizzazione dell’apparato propagandistico dell’Ufficio Razza, oltre che la posizione di dissenso di Visco e Pende. Giustamente Toscano ricostruisce il quadro cronologico della “svolta razzista mussoliniana” sin dall’autunno 1936125, indicando nell’autunno-inverno 1937 “il passaggio da una fase propagandistica ad una fase operativa”126. Alla ricostruzione di eventi già noti Toscano aggiunge il carteggio tra Landra e Cogni conservato all’Archivio Centrale dello Stato nella busta relativa ai collaboratori dell’Ufficio Razza127, procedendo poi a un confronto tra la bozza del Manifesto, consegnata da Landra a Ricci verso la metà del giugno 1938 secondo la sua testimonianza, e il testo poi pubblicato il 14 luglio, con la rilevazione delle differenze formali, fatte risalire all’uso di formule propagandistiche più immediate, e di quelle sostanziali. Tra queste, la modifica del preambolo, che rifletterebbe, secondo Toscano, un’impostazione politicamente meno impegnativa nella bozza (di studio o di propaganda per “chiarire e definire gli aspetti essenziali dei problemi della razza”) rispetto al testo pubblicato (“la posizione del Fascismo nei confronti dei problemi della razza”); e la differente versione del punto 8, che testimonia le difficoltà di adottare un indirizzo ariano-nordico “nella realtà mediterranea dell’Italia per stabilire una precisa demarcazione biologica nei confronti degli ebrei e degli indigeni delle colonie africane”128. Infine Toscano riferisce il contributo della testimonianza di Ricci sulle discussioni e la posizione di Pende e di Visco, sottolineando come le memorie di Ricci indichino una protesta di Pende non dopo la pubblicazione del comunicato del Pnf del 25 luglio (quando il Manifesto “era uscito rimaneggiato rispetto alla stesura originaria, non tanto nei contenuti, ma, come indica il testo conservato da Ricci, nella sua funzione politica e nell’attribuzione delle responsabilità scientifiche, due modifiche tali da conferire maggior vigore polemico, ma non maggiore efficacia pratica e morale, al tentativo di dissociazione di Pende”129), ma già il 2 luglio (pur non essendo tali versioni, a giudizio di Toscano, necessariamente in contraddizione tra loro)130. A tal proposito, Toscano conclude che Pende protestò sin dal 2 luglio, aspettò poi “i momenti del chiarimento della sua funzione politica e dell’attribuzione di paternità per ingaggiare una battaglia personale che evitò di rendere pubblica”, cercando di insistere “sul piano della proposizione di una politica razziale autonoma, 125 Cfr. Marcello Ricci: una testimonianza sulle origini del razzismo fascista, cit., pp. 882-885 e in particolare la n. 10, in cui ci si riferisce alle trattative, iniziate nel febbraio 1936, per la preparazione di una missione in Germania del maggio 1937. Su questa missione cfr. G. Della Chiesa d’Isasca, La visita di una delegazione italiana in Germania per questioni demografico-razziali (maggio-giugno 1937), “Clio”, a. 39 (2003), n. 1, pp. 103-121. 126 Ibidem, p. 883. 127 Cfr. Ibidem, pp. 884-885 e n. 18. 128 Ibidem, p. 885. 129 Ibidem, pp. 886-887. 130 Cfr. p. 887.

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destinata ad intrecciarsi con i successivi sviluppi ideologici del razzismo italiano e, sul momento, a far fallire parzialmente l’azione di Landra per la creazione di una commissione scientifica fortemente impegnata sul piano del razzismo biologico, a provocare la pubblicazione anonima del documento e altri undici giorni di attesa per un’attribuzione di paternità”131. Il contributo di Toscano si chiude con la pubblicazione di un appunto anonimo sull’attività dell’Ufficio Razza132, sottolineando la “funzione politica contingente” e quella “ideologica provvisoria” del Manifesto, che sarebbe stato sorpassato dalle successive iniziative istituzionali e di propaganda: “nell’immediato esso serviva infatti a sancire la svolta politica del regime, a darle una base “scientifica”, a saldare nel quadro del razzismo politica africana e politica antisemita”133.

5. La svolta storiografica: Giorgio Israel e Pietro Nastasi (1988-1998)

Frutto di una ricerca più che decennale, nel 1998 viene pubblicato il volume di Giorgio Israel e Pietro Nastasi che costituisce un contributo essenziale per la ricostruzione della storia del Manifesto e fornisce una nuova interpretazione del razzismo italiano e dell’antisemitismo nel periodo fascista, venendo a rappresentare una vera e propria svolta storiografica134. Gli autori muovono dalla critica dell’interpretazione che considera il razzismo fascista importato dalla Germania nazista per affermare l’esistenza documentata di un razzismo italiano autoctono e autonomo anche dal punto di vista culturale, indagato nel suo retroterra e nelle sue premesse radicate nelle tradizioni di ricerca scientifica italiana e nell’impostazione della politica demografica e coloniale fascista. Tale interpretazione apre importanti piste di ricerca, inserendosi nel filone evidenziato da Raspanti nel 1994, anche se già nel 1988 Israel aveva indicato il ruolo degli scienziati e sottolineato, con un significato differente da Raspanti, l’esistenza di un razzismo di tipo spiritualista. Il nucleo dell’interpretazione dei due autori può essere così riassunto: le politiche demografiche e successivamente eugenetiche di miglioramento quantitativo della stirpe e di protezione della razza, promosse dal regime fascista e inserite nel progetto rivoluzionario e totalitario, affondano le loro radici in tradizioni e indirizzi scientifici e di ricerca ben presenti in Italia (come, ad esempio, lo sviluppo di un’antropologia fisica di carattere marcatamente materialistico-riduzionista), tradizioni e indirizzi che costituiscono il terreno favorevole (“come base concettuale e teorica”) su cui s’innestano successivamente il razzismo e l’antisemitismo di Stato del 1938, in sostanza la politica della razza nel suo aspetto qualitativo compiuto. Il legame tra i due momenti non è necessario, non si tratta cioè di una semplice conseguenza inevitabile, ma ciò non impedisce di affermare la continuità tra essi, perché, in seguito all’intervento di altri fattori, il secondo momento non potrebbe realizzarsi senza l’esistenza del primo e delle sue premesse in particolare; il passaggio tra le due fasi avviene per la convergenza di tre elementi (efficacemente

131 Ivi. 132 Sull’attribuzione di tale testo rimando al mio studio sull’Ufficio Razza di prossima pubblicazione e sopra ricordato. 133 Ibidem, p. 889. 134 Cfr. G. Israel-P. Nastasi, Scienza e razza nell’Italia fascista, cit.

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rappresentata con la metafora degli scambi rispetto ai binari): il Concordato del 1929, la nuova fase imperiale e antiborghese del fascismo nel 1936, l’alleanza con la Germania nazista. La centralità delle politiche demografiche ed eugenetiche nella più generale politica fascista e il ruolo dell’antropologia razziale, della demografia e dell’eugenica italiana rispetto a queste politiche (un ruolo che è, al tempo stesso e in tempi e modi diversi per le differenti discipline e per alcune tradizioni di ricerca al loro interno, di premessa e di richiesta, da parte della scienza, di acquisizione di una valenza politica) conducono all’“incrocio tra demografia razziale, eugenica e politica totalitaria della popolazione”135. Tra il 1927 e il 1937 si assiste allo “slittamento progressivo dalla prima fase demografico-eugenica “blanda”, ad una seconda fase razziale più “dura”, fino all’adozione dei provvedimenti legislativi sulla razza ebraica”136; il passaggio alla nuova fase è determinato dalla politica imperiale e dal processo di colonizzazione in Africa da cui emergono i primi provvedimenti legislativi razziali e la politica razzista esplicita nell’aprile del 1937137. D’altra parte, questa interpretazione, affermando “la sinergia fra le scienze delle razze e una politica totalitaria che individua e sceglie il tema della razza come centro delle proprie politiche o addirittura come elemento costitutivo e fondante, che porta al trionfo dell’ideologia e della politica razzista in alcuni paesi”, non sottovaluta il ruolo del razzismo nell’ambito del progetto totalitario fascista, ma neanche lega indissolubilmente il razzismo stesso al totalitarismo; infatti, tale lettura insiste sull’individuazione e la scelta politica del tema razzista in un ambito, come quello totalitario, che favorisce tale scelta, ma non la richiede necessariamente, perché, come esplicitamente affermano i due autori, “di per sé neppure la visione totalitaria implica in modo assolutamente inevitabile il razzismo”138.

Ciò rende, a mio avviso, poco pertinenti le critiche di Toscano a Israel e Nastasi, mosse anche a partire dalla successiva opera di Anna Treves, a cui accenneremo brevemente più avanti139. L’interpretazione dei due autori, infatti, 135 Ibidem, p. 101. 136 Ibidem, p. 117. 137 Cfr. Ibidem, p. 120. 138 Ibidem, p. 100. 139 Cfr. M. Toscano, Ebraismo e antisemitismo in Italia, cit., pp. 233-236. Critiche in parte avanzate, ma in maniera più dura, in M. Toscano, Scienza, razzismo e legislazione antiebraica, “Zakhor”, IV/2000, pp. 185-196. A proposito di quest’ultimo saggio va rilevato che la ricostruzione delle tesi dei due autori operata da Toscano (così come l’accostamento sostanziale al volume di Maiocchi) non appare sempre convincente, in particolare in riferimento alla presunta mancanza di coerenza tra la documentazione delle radici autoctone del razzismo italiano e “l’analisi del ruolo politico assunto dal razzismo – inteso come ideologia e come componente di una religione politica – nella storia del fascismo” (p. 191); e alla “sovrapposizione di fasi e temi diversi della politica mussoliniana e della storia del regime” (p. 192). Laddove, piuttosto, il volume di Israel e Nastasi (che, non va dimenticato, intende essere un contributo di carattere interpretativo e documentario a un nuovo tema e metodo di ricerca) insiste sul ruolo politico del razzismo nel totalitarismo fascista e sul suo carattere ideologico già nell’ambito scientifico, contestualizzando le differenti fasi della politica fascista. Quanto alla presenza di non meglio precisate “suggestioni politiche, istanze morali, tematiche filosofiche ed epistemologiche”, che secondo Toscano nuocerebbero “alla chiarezza della esposizione e alla correttezza dell’inquadramento storico” (p. 191), e rispetto al “peso dell’impostazione polemica” (p. 193), bisogna notare che non ogni critica a De Felice costituisce una polemica con finalità politiche, né, d’altra parte, esistono interpreti autorizzati a tale critica; gioverebbe alla ricerca storiografica italiana, specialmente su questi temi, una maggiore

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non appare legata solamente all’individuazione e spiegazione (che certamente ne rappresenta gran parte della novità) del nesso, non necessario, tra alcune tradizioni di ricerca scientifica italiane, politica demografica in senso ampio e politica razziale, ma è esplicitamente elaborata tenendo conto della molteplicità dei fattori di carattere interno e internazionale; inoltre, più che di subalternità tout court, come afferma Toscano, si deve inquadrare il nesso tra scienza e politica nell’ambito della richiesta, da parte della scienza, di valenza politica e della sua funzione di premessa rispetto alla politica, oltre che, naturalmente, di giustificazione. Si potrebbe anzi affermare che sono quattro le dimensioni in cui una parte importante della scienza italiana, in diversa misura a seconda dei casi, degli ambiti e dei personaggi, interviene rispetto alla politica demografica e razzista del fascismo (fermo restando il ruolo dei tre elementi sopra ricordato): promozione/richiesta di un ruolo politico, teorizzazione, applicazione, divulgazione/propaganda. Naturalmente, tale affermazione di carattere generale trova una precisazione, nel volume in esame, per i diversi filoni del mondo scientifico che effettivamente concorsero a tale operazione, rifiutando una comoda visione unitaria e operando le necessarie distinzioni; è importante solo sottolineare che, per alcuni ambiti almeno, e all’interno di essi per alcuni settori di ricerca peraltro non secondari, si può parlare di un processo del genere (comunque da approfondire anche rispetto ad altri settori e filoni di ricerca). D’altra parte, tale visione complessiva è assente nella storiografia precedente a questo volume, nonostante in essa siano già individuati alcuni temi ed elementi poi ricompresi nell’interpretazione di Israel e Nastasi e collocati, in maniera convincente, nel posto corrispondente al loro peso effettivo. Riprendendo la metafora dei binari e degli scambi, si può affermare che tale interpretazione non sottovaluta i binari (la materia della campagna razziale e il terreno favorevole ossia le discipline scientifiche di tipo demografico, eugenetico e antropologico nella tradizione italiana), né li sopravvaluta dichiarando l’esistenza di un nesso necessario o, peggio, di un piano inclinato; ma d’altra parte, non sopravvaluta neanche gli scambi che consentono a questi binari di convergere in un risultato non necessariamente prestabilito (gli scambi rappresentano i tre fattori di politica interna ed estera), come invece fa chi avanza l’ipotesi esclusiva di un primato della politica (primato e priorità della politica che, senza alcun dubbio, è la caratteristica principale del regime totalitario fascista, ma che, proprio in quanto tale, non esclude, anzi include, la sfera culturale e scientifica su cui viene a disponibilità alla collaborazione e al confronto con specialisti di altri campi, come gli storici della scienza, piuttosto che l’arrestarsi all’opposizione tra “defeliciani” e “antidefeliciani”. In particolare, sarebbero estremamente proficui, a mio avviso, un’integrazione e un confronto tra l’analisi dell’ideologia fascista portata avanti da più decenni da Emilio Gentile (nell’ambito della definizione tipologica multidimensionale del fascismo) e l’analisi del ruolo della componente scientifica nell’ambito di tale ideologia. Ciò nel più ampio contesto di una concezione dell’ideologia non solamente di contenuto politico o filosofico, ma anche scientifico (o per lo meno di una scienza che intende porsi sul piano politico e che come tale viene stimolata e promossa dal regime, entro la propria opera di politicizzazione della cultura, in una dimensione di convergenza, anche se non di coincidenza assoluta). Da tale prospettiva, proprio studi come quello in esame aprono la ricerca ai nuovi filoni di indagine indicati dallo stesso Toscano (cfr. p. 195), senza tuttavia scadere in “forzature interpretative di natura ideologica” (ivi), in “sterili contrapposizioni polemiche” o in “logori stereotipi” (p. 196) che egli crede invece di individuare, precludendosi in tal modo, a mio parere, la comprensione dei reali contributi apportati da tali lavori all’analisi storica.

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esercitarsi, legittimando pertanto l’analisi storica del suo ruolo e della sua funzione). Allo stesso tempo, tali scambi non vengono neanche sottovalutati, visto che senza di essi il processo di sbocco verso la politica razziale di Stato non sarebbe stato possibile (o quanto meno avrebbe incontrato notevoli difficoltà a realizzarsi). Per comprendere interpretazioni storiografiche di questo genere, a mio avviso è necessario uscire dall’opposizione e dalla separazione di politica e cultura (che conduce alle affermazioni opposte del primato della politica o delle scienze e della cultura nella campagna e nella politica razziale del fascismo) e adottare invece il paradigma che ne costituisce la novità, ossia l’affermazione che ogni politica (e ogni propaganda politica) s’inserisce e agisce in un determinato contesto culturale da cui è influenzata e che a sua volta influenza (in che misura è appunto da determinare), così come l’ideologia non è mai astratta dalla realtà in cui sorge e dalle problematiche politiche da cui origina e il linguaggio politico non è separato dalla società di cui sarebbe il riflesso, ma è esso stesso una realtà sociale. Ciò consente di determinare in maniera più precisa il ruolo degli intellettuali, in particolare degli scienziati, nella politica del fascismo e nel suo razzismo e antisemitismo140. Gioverebbe, inoltre, alla comprensione del fascismo una visione meno rigida delle ideologie e più attenta alla loro dimensione “processuale” (anche rispetto alle concezioni più “monolitiche”), ossia

140 Poco convincente appare il tentativo di Toscano, che riprende Anna Treves, di legare il nesso tra politica demografica e politica razziale del fascismo alla sola esigenza di distinguersi dal nazismo o ai rapporti con la Germania nazista (cfr. M. Toscano, Ebraismo e antisemitismo in Italia, cit., p. 235 n. 146. Tale tentativo, naturalmente, non ha come fine quello di sottovalutare il razzismo italiano, come Toscano sostiene a proposito di Sarfatti a p. 239, ma non può essere richiamato a proposito di interpretazioni come questa di Israel e Nastasi che appunto “cercano di pervenire all’individuazione di cause, aspetti, contenuti, articolazioni e interazioni di una scelta autonoma del regime” e all’“individuazione dei percorsi interni e del contesto internazionale in base ai quali il fascismo approdò alla scelta razzista e antisemita”). Da questo punto di vista, riferirsi al dibattito scientifico europeo sulle politiche demografiche ed eugenetiche e alle misure di sterilizzazione adottate in altri Stati anche non totalitari (ma significativamente assenti dallo Stato fascista), come appunto qui affermato da Toscano sempre citando Treves, nel momento stesso in cui si sostiene la centralità della politica natalista nella politica demografica del fascismo come suo tratto in qualche modo distintivo, non inficia l’interpretazione di Israel e Nastasi, dato ciò che si è appena visto e data la presenza, anche nella loro opera, di una contestualizzazione storica e geografica. A questo proposito bisogna tenere presente quanto lo stesso Giorgio Israel afferma, proprio rispondendo a critiche analoghe, a proposito della questione della specificità della Shoah, evento spiegabile solo tramite “la convergenza di una serie di fattori politici, ideologici, scientifici” e che “non si spiega e non si capisce senza tener conto della convergenza di tutti questi fattori” (G. Israel, La questione ebraica oggi. I nostri conti con il razzismo, il Mulino, Bologna 2002, p. 79) Considerazioni come queste, naturalmente, hanno valore sul piano metodologico e possono essere applicate alla situazione italiana proprio ponendo attenzione alle sue peculiarità e particolarità e al ruolo effettivo della scienza nella storia del razzismo e antisemitismo italiani. E d’altra parte, per comprendere ciò bisogna riferirsi alla distinzione tra biologi, antropologi, genetisti, medici e cultori di eugenica e il ruolo svolto dalla demografia, che pure mantenne una sua posizione importante vista la presenza di Savorgnan tra coloro che aderirono al Manifesto; cioè alla distinzione tra fase demografica e fase eugenica così come affermata alle pp. 131-132 di Scienza e razza nell’Italia fascista (senza ovviamente dimenticare l’impostazione eugenetica di Corrado Gini, la tradizione eugenetica italiana e con la necessaria e ulteriore precisazione delle diverse modalità di intendere l’eugenica). Ciò aiuta a spiegare meglio la specificità del razzismo e dell’antisemitismo fascista.(Per quanto riguarda il ruolo dell’antisemitismo cristiano entro tale prospettiva cfr., come esempio, le pp. 81-85 del libro G. Israel, La questione ebraica oggi. I nostri conti con il razzismo, cit.).

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non solamente alla coerenza logica intesa in modo deterministico e meccanicistico, ma all’adiacenza culturale141. Israel e Nastasi inseriscono le vicende del Manifesto in questo quadro generale e nell’ambito di un’analisi “dell’evoluzione oggettiva dei fatti” ossia delle scelte e degli atti ufficiali di Mussolini capo del governo sul tema razziale e di “una serie di azioni condotte con il suo più o meno tacito consenso o che quantomeno egli non frenò” a partire dal 1929 e fino al luglio 1938142. La scelta di riprendere l’antisemitismo di alcuni settori del fascismo (Farinacci, Interlandi, Orano) e il tradizionale antisemitismo cattolico entro il nuovo contesto dell’affermazione della superiorità razziale italiana, secondo gli autori, implicava anche la scelta degli interlocutori: “questi erano inevitabilmente coloro che fino a quel momento del problema della razza si erano occupati attivamente e in modo “scientifico”, gli scienziati, per l’appunto”143. Il Manifesto appare, dunque, come un’operazione di “omogeneizzazione delle diverse opinioni scientifiche” tramite l’autorità di Mussolini e di convergenza tra le “correnti di pensiero razziali “scientifiche” e le scelte politiche del regime a partire dal 1938”144. Le caratteristiche distintive del razzismo italiano (“un razzismo italiano autoctono, con caratteristiche specifiche e autonome, si esprime in forme politiche esplicite a partire dal 1938, ma è già pensato in molti dei suoi dettagli almeno un anno prima ed ha radici ben più lontane”145) sono in gran parte riassunte nella formula “discriminare, non perseguitare”, che, appunto, sta a indicare la priorità dell’affermazione della superiorità razziale degli italiani e della distinzione dalle altre razze, delle quali l’unica presente in Italia è proprio quella ebraica. Il Manifesto degli scienziati razzisti (apparso prima come articolo anonimo dal titolo Il fascismo e i problemi della razza, poi conosciuto con l’altro titolo) viene analizzato nei suoi contenuti “compositi, contraddittori e conflittuali”146: un’interpretazione biologistica delle differenze razziali, che ha origine nel gruppo antropologico dei firmatari e che si esprime nell’affermazione della purezza di sangue della razza italiana e nel rifiuto di interpretazioni filosofiche e religiose, unita alle affermazioni, di altro segno, di italianità della concezione razzista che si esprimono nella presa di distanza dalla visione tedesca e nell’indicazione del modello psicologico italiano di razza umana. I riferimenti alla psicologia, alla coscienza superiore di razza e alla maggiore responsabilità rivelano che il contenuto del razzismo italico (nella forma che per un certo periodo risultò dominante) è di tipo spiritualistico (in un senso naturalmente diverso da quanto affermato da De Felice). La compresenza di un’impostazione di tipo biologista e di una spiritualista (certamente minoritaria nel testo) appare evidente nelle conseguenze che riguardano gli ebrei: la loro non appartenenza alla razza italiana e la necessità di evitare incroci di italiani con la loro e con altre razze per non alterare i caratteri fisici e psicologici europei degli italiani stessi. L’accento troppo spostato su posizioni biologiste e filotedesche,

141 Per questo concetto cfr. M. Freeden, Ideologie e teoria politica, il Mulino, Bologna 2000 (ed. or. 1996), in particolare la prima parte e il cap. II. 142 G. Israel-P. Nastasi, Scienza e razza nell’Italia fascista, cit., p. 193 e cfr. anche fino a p. 209. Importante è pure l’analisi dell’Informazione diplomatica n. 14 del febbraio 1938. 143 Ibidem, p. 207. 144 Ivi. 145 Ivi. 146 Ibidem, p. 211.

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nonostante affermazioni contrarie, è all’origine, secondo gli autori, delle proteste di Visco e di Pende “che si sentiva padre nobile di una tradizione autoctona che gli appariva troppo sbrigativamente liquidata o quantomeno svalutata”147. Del resto, lo stesso Mussolini non poteva ritenersi soddisfatto di questa sintesi per la mancanza di riferimenti alla civiltà romana e al suo mito spirituale. Il Manifesto è pertanto un documento caratterizzato da ambiguità ossia dall’“eccessivo protendere verso un razzismo biologico di tinta nazista senza rompere completamente i ponti con lo spiritualismo caratteristico della tradizione italiana”148 e, quindi, destinato a essere corretto con proposte di documenti alternativi tra il 1938 e il 1942. Tale impostazione storiografica, che consente di inquadrare vicende note in una prospettiva diversa e maggiormente esplicativa, è arricchita dalla presentazione di nuovi documenti inediti, oltre ad alcuni in parte pubblicati da Raspanti, che contribuiscono a fornire una ricostruzione più accurata delle vicende del Manifesto. Il confronto tra le fonti note e i documenti inediti (i diari di Ciano e di Bottai, la memorialistica, gli articoli di Landra e di altri protagonisti del razzismo biologistico, le lettere e i documenti di Landra e Pende conservati nell’Archivio Centrale dello Stato e qui pubblicati in appendice, il dibattito Pende-Viterbo del 1949, oltre alla mole di documentazione utilizzata sulle diverse tradizioni scientifiche italiane) consente di definire non solo il ruolo di Mussolini nell’impostare le direttive sulla politica razziale e quello di Landra nel redigere il documento, ma anche il contributo di entrambi dal punto di vista teorico: “la paternità del documento si accorda assai bene col suo contenuto: molto razzismo biologico, una miscela di confuse dottrine sulle origini della popolazione italica (assai coerenti con le tesi del Mussolini razzista della prima fase), un richiamo generico all’originalità del razzismo italico, nessun riferimento alla tradizione della demografia razziale e dell’eugenica italiana”149. Landra avrebbe in sostanza trascritto le tesi di Mussolini nella cornice e nel linguaggio del razzismo antropologico di tipo biologistico e filogermanico, attenuato solo nei punti di possibile attrito con i cattolici, lasciando da parte posizioni come quella di Pende. Tali fonti consentono anche di ricostruire in maniera più precisa ed entro un quadro più chiaro l’azione di Landra, il dissenso di Visco e di Pende e quindi il conflitto tra l’approccio spiritualistico-romano di questi ultimi due e quello biologistico-ariano, chiarendo anche il rapporto tra alcune istituzioni deputate alla politica della razza come l’Ufficio Razza del Ministero della cultura popolare e le tradizioni scientifiche e le correnti ideologiche del razzismo italiano, anche in relazione all’azione di Mussolini150.

147 Ibidem, p. 214. 148 Ivi, dove gli autori rileggono, a conferma della propria tesi, le reazioni del mondo cattolico. 149 Ibidem, p. 217. 150 Cfr. Ibidem, pp. 218-225; quanto al rapporto tra fascismo e nazismo e a proposito dell’interpretazione di De Felice corrette sembrano le conclusioni: “a nostro avviso, quindi, assumere i contenuti del Manifesto come una prova del carattere imitativo del razzismo italiano rispetto a quello germanico e delle sue motivazioni in termini di politica estera è privo di qualsiasi fondamento: esso è soltanto, e in parte, espressione di uno “scarto” iniziale del razzismo italiano verso posizioni biologistiche di tipo germanico. E’ quanto mai significativo il fatto che, in anni in cui Italia e Germania erano strette da una guerra condotta sullo stesso fronte, e cioè nel 1941 e 1942, il Manifesto viene criticato, emendato e corretto, fino a produrre una nuova versione coerente con l’impostazione che abbiamo appena detto” (p. 225).

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6. Da Roberto Maiocchi ad Anna Treves (1999-2001)

Successivamente al volume di Israel e Nastasi viene pubblicato il libro di Maiocchi151. Quest’opera, pure ricca di nuove notizie e informazioni relative alla produzione di scritti razzisti da parte di molti scienziati e intellettuali italiani, al di là del suo carattere spesso descrittivo, non presenta interpretazioni di particolare novità nel panorama storiografico sul tema né, sostanzialmente, documentazione inedita: la tesi di fondo è che il razzismo italiano costituisce il risultato di processi di lunga durata presenti nella cultura scientifica italiana prima del 1938, che determinano in parte la giustificazione razionale dei caratteri del razzismo italiano stesso, preparando un terreno favorevole al suo insorgere. L’opposizione alle due tesi dell’“estraneità sostanziale dei temi razzisti alla cultura precedente il 1938 e natura opportunistica, teoreticamente inconsistente del “razzismo italiano”152, riferite in particolare alla scienza italiana, si concretizza nell’affermazione della natura obbligata del passaggio da quei processi di lunga durata al razzismo di Stato, presentando così un’interpretazione meno articolata e ben più problematica rispetto al filone di ricerca inaugurato da Israel e Nastasi con la loro opera153, non riuscendo altresì a chiarire in maniera soddisfacente il nesso tra scienza e politica né a tenere insieme altri fattori pure importanti nella spiegazione della politica della razza fascista. Perciò è possibile affermare che i due volumi di questi autori, pur essendo i primi dedicati al tema del rapporto tra scienza e razza nel fascismo e spesso per questa ragione accomunati, differiscono in realtà per impostazione, valore storiografico e risultati. Quanto al Manifesto, l’autore sostiene nettamente che questo documento ha il significato di “imporre i principi della cultura razziale nazista ad una cultura, quella italiana, che non li aveva accolti”154, affermando che si trattò di una decisione di autorità di Mussolini che ignorava il dibattito esistente nella cultura scientifica italiana e in generale si poneva in opposizione alla cultura della maggioranza. Tali affermazioni conseguono a un’analisi poco attenta alle sfumature ideologiche che tende a ridimensionare il ruolo di Landra nella redazione del Manifesto per attribuirne la paternità praticamente solo a Mussolini. Anche l’affermazione secondo cui i “criteri che guidarono la scelta dei “firmatari”, cioè dei docenti universitari che furono invitati a figurare come gli estensori del documento dopo che questo fu pubblicato, non sono per niente chiari”155, è insostenibile sulla base delle conoscenze e dei documenti disponibili nel 1999, e del resto in contraddizione con quanto l’autore cerca di mostrare nei capitoli precedenti. Analogo discorso va fatto a proposito

151 Cfr. R. Maiocchi, Scienza italiana e razzismo fascista, La Nuova Italia, Scandicci (Fi) 1999. Nonostante la data dell’introduzione, il testo è stato pubblicato nel gennaio del 1999. 152 Ibidem, p. 2. 153 Volume di cui, tra l’altro, l’autore non tiene minimamente conto. 154 R. Maiocchi, Scienza italiana e razzismo fascista, cit., p. 226; la parte relativa al Manifesto è alle pp. 225-241. 155 Ibidem, p. 228. Addirittura Maiocchi parla di armata Brancaleone (p. 229), dando l’impressione di una scelta di coloro che poi divennero ufficialmente i firmatari del Manifesto effettuata senza criteri di tipo scientifico e ideologico, basata forse su conoscenze personali, ma priva di una reale progettualità.

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delle esclusioni di altri personaggi dall’operazione, come Giulio Cogni156. Le pagine dedicate da Maiocchi al caso Pende, infine, non aggiungono nessuna nuova notizia di rilevante interesse né sul piano documentario né su quello interpretativo generale. Il volume costituisce comunque una fonte importante di informazioni, spesso disperse in numerose pubblicazioni e di difficile reperibilità157. Oltre alle opere già segnalate, la storiografia compresa tra il 1996 e il 2000 non presenta particolari novità interpretative o documentarie sul Manifesto degli scienziati razzisti158. Il volume di Michele Sarfatti del 2000159, un’opera che in

156 Erroneamente chiamato Guido da Maiocchi, che si riferisce alla sua lettera di protesta a Landra (cfr. p. 229 n. 52); piuttosto che perché non inserito all’università (motivo del resto vero), o perché, come sostiene Michaelis, il suo nome era troppo legato a un razzismo di derivazione germanica (il razzismo di Cogni meriterebbe un’analisi più approfondita, per cui rimando a un mio prossimo lavoro basato su documentazione inedita), Cogni venne escluso probabilmente per i suoi contrasti con la chiesa cattolica e per alcuni aspetti della sua concezione razzista, che sembravano non risultare soddisfacenti per le finalità dell’azione promossa dal regime. Maiocchi cita la spiegazione di Michaelis (n. 53), ma non la considera valida in quanto non renderebbe conto del fatto che al gruppo Cogni-Interlandi fosse subito affidata “la principale iniziativa propagandistica razzista del regime, la rivista “Difesa della razza” (p. 229); ove restano da dimostrare i legami di Cogni con Interlandi tali da giustificare l’espressione di “gruppo Cogni-Interlandi”, e soprattutto è da evidenziare che la rivista vide nel comitato di redazione Landra e altri firmatari e non, di nuovo, Giulio Cogni. Del resto lo stesso Mussolini aveva scaricato Cogni, con parole che sembrano proprio confermare la tesi di Israel e Nastasi sulla priorità di affermazione della superiorità della razza italiana sulle altre razze. 157 Maiocchi ha riproposto invariata la sua interpretazione in R. Maiocchi, Scienza e fascismo, Carocci, Roma 2004; per una valutazione più ampia della sua prospettiva cfr. il volume R. Maiocchi, Gli scienziati del Duce. Il ruolo dei ricercatori e del Cnr nella politica autarchica del fascismo, Carocci, Roma 2003. 158 Giorgio Fabre nel suo volume L’elenco. Censura fascista, editoria e autori ebrei, Zamorani, Torino 1998, alle pp. 104-113 ricostruisce con alcuni nuovi particolari la posizione di Bottai e quella di Alfieri, soprattutto rispetto al razzismo spirituale (degno di nota è un rapporto di Alfieri ai giornalisti sulla situazione italiana datato 17 agosto 1938 di cui è pubblicato uno stralcio a p. 112). Tuttavia, la distinzione nel razzismo italiano tra prassi biologica e pubblicistica spirituale appare poco convincente (p. 113). Il volume Razza e fascismo. La persecuzione contro gli ebrei in Toscana (1938-1943) 1. Saggi, a cura di E. Collotti, Carocci, Roma 1999 (frutto di una ricerca degna di nota sia per l’impostazione sia per la mole della documentazione esaminata e presentata, ma che in questa sede non può essere discusso), contiene interessanti notizie su Lidio Cipriani. Su questo personaggio cfr. F. Cavarocchi, La propaganda razzista e antisemita di uno ‘scienziato’ fascista. Il caso di Lidio Cipriani, “Italia contemporanea”, n. 219, giugno 2000, pp. 193-225. L’autrice mette bene in luce il carattere propagandistico del Manifesto, il contributo teorico e l’intervento di Cipriani alla fase di correzione della bozza del documento. Alcune pagine sono dedicate all’analisi del testo del Manifesto, sulla base dei documenti e delle riflessioni di Israel e Nastasi e di Toscano, e all’attività dell’Ufficio Razza, con l’esame di documenti interessanti e inediti che restituiscono il ruolo di Cipriani nella politica della razza del fascismo (anche se sono presenti giudizi a volte discutibili sulla valutazione dell’operato e delle motivazioni di Cipriani, uno dei razzisti più convinti). In precedenza, era stato pubblicato il volume Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d’Italia 1870-1945, a cura di A. Burgio, Il Mulino, Bologna 1999, che raccoglieva gli atti di un convegno bolognese del 1997 in cui vennero presentati contributi di diversa natura e valore che in questa sede non possono essere discussi, (così come l’interpretazione generale del concetto di razza data da Burgio in questo e in altri lavori), ma che testimoniano comunque il risveglio di studi e di interesse per tale tematica nella storiografia italiana. Particolare risalto veniva dato al razzismo coloniale, per il nostro tema, tuttavia, non era presente alcuna novità rilevante. 159 Cfr. M. Sarfatti, Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Einaudi, Torino 2000. Il volume è una rielaborazione e un ampliamento di un saggio precedente di Sarfatti, Gli ebrei negli anni del fascismo: vicende, identità, persecuzione, in Annali di Storia d’Italia, Vol. XI, tomo 2, a cura di C. Vivanti, Einaudi, Torino 1997, pp. 1625-1764.

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maniera efficace, anche se con alcuni limiti interpretativi, ricostruisce la portata della persecuzione degli ebrei nell’Italia fascista determinata dalla legislazione razziale, insiste nel datare il Manifesto il 13 luglio160, continuando a preferire il titolo Il fascismo e i problemi della razza e a ritenere Manifesto una denominazione fuorviante; quanto alla paternità, Sarfatti scrive che il documento fu “in realtà steso da Guido Landra, con la consulenza di alcuni altri, sulla base di precisi orientamenti comunicatigli direttamente da Mussolini e di ulteriori indicazioni di Alfieri”161. Sarfatti, tuttavia, rispetto a Israel e Nastasi e a Raspanti, presenta una diversa posizione, a mio parere discutibile, sulla valutazione del ruolo delle componenti ideologiche, in particolare quelle definite “razzistico-biologiche” che per l’autore sarebbero alla base dell’impostazione della legislazione antiebraica, mentre la propaganda (significativamente indicata in corsivo da Sarfatti, a sottolineare la sua impostazione che distingue e separa i due ambiti) in parte “considerando stabilita e non più discutibile tale base “materiale”, la contornò e perfezionò con analisi e prospettive “spirituali” (queste ultime quindi non vanno accomunate con quelle effettivamente razzistiche-spirituali, peraltro apparentemente rimaste minoritarie nel Pnf e nel governo)”162. Dove tale interpretazione è discutibile è proprio nella qualifica “biologica” attribuita alla legislazione e nel ruolo assegnato alla propaganda distinta dalla realtà effettiva (e, in un certo senso, separata dalla vicenda persecutoria), staccata dalla imprescindibile necessità metodologica (presente in ogni analisi della propaganda politica) di individuare le sue fonti, le sue formule di opinione e i pubblici diversi a cui si rivolge; in tal modo si perde completamente la vicenda dello scontro tra Pende e Visco da una parte e la linea rappresentata da Landra dall’altra, come pure il peso che tali correnti ebbero nella concreta campagna e politica della razza del fascismo (in particolare nella conduzione di organismi istituzionali come l’Ufficio Razza, nella diffusione di una “coscienza razziale”, nella penetrazione e nel ruolo svolto dal mondo universitario e dell’alta cultura, ruolo anche di formazione di élites autenticamente fasciste attraverso il razzismo) e, quindi, le conseguenze di carattere culturale immediate e di lungo periodo (in particolare nel dopoguerra). Nel 2001 Sarfatti riprende, aggiornandola, l’analisi del Manifesto nel volume a cura di Ilaria Pavan e Guri Schwarz dedicato a Gli ebrei in Italia tra persecuzione fascista e reintegrazione postbellica163. In questo lavoro l’autore recepisce definitivamente le novità documentarie, e parzialmente anche quelle interpretative, introdotte da Toscano e ancora prima da Raspanti. Il documento Il

160 La ragione di tale datazione è da ricercarsi nel fatto che Sarfatti individua nel 13 luglio, il giorno precedente alla sua pubblicazione, la data di ultimazione della stesura definitiva del documento; come sappiamo, tuttavia, il processo di elaborazione del testo era stato alquanto complesso e l’ultima data oggi conosciuta (anche quella nota sulla base dei documenti disponibili nel 2000) non corrisponde al 13 luglio. (Cfr. Ibidem, p. 149 ss.). 161 Ibidem, p. 149. 162 Ivi, n. 142. Per altre critiche a Sarfatti, cfr. M. Toscano, Ebraismo e antisemitismo in Italia, cit., pp. 237-241. 163 Cfr. M. Sarfatti, La preparazione delle leggi antiebraiche del 1938. Aggiornamento critico e documentario, in AA.VV. Gli ebrei in Italia tra persecuzione fascista e reintegrazione postbellica, a cura di Ilaria Pavan e Guri Schwarz, pp. 25-54.

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fascismo e i problemi della razza164 viene analizzato alla luce del ruolo svolto da Landra e del coinvolgimento di Ricci e Cipriani, con la presentazione del testo corredato delle modifiche apportate nel corso del processo di redazione e con l’aggiunta della modifica intervenuta dopo che il testo fu pubblicato il 14 luglio su “Il Giornale d’Italia” e recepita nella “sua definitiva (e obbligatoria) divulgazione da tutta la stampa quotidiana del 15 luglio”165. Sarfatti afferma quindi che il testo è stato redatto da Landra in una versione preliminare seguendo le direttive di Mussolini e Alfieri e poi “esaminato, discusso e modificato tra la fine di giugno e l’inizio di luglio; dalla documentazione sopra indicata non risulta che nel corso di tale processo siano state redatte ulteriori bozze ufficiali del documento”166. Il mantenimento, nella versione definitiva del documento, dell’affermazione del carattere “puramente biologico” del razzismo fascista farebbe ritenere che Mussolini sia stato l’ispiratore di tale impostazione, mentre Landra avrebbe svolto il ruolo di esecutore; inoltre, la soppressione, al punto 8, della distinzione di qualità positive e negative dei mediterranei in Italia, e dunque della inferiorità di quelle negative, assieme alla contraddizione tra la cancellazione del riferimento all’indirizzo “nordico” e la presenza invece al punto 7 dell’indirizzo “ariano nordico”, porterebbero alla conclusione provvisoria che “l’elaborazione “scientifica” di Landra comprendeva una suddivisione classificatoria degli italiani che Mussolini non approvava “politicamente” (e probabilmente nemmeno condivideva)” (affermazione che sarebbe confermata da una lettera del 9 luglio di Cipriani in cui si parlava di adeguamento alle direttive superiori e di necessità di dimostrare la peculiarità dei nordici d’Italia dal punto di vista spirituale)167. Sarfatti poi, nell’analisi delle modifiche del testo, insiste nel ribadire che la versione definitiva costituì l’enunciazione di un “razzismo di tipo differenzialista e non gerarchico”168: tale affermazione viene suffragata dalla soppressione dei riferimenti all’inferiorità di alcune razze169 e da alcune frasi contenute in articoli di Landra su “La Difesa della Razza”. A questa enunciazione differenzialista l’autore oppone l’azione governativa razzista di tipo gerarchico, illustrando ulteriormente tale opposizione con le concezioni espresse da alcuni firmatari del documento (il riferimento è a Cipriani in particolare) e dallo stesso Mussolini in occasioni diverse. La contraddizione tra la convinzione razzista gerarchica di Mussolini e l’enunciazione differenzialista del razzismo fascista viene spiegata da Sarfatti con il

164 Alla qualifica di fuorviante che Sarfatti, come di consueto, applica al titolo Manifesto degli scienziati razzisti assieme alla datazione del 13 luglio, verrà in seguito aggiunto dallo stesso autore l’aggettivo “riduttivo”, chiarendo in tal modo la sua concezione complessiva della vicenda e il ruolo che egli assegna alla propaganda (cfr. il volumetto di sintesi M. Sarfatti, Le leggi antiebraiche spiegate agli italiani di oggi, Einaudi, Torino 2002, p. 19). 165 M. Sarfatti, La preparazione delle leggi antiebraiche del 1938. Aggiornamento critico e documentario, cit., p. 29 (cfr. anche la nota 13).Per il testo cfr. le pp. 29-32. 166 Ibidem, p. 29. Questo documento e il comunicato del 25 luglio erano testi che dimostravano “la volontà del partito e del governo di intensificare l’“azione politica” (così il comunicato del 25 luglio) razzistica e antiebraica, ma che preannunciavano esplicitamente solo un’attività di tipo propagandistico” (p. 48). 167 Cfr. Ibidem, pp. 50-51. 168 Ibidem, p. 52. 169 Soppressione che trasformò il documento, originariamente “costruito largamente come un percorso e non come un elenco” indirizzato verso la conclusione gerarchica, e la sua enunciazione iniziale differenzialista, “avente più le caratteristiche di premessa che quelle di sintesi. La soppressione suddetta, invece, le assegnò caratteristiche di autosufficienza e completezza” (Ivi).

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rinvio a un’indagine più precisa e con l’indicazione di una motivazione, la politica estera verso gli alleati e nei confronti del mondo islamico, elemento che influenzò le dichiarazioni ideologiche del fascismo. Senza escludere il fattore della politica estera e il suo ruolo nell’intera vicenda, bisogna comunque notare a proposito dell’esistenza, secondo l’autore, di tale contraddizione, di questa indagine e delle diverse concettualizzazioni presenti nella versione definitiva (alcune delle quali, a suo giudizio, “potranno essere comprese solo all’interno di un paziente esame complessivo delle elaborazioni razziste dell’epoca”170) che Sarfatti non tiene conto dei lavori di Israel e Nastasi e di Maiocchi, dai quali avrebbe potuto ricavare quanto meno delle indicazioni necessarie a chiarire le differenze e le modifiche presenti nelle versioni del Manifesto e a comprendere il significato dell’azione propagandistica del fascismo, anche in relazione alla presenza e all’azione della chiesa cattolica. Nessuna novità a proposito del Manifesto giunge dalla ricca e voluminosa opera del 2001 di Anna Treves su La nascite e la politica nell’Italia del Novecento, in cui l’autrice afferma che “il celebre natalismo del regime fascista italiano non costituiva né più né meno che un momento, una pagina di un complessivo fenomeno europeo”171. 7. L’interpretazione di Aaron Gillette (2001-2002) e gli ultimi studi (2003-2005) Alcune rilevanti novità, in particolare relativamente a documenti inediti, presentano gli articoli e il volume di Aaron Gillette172. La ricerca si basa su una serie di fonti archivistiche nuove, prevalentemente tratte dall’archivio privato di Guido

170 Ibidem, p. 51. 171 A. Treves, Le nascite e la politica nell’Italia del Novecento, Led, Milano 2001, p. 118. L’autrice comunque giustamente inquadra tale politica natalista del fascismo in un ambito più generale europeo senza con ciò annullare, proprio a proposito di politiche come queste, le differenze tra democrazie e totalitarismi (cfr. p. 117). In questo quadro più avanti (pp. 138-139) Treves afferma la centralità della battaglia natalista per il successo del progetto politico fascista, già prima definita “fattore differenziante” (p. 15), tanto da giungere a indicare la politica demografica fascista rispetto al contesto europeo con la qualifica della “diversità nella somiglianza” (ivi); dedica inoltre molta attenzione al rapporto tra demografi italiani e politica della razza. In questa sede non è possibile, tuttavia, analizzare a fondo i punti critici di questo volume (già sopra accennati), in particolare l’affermazione del primato esclusivo o comunque della prevalenza della politica (specialmente nel rapporto tra Mussolini e Gini) e la conseguente negazione di una funzione preparatoria e di premessa (non necessaria) da parte delle scienze demografiche e dei loro cultori a proposito del natalismo fascista (e, in parte, anche della politica della razza, nonostante affermazioni di Treves stessa in senso contrario). Come pure la valutazione del razzismo fascista dal 1938 in avanti come solo strumentalmente in continuità con la precedente politica demografica natalista, per evitare l’accusa di essere considerato “imitatore succube del nazismo” (p. 17), e la stessa definizione di politica demografica e natalista. Di grande interesse appare infine la tesi del nesso tra politica natalista del fascismo e quella dell’Italia repubblicana a partire dagli anni ottanta. Sul tema della demografia nel periodo fascista cfr. C. Ipsen, Demografia totalitaria. Il problema della popolazione nell’Italia fascista, il Mulino, Bologna 1997 (ed. or. 1992), che presenta un’attenzione specifica al rapporto tra demografia e razza e, tra gli altri, alle teorie di Pende. 172 Cfr. A. Gillette, The Origins of the ‘Manifesto of racial scientists’, “Journal of Modern Italian Studies”, 3, 2001, n. 6, pp.305-323; Guido Landra and the Office of Racial Studies in Fascist Italy, “Holocaust and Genocide Studies”, v. 16, n. 3, Winter 2002, pp. 357-375; Racial Theories in Fascist Italy, Routledge, London and New York 2002.

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Landra173. Dopo aver brevemente accennato alla storiografia in materia, nell’articolo del 2001 dedicato alla genesi del Manifesto Gillette attribuisce la decisione di adozione del razzismo e antisemitismo di Stato prevalentemente all’evoluzione delle convinzioni e delle azioni politiche di Mussolini, muovendo dal suo interesse per le questioni sanitarie e demografiche alla fine degli anni Venti e grazie alla convergenza di tre elementi: una posizione antiafricana, una antisemita e l’idea dell’unità razziale italiana. Il dittatore decise quindi di dare inizio a una massiccia campagna di propaganda per la quale dovette scegliere un leader, preferibilmente giovane e “malleabile” come Landra, una figura legata al mondo accademico, ma senza una posizione eminente in esso (in ragione del suo status di assistente)174. Gillette ricorda i precedenti legami tra Landra e Interlandi, che riprese i contatti con l’assistente di antropologia su iniziativa di Mussolini: infatti, dai documenti del suo archivio emerge che Landra, assistente di Sergi e secondo Gillette seguace delle sue idee, ebbe un incontro con Interlandi e con lui discusse in quell’occasione le idee di Mussolini – riportategli dal giornalista – sulla soluzione politica dei problemi razziali, venendo da Interlandi stesso incaricato di riunire alcuni consigli tecnici sullo sviluppo della campagna (gennaio 1938); successivamente Alfieri chiese a Landra di occuparsi di un manifesto che delineasse il razzismo italiano e di contattare un gruppo di biologi che lo coadiuvassero (2 febbraio 1938); la lista fu inviata ad Alfieri il 4 febbraio, mentre l’11 gli fu comunicato che il Duce aveva approvato la lista stessa; tra il febbraio e il giugno del 1938, la posizione di Landra sul razzismo, secondo Gillette, subì un mutamento, testimoniato da un documento che risulta essere una prima bozza del Manifesto e allo stesso tempo una serie di istruzioni sulla campagna razziale (aprile 1938); tale mutamento implicò, secondo Gillette, l’abbandono dell’idea di coinvolgere l’accademia e l’università nella trattazione del problema razziale, che doveva essere considerato soprattutto di carattere politico175; in questo stesso periodo Landra cadde sotto l’influenza di Eugen Fischer, direttore dell’Istituto di Antropologia Kaiser Wilhelm dell’Università di Berlino, dato che proprio da questo momento si ha riscontro dei primi contatti attivi tra i due (aprile 1938); infine, il 24 giugno Mussolini si incontra con Landra e Alfieri e probabilmente, ipotizza Gillette, anche con Bottai e le vicende prendono la piega che già conosciamo dagli altri documenti presentati in lavori precedentemente citati.

173 Ho avuto la possibilità di consultare l’archivio privato di Guido Landra nel 1999 grazie alla disponibilità degli eredi. La mia ricerca si è svolta in maniera del tutto indipendente da quella di Gillette, dell’esistenza della quale sono venuto a conoscenza in quella data e dei suoi risultati solo nel 2001, al momento della pubblicazione del suo primo lavoro (Gillette era entrato in contatto con Landra in precedenza). Ringrazio gli eredi Landra per la fiducia dimostratami e per avermi concesso l’autorizzazione alla pubblicazione dei documenti stessi tratti dall’archivio privato dell’antropologo; tali documenti saranno utilizzati nella seconda parte di questo studio e pubblicati integralmente nel mio prossimo lavoro complessivo sul Manifesto. 174 Cfr. A. Gillette, The Origins of the ‘Manifesto of racial scientists’, cit., pp. 306-307; l’autore riporta anche le vicende di Cogni, incaricato (o piuttosto incoraggiato) nel 1936 da Mussolini di occuparsi di questioni razziali (al riguardo vengono citati interessanti documenti conservati nell’Archivio Centrale dello Stato), e le ragioni della sua esclusione dall’operazione del Manifesto (cfr. p.320 n. 6). 175 Cfr. Ibidem, p. 311 e p. 321 n. 18, in cui Gillette basa questa attribuzione del documento a Landra sull’argomento della somiglianza e delle parafrasi di scritti e affermazioni di Landra dello stesso periodo.

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Secondo Gillette, Mussolini decise di adottare il mito nordico della razza perché colpito dai successi tedeschi a suo parere motivati dalla potenza di tale mito176; alla fine di giugno Landra presentò a Mussolini il testo del Manifesto, che risulta essere una sintesi delle idee del duce e della precedente bozza redatta da Landra (tanto che, afferma Gillette, entrambi poterono dichiararsene gli autori) (28 giugno 1938)177. Dopo aver discusso e confrontato le diverse versioni del Manifesto178, ribadendo, come si è visto, che lo spostamento verso una direzione di razzismo nordico avvenne ad opera di Mussolini, Gillette riporta le lamentele di Cogni per non essere stato coinvolto nell’operazione e ricostruisce le successive riunioni dei collaboratori di Landra (in quel momento erano già Cipriani, Franzì, Ricci e Businco) del 2 luglio (riunione con Landra), del 3 e del 5 luglio del 1938 (riunione con Landra e Alfieri)179; fino alla pubblicazione, il 14 luglio, della versione finale del Manifesto. Gillette accredita, inoltre, la reazione sfavorevole al Manifesto, citando documenti che, ad esempio, mostrano la presa di distanza della Chiesa dal rischio di un allineamento con la dottrina nazista180. Tali reazioni sarebbero all’origine del coinvolgimento di altre personalità nella firma e nell’adesione al Manifesto (comunicate al comitato in una successiva riunione con Alfieri del 20 luglio e poi inserite nel comunicato del Pnf del 25 luglio), per fornire maggiore credibilità scientifica al documento grazie appunto all’intervento di Pende, Visco, Savorgnan, Donaggio e Zavattari181. Un interessante documento di Alfieri rende conto in maniera più dettagliata delle obiezioni al Manifesto avanzate da Pende e Visco e della reazione degli altri personaggi convocati alla riunione182. I successivi avvenimenti, già noti, vengono descritti da Gillette nei termini di una lotta tra le fazioni del razzismo “mediterraneo” e del razzismo “nordico”, con l’intervento di Giacomo Acerbo183. Poco convincenti appaiono le conclusioni dell’autore, secondo il quale il Manifesto rappresentò il simbolo della mancanza di consenso delle élites italiane sulla propria identità, cosa che dimostrerebbe la scarsa influenza duratura che il fascismo ebbe sulla nazione italiana; l’obbiettivo di Mussolini, unificare gli italiani attraverso il razzismo intorno a una solida identità nazionale, fallì, approfondendo invece il tradizionale solco tra il Nord e il Sud del paese. Tale tesi, che legge queste vicende applicando, in maniera forse troppo deterministica, situazioni e preoccupazioni di alcuni decenni

176 Cfr. Ibidem, p. 312. 177 Cfr. Ivi. 178 Cfr. Ibidem, pp. 312-313. 179 Gillette nota una discrepanza tra le affermazioni di Marcello Ricci (nel documento pubblicato da Toscano nel 1996) e quelle che emergono dai documenti coevi di Landra (per il primo la riunione del 2 luglio comprendeva tutto il comitato al completo, mentre un’altra riunione dello stesso comitato completo si svolse tra il 2 e il 25 luglio e l’ultima il 25 luglio; per il secondo invece, come si è visto, le riunioni del 2, 3 e 5 luglio erano del comitato ristretto, come pure quella del 20 luglio, mentre il comitato al completo si riunì il 25 e il 26 luglio; cfr. Ibidem, pp. 322-323 n. 48). Per queste ed altre discrepanze, per una loro possibile soluzione e per l’analisi dei documenti cfr. la seconda parte di questo studio. 180 In particolare cfr. Ibidem, le pp. 314-315 e i riferimenti ai noti interventi di Padre Messineo. 181 Per alcune incongruenze di questa ricostruzione di Gillette con i documenti originali di Landra e rispetto anche alla prima bozza del comunicato del Pnf, cfr. la seconda parte di questo studio. 182 Cfr. Ibidem, p. 315 e n. 44 a p. 322. Per Pende Gillette rimanda al lavoro di Israel e Nastasi (cfr. n. 43). 183 Gillette considera appartenente al razzismo nordico anche Evola, pur sottolineando la critica della sua posizione spiritualista da parte di Landra e dei biologisti (cfr. Ibidem, p. 317).

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successive (il riferimento esplicito è alla propaganda della Lega Nord), è accompagnata dal mancato approfondimento delle conseguenze di una diffusione ed educazione culturale al razzismo e all’antisemitismo; inoltre, la mancanza di consenso dimostrerebbe comunque la presenza di correnti razziste nella cultura e nella scienza italiana che, almeno in parte e per un certo periodo, trovano uno sbocco e un riconoscimento istituzionale con l’adozione del razzismo e dell’antisemitismo di Stato (a cui, del resto, il Manifesto è funzionale). Tali inadeguatezze emergono nelle righe finali dell’articolo, quando Gillette sostiene che l’Italia era composta di diversi tipi etnici e che l’imposizione di un’omogeneità etnica artificiale condusse a una serie di conflitti e in ultima analisi al fallimento del programma del fascismo184. I nuovi documenti sulla genesi del Manifesto, che sembrerebbero confermare tesi già affermate dalla storiografia più attenta al rapporto tra teorie e tradizioni scientifiche italiane e politica della razza nel periodo fascista, vengono inquadrati da Gillette in una sostanziale riproposizione della sua interpretazione nel volume del 2002. Tale opera ripercorre in maniera più ampia lo svolgimento delle teorie razziali in Italia a partire dall’inizio del secolo e durante il fascismo, secondo lo schema già presentato della lotta tra un razzismo di tipo nordico e uno di tipo mediterraneo con alcune varianti spiritualistiche; l’autore, tuttavia, non tiene conto della storiografia più accreditata sul tema (che tra l’altro, come si è visto almeno con Israel e Nastasi, aveva elaborato una distinzione più fine e più storicamente aderente delle diverse correnti ideologiche all’interno del razzismo italiano) e per questa ragione arbitrariamente il suo volume viene presentato come “the first book to examine in detail the debates over racial theory in fascist Italy between the academic and scientific communities, and among the fascist leadership itself”185. Fermandosi al 1994 per i più recenti lavori sull’antisemitismo pubblicati in Italia186, infatti, Gillette non cita il volume di Sarfatti del 2000 né il contributo precedente del 1997, né le opere di Israel e Nastasi, Maiocchi, Burgio, Collotti, Treves ecc. Discutibile è poi la sua definizione e traduzione dei termini razza e stirpe187. Accanto alla riproposizione della tesi, anch’essa non del tutto nuova, del 2001 (Mussolini avrebbe deciso di adottare una dottrina razzista

184 Cfr. Ibidem, p. 318, dove l’autore dimostra una certa insensibilità per l’uso e il potenziale semantico razzista della parola etnia (al riguardo cfr. G. Israel, La questione ebraica oggi. I nostri conti con il razzismo, cit.). 185 Quarta di copertina di A. Gillette, Racial Theories in fascist Italy, cit. 186 Cfr. Ibidem, pp. 190-191 n. 11. 187 Cfr. Ibidem, pp. 188-189; così come discutibile è anche la distinzione che Sarfatti opera a proposito di questo volume, che a suo giudizio sarebbe la prima proposta di uno studio “articolato sull’evoluzione e sul confronto-scontro dei modelli di “razzismo nordico” e “razzismo mediterraneo” e quindi dell’assegnazione degli italiani alla “razza nordica” o alla “razza mediterranea” (o, talora, a una “razza italiana”)”, perché la sua sarebbe un’analisi “non tanto della tipologia razzistica delle teorie razziste (spirituale, biologica, ecc.), riguardo alla quale anch’egli in fondo rimanda a Raspanti, quanto della tipologia di “razza italiana” proposta da dette teorie” (M. Sarfatti, recensione a A. Gillette, Racial Theories in Fascist Italy, cit., in Il mestiere di storico, Annale Sissco IV, 2003, pp. 405); dove è evidente – e almeno una parte della storiografia analizzata fin qui l’ha dimostrato – che le analisi delle “tipologie razzistiche” delle teorie razziste implicano e di fatto hanno implicato l’analisi del concetto di razza italiana che esse esprimono. E del resto il tema dello scontro tra le differenti correnti ideologiche del razzismo italiano era stato trattato nella storiografia italiana sin dal 1994 almeno, iniziando proprio da Raspanti, se non, come si è visto, dal 1988 con Israel.

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ufficiale per realizzare la fascistizzazione della società e della cultura italiana e il progetto della creazione dell’uomo nuovo fascista, utilizzando a tal proposito, almeno inizialmente, il mito del razzismo nordico e dell’unità razziale degli italiani e creando dunque il nemico africano ed ebreo), Gillette aggiunge alcune conclusioni generali sul caso italiano rispetto al rapporto tra scienza e politica: secondo l’autore, a differenza della Germania nazista, la scienza e gli scienziati italiani ebbero meno successo nel tentativo di influenzare la politica fascista, perché il fascismo in fin dei conti si basava su una concezione filosofica e su elementi compositi tra cui il nazionalismo, mentre il nazismo era più radicato nella scienza biologica e nell’igiene razziale188. A queste affermazioni semplicistiche, che costituiscono, tra l’altro, una sottovalutazione delle politiche demografiche, eugenetiche e sanitarie del regime fascista, l’autore aggiunge: “there was less opportunity for Italian scientists to influence racial policies in Italy. Rather, we find that influential fascist politicians and philosophers with an interest in racial questions tended to manipulate science to support and advance their own particular racial programs”189. L’unica opportunità di influenzare le politiche del regime, secondo l’autore, si poteva realizzare attraverso lo spiritualismo o il razzismo mediterraneo; infatti, afferma Gillette, Mussolini utilizzò il razzismo nordico solo per introdurre l’antisemitismo, ma le fortune di questa corrente declinarono rapidamente nel momento in cui il duce cambiò opinione, dato che “Mussolini’s decision to embrace moderate eugenics and work towards the creation of the uomo fascista was accepted by most fascists, and apparently by the public at large”190. In conclusione, tale interpretazione da una parte sminuisce il ruolo della scienza nella preparazione del terreno favorevole alla politica razzista del fascismo e nella sua realizzazione, favorisce inoltre l’impressione dell’insorgere di un antisemitismo in Italia quasi senza radici (mentre allo stesso tempo fornisce materiale in senso contrario), insistendo in maniera forse eccessiva non tanto sulla decisione politica di Mussolini, quanto piuttosto sul peso delle sue convinzioni (ma il giudizio di Gillette è spesso oscillante); dall’altra parte Gillette, utilizzando materiale storiografico già avanzato in precedenza da altri autori (tesi e interpretazioni note, che spesso non vengono citate), è costretto a riconoscere comunque un peso almeno a una corrente ideologica del razzismo italiano e quanto meno a proposito di alcune istituzioni come l’Ufficio Razza (su cui pure riporta documenti considerevoli); e quindi a concludere da queste posizioni contrastanti che il fascismo fu limitato nel suo sforzo dittatoriale omogeneizzante dal conflitto tra gruppi di diverse tendenze al proprio interno, conflitto a cui l’autore attribuisce, in definitiva, la causa del suo fallimento (conclusione, naturalmente, tutta da dimostrare e che a sua volta sminuisce le conseguenze della politica razziale fascista). Tra gli studi più recenti, il volume di Enzo Collotti191 non apporta, per la sua stessa natura di testo di sintesi, nuovi contributi alla ricerca sulle vicende legate all’operazione del Manifesto: al di là di una distinzione forse troppo netta tra propaganda e legislazione razziale, l’autore privilegia, sul tema del rapporto tra scienza e razzismo nel fascismo, l’opera di Maiocchi, ignorando e senza discutere

188 Cfr. A. Gillette, Racial Theories in Fascist Italy, cit., pp. 185-186. 189 Ibidem, p. 186. 190 Ivi. 191 Cfr. E. Collotti, Il fascismo e gli ebrei. Le leggi razziali in Italia, Laterza, Roma-Bari 2003.

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la proposta storiografica di Israel e Nastasi (citati solo nella bibliografia ragionata sotto la sezione dedicata alle opere sull’incidenza della persecuzione nei confronti del mondo culturale italiano192). Collotti accetta la proposta di datazione del Manifesto al 13 luglio avanzata da Sarfatti e a proposito del documento ne sottolinea il carattere manipolatorio, strumentale e pseudoscientifico, senza analizzare la portata e il significato della sua dimensione propagandistica (nonostante l’intera operazione venga collegata alla creazione del nemico interno e alla costruzione dell’uomo nuovo fascista)193.

Il testo di Claudia Mantovani, dedicato peraltro all’eugenica italiana dal 1860 agli anni trenta del novecento, non presenta sostanziali novità per quanto concerne il Manifesto194. Il volume dedica ampio spazio alle teorie di Nicola Pende, nell’ambito di un’interpretazione, dichiaratamente impostata su una particolare versione della storia politica, che si sforza di distinguere l’eugenica italiana (identificata dall’autrice con un modello “quantitativo”) dal razzismo e, successivamente, dalle politiche della razza del fascismo. Tale distinzione sarebbe fondata sulla mancanza o la scarsa presenza nei lavori degli eugenisti italiani del mito della purezza della razza, sulla non tematizzazione da parte loro del problema ebraico e sull’assenza, in quasi tutti i casi, della condanna e del rifiuto degli incroci razziali. Ciò fa sì che l’adesione di molti esponenti dell’eugenica italiana alla politica razziale fascista sia ricondotta a responsabilità morali piuttosto che culturali; che la stessa politica della razza fascista venga, per certi versi contraddittoriamente e riduttivamente, fatta sostanzialmente coincidere “con la peculiare interpretazione demografico-quantitativa, medico-sociale e clinico-ortogenetica dell’eugenica nazionale”195; che, infine, il razzismo fascista sia spiegato prevalentemente con motivazioni di carattere politico (l’avvicinamento al modello della Germania nazista e l’alleanza), di cui il Manifesto sarebbe lo strumento perché affermava, sia pur contraddicendosi, l’indirizzo ariano nordico, “unico modello teorico di riferimento per legittimare da un punto di vista “scientifico” la campagna razziale”196. Non è possibile in questa sede soffermarsi sulle numerose inadeguatezze che tale interpretazione contiene, sia dal punto di vista della storia politica sia da quello, soprattutto, della storia culturale e della scienza, a proposito del razzismo e dell’antisemitismo del fascismo, ma più in generale riguardo alla concezione stessa dell’eugenica197. Riafferma invariata la sua interpretazione delle vicende del Manifesto Michele Sarfatti nel suo testo dedicato alla Shoah in Italia198. 192 Cfr. Ibidem, p. 176. 193 Cfr. Ibidem, pp. 60-63. Collotti, poi, opera una svista attribuendo a Landra la guida della Demorazza (p. 63). 194 Cfr. C. Mantovani, Rigenerare la società. L’eugenetica in Italia dalle origini ottocentesche agli anni Trenta, Rubbettino, Soveria Mannelli (Cz) 2004. In particolare, la nota 220 alla pp. 325-326 affronta il tema, con affermazioni non del tutto convincenti. 195 Ibidem, p. 350. 196 Ibidem, p. 352. 197 Particolarmente evidenti, ad esempio, oltre che nell’impostazione del volume, nelle conclusioni su Eugenica e razzismo (pp. 347-362) e nelle critiche all’interpretazione di Israel e Nastasi (pp. 350-353 e nota 18). Alcune considerazioni sulla problematica eugenetica nel fascismo sono in P. G. Zunino, L’ideologia del fascismo. Miti, credenze e valori nella stabilizzazione del regime, il Mulino, Bologna 2000 (ma prima edizione 1995), pp. 269-281. 198 Cfr. M. Sarfatti, La Shoah in Italia. La persecuzione degli ebrei sotto il fascismo, Einaudi, Torino 2005.

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L’analisi della storiografia sul Manifesto degli scienziati razzisti, che si è cercato di condurre nel presente lavoro, sembra confermare la rilevanza dello studio delle vicende connesse e dei personaggi coinvolti nell’elaborazione e nella pubblicazione di tale documento, mostrando come la scelta di questo oggetto di ricerca (certamente non l’unica possibile) si riveli particolarmente feconda nella ricostruzione storica e nell’esame delle differenti interpretazioni storiografiche del razzismo e dell’antisemitismo italiano durante il periodo fascista.