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n °40 - ESTATE 2014 È un giornale creato dagli studenti di Scienze Internazionali e Diplomatiche di Gorizia che attraverso il giornalismo vogliono confrontarsi con la realtà di confine (e non solo). Direttore: Lorenzo Alberini www.sconfinare.net redazione@sconfinare.net “A vevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita. Ogni cosa rappresenta una minaccia per il giovane: l’amore, le idee, la perdita della famiglia, l’ingresso tra i grandi. È duro im- parare la propria parte nel mon- do”. Le parole di Paul Nizan, im- presse in Aden Arabia oltre ot- tanta anni fa, sembrano adatte a descrivere la condizione giova- nile di oggi. Lo sono. Tuttavia piangerci addosso non portereb- be a niente, se non a farci correi parole per noi giovani di Lorenzo Alberini GLI ALUMNI TORNANO A GORIZIA di una colpa che (ancora) non abbiamo. Per questo sono altre le parole che ci dovrebbero guidare per conquistare la nostra «parte nel mondo». Traendo ispirazione dal bellissimo libro Il complesso di Telemaco dello psicoanalista Massimo Recalcati, ho voluto in- dividuare due parole, due qualità, che ritengo per noi indispensabi- li. La prima è coraggio. Neces- sario per trasformare quelle «minacce per il giovane» in op- portunità di crescita, un gran coraggio ci serve a partire dal nostro essere figli, poi cittadini, un giorno mariti o mogli e infi- ne genitori. Un gran coraggio è indispensabile per non cadere nel pozzo della rassegnazione e della depressione giovanile. Oggi che il disagio della nostra generazio- ne si manifesta nell’apatia, nello spegnimento, nella mancanza di slancio dei nostri coetanei, questa qualità può salvare loro la vita, se saremo in grado di infondergliela. Perché il corag- gio uno, se non ce l’ha, non se lo può dare. Lo sapeva già don Abbondio. Solo che, contraria- mente all’epoca del Manzoni, oggi ci troviamo soli nelle vesti di «una generazione che si sen- te lasciata cadere, abbandonata, che cerca un confronto con il mondo degli adulti ma non lo trova» perché gli adulti sono «evaporati» (Recalcati). Per ri- empire questo vuoto volgiamo lo sguardo dall’altra parte cer- cando la nostra realizzazione altrove. E possiamo trovarla, nonostante tutto, nel lavoro. Come prima parola-guida, se non avessi scelto coraggio, avrei indubbiamente scritto lavoro, indispensabile per dare senso alla nostra vita, per ren- derla umana, diversa da quella dell’animale. La seconda parola è moralità. Mentre il coraggio dà sostanza alla nostra esistenza privata, la moralità è ciò che può dare una svolta alla nostra vita pubblica come cittadini e alla nostra so- cietà nel suo complesso. È una parola che può sottintenderne molte altre: impegno, lucidità, responsabilità. Quest’ultima, in particolare, spesso rimane na- scosta dietro l’altra faccia della medaglia, su cui svetta invece la fulgida incisione della «li- bertà». Nessuna generazione ha conosciuto una libertà indivi- duale maggiore della nostra, ma quand’anche questa non si perde nell’apatia per la mancanza di av- venire, di lavoro e di realizzazio- ne, essa si ripiega assumendo le forme di una libertà degradata a puro capriccio. Stella Polare per noi marinai che navighiamo a vi- sta, la moralità può impedirci di smarrire la via. Due parole per non perderci, a cui voglio aggiungerne una. Già si può cogliere leggendo in con- troluce le prime due: è gioia di vivere. L’impegno, il coraggio, la responsabilità non avranno mai un senso senza questo fine. La gioia di vivere – ma chiamiamola anche, per dirla con la psicoana- lisi, «desiderio» - è ciò che di più importante possiamo ereditare in quanto figli e trasmettere come esseri umani, uomini o donne e cittadini. Per rendere umana la vita e un posto migliore il mon- do. Ora basta passare dalle parole ai fatti. L’Editoriale SPECIALE ALUMNI DAY Gli articoli e l’intervista all’alumnus, pagine 6 e 7 TEATRO Intervista al Direttore Walter Mramor, pagina 3 GRANDE GUERRA Itinerari della memoria nel goriziano, pagina 4

Sconfinare #40

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Estate 2014

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Page 1: Sconfinare #40

n°40 - ESTATE 2014

È un giornale creato dagli studenti di Scienze Internazionali e Diplomatiche di Gorizia che attraverso il giornalismo vogliono confrontarsi con la realtà di confine (e non solo).

Direttore: Lorenzo Alberini

[email protected]

“Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire

che questa è la più bella età della vita. Ogni cosa rappresenta una minaccia per il giovane: l’amore, le idee, la perdita della famiglia, l’ingresso tra i grandi. È duro im-parare la propria parte nel mon-do”.

Le parole di Paul Nizan, im-presse in Aden Arabia oltre ot-tanta anni fa, sembrano adatte a descrivere la condizione giova-nile di oggi. Lo sono. Tuttavia piangerci addosso non portereb-be a niente, se non a farci correi

parole pernoi giovani

di Lorenzo Alberini

GLI ALUMNI TORNANO A GORIZIA

di una colpa che (ancora) non abbiamo. Per questo sono altre le parole che ci dovrebbero guidare per conquistare la nostra «parte nel mondo». Traendo ispirazione dal bellissimo libro Il complesso di Telemaco dello psicoanalista Massimo Recalcati, ho voluto in-dividuare due parole, due qualità, che ritengo per noi indispensabi-li.

La prima è coraggio. Neces-sario per trasformare quelle «minacce per il giovane» in op-portunità di crescita, un gran coraggio ci serve a partire dal nostro essere figli, poi cittadini, un giorno mariti o mogli e infi-ne genitori. Un gran coraggio è indispensabile per non cadere nel pozzo della rassegnazione e della depressione giovanile. Oggi che il disagio della nostra generazio-ne si manifesta nell’apatia, nello

spegnimento, nella mancanza di slancio dei nostri coetanei, questa qualità può salvare loro la vita, se saremo in grado di infondergliela. Perché il corag-gio uno, se non ce l’ha, non se lo può dare. Lo sapeva già don Abbondio. Solo che, contraria-mente all’epoca del Manzoni, oggi ci troviamo soli nelle vesti di «una generazione che si sen-te lasciata cadere, abbandonata, che cerca un confronto con il mondo degli adulti ma non lo trova» perché gli adulti sono «evaporati» (Recalcati). Per ri-empire questo vuoto volgiamo lo sguardo dall’altra parte cer-cando la nostra realizzazione altrove. E possiamo trovarla, nonostante tutto, nel lavoro. Come prima parola-guida, se non avessi scelto coraggio, avrei indubbiamente scritto

lavoro, indispensabile per dare senso alla nostra vita, per ren-derla umana, diversa da quella dell’animale.

La seconda parola è moralità. Mentre il coraggio dà sostanza alla nostra esistenza privata, la moralità è ciò che può dare una svolta alla nostra vita pubblica come cittadini e alla nostra so-cietà nel suo complesso. È una parola che può sottintenderne molte altre: impegno, lucidità, responsabilità. Quest’ultima, in particolare, spesso rimane na-scosta dietro l’altra faccia della medaglia, su cui svetta invece la fulgida incisione della «li-bertà». Nessuna generazione ha conosciuto una libertà indivi-duale maggiore della nostra, ma quand’anche questa non si perde nell’apatia per la mancanza di av-venire, di lavoro e di realizzazio-

ne, essa si ripiega assumendo le forme di una libertà degradata a puro capriccio. Stella Polare per noi marinai che navighiamo a vi-sta, la moralità può impedirci di smarrire la via.

Due parole per non perderci, a cui voglio aggiungerne una. Già si può cogliere leggendo in con-troluce le prime due: è gioia di vivere. L’impegno, il coraggio, la responsabilità non avranno mai un senso senza questo fine. La gioia di vivere – ma chiamiamola anche, per dirla con la psicoana-lisi, «desiderio» - è ciò che di più importante possiamo ereditare in quanto figli e trasmettere come esseri umani, uomini o donne e cittadini. Per rendere umana la vita e un posto migliore il mon-do. Ora basta passare dalle parole ai fatti.

L’Editoriale

SPECIALE ALUMNI DAYGli articoli e l’intervistaall’alumnus, pagine 6 e 7

TEATROIntervista al DirettoreWalter Mramor, pagina 3

GRANDE GUERRAItinerari della memoria nel goriziano, pagina 4

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Il Brasile si renderà protagonista delle due manifestazioni sportive più viste al mondo. Saranno grandi occasioni

per una delle sei maggiori potenze mon-diali, che ha bisogno di uscire dallo stallo. L’affluenza di tifosi, sportivi, di media o semplici vacanzieri sarà indispensabile per le tasche del Brasile, bisognoso di un ritorno economico dopo le ingenti spese affrontate. Il Governo ha stanziato circa 70 miliardi di euro per la ristrutturazione degli impianti sportivi, per il settore del turismo e delle co-municazioni. Con queste spese il presidente Dilma Rousseff si è esposta a numerose cri-tiche. Alla guida del Paese dal 2011, dopo il Governo Lula, ha dovuto affrontare non poche difficoltà fino ad oggi.

Le manifestazioni nelle città non si fer-mano dal giugno scorso, quando la popo-lazione protestava a San Paolo e a Rio de Janeiro per l’aumento delle tariffe dei bus. È un anno che soprattutto i più svantaggiati si rivoltano, e sempre per motivi economici. Una volta per il raddoppio dei prezzi dei tra-sporti pubblici, un’altra per i beni di prima necessità. Poi protestano per la scarsa assi-stenza sanitaria o per il malfunzionamento delle scuole. E ancora per lo smantellamen-

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di Varinia Merlinoto di interi quartieri poveri sparsi per il pa-ese e per la corruzione della politica. Dopo i vari scontri a Belo Horizonte, Manaus, Porto Alegre, Rio de Janeiro e San Paolo, a Brasilia si sono scomodati anche gli indios, spintisi fuori dal loro territorio con archi e frecce.

Una situazione che non è di buon auspicio per quello che dovrebbe essere il clima gio-ioso di queste manifestazioni sportive.

Parte della popolazione è contraria alle decisioni economiche del governo, ma non sembrano essere gli unici. Solo l’appoggio del vecchio presidente Lula da Silva mette Dilma Rousseff al riparo da fronde interne al suo stesso partito. L’opposizione, inol-tre, chiede a gran voce la formazione di una Commissione di inchiesta. È sicuramente un momento difficile per il Presidente, che vede la sua popolarità scesa al 37% (fonte Ibope), dal 56,05% ottenuto al ballottaggio nel 2010. Ma ora in ballo ci sono di nuovo le elezioni: il 5 ottobre si terranno in Brasile le presidenziali, dove l’attuale Capo di Sta-to si ricandiderà per il secondo mandato. Si eleggeranno anche Vicepresidente, governa-tori, un terzo dei senatori, deputati federali e deputati degli Stati: un momento importante per il Paese.

Nonostante il calo di gradimenti, soprat-tutto da parte dei giovani della classe media,

Dilma rimane al primo posto nella classi-fica dei candidati. È seguita a distanza dal principale oppositore, Aecio Neves (Partito socialdemocratico brasiliano, di destra), sta-bile al 14%, mentre anche Eduardo Campos (Partito socialista, progressista) è fermo al 6% nei sondaggi elettorali. La concorrenza non è competitiva, per ora, e Dilma punta sul successo dei Mondiali per rilanciare la sua immagine. Nel frattempo sta cercando di riconquistare i suoi elettori soprattutto at-traverso internet. Ha riaperto la sua pagina Facebook, dove inserisce le sue politiche, i suoi provvedimenti e le sue aspettative per il futuro. Punta al riavvicinamento con i giovani grazie ai social network, dato che in Brasile il diritto di voto è acquisito a 16 anni.

Questo è un Brasile ricco di contraddizio-ni sociali ed economiche, a cui non basta la buona riuscita dei Mondiali, ma anche delle Olimpiadi per rilanciare l’economia. Il Governo dovrà sfruttare questi due even-ti per la costruzione di infrastrutture, stadi, aeroporti, arterie di grande comunicazione, porti. Una grande occasione per rafforzare il sistema infrastrutturale brasiliano e per provare a rispettare il primo obbiettivo che Dilma si era posta a inizio mandato: sradica-re la miseria e ridistribuire la ricchezza nel “Paese del futuro”.

SOTTO GLI OCCHI DEL MONDOBrasile: Mondiali 2014, Olimpiadi 2016 e politica

Quando Romolo, dopo aver fondato Roma, vide la sua città ingrandirsi, le donne scarseggiavano. Così orga-

nizzò il Ratto delle Sabine, sottraendo alle popolazioni vicine le donne che gli serviva-no per creare il popolo romano. Rapite con la forza, le vittime entrarono a far parte del-la cittadinanza. E quando gli uomini, privati delle loro mogli, tentarono di sconfiggere i romani, queste si opposero chiedendo la pace: sacrificarono loro stesse per le vite dei mariti ma anche per quelle dei romani. Si opposero alla guerra in modo totale, chie-dendo la pace a prezzo delle loro vite. La guerra costituisce la base della forza dello Stato, che però deve essere anche ca-pace di inglobare i popoli conquistati sen-za cancellarli. Spesso tuttavia la vittoria ha comportato non l’annessione, ma l’alie-nazione dei vinti che, nella sconfitta, han-no perso la propria identità. Così i romani, nell’inglobare le popolazioni vicine, hanno impedito la nascita delle generazioni future di quei popoli. Per una gran parte della storia, le donne sono state trattate come bottino di guerra, essendo viste come una delle tante proprietà dell’uomo. In seguito i governi hanno con-siderato lo stupro come uno sfortunato ma inevitabile effetto dell’aver inviato gli uo-mini in guerra. Tuttavia, dopo gli orrori per-petrati nei confronti dell’umanità nel corso del secolo breve, la violenza sessuale che ancora oggi vede vittime donne, uomini e bambini è diventata interesse della comuni-tà internazionale. L’idea che è prevalsa è che lo stupro di guerra rientri in un’organizzazione siste-matica volta a produrre il terrore, un modo per gli aggressori di instaurare un controllo

sociale e ridisegnare i confini etnici, e anco-ra, uno degli strumenti più gravi di violenza psicologica. La violenza sessuale fu riconosciuta per la prima volta come crimine contro l’uma-nità quando il Tribunale Penale Internazio-nale per l’ex-Jugoslavia emise dei mandati d’arresto basati sulla violazione delle Con-venzioni di Ginevra e sulle violazioni delle Leggi e delle Consuetudini di Guerra. Infatti lo stupro come arma di guerra fu un sistema largamente utilizzato durante il conflitto in B o s n i a . Nel 1993una com-missione d e l l ’ U -nione Eu-ropea ha s t a b i l i t o che 20 mila don-ne furono violentate. Il governo bosniaco parla di 50 mila vitti-me.Come esito di uno dei processi, tre uomini furono condannati per aver ridotto allo stato di schiave sessuali decine di donne, ragazzi-ne e bambine musulmane della città di Foča, nell’estate del 1992. “La caduta all’infer-no”, come fu definita da una delle testimoni alla Corte dell’Aja, rese il terrore una dura realtà: le donne venivano violentate e tor-turate fino allo sfinimento, e quando non

di Martina Calleri

ce la facevano più venivano uccise, spesso con riti etnico-religiosi, anch’essi parte del sistema di deriva psicologica a cui si voleva condurre la fazione etnica opposta. Uno stupro lascia un segno sulla carne di chi lo subisce. È testimone del fine ulti-mo delle guerre civili: la distruzione totale dell’avversario, una distruzione fisica e ide-ologica. Una fazione non si arresta finché non ha eliminato l’altra. In questo contesto lo stupro non è che un’arma psicologica con la quale si esercita il monopolio della vio-

lenza.Ciò che a c c a d d e in Bosnia fu la «de-u m a n i z -zazione» di coloro che i ser-bi consi-deravano nemici, i musulma-ni, il voler u m i l i a r e un’identi-tà, una re-

ligione, calpestando la dignità stessa di per-sona. I danni lasciati da quella guerra sono oggi ancora visibili sulla pelle delle vittime: molte donne sono rimaste incinte, perché anche questo era lo scopo delle violenze: far partorire figli serbi a donne musulmane. Molte vivono in centri di riabilitazione per profughi, con gravi disturbi psicologici e di frequente anche con danni ginecologici per-

manenti. E Foča non esiste più. Il suo nome è stato cambiato in Srbinje, un nome serbo, perché territorialmente la città appartiene alla Re-pubblica serba di Bosnia. L’obiettivo era ripurirla etnicamente e, dal momento che oggi non ci vive più nessun musulmano, è stato conseguito. I morti di una guerra, le vittime indifese, le voci dell’innocenza non sapranno spiegare un dolore di cui non colgono il senso. Così difficilmente i vinti perdonano ai vincitori la crudeltà delle loro azioni.L’odio si alimenta da solo, e si libera con un’avidità e una passione capaci di piegare la mente umana, lasciando il corpo, guscio di un tempio dissacrato, svuotato della pro-pria anima. Ci sono crimini che gli uomini non possono nè punire nè perdonare, perché impossibili da immaginare: spettri del male assoluto compiuto da individui pressochè normali, nè demoniaci nè mostruosi, il cui volto è stato però cambiato dalla guerra e reso una maschera d’odio. Bisogna essere “capaci di capire fino in fondo il nostro rapporto con tutte le storie di guerra, […] : capire il nostro istinto a non smettere di raccontarle mai”. Sono parole di Alessandro Baricco, nella postfazione alla sua reintrepretazione dell’Iliade, nella quale egli definisce anche il compito che le don-ne si assumono durante la guerra: quello di pronunciare un desiderio di pace, proponen-dola come un’alternativa allo scontro. Ed è proprio l’inclinazione femminile alla pace a renderle così esposte alla guerra, perché, per una donna, una ferita è sempre letale.

UNA FERITA LETALELo stupro come organizzazione sistematica di violenza

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tirsi dei protagonisti in quanto indispensa-bili ai fini dello svolgersi di qualsiasi spet-tacolo? Quando il pubblico cambia, anche lo spettacolo cambia. Inoltre il teatro inse-gna lo stare insieme, il condividere. Non dimentichiamo la sua funzione sociale, che spesso è anche di crescita intellettuale e personale, è un invito alla riflessione, alla discussione e anche alla critica. Infine, il teatro è evasione, perché sa essere anche svago. Per quanto mi riguarda, il teatro è parte della mia vita, ma non è la vita! Io lo consiglio perché consiglio di andare a vedere cose belle...

Luoghi comuni sul teatro...quali miti vorrebbe sfatare?

In generale il teatro può dare l’idea di essere qualcosa di vecchio - e forse dav-vero lo è - ma bisogna anche ammettere che al giorno d’oggi il concetto di vecchio è qualcosa di molto relativo. Noi italiani poi ne abbiamo una visione spesso distor-ta: crediamo sia qualcosa per snob vestiti in pelliccia. Non è affatto così. A Berlino, o a Londra ad esempio, fuori dai teatri c’è sempre la fila, e ci sono decine e decine di ragazzi con ancora lo zainetto della scuola, le buste della spesa... il rito del cambiarsi e del dover farsi belli per andare a teatro in altri Paesi non c’è, perché il teatro non è una cosa elitaria.

Generalmente parlando, i giovani d’oggi non sono degli assidui frequenta-tori del teatro. Spesso non sono nemme-no degli spettatori occasionali, e questo è molto triste. Un’analisi approssimati-va mi fa credere che le principali ragioni per cui ciò avvenga siano: prezzo, gusti personali, mancanza strutture/figure che sappiano avvicinarli a questo mon-do, o perlomeno incuriosirli in qualche modo. Come si potrebbe avvicinare i giovani al mondo del teatro?

Se esistesse una figura nelle scuole dell’obbligo che insegnasse ad avvicinar-si al teatro, alla musica al cinema, le cose sarebbero presumibilmente molto diverse. E’ fondamentale sviluppare degli strumen-ti, delle conoscenze, un’idea o un interesse nei confronti di questo mondo fin da picco-li. Mi ricordo un paio di anni fa, per quatro

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Walter Mramor è attore e re-gista, direttore artistico dal 1987 di a.ArtistiAssociati

Impresa di Produzione teatrale e dal 2006 di Circuito Danza Regione FVG, dal 2009 al 2011 del Settore Danza di MittelFest, di una sala teatrale e dei tre teatri storici di Gorizia, Gradisca e Cormons; infine è presidente e co-direttore del Teatro Duse di Bologna. La sua più che trentennale espe-rienza nel mondo dello spettacolo nasce intorno ai 21 anni: mentre i suoi coetanei studiavano ancora all’Accademia, lui era già il primo attore giovane del teatro sta-bile di Roma.

Direttore, nella sua vita ha fatto dav-vero molte cose, mi chiedo quale tra tut-te queste vesti è quella che indossa me-glio, o più volentieri.

Alla domanda «cosa vuoi fare da gran-de?» io risponderei sempre: “l’attore”. Purtroppo, magicamente, grande sono già diventato; tuttavia, la cosa incredibile è che l’età se n’è andata di pari passo con la gioia legata ai traguardi lavorativi. Quel-lo che voglio dire è che mi sento come se avessi ancora 22 anni... mi rendo solo con-to che Amleto non lo posso fare più!

Tra le sue esperienze cinematografi-che troviamo la partecipazione nei film Ginger e Fred e Intervista di Fellini, cosa può raccontarci di quest’invidiabile av-ventura?

Accompagnai un’amica alle audizioni per Ginger e Fred, approfittai per lascia-re una mia fotografia. Il giorno dopo mi telefonò l’assistente di Fellini e mi disse: «C’è Federico che ti vuole vedere». Io non avevo capito chi fosse questo Federico... così l’indomani entrai nel suo ufficio e lui mi disse che la mia fotografia l’aveva col-pito molto per il fatto che ero sorridente, aggiunse che gli ricordavo un suo amico di gioventù, e così ottenni una piccola parte nel film.

Al tempo avevo 22 anni, ed ero anche un po’ perplesso su quello che Fellini mi sta-va facendo fare, perché praticamente non facevo nulla! In realtà lui era convinto che io gli portassi fortuna e quindi mi voleva vicino sempre. Devo dire che l’esperien-za Fellini a livello di attore giovane io non

l’ho goduta, però il vederlo lavorare così da vicino ha oltremodo arricchito la mia vita artistica.

Lavora nei teatri da almeno 30 anni. Quale è secondo lei la differenza prin-cipale tra il pubblico di oggi e quello davanti al quale si trovava a recitare da ragazzo?

Credo che il teatro cambi di pari passo con la vita. Al giorno d’oggi la soglia d’at-tenzione del pubblico non è più quella di venti anni fa. Oggi un concetto non può es-sere espresso in più di un minuto e mezzo. Venti anni fa stare 3 ore a teatro ad ascol-tare «I sei personaggi in cerca d’autore» era una cosa più che normale; adesso 3 ore diventano pesanti perché ascoltare a lungo è diventato noioso.

Lei è direttore artistico di ben tre tea-tri in Friuli, ciò significa che ogni anno si trova a lavorare su tre programmazioni diverse. Cosa la guida nella selezione de-gli spettacoli?

Oltre alla qualità, posso dire di cercare sempre di inserire qualche novità. Mi ri-cordo, ad esempio, che qualche anno fa lo spettacolo «I tamburi del Bronx» di Capa-rezza ha letteralmente scandalizzato questa città. Però, allo stesso tempo, non bisogna nemmeno dimenticare che il Verdi è un te-atro municipale, quindi le sue programma-zioni devono essere abbastanza tradiziona-li per non venire meno alla loro funzione formativa.

All’interno di un cartellone non man-cherà mai il classico, perché i giovani de-vono poter conoscere Molière, Pirandello, Čechov, Shakespeare e capire che certe opere travalicano il tempo e rimangono tali perché sanno ancora parlare alla gente.

Lei mi sembra molto soddisfatto del lavoro che fa e di quello che il suo lavoro dà alla gente. Tuttavia, c’è qualcosa che non la soddisfa?

Ci sono due cose che non fanno funzio-nare questo settore, e direi che la peggiore è la burocrazia. E’ diventata talmente tanta e tale che bisognerebbe avere due esperti che se ne occupino personalmente. Se per aprire un contatore della luce mi trovo co-stretto a fare 14 firme, si può solo provare ad immaginare quante ce ne vogliano per, ad esempio, un’agibilità teatrale. Che dire poi del nuovo decreto ministeriale? Un in-cubo. La seconda cosa è la crisi, che c’è e si espande ovviamente anche sul settore culturale. Io credo che la cultura sia un’im-presa che andrebbe assolutamente sostenu-ta a livello nazionale. Bisogna capire che essa restituisce molto più di quello che riceve, come contributi pubblici...se anzi-ché costringerci a fare lo slalom nei tagli si puntasse molto di più sull’indotto credo veramente che tutto il nostro Paese ne trar-rebbe beneficio.

Che opportunità offre il teatro? O più semplicemente, perché andare a teatro?

Il teatro dà l’opportunità di partecipare ad un evento in cui ci si può sentire prota-gonisti, se si è onesti con se stessi. E come si fa a non essere curiosi, a non voler sen-

Dopo “Intervista” di Fellini, l’intervista di Sconfinare

o cinque anni, ho realizzato un progetto insieme a due mie ex allieve che faceva-no le insegnanti d’inglese. Il progetto si chiamava «Impara l’inglese recitando», e mentre i bambini si divertivano come matti a imparare l’inglese, le mamme erano di-sperate perché i figli insistevano per voler aumentare sempre più il numero delle le-zioni! Questa è la prova che il metodo te-atrale per certe cose raggiunge dei risultati incredibili, e io credo che non è un caso se qualcuno tra i bambini che sono passati nei vari laboratori si trova oggi nel nostro pubblico.

Ci può fare un bilancio della stagione appena conclusa? Cosa piace ai gorizia-ni?

Gorizia ha una forte e lunga tradizione di prosa, perciò è questa la sezione che incontra solitamente maggiore interesse. Magazzino 18 è stato lo spettacolo che ha avuto più successo in questa stagione, e non era un successo così scontato. Quando l’ho inserito nella programmazione stava ancora nascendo, ed era un progetto molto controverso. Capire, anche dal principio, quali progetti possono essere interessanti è uno dei compiti di un direttore artistico; in questo caso posso quindi dirmi soddisfatto.

Il teatro in una parola.Emozioni. Se non fosse così profonda-

mente emozionante non lo farebbe nessu-no, dall’attore al tecnico di scena.

Ci può dire qualcosa sulla nuova sta-gione?

Mi dispiace non potervi dare delle anti-cipazioni, ma è ancora troppo presto e non c’è nulla di certo...

Caro direttore, noi ci auguriamo che qualcosa di certo ci sia: la nostra colla-borazione!

L’intervista integrale verrà presto pubbli-cata su www.sconfinare.net.

a cura di Elena Tuan

“Il teatro? Se non fosse così

profondamente emozionante non lo

farebbe nessuno, dall’attore

al tecnico di scena”

WALTER MRAMOR

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Sconfinare - Glocale Estate 20144

Il Sid è spesso oggetto di critica per la località in cui si trova: uno dei leit-motif è quanto sia noioso e poco sti-

molante vivere a Gorizia, chiusi fra questi colli, rintanati sul confine. Occorrerebbe ricordare quanto invece il Carso e l’Isonzo siano stati a cuore agli italiani nel corso del-la prima guerra mondiale. Oltre ai libri e ai professori di storia contemporanea, è anche il territorio in cui studiamo e viviamo che, se conosciuto, sa parlarcene.

Il ponte di Solkan e il monte SabotinoLa cresta del monte Sabotino, per esem-

pio, è stata il teatro di numerosi scontri du-rante la Grande Guerra. Lo testimoniano i fortini fra le rocce calcaree e le gallerie scavate dagli austriaci e poi occupate dagli italiani a seguito delle Battaglie dell’Isonzo. È una sorta di museo all’aperto transfronta-liero, chiamato “Parco della pace”. Per arri-varci da Piazza della Transalpina si svolta a sinistra e in pochi minuti si raggiunge l’abi-tato di Solkan. Mantenendo la cesta («stra-da» in sloveno) IX. korpusa, dopo circa 3 km si attraversa il ponte sull’Isonzo (strada 402, direzione Podsabotin). Vale la pena

fermarsi un attimo per ammirare da un lato uno scorcio della città di Gorizia, dall’altro il ponte ferroviario: il ponte di Solkan (il quale, all’insaputa di molti, si regge sul più grande arco in pietra al mondo costruito sopra un fiume). Si prosegue poi mantenendo la si-nistra; in corrispon-

MEMORIA ITINERANTEdenza del primo tornante della 402 vi è l’im-boccatura di uno dei tanti sentieri che dalle pendici del Sabotino giungono in cresta.

Il sentiero si fa ripido per il primo tratto. È ben segnato (nonostante le molte diramazio-ni che, però, portano tutte sulla cresta) e mol-to battuto. Dopo circa un’ora di cammino si giunge sulla cima, in corrispondenza di una cappella francescana diroccata (la chiesa di San Valentino) da cui si può ammirare la valle dell’Isonzo e tutto il goriziano: la vista spazia sino a Monfalcone. Il sentiero segue la cresta e conduce ad un rifugio gestito da sloveni. È possibile visitare il “museo della pace” e camminare fra le trincee ricostruite fuori dall’edificio, oppure addentrarsi nelle gallerie. Se si è stanchi per proseguire verso gli altri percorsi indicati, si può prendere la strada asfaltata che scende dalle pendici del monte e si ricongiunge al sentiero iniziale.

Il monte CalvarioA seguito di una lunga e faticosa giornata

di studio la meta potrebbe invece essere la sommità del monte Calvario (241 metri sul livello del mare). Superato il parco piuma, seguendo via Ponte del Torrione e immet-tendosi poi su via Brigata Cuneo si raggiun-

ge la parrocchia di San Giusto Martire. Dal-la chiesa si diramano due sentieri; si segue quello sulla sinistra, ripido solo per il primo breve tratto, che si inerpica nel bosco. Sul-la cima della collina si erge il monumento di commemorazione ai caduti della Prima Guerra Mondiale, un obelisco costruito nel 1920. Lasciata la cima, si scende lungo la strada asfaltata, lungo la quale ci si può fer-mare a riflettere di fronte ai monumenti che richiamano alla memoria gli accadimenti di cento anni fa (tra i quali la tomba di Scipio Slapater, scrittore e poeta triestino, morto proprio sulle pendici del Calvario).

Il circolo di studi transfrontaliero delle città di Gorizia e Nova Gorica ha redatto una mappa bilingue che mostra alcuni pos-sibili percorsi a piedi o in bicicletta fra le due città dal titolo «Abbracciati dalle colli-ne» (scaricabile in formato pdf).

Quelli descritti sopra sono solo due iti-nerari, fra i più suggestivi, che si possono intraprendere anche senza utilizzare l’auto. Ma ce ne sono molti altri. L’importante è mettersi in cammino: è uno dei modi mi-gliori per acquisire coscienza storica e un po’ di consapevolezza del luogo e del terri-torio con il quale dobbiamo convivere.

Strade e sentieri del goriziano che testimoniano la Grande Guerra

di Irene Colombi

Sconfinare: 8 anni, 40 numeri, 584 pagine, oltre 120 redattori e collaboratori... e non finisce qui!Guardate tutte le prime pagine di Sconfinare sulla nostra pagina Facebook e votate le più belle. Le pagine con più like verranno stampate e

affisse all’università all’inizio del prossimo anno accademico.

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Sconfinare - Stile liberoEstate 2014 5

Era il 1985 quando Italo Calvino propose la leggerezza come una qualità per il millennio che sareb-

be venuto. La sostenne perché la conside-rava vincente nella letteratura, una virtù che contraddistingue i più grandi autori e un valore da seguire nella scrittura.

Siamo nel fatidico nuovo millennio già da quattordici anni, eppure, quanto sem-bra ancora difficile da raggiungere la leg-

gerezza? Questa frase, ad esempio, è l’e-satto opposto della leggerezza, è pesante e spezzettata. In fondo, probabilmente è impossibile dire in un modo “leggero” che la leggerezza è tanto arcana, altri-menti non lo sarebbe poi così tanto. Af-finché un testo appaia leggero, dev’essere retto da idee e concetti leggeri. Quindi si dovrebbe parlare solo di superficiali-tà inutili oppure di aria e piume, che poi hanno anch’esse un peso, magari minore di altre, ma sempre di peso si tratta.

Il problema è che è molto più affasci-nante e intri-gante raccon-tare ciò che è pesante, per-ché è molto più variegato e in grado di suscitare mol-teplici emo-zioni. “Quan-to più il fardello è pe-sante, tanto più la nostra vita è vicina alla terra, tan-to più è reale e autentica”: questa frase

ELOGIO DELLA PESANTEZZAdi Milan Kundera tratta da “L’insosteni-bile leggerezza dell’essere” rende perfet-tamente il fascino della pesantezza. Per questo gli articoli che fanno notizia sono quelli di cronaca nera, quelli che ci rac-contano le guerre, gli scandali e le liti in politica. Per questo preferiamo i contrasti e le ripetizioni che intensificano un con-cetto. Per questo amiamo i segreti, le si-tuazioni contorte e le persone complicate. Per questo siamo siddini, vorremmo capi-re tutto ciò che ci sta attorno ed essere in infiniti posti diversi nel medesimo istante.

Secondo Kundera, abbiamo queste preferenze perché la leggerezza ci è in-sostenibile, in quanto essa è riscontrabile soltanto nell’unicità della vita: “Einmal ist Keinmal”, ovvero “quello che avviene una volta è come se non fosse mai avve-nuto”. La possibilità di vivere una sola vita rende le scelte che compiamo fuga-ci, quindi leggere: non siamo in grado di dare loro abbastanza importanza perché non ci fanno sentire attaccati alla vita. Non ci basta avere un’esistenza lineare, una successione di eventi e azioni; vo-gliamo capire perché queste azioni sono accadute, vogliamo scavare nelle nostre emozioni e in quelle degli altri. Kunde-ra la chiama “ebbrezza della debolezza”: un’attrazione inconscia nei confronti di qualcosa di fragile e incerto, qualcosa che

sta in basso, che quindi è pesante. Pensiamo a un qualsiasi fatto del passa-

to; per rimanere nel caso di Kundera, pen-siamo alla primavera di Praga: continua ad affascinarci perché è essenzialmente complessa: è inserita in un determinato contesto, è un insieme di mosse politiche, un miscuglio di idee, pensieri e desideri, un intricato scenario in cui recitano attori diversi tra loro e simili allo stesso tempo, Dubček e un medico edonista che rifiu-ta la ceca sottomissione ai sovietici. E se prendessimo un altro evento, l’effetto sa-rebbe lo stesso.

Niente è leggero, nemmeno ciò che si ritiene superficiale, nemmeno una nuvo-la che fa sobbalzare un aereo quando la attraversa, nemmeno una serata spensie-rata con gli amici o un bacio segreto tra i cespugli. Tutto ci appare leggero se non lo guardiamo per quello che è e non con-sideriamo il fascino di ogni particella che lo compone, ovvero se non ne compren-diamo il peso.

Dovremmo elogiare la pesantezza al posto della leggerezza: daremmo più va-lore alle nostre azioni e all’unicità della nostra vita, saremmo più comprensivi nei nostri confronti e verso ciò che ci circon-da, accetteremmo con minor rassegnazio-ne e maggior slancio e passione le diffi-coltà.

Un amico mi ha detto entusiasta “Che bei tempi questi per la fo-tografia!”. Pensavo “Bei tem-

pi, per scattare istantanee forse, ma per la fotografia, insomma…”. Certamente questi sono bei tempi per fotografare (se mai ce ne siano stati di brutti) e sono bei tempi per comunicare. Le fotocamere sono onnipresenti, accessibili e fotogra-fie tecnicamente riuscite non sono mai state così “facili”.

E’ anche un buon momento per i nostri portafogli. Non ci sono più né la pellico-la né i costi di sviluppo e stampa. Infatti, supponendo di avere già un computer, una macchina fotografica costa lo stesso sia che si scattino dieci foto o diecimila. E’ sicuramente un momento splendido per gli hobbisti che grazie all’incessante progressione tecnologica e commerciale hanno molto migliorato la qualità delle loro immagini. Tuttavia, siamo sicuri che sia un’epoca d’oro per la fotografia nel suo insieme? Pensiamo ad esempio ai fotoreporter, che nei conflitti vengono ormai considerati alla stregua di bersagli di cartone. E’ evidente che ci sia qualco-sa che non funziona.

A mio parere la fotografia è una delle più complesse ed emozionanti forme di

CHE TEMPO FA?

Il fascino di non sentirsi leggeridi Elisa Dalle Sasse

più impegnati di emergere o trovare sup-porto. Purtroppo, in queste situazioni le persone di talento spesso lasciano perde-re e vanno a fare altro, mentre quelli che ancora non hanno deciso come impiegare i propri talenti passano oltre.

E’ dunque un gran momento per la fo-tografia? Forse. Di certo non sono tempi facili. Nel rumore indistinto che ci avvol-ge stanno collassando molte istituzioni del passato, mentre ne stanno emergendo alcune ancora indistinte, c’è chi gioisce e chi soffre. C’è chi è felice di poter ali-mentare la quotidianità con un partner lontano e - nello stesso tempo - c’è chi muore in un Paese straniero scattando foto vendute per pochi centesimi di euro.

Riflessioni sullo stato della fotografia

espressione realizzata da singo-li individui. Con questo intendo lavori in qualche modo apprezza-bili in base a ciò che l’autore ha da dire o da mostrare, oltre che per la loro parte tecnica. Curiosa-mente troviamo la parola “condi-visione” ad accomunare il passa-to e questa nuova epoca digitale. Infatti, la cosiddetta “esperienza condivisa” (cosa ben diversa dal-lo “sharing” dei social network) è da sempre cruciale. Fondamen-tale è il bagaglio di esperienze condiviso da tutti, quelle medesi-me esperienze su cui finalmente costruire e confrontarsi. Se dicessi “Se-bastião Salgado” molti tra coloro i quali frequentano - anche saltuariamente - il mondo della fotografia avrebbero un’i-dea abbastanza precisa circa l’artista e una visione altrettanto chiara circa le sue immagini. Questo è molto importante in fotografia come in qualsiasi altro conte-sto. E’ importante possedere e condivide-re un corpus di opere e di figure di rilievo che siano oggetto di critica, che vengano impresse sui libri ed esposte.

Certamente non voglio criticare in toto ciò che di nuovo sta venendo alla luce nel campo della fotografia. Anzi, sono con-vinto che oggi si stia producendo dell’ot-tima fotografia, come mai in precedenza.

La questione è che nessuno di noi ha an-cora capito come far nascere una nuova cultura a partire dallo tsunami digitale che ci ha investiti. La cultura fotografica odierna è polverizzata e caotica. Siamo tutt’al più circondati da una miriade di sub-culture dove musei e gallerie si sono trasformati in fortezze che non fanno al-tro che perpetuare la loro rispettiva (sub)cultura. I libri soffrono della scarsa pene-trazione tra il pubblico, mentre solo po-chi grandi autori giungono a divenire epi-centro di un’esperienza condivisa. Senza dubbio l’istantanea ha un ruolo nella cultura pop, ma di contro nessun tipo di fotografia di alto livello riesce a fare lo stesso. Non rimane che un forte rumore di fondo che impedisce anche agli autori

Vincenzo Di Giuseppe

Vincenzo Di Giuseppe cura la rubrica di fotografia Blow Up su Sconfinare.net

Testo e foto

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Sconfinare - Speciale Alumni Estate 20146

a cura di Eleonora Cecco

Originario di Sciacca (Agrigento), dopo il liceo classico Alberto ha deciso di iscriversi a Scienze In-

ternazionali e Diplomatiche attratto dalla completezza e unicità del piano di studi di un corso di laurea che esisteva soltanto a Gorizia. La città e la sua collocazione geografica rendevano (e rendono tuttora) il corso «speciale». Gorizia era all’epoca una città in cui il confine era elemento pre-sente nella vita di tutti i giorni: alla lunga divisione est-ovest era seguita la disinte-grazione conflittuale della Jugoslavia, e ancora una volta momenti cruciali della storia europea si compivano non lontano dall’Isonzo.

Alberto, cosa hai fatto dopo la laurea a indirizzo diplomatico?

Subito ho svolto il servizio militare da ufficiale di complemento nei carabinie-ri lavorando nell’Ufficio del Consigliere Diplomatico del Ministro della Difesa. Al secondo anno di esperienza in quell’uffi-cio ho deciso di tentare il concorso diplo-matico studiando e lavorando allo stesso tempo. Il primo anno andò male. Non mi preoccupai di non aver vinto il concorso immediatamente: era già accaduto a tanti altri che prima di me avevano fatto centro solo al secondo, terzo o anche quarto ten-tativo. In quel momento però non avevo la certezza che avrei voluto ritentare.

E invece la seconda volta vinsi. Avere una preparazione completa nelle materie del concorso è condizione indispensabile per avere possibilità di riuscita. Lo sfor-zo per prepararsi è tale che è necessario avere una passione genuina per questa carriera e il tipo di vita che comporta. Ci sono però altri aspetti. Innanzitutto saper affrontare il concorso con serenità e un pizzico di fatalismo. Allenarsi a scrivere in maniera chiara e concisa è essenziale. Inoltre, studiate il profilo dei commissari d’esame dello scritto: in genere non resi-stono a proporre un tema che fa parte del-la loro specialità!

A quale ufficio sei stato assegnato?Ho svolto il mio primo incarico presso

l’ufficio responsabile per la politica italia-na nel Corno d’Africa, dove mi occupavo del processo di pace tra Etiopia ed Eritrea e delle crisi in Somalia e Sudan. Poi sono partito per Nairobi, una sede piccola e lontana dove si possono raccogliere molte soddisfazioni professionali perché anche a un diplomatico alla prima esperienza sono affidati molti compiti interessanti e

delicati. Io mi occupavo di temi quali la lotta alla pirateria, la cooperazione allo sviluppo, le problematiche consolari, ol-tre alle tante e imprevedibili situazioni che chi lavora in un’Ambasciata si trova a dover affrontare.

Cosa ricordi con emozione dei tuoi primi anni all’estero?

I ricordi più intensi sono legati a due vi-cende diverse ma umanamente molto in-tense. In Kenya avevamo un problema di sequestri ai danni di occidentali effettuati dalle milizie somale islamiche estremi-ste. Due suore missionarie italiane furono sequestrate e trattenute per alcuni mesi. Vederle finalmente ritornare sane e salve in Ambasciata dopo mesi di incertezze e timori, vederle abbracciare le proprie con-sorelle e riceverne i ringraziamenti è stata una grande gioia. Così come molto bello è stato poter consegnare delle case costru-ite dalla nostra cooperazione allo svilup-po alle famiglie sfollate dai loro luoghi di origine a causa di violenze post elettorali scoppiate nel 2008. Violenze che aveva-no lasciato distruzione e vittime in alcune aree del paese. L’intervento della nostra cooperazione ha ricostruito e donato una casa a chi l’aveva persa. La gioia degli oc-chi dei bambini a cui consegnavo le chiavi di casa era uguale alla gioia delle sorelle liberate dai loro rapitori.

Quali sono le differenze tra il lavora-re a Roma e in una sede estera?

La differenza tra il lavoro al Ministe-ro ed in una sede estera è forse la stessa che passa tra nuotare in una piscina con le corsie delimitate ed i galleggianti alle braccia e nuotare in mare aperto. Occorre assumersi responsabilità e sapersi orienta-re anche in materie con cui non si ha fa-miliarità, ma ricordandosi sempre di usare un criterio di buon senso e soprattutto di consultare la Farnesina, quando l’urgenza e la natura del caso lo consentono.

Secondo quali criteri sono assegnate le sedi all’estero? Ti e stata data possi-bilità di scelta?

Esistono criteri di anzianità, di cono-scenza delle lingue e di alternanza tra sedi disagiate e meno disagiate. L’assegnazio-ne avviene dopo che il candidato ha pre-sentato domanda di trasferimento su una lista di posti disponibili. I tempi di per-manenza in una sede vanno da un mini-mo di due anni e mezzo ad un massimo di quattro.

Dopo Nairobi sei stato trasferito a Brasilia. Com’è strutturata l’Amba-

ALUMNI DAY: TUTTI A GORIZIA!

sciata d’Italia?A Brasilia abbiamo un ufficio commer-

ciale, un ufficio di coordinamento conso-lare e uno politico. Ci sono poi una sezio-ne consolare e una per la stampa. L’ufficio di coordinamento consolare sovrintende al lavoro dei consolati presenti in altre città del Paese: ad esempio in Brasile ab-biamo sei Consolati oltre all’Ambasciata, e questa ha il compito di coordinarne le attività. La direzione delle tante attività dell’Ambasciata è affidata all’Ambascia-tore.

Come si svolge la tua giornata tipo? Ogni giorno è una nuova esperienza

perché, pur avendo dei filoni di attività definiti, gli eventi di politica interna o ogni altra questione che può sorgere de-terminano l’agenda del giorno. In genere si passano delle ore in ufficio per sbriga-re pratiche interne o per la redazione dei rapporti al Ministero e la lettura dei docu-menti di lavoro; si cerca poi di incontrare all’esterno colleghi delle altre ambasciate, funzionari e politici del Paese di accredi-tamento per affrontare con loro i temi che ci interessano. Una parte importante è anche quella dedicata alla stampa. Cono-scere i giornalisti locali ed avere con loro un buon rapporto di collaborazione può essere di grande aiuto.

Con il tuo lavoro, come riesci a conci-liare lavoro e vita privata?

La professione del diplomatico può es-sere talmente coinvolgente che il rischio di dimenticarsi della dimensione privata delle nostre vite esiste. Bisogna quindi fare uno sforzo aggiuntivo, e circondarsi delle persone giuste.

Sconfinare non identifica alcuna posizione politi-ca, in quanto libera espressione dei singoli membri che ne costiuiscono il Comitato di Redazione.Sconfinare è un periodico regolarmente registrato presso il Tribunale di Gorizia in data 20 maggio 2006, n° di registrazione 4/06.

Stampato da: Tipografia Budin, via Gregorcic 23, Gorizia (GO).Redazione: Lorenzo Alberini, Leonard Balbi, Eli-sabetta Blarasin, Martina Calleri, Francesco Ca-slini, Eleonora Cecco, Irene Colombi, Elisa Dalle Sasse, Chiara Ceccon, Margherita Cogoi, Giovan-

Editore e Propietario: Assid «Associazione stu-denti di scienze internazionali e diplomatiche».Direttore: Lorenzo AlberiniImpaginazione e grafica: Elisabetta Blarasin, Lo-renzo Alberini, Elisa Dalle Sasse, Irene Colombi, Veronica Sauchelli, Amalia Sacchi.

ni Collot, Giacomo Cuscunà, Giulia Daga, Cecilia Frego, Nicolas Lozito, Stefano Luppino, Filippo Malinverno, Luca Marinaro, Giordana Medico, Varinia Merlino, Carol Pigat, Amalia Sacchi, Vero-nica Sauchelli, Francesco Tirelli, Valentina Tonutti, Elena Tuan, Patricia Ventimiglia.

A venticinque anni dall’apertura del corso in Scienze Internazionali e Diplomatiche di Gorizia, gli ex studenti tornano in città per rincontrarsi, festeggiare e raccontare l’avvio della loro carriera agli attuali «siddini». In questo speciale abbiamo intervi-stiamo Alberto La Bella, alumnus oggi diplomatico a Brasilia, e abbiamo chiesto a due ex sconfinati illustri, ora giornalisti di professione, di scrivere nuovamente un articolo per noi, esattamente come se scrivessero per le loro testate di riferimento.

Tre giorni di workshop e festa organizzati da ASSID Gorizia

Alberto La Bella, laureato al SID nel 2001, è oggi Primo Segretario per gli affari politici presso l’Ambasciata d’Italia a Brasilia.

«Le soddisfazioni quotidiane della carriera diplomatica»La Bella: «Come diplomatici italiani all’estero ci riconoscono grande empatia e umanità»

Di quale risultato sei maggiormente orgoglioso?

In questa professione occorre cercare giorno per giorno soddisfazione nel po-ter aiutare un connazionale in difficoltà o assistere un’impresa per la conclusione di un affare oppure contribuire a far valere le ragioni del proprio Paese in uno scam-bio di opinioni a livello bilaterale o nel-le sedi multilaterali. Sul piano personale sono però orgoglioso di non essermi fatto dimenticare dagli amici lasciati in Italia.

Cosa significa essere italiani nel mon-do delle relazioni internazionali?

Godiamo di credito e simpatia grazie alla tradizione culturale, alla capacità di fare impresa e alle qualità umane degli italiani che nessuno ci disconosce: spes-so sappiamo inserirci nel Paese ed inter-pretarne gli eventi meglio di altri grazie all’empatia che sappiamo stabilire. Que-sto però evidentemente non è sufficiente a muoversi nelle relazioni internazionali con sufficiente autorevolezza e forza.

Quale consiglio daresti agli studenti del SID?

Di fare bene i propri studi e godersi gli anni universitari senza l’ossessione di una carriera. Poi dopo la laurea potranno con tranquillità scegliere su cosa puntare.

Un ricordo indelebile legato a Gori-zia?

La pioggia!

Nella pagina a fianco...Due giornalisti «made in Sconfinare»

Giovanni CollotÈ stato Direttore di Sconfinare per due anni. Giornalista pubblicista dal 2012, collabora con diverse testate online, fra le quali Limes. È tra i fondatori di iMerica e at-tualmente lavora a Bruxelles come Direttore di The New European, il magazine di UNITEE, New Euro-pean Business Confederation.

Andrea LuchettaÈ uno dei fondatori di Sconfina-re. Giornalista professionista dal 2012, ha già collaborato con di-verse testate nazionali e interna-zionali, tra cui Limes, il manifesto, Il Riformista, La Gazzetta dello Sport, Le Courrier des Balkans e le versioni online de La Stampa e L’Espresso.

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Sconfinare - Speciale AlumniEstate 2014 7

di Giovanni Collot

La nuova Europa si trova a Lilla. O meglio, nella sua periferia. Nella città dell’estremo Nord

della Francia, a pochi minuti di treno dal confine con il Belgio, sorge il Lycée Averroès. Una scuola che sta dando la sua personale interpretazione dell’inte-grazione, mescolando in maniera inno-vativa due degli aspetti più controversi in una società europea sempre più mul-ticulturale: l’educazione e la religione. Il Lycée Averroès infatti gode di un pri-mato particolare: è la prima scuola su-periore privata musulmana in Francia.

Per raggiungere la nostra meta dobbia-mo abbandonare il grazioso centro della città e dirigerci verso la periferia a Sud. Un’area che storicamente è stata destina-zione di migranti di tutte le nazionalità, che arrivavano – e arrivano tutt’ora – nella capitale del Nord per cercare lavoro in una delle sue molte industrie. Il direttore dello stabilimento, il Signor Hassan Oufkir, ci accoglie nel suo ufficio all’inizio del gran-de edificio ad un piano che ospita la scuo-la. Ci ha introdotto una giovane segretaria sorridente, che indossa il velo. In effetti, quello del velo è un particolare piuttosto importante: è così che tutto cominciò.

Come ricorda Oufkir, nel 1994 un grup-po di studentesse furono espulse dal liceo pubblico Faidherbe, nel centro della città, in quanto si erano rifiutate di togliersi il velo in classe. Una scelta che, nel sistema francese, che separa rigidamente Stato e Chiesa e vieta ogni tipo di simbolo reli-gioso nei luoghi pubblici, equivaleva ad un’offesa al principio di laicità dello Sta-to. L’espulsione delle ragazze spinse la

Lega Islamica del Nord, l’organizzazione che raccoglie i Musulmani residenti nella regione, a farsi carico della loro educa-zione: vennero organizzati corsi priva-ti nei locali della Moschea cittadina per permettere alle studentesse di prepararsi per il baccalauréat (la maturità francese). Il successo dell’iniziativa fu tale che ben presto l’organizzazione decise di render-la permanente: nel 2003, grazie ad alcu-ni finanziamenti privati, aprì i battenti il Lycée Averroès. Seguì nel 2008 il ricono-scimento dello Stato, che lo rese il primo liceo musulmano parificato di Francia.

“Siamo una scuola a caractère pro-pre, come le scuole private cattoliche”, spiega Oufkir. Ciò comporta che i pro-grammi sono approvati ogni anno dal Ministero dell’Istruzione e che gli in-segnanti sono nominati dallo Stato. La scuola, in cambio, ottiene una fetta di finanziamenti pubblici e il diritto di se-lezionare gli insegnanti in base ai suoi valori educativi, nonché una certa libertà nelle materie insegnate. Una libertà che è evidente in uno dei corsi che ha susci-tato le maggiori polemiche negli scorsi anni, Etica Musulmana. “Non si tratta però di un corso di Religione”, chiarisce il Direttore. “Non siamo una moschea!”

La presenza di un tale corso è coerente con la missione dichiarata della scuola: creare dei cittadini Francesi di cultura musulmana. Il fatto che la scuola pren-da il suo nome dal filosofo arabo Aver-roé, che nel Medioevo agì da ponte tra le culture occidentale e orientale, sottolinea una tale ambizione. Ne abbiamo una di-mostrazione nel nostro giro attraverso la scuola: mentre il Direttore ci guida da una stanza all’altra, passiamo accanto ad una sala di preghiera, dove alcuni stu-

Ci pensammo noi, 76 anni fa, a sgombrare il campo da ogni ipocrisia: sport e politica si

compenetrano, si alimentano a vicenda, e figurarsi se i Mondiali possono fare eccezione. E’ il 12 giugno 1938, la Fran-cia ospita l’Italia di Vittorio Pozzo per i quarti di finale. I rapporti fra Roma e Pa-rigi sono ai minimi termini, coi governi impegnati su fronti opposti nella Guerra di Spagna, e così la partita si risolve in una sfida simbolica fra Terza repubblica e regime fascista. Gli italiani – costretti a lasciare l’azzurro ai padroni di casa - si presentano con un’inequivocabile divisa nera, e accompagnano l’inno stendendo il braccio nel saluto romano. Lo stadio di Colombes viene giù dagli insulti, lanciati tanto dai francesi quanto dai numerosissi-mi esuli politici. Finirà 3-1 per la squadra di Pozzo, lanciata verso il secondo titolo consecutivo.

Dodici anni dopo, ai primi Mondiali del dopoguerra, il Patto di Varsavia sce-glie il boicottaggio. Bisogna aspettare il 1954 per una partita altrettanto gravi-da di significati politici, e sarà la finale. Una Germania Ovest in cerca di identità

LA DIPLOMAZIA SUL CAMPO

rimonta a sorpresa l’Ungheria di Puskas e Hidegkuti, una delle nazionali più formi-dabili di sempre: 3-2 per i tedeschi, che vivono il trionfo come una rinascita dopo le macerie.

Vent’anni dopo, ad Amburgo, sono due le Germanie protagoniste: Repubblica federale contro Repubblica democratica, nell’unico incontro fra le nazionali mag-

giori di Bonn e Berlino Est. Dominano i padroni di casa – che poi batteranno in finale l’Olanda di Crujiff -, ma sono i fratelli socialisti a vincere con un gol di Sparwasser, capace di bucare gente del calibro di Beckenbauer, Vogts e Maier.

Nuovo giro nel 1986, in quella che forse è una delle partite più celebri dei Mondia-li. Argentina-Inghilterra, a Città del Mes-

sico, vale l’accesso alla semifinale. Saran-no pure finiti i giorni di Videla e Galtieri, ma le ferite delle Falklands – o Malvinas che dir si voglia – sanguinano ancora. Il clima di isteria è tale che il gol di mano di Maradona viene non solo legittimato, ma addirittura canonizzato nella «Mano de Dios». Passano cinque minuti e Diego si inventa lo slalom più straordinario che si ricordi, partendo con una veronica dal-la propria metà campo per fumarsi mezza Inghilterra.

L’ultima, grande ribalta della diploma-zia ai Mondiali risale al 1998. La sorte si diverte a mettere di fronte Stati Uniti e Iran, costrette a stringersi la mano per la prima volta dai giorni dell’Ambasciata di Teheran. Dall’ayatollah Khamenei ar-riva l’ordine di non andare incontro agli americani per i saluti iniziali, come in-vece vorrebbe il cerimoniale. Rimediano gli statunitensi, e di quella partita restano negli occhi il fair play e i fiori scambiati prima del fischio d’inizio. Finisce 2-1 per l’Iran – prima e unica vittoria ai Mondiali – e il successo scatena una festa sfrenata in tutto il Paese, che ben presto si trasfor-ma in contestazione implicita al regime, fra balli e donne che si liberano pubblica-mente del velo.

di Andrea Luchetta

LA NUOVA EUROPA COMINCIA NELLE SCUOLEdenti stanno inginocchiati o sono seduti su un tappeto variopinto. Nella stanza a fianco, una sala conferenze, un professo-re sta tenendo una lezione di diritto co-stituzionale francese ad una trentina di studenti. “Ogni due settimane abbiamo una conferenza del genere”, ci spiega. Poi indica una telecamera: ”Ogni even-to é registrato. Carichiamo i video sul nostro sito per i genitori e gli studen-ti che non sono riusciti a partecipare”.

Il Lycée Averroès dimostra che i valo-ri Musulmani e quelli della Repubblica Francese non devono escludersi per for-za. Il successo del suo approccio é di-mostrato dai numeri: se nel primo anno era frequentata da soli quaranta studenti, oggi la scuola può contare su più di 500 iscritti. Per fare spazio ai numeri sempre maggiori, da qualche anno il Liceo si é spostato dalla anguste stanze a ridosso della moschea in cui aveva cominciato al moderno edificio in cui ci troviamo oggi.

Studiare all’Averroès però non é per niente semplice: “Ogni anno riceviamo duecento richieste di iscrizione in più ri-spetto a quanto possiamo assorbire. Cer-tamente i genitori cercano per i propri figli un’istruzione di ispirazione musulmana, ma soprattutto bravi professori e lezioni di buon livello. Ed é esattamente quello che offriamo”. La qualità dell’istruzione é confermata dal fatto che nel 2013 é sta-to eletto miglior Liceo di Francia, supe-rando scuole ben più prestigiose, grazie al suo tasso di successo scolastico del 100%.

Ora, la sfida per questo piccolo gioiello dell’integrazione é di crescere ed espan-dersi oltre la popolazione musulmana. “Per il momento, c’é ancora una cer-ta diffidenza presso i non-musulmani”, ammette Oufkir. “Ma sono ottimista: quest’anno abbiamo cominciato ad ave-re i primi bambini provenienti da coppie miste. Spero che il nostro multicultura-lismo continui ad aumentare, in futuro”.

Una visita al Lycée Averroi di Lilla, il primo liceo privato musulmano riconosciuto in Francia

Le tensioni geopolitiche nelle partite di calcio dei Mondiali

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SPOMINSKIITINERARIJ

Številka 40- POLETJE 2014 Glavni Urednik: Lor enzo Al ber ini

IreneColombiprevedel:MihaKosovel

SID je večkrat predmet kritikezaradi lokacije, na kateri se na-haja: eden izmed leitmotivov je,

kako naj bi bilo dolgočasno in nesti-mulativno živeti v Gorici, zaprti medhribovjem in stisnjeni ob meji. Obtem bi se lahko spomnili, kako stabila Kras in Soča pri srcu Italijanom včasu okoli Prve svetovne vojne. Polegknjig in profesorjev sodobne zgodovi-ne nam zna spregovoriti tudi sam pro-stor, v katerem študiramo in živimo,če ga seveda želimo spoznati.

Solkanski most in SabotinTako je bil na primer greben Sabotinakulisa mnogih spopadov med Velikovojno, o čemer pričajo številni bun-kerji med apnenčastimi skalami in ka-verne, ki so jih izkopali Avstrijci in jihnato zasedli Italijani po Bitki na Soči.To je neke vrste čezmejni muzej na

hriba stoji spomenik padlim v Prvisvetovni vojni, ki so ga postavili leta1920. Z vrha se spustimo po asfalti-rani cesti, na kateri se lahko večkratustavimo ob spomenikih, ki v spo-min prikličejo dogodke izpred sto-tih let (med drugim tudi ob grobnicitržašega pesnika in pisatelja ScipiaSlapaterja, ki je umrl prav na vznožjuKalvarije).Čezmejni študijski krog Gorice inNove Gorice je izdal dvojezičnizemljevid “V objemu gričev”, kioznačuje nekatere možne poti, ki jihlahko med obema mestoma opravi-mo peš ali s kolesom (dobimo galahko tudi na spletu v pdf obliki).Zgoraj opisani poti sta zgolj dveizmedmnogih, ki jih lahko obdelamotudi brez avta. Vendar jih je še in še.Najpomembneje je, da se odpravi-mo na pot. To je tudi eden najboljšihnačinov, da pridobimo zgodovinskozavest in nekaj ozaveščenosti o pro-storu in ozemlju, s katerim nam jedano sobivati.

odprtem, poimenovan “Park miru”.Obiščemo ga lahko tako, da v Slo-venijo vstopimo čez Trg Evrope inzavijemo na levo. V nekaj minu-tah se bomo znašli v kraju Solkan.Držimo se ceste IX. Korpusa in pokakšnih 3 km prečimo most čezSočo (cesta 402, smer Podsabotin).Tu se izplača za trenutek ustavitiin z mosta občudovati na eni stra-ni pogled na mesto Gorica, na dru-gi pa železniški most: Solkanskimost, čeprav to ni splošno znano,namreč stoji na največjem kamni-tem loku na svetu, zgrajenem nadreko. Pot nadaljujemo tako, da sedržimo leve strani. Kmalu bomoprišli do prvega ovinka ceste 402,kjer stoji prvi vhod na eno izmedmnogih pešpoti, ki nas od vznožjapripeljejo na vrh Sabotina.Potka je v prvem delu strma.Je dobro označena (čeprav imamnogo razpotij, ki pa vse pri-peljejo na vrh) in zelo razrita. Popribližno uri hoje prispemo na vrh

do porušene frančiškanske kapeli-ce (cerkve sv. Valentina), iz katerelahko občudujemo dolino Soče incelo (ožjo) Goriško: pogled seže doTržiča. Pot po grebenu pelje do gors-ke koče. Lahko obiščemo “Muzejmiru” in se sprehodimo mimo ob-novljenih strelskih jarkov zunaj po-slopja ali pa se podamo v kaverne.Če smo preutrujeni, da bi nadaljevalipot po preostalih označenih poteh,lahko uberemo pot po asfaltiranicesti, ki nas pripelje na izhodiščnotočko ob vznožju hriba.

Kalvarija ali PodgoraČe je za nami dolg in mučen danučenja za cilj raje izberimo Kalvari-jo (Podgora; 241 metrov nadmorskevišine). Če po pevmskem parku potnadaljujemo čez most Torrione innato zavijemo na ulico Brigata Cu-neo, prispemo do cerkve San GiustoMartire. Od cerkve se odpirata dvepoti: leva je strma le v prvem delu,ki se vzpenja po gozdu. Na vrhu