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COPIA GRATUITA Numero 21 - Ottobre 2009 www.sconfinare.net Direttrice: Annalisa Turel [email protected] Ancora un’altra critica per favore Quando a mancare sono le soluzioni Freedom House? no more Freedom House è un ente privato che ogni anno compie un'accura- ta indagine sulla diffusione del- la libertà di stampa nel mondo, analizzando 1) il contesto legale in cui operano i giornalisti 2) le interferenze economiche che essi incontrano nella diffusione delle informazioni 3) le pressioni poli- tiche cui i media sono sottoposti. A tale indagine è associata una classifica dei paesi con la stam- pa più libera. L'Italia si trova alla settantatreesima posizione, pre- ceduti da Benin e Israele, in ex aequo con le isole Tonga e subito prima di Hong Kong. Ci prece- dono in graduatoria paesi dove la tutela dei diritti civili ancora non si è del tutto affermata, come la Corea del sud. Peggio di noi trai nostri partner europei, solo la Bulgaria (76) e la Romania (92). Insomma, secondo FH siamo nella lista dei paesi con stampa parzialmente libera. Nell'analisi sul 2007 eravamo nella lista dei paesi con stampa totalmente li- bera. FH motiva la nostra discesa nella graduatoria riferita al 2008 con le leggi restrittive imposte ai giornalisti (la famosa “legge bavaglio”?) e con l'imbarazzante numero di querele di politici da cui essi si devono difendere. Vengono citate anche organizza- zioni di estrema destra e le varie mafie (spicca sicuramente il caso Saviano) come lesive della libertà di stampa con le loro minacce e intimidazioni, ma, sempre secon- do FH, un pericolo sarebbe dato anche dal “ritorno del magna- te dei media Silvio Berlusconi alla carica di premier” che “ha risvegliato paure in merito alla concentrazione degli sbocchi in- formativi pubblici e privati sotto un solo leader”. Come si porrebbe il nostro premier nei confronti di quest’analisi? Potrebbe dire come al solito che FH è stata imbecca- ta dalla sinistra sull'argomento, e molti italiani gli crederebbero. Fatto sta che FH non riceve finan- ziamenti dai governi e non ha per- tanto nessun guadagno a “parlare male” dell'Italia, così come nes- sun guadagno deriva ai giornali europei dal criticare l'Italia. Non risulta, infatti, che la copertura che i nostri media stanno dando al caso Mitterand faccia lievitare CONTINUA a pagina 5 Lo sport più praticato in Italia non è mai stato il calcio. No, è sempre stato la capacità di criti- care. Siamo i primi al mondo per criticare e auto criticare, insupe- rabili e instancabili adoratori del bicchiere mezzo vuoto, mai con- tenti e mai soddisfatti. Qualun- que risultato è sempre arrivato ‘ad un costo sempre esagerato’ dunque con i ricorrenti miti della Vittoria Mutilata o della Vittoria di Pirro, scegliete voi. Non dirò nulla di straordinario parlando delle critiche che cir- colano in questo periodo. L’Ita- lia è sotto attacco. Come non lo sapevate? Una coalizione di nazioni straniere ha da tempo dichiarato guerra alla nostra amata patria. I leghisti pensando di sfruttare la situazione hanno già pensato di avviare trattati- ve separate, firmare la pace e inaugurare la tanto agognata Repubblica Padana. Sfogliare i giornali in questo periodo è una continua tragedia, migliaia e migliaia di parole spese a parlare degli attacchi giornalmente subiti dalle nostre bonificate pianure, dalle nostre fertili colline e dal- le nostre bianche e italianissime montagne. Effettivamente però (ah, il bicchiere mezzo vuoto) a mancare sarebbero solo le vittime di questa guerra. Eppure ci sono, anzi c’è. Ma si sa, dalla storia non si impara mai nulla. Non sono bastate le violenze, i soprusi, le angherie sopportate dagli ebrei, dai palestinesi, dalle popolazioni balcaniche, dai tibetani e dalle numerose etnie africane. Noi ado- ratori del bicchiere mezzo vuoto, siamo riusciti a trovare qualco- sa per cui lamentarci ancora di più. L’Italia è sotto attacco nella sua Italianità, con la I maiusco- la. E la nostra italianità è messa in crisi dalle continue critiche e spregiudicati attacchi effettuati contro il primo rappresentante di tale Italianità, sempre con la I maiuscola. L’Italia è sotto attacco perché è il nostro Presidente del Consiglio ad essere sotto attacco. Ecco la vittima di questa guerra. L’unico oggetto di così tante per- secuzioni, tanto da potersi (auto) definire “senza alcun dubbio la persona che è stata più persegui- tata nella storia del mondo intero e dell’umanità”… Ora, in questo articolo ho già detto stupidate a sufficienza che potrei andare in pensione in questo momento. no fare il grillino e attaccare “la casta”: è esclusivamente colpa dell’elettorato se certe persone ora possono vantare il titolo di Onorevole e non pagano il con- to del ristorante (perché i signori Onorevoli non pagano il conto al ristorante). Chiunque ha trovato posto in Parlamento è stato votato da un numero sufficiente di per- sone che hanno trovato in lui una persona degna di fiducia che pos- sa portare i loro interessi a Roma (e questo vale da nord a sud – Pa- dania compresa). Vorrei precisare a caratteri cu- bitali un piccolo particolare: qui non si tratta di attaccare una parte o di difenderne un’altra. È giun- to il momento di rendersi conto del baratro in cui ci troviamo. Lo dico e lo ribadisco che parlo senza colore politico. In questo momento della nostra storia Ita- liana e Repubblicana, iniziata perché abbiamo pagato un sala- tissimo conto, è il momento di rendersi conto di quali siano le priorità della nazione (si, è ora di considerare l’Italia una nazione, anzi Nazione), quali gli interessi personali di qualcuno e quali gli interessi personali di pochi. Dif- ferenziare queste tre categorie e iniziare a lavorare per le cose che contano veramente: quelle di tutta la popolazione. E allora da qual- che parte bisogna pur iniziare. Dovremo risistemare il bilancio dello stato, riuscire a portare sotto controllo il debito pubblico, recu- perare quell’enorme porzione del PIL che viene eufemisticamente chiamata economia sommersa e avviare una riqualificazione della spesa pubblica. Anzi chiamiamo le cose con il loro nome: dob- biamo eliminare gli sprechi. Ci siamo abituati a vedere ogni gior- no fin troppi sprechi, e non parlo degli sprechi che vede Brunetta nei finanziamenti per la cultura (spiccioli che vanno bene per un po’ di populismo). Parlo del nu- mero di auto-blu che portano i Signori Onorevoli dal ristorante a prendere l’aereo (che non paga, perché i Signori Onorevoli non pagano nemmeno i biglietti aerei) – circa 624 mila unità contate nei primi 6 mesi del 2009; parlo de- gli sprechi di tempo e di denaro dovuti e causati dai sindacati, che anche questo sia ben chiaro, svol- gono una funzione fondamentale e indispensabile nella nostra Ita- lia Repubblicana, ma è da troppo tempo che i loro costi superano di gran lunga i benefici e fanno po- litica quando invece dovrebbero focalizzare le loro attenzioni sul proteggere le categorie più svan- taggiate e più a rischio. Sfortunatamente siamo abituati a vedere tutti i giorni sprechi di questo genere, che non ci sor- prendiamo più e cosa ancor peg- giore non ci scandalizziamo più, non protestiamo più, non ci inte- ressiamo più, non ci informiamo più. Anzi, potrei candidarmi (e vince- re le elezioni) come parlamentare di un qualunque partito di un qua- lunque colore. La domanda che mi sono posto spesso in questo periodo è stata: come è possibile pensare che attaccando il Presi- dente del Consiglio Italiano, l’ita- liano possa sentirsi offeso nella sua italianità? Ma, onestamente, come è possibile pensare che una persona come il nostro attuale Presidente del Consiglio Italiano possa rappresentare l’Italianità? Non voglio fare anti-berlusconi- smo da quattro soldi, ci sono fin troppi giornalisti per questo. Ri- flettendo su tale aspetto sono arri- vato alla conclusione che le criti- che che l’Italia subisce in questo periodo non siano indirizzate semplicemente e in esclusiva al miglior Presidente del Consiglio degli ultimi 150 anni, nonostante lui si impegni per essere sempre al centro dell’attenzione. Quegli attacchi sono provocati dalla Nostra incapacità di essere popolo, essere nazione, essere civili ed essere in grado di sce- gliere. Che cosa? Sicuramente una classe politica responsabile. L’anti-berlusconismo, come già detto, lo metto da parte, sarebbe come sparare sulla Croce Rossa (e mi scuso per il paragone, non vorrei mancare di rispetto ai vo- lontari). Non voglio difendere il PD che fa finta di andare alla deriva: i comandanti (quelli veri) ci sono veramente e il timone è in mano loro. Non voglio nemme- CONTINUA a pagina 5

Sconfinare numero 21 - Ottobre 2009

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Direttrice: Annalisa [email protected]

Ancora un’altra critica per favoreQuando a mancare sono le soluzioni

Freedom House? no more

Freedom House è un ente privato che ogni anno compie un'accura-ta indagine sulla diffusione del-la libertà di stampa nel mondo, analizzando 1) il contesto legale in cui operano i giornalisti 2) le interferenze economiche che essi incontrano nella diffusione delle informazioni 3) le pressioni poli-tiche cui i media sono sottoposti. A tale indagine è associata una classifica dei paesi con la stam-pa più libera. L'Italia si trova alla settantatreesima posizione, pre-ceduti da Benin e Israele, in ex aequo con le isole Tonga e subito prima di Hong Kong. Ci prece-dono in graduatoria paesi dove la tutela dei diritti civili ancora non si è del tutto affermata, come la Corea del sud. Peggio di noi trai nostri partner europei, solo la Bulgaria (76) e la Romania (92). Insomma, secondo FH siamo nella lista dei paesi con stampa parzialmente libera. Nell'analisi sul 2007 eravamo nella lista dei paesi con stampa totalmente li-bera. FH motiva la nostra discesa nella graduatoria riferita al 2008 con le leggi restrittive imposte ai giornalisti (la famosa “legge bavaglio”?) e con l'imbarazzante numero di querele di politici da cui essi si devono difendere. Vengono citate anche organizza-zioni di estrema destra e le varie mafie (spicca sicuramente il caso Saviano) come lesive della libertà di stampa con le loro minacce e intimidazioni, ma, sempre secon-do FH, un pericolo sarebbe dato anche dal “ritorno del magna-te dei media Silvio Berlusconi alla carica di premier” che “ha risvegliato paure in merito alla concentrazione degli sbocchi in-formativi pubblici e privati sotto un solo leader”. Come si porrebbe il nostro premier nei confronti di quest’analisi? Potrebbe dire come al solito che FH è stata imbecca-ta dalla sinistra sull'argomento, e molti italiani gli crederebbero. Fatto sta che FH non riceve finan-ziamenti dai governi e non ha per-tanto nessun guadagno a “parlare male” dell'Italia, così come nes-sun guadagno deriva ai giornali europei dal criticare l'Italia. Non risulta, infatti, che la copertura che i nostri media stanno dando al caso Mitterand faccia lievitare

CONTINUA a pagina 5

Lo sport più praticato in Italia non è mai stato il calcio. No, è sempre stato la capacità di criti-care. Siamo i primi al mondo per criticare e auto criticare, insupe-rabili e instancabili adoratori del bicchiere mezzo vuoto, mai con-tenti e mai soddisfatti. Qualun-que risultato è sempre arrivato ‘ad un costo sempre esagerato’ dunque con i ricorrenti miti della Vittoria Mutilata o della Vittoria di Pirro, scegliete voi.Non dirò nulla di straordinario parlando delle critiche che cir-colano in questo periodo. L’Ita-lia è sotto attacco. Come non lo sapevate? Una coalizione di nazioni straniere ha da tempo dichiarato guerra alla nostra amata patria. I leghisti pensando di sfruttare la situazione hanno già pensato di avviare trattati-ve separate, firmare la pace e inaugurare la tanto agognata Repubblica Padana. Sfogliare i giornali in questo periodo è una continua tragedia, migliaia e migliaia di parole spese a parlare degli attacchi giornalmente subiti dalle nostre bonificate pianure, dalle nostre fertili colline e dal-le nostre bianche e italianissime montagne. Effettivamente però (ah, il bicchiere mezzo vuoto) a mancare sarebbero solo le vittime di questa guerra. Eppure ci sono, anzi c’è. Ma si sa, dalla storia non si impara mai nulla. Non sono bastate le violenze, i soprusi, le angherie sopportate dagli ebrei, dai palestinesi, dalle popolazioni balcaniche, dai tibetani e dalle numerose etnie africane. Noi ado-ratori del bicchiere mezzo vuoto, siamo riusciti a trovare qualco-sa per cui lamentarci ancora di più. L’Italia è sotto attacco nella sua Italianità, con la I maiusco-la. E la nostra italianità è messa in crisi dalle continue critiche e spregiudicati attacchi effettuati contro il primo rappresentante di tale Italianità, sempre con la I maiuscola. L’Italia è sotto attacco perché è il nostro Presidente del Consiglio ad essere sotto attacco. Ecco la vittima di questa guerra. L’unico oggetto di così tante per-secuzioni, tanto da potersi (auto)definire “senza alcun dubbio la persona che è stata più persegui-tata nella storia del mondo intero e dell’umanità”… Ora, in questo articolo ho già detto stupidate a sufficienza che potrei andare in pensione in questo momento.

no fare il grillino e attaccare “la casta”: è esclusivamente colpa dell’elettorato se certe persone ora possono vantare il titolo di Onorevole e non pagano il con-to del ristorante (perché i signori Onorevoli non pagano il conto al ristorante). Chiunque ha trovato posto in Parlamento è stato votato da un numero sufficiente di per-sone che hanno trovato in lui una persona degna di fiducia che pos-sa portare i loro interessi a Roma (e questo vale da nord a sud – Pa-dania compresa).Vorrei precisare a caratteri cu-bitali un piccolo particolare: qui non si tratta di attaccare una parte o di difenderne un’altra. È giun-to il momento di rendersi conto del baratro in cui ci troviamo. Lo dico e lo ribadisco che parlo senza colore politico. In questo momento della nostra storia Ita-liana e Repubblicana, iniziata perché abbiamo pagato un sala-tissimo conto, è il momento di rendersi conto di quali siano le priorità della nazione (si, è ora di considerare l’Italia una nazione, anzi Nazione), quali gli interessi personali di qualcuno e quali gli interessi personali di pochi. Dif-ferenziare queste tre categorie e iniziare a lavorare per le cose che contano veramente: quelle di tutta la popolazione. E allora da qual-che parte bisogna pur iniziare. Dovremo risistemare il bilancio dello stato, riuscire a portare sotto controllo il debito pubblico, recu-perare quell’enorme porzione del

PIL che viene eufemisticamente chiamata economia sommersa e avviare una riqualificazione della spesa pubblica. Anzi chiamiamo le cose con il loro nome: dob-biamo eliminare gli sprechi. Ci siamo abituati a vedere ogni gior-no fin troppi sprechi, e non parlo degli sprechi che vede Brunetta nei finanziamenti per la cultura (spiccioli che vanno bene per un po’ di populismo). Parlo del nu-mero di auto-blu che portano i Signori Onorevoli dal ristorante a prendere l’aereo (che non paga, perché i Signori Onorevoli non pagano nemmeno i biglietti aerei) – circa 624 mila unità contate nei primi 6 mesi del 2009; parlo de-gli sprechi di tempo e di denaro dovuti e causati dai sindacati, che anche questo sia ben chiaro, svol-gono una funzione fondamentale e indispensabile nella nostra Ita-lia Repubblicana, ma è da troppo tempo che i loro costi superano di gran lunga i benefici e fanno po-litica quando invece dovrebbero focalizzare le loro attenzioni sul proteggere le categorie più svan-taggiate e più a rischio. Sfortunatamente siamo abituati a vedere tutti i giorni sprechi di questo genere, che non ci sor-prendiamo più e cosa ancor peg-giore non ci scandalizziamo più, non protestiamo più, non ci inte-ressiamo più, non ci informiamo più.

Anzi, potrei candidarmi (e vince-re le elezioni) come parlamentare di un qualunque partito di un qua-lunque colore. La domanda che mi sono posto spesso in questo periodo è stata: come è possibile pensare che attaccando il Presi-dente del Consiglio Italiano, l’ita-liano possa sentirsi offeso nella sua italianità? Ma, onestamente, come è possibile pensare che una persona come il nostro attuale Presidente del Consiglio Italiano possa rappresentare l’Italianità? Non voglio fare anti-berlusconi-smo da quattro soldi, ci sono fin troppi giornalisti per questo. Ri-flettendo su tale aspetto sono arri-vato alla conclusione che le criti-che che l’Italia subisce in questo periodo non siano indirizzate semplicemente e in esclusiva al miglior Presidente del Consiglio degli ultimi 150 anni, nonostante lui si impegni per essere sempre al centro dell’attenzione. Quegli attacchi sono provocati dalla Nostra incapacità di essere popolo, essere nazione, essere civili ed essere in grado di sce-gliere. Che cosa? Sicuramente una classe politica responsabile. L’anti-berlusconismo, come già detto, lo metto da parte, sarebbe come sparare sulla Croce Rossa (e mi scuso per il paragone, non vorrei mancare di rispetto ai vo-lontari). Non voglio difendere il PD che fa finta di andare alla deriva: i comandanti (quelli veri) ci sono veramente e il timone è in mano loro. Non voglio nemme- CONTINUA a pagina 5

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Sconfinare - Politica Internazionale Ottobre 20092Ultime notizie dalla Birmania

Lo scorso maggio non sono state po-che le testate giornalistiche e televisi-ve che hanno seguito con attenzione le gesta sconvolgenti del mormone americano che, attraversando un intero lago a nuoto, è riuscito ad intrufolarsi nell’abitazione di Aung San Suu Kyi e a scatenare le ire funeste del regi-me birmano. Lo stesso interesse non c’è stato in agosto, quando il processo intrapreso contro la leader del movi-mento per il rispetto dei diritti umani e civili in Birmania e contro il sopra-citato John Yethaw ha portato ad una sentenza di condanna. Il processo comincia il 18 maggio 2009 ed entrambi gli imputati si dichiarano non colpevoli. Le autorità giudiziarie muovono a Yethaw, arrestato il 6 mag-gio, le accuse di essere penetrato in una zona posta sotto il controllo della polizia,di aver nuotato illegalmente nel lago Inya e di aver violato le leggi na-zionali sull’immigrazione. Aung San Suu Kyi viene invece incolpata di aver ospitato l’americano in casa, ignoran-do così la norma sulla “salvaguardia dello Stato contro i pericoli derivan-ti da persone in grado di causare atti sovversivi” e violando i temini degli arresti domiciliari. Nell’ingranaggio giudiziario che ha ormai fagocitato i due attori principali di questa grotte-sca vicenda sono finite anche le due collaboratrici domestiche della leader, Khin Khin Win e Ma Win Ma Ma, e

alcuni funzionari del regime: sessan-tuno membri della polizia di sicurezza sono stati interrogati, un Tenente è sta-to retrocesso di grado e ad un numero imprecisato di persone sono stati dati dai tre ai sei mesi di carcere per inos-servanza dei propri doveri.Dalla testimonianza di imputati e testi-moni traspaiono notizie fondamentali per la comprensione dell’accaduto. In primis, Yethaw si è ostinato a dichia-rare la natura divina della propria im-presa e ha aggiunto non solo di essere stato visto dalla polizia mentre attra-versava il lago ma anche che la stessa lo avrebbe fermato durante un prece-dente tentativo di raggiungere l’abita-zione di Aung San Suu Kyi, lo avrebbe interrogato e quindi rilasciato. L’avvo-cato difensore della leader ha più volte sottolineato la premeditazione o quan-

to meno la connivenza dell’apparato di polizia birmana ma i giudici non ne hanno tenuto conto ai fini della sen-tenza emanata l’11 agosto scorso. Ad aggravare la situazione si sommano la reticenza da parte della Corte ad accet-tare i testimoni della difesa(un testi-mone su quattro accettato per la difesa vs quattordici su ventitre per l’accusa) e l’impossibilità da parte dei difenso-ri della leader di discutere e preparare con lei la sua deposizione .La sentenza condanna Aung San Suu Kyi, detenuta durante tutto l’atto processuale nella prigione di Insein, a tre anni di lavori forzati. La pena, tuttavia,a pochi minuti dall’emissio-ne viene commutata in diciotto mesi di arresti domiciliari dallo stesso Than Shwe, Capo del Consiglio di Stato per la Pace e lo Sviluppo (SPDC) dal 23 aprile 1992. Fondamentale potrebbe essere stata la presenza al processo di diplomatici inglesi, tedeschi, nor-vegesi, francesi e italiani, e le molte-plici professioni di sdegno espresse da statisti del calibro del Presidente degli USA o da organismi come l’UE, l’ONU o l’ASEAN. Quest’ultima, di cui la Birmania è membro, ha espresso “grave preoccupazione” per la piega presa dalla vicenda di Aung San Suu Kyi e parteggia per il suo immediato rilascio: alla base di questa posizione c’è l’importanza politico-economica di mostrarsi sensibile alla protezione e

alla promozione dei diritti umani agli oc-chi della comunità internazionale. Lo stesso periodo di arresti domiciliari è stato imposto alle collaboratrici della leader. Per quanto riguarda Yethaw, in-vece, la pena previ-sta erano sette anni di reclusione nelle carceri birmane, di cui quattro da scon-

tare ai lavori forzati. Ma già il 12 ago-sto il Senatore statunitense Jim Webb si trovava in Birmania per negoziarne il rilascio, la cui giustificazione risie-deva nelle precarie condizioni di salu-te dell’uomo. Pochi giorni dopo, il 19 agosto, Yethaw si trovava su un volo diretto in America. Una volta atterra-to sul suolo natio egli ha confidato ai giornalisti: “se dovessi, lo rifarei un centinaio di volte pur di salvarle la vita...Il fatto che l’abbiano rinchiusa mi spezza il cuore..vorrei poter dire di più”. E tutto quello che Yethaw ag-giunge è un rozzo tentativo di mimare una cerniera che gli sigilla le labbra. Lo stesso rozzo gesto che mima il resto del mondo.

Valeria [email protected]

Una svolta per il Giappone, pari all restaurazione Meiji, e il primo reale cambio di potere da 54 anni. Crisi è una parola bistrattata da giornali e te-levisioni: ormai leggerla non suscita nulla, né tantomeno aiuta a riflettere, a meno che non richiami all'imposizione di un modello economico considerato l'unico possibile. A differenza dell'eti-mologia greca della parola krisis, che significa scelta o decisione, nella lin-gua giapponese il suo ideogramma ri-manda ad altre due parole tradotte in pericolo e opportunità, esemplificanti in maniera perfetta l'attuale politica giapponese. La storica vittoria dello scorso agosto del Dpj (Democratic Party of Japan) ha sancito la fine della egemonia conservatrice Ldp (Liberal Democratic Party): un cambio di go-verno mai successo nella storia politica giapponese dal 1955 (salvo una breve interruzione tra 1993-1994). L'elezio-ne ha dimostrato al Ldp, capeggiato dal cattolico Taro Aso, non solo la frustrazione dei giapponesi per la si-tuazione economica nazionale segnata da una stagnazione economica decen-nale e da un debito pubblico pressante (175% del Pil), ma anche un rifiuto al gerontocratico sistema politico. Ciò ha fatto guadagnare al Ldp risultati elet-torali imbarazzanti: 308 seggi della Camera Bassa al Dpj (rispetto ai 113 del 2005), 119 al Ldp (a confronto dei 296 del 2005) e 53 ad altri partiti (71). I motivi della sconfitta sono molte-plici: il Ldp fu, negli anni del boom economico delle Tigri Asiatiche, il fautore del cosiddetto development state, teoria di sviluppo statale che utilizza l'interconnessione tra politica e industria per sviluppare settori spe-cifici dell'economia e che ha portato il Giappone a divenire nel '70 la seconda potenza industriale mondiale. I pro-blemi sorgono alla fine degli anni '80 con lo scoppio della bolla speculativa giapponese, che trascina l'economia nipponica in una stagnazione decen-nale. L'altalenante linea politica del Ldp, incapace di affrontare la crescita zero e l'aumento incalzante del debito pubblico, si è andata a mescere con la dilagante corruzione dei ministri e con la casta burocratica, portando il Giap-pone ad essere oggi lo stato più in dif-ficoltà nella crisi Subprime. Quindi, il

promotore della vittoria di Hatoyama, leader del Dpj, è stato, in realtà, l'im-mobilismo politico che ha segnato gli ultimi 20 anni di amministrazione libe-raldemocratica. Nonostante la stampa nipponica parli di seiken tokai, ossia di cambio regime, difficilmente Hatoya-ma riuscirà a portare a termine le pro-messe elettorali di maggiori finanzia-menti alla sanità pubblica e sussidi ai disoccupati (il tasso di disoccupazione ha raggiunto il 5,7%, un dato basso ri-spetto agli standard internazionali, ma un record per il Giappone) che dovran-no essere riconsiderati a seguito della caduta libera del Pil nazionale. Per ora Hatoyama ha presentato due novità. La prima è la decisione di ridurre l'emis-sione di carbonio del 25% entro il 2020: una decisione in apparenza anti industriale, ma che nei fatti favorirà le multinazionali come Sanyo, Toshi-ba e Sharp, preparate da anni al boom delle tecnologie verdi; senza contare i benefici per le compagnie automobili-stiche, ottenuti dimezzando l'accisa sul petrolio ed eliminando gradualmente i pedaggi autostradali. La seconda novi-tà è l'ottica diplomatica yuai di Hato-yama: se in Italia il confronto politico si sviluppa attraverso la dicotomia tra concezione immanente (dio, patria, fa-miglia ecc.) e concezione trascendente (libertà, uguaglianza, solidarietà – ide-ali legittimatori della ribellione all'op-pressivo), in Giappone lo scontro si ha tra la concezione di wa, ossia armonia del Ldp (che sottointende una armonia interna, precludendo qualsiasi apertura verso altri stati) e yuai del Dpj, ossia di fraternità, intesa come una visione pa-nasiatica tra Giappone, Corea del Sud e Cina. Per la prima volta nel Paese del Sol Levante si fa strada l'idea di un' emulazione dell'Unione Europea che partirà proprio nella trasformazione entro il 2015 dell'Asean in spazio eco-nomico comune e con l'introduzione di una moneta unica asiatica.E' questa la crisi del nuovo Giappo-ne, stretto tra il pericolo del declino economico per mano sino-americana e l'opportunità di superare le storiche rivalità ed i nazionalismi per dare vita alla prima potenza economica mondia-le.

Magonara Luca [email protected]

Tra pericolo e opportunità: il nuovo Giappone-Vittoria storica del DPJ

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Sconfinare - Politica InternazionaleOttobre 2009 3Il mondo è diventato più grande

Dal G8 al G20C'era una volta il G8, esclusivo con-sesso in cui i leader degli otto paesi ca-pitalisti più potenti del “mondo libero” (e capitalista) discutevano sull'anda-mento dell'economia mondiale, trala-sciando molto spesso le considerazioni riguardanti la tutela dell'ambiente e il benessere degli altri paesi (capitalisti, neutrali o socialisti che fossero). Il G8 (“Gruppo degli otto” o “Grandi otto”) è nato nel 1975 per offrire una piatta-forma di discussione non ufficiale ai capi degli otto paesi più industrializza-ti del mondo, che possedevano quote assai significative delle ricchezze eco-nomiche e delle capacità tecnologiche e militari mondiali. Una struttura di governo dell'economia mondiale come il G8, a quei tempi (e perlomeno fino al crollo dell'URSS), poteva essere considerata efficiente e sufficiente principalmente per 2 motivi: primo, raggruppava effettivamente i paesi più potenti del mondo e secondo, doveva confrontarsi con un sistema economico su cui gli stati avevano ancora un buon grado di controllo anche a livello in-ternazionale. Non bisogna poi dimen-ticare che l'esistenza del “blocco co-munista” faceva sì che un gran numero di paesi fossero di fatto fortemente li-mitati nella loro libertà di commercio, il che rendeva il sistema economico mondiale relativamente semplice e fa-cilmente gestibile. Il G8 in realtà non si è mai evoluto in qualcosa di diverso da forum informale di discussione, ma

ha certamente avuto un ruolo rilevan-te dato il peso delle economie dei suoi paesi membri, peso che a livello in-ternazionale si fa fortemtente sentire, specie in sede di organismi economici mondiali come il “Fondo monetario internazionale”, la “Banca mondiale” e la “Organizzazione mondiale per il commercio” (organizzazioni in cui la preminenza degli USA in particolare è schiacciante, basti pensare che nel '91 il presidente americano Bush senior rifiutò di concedere il prestito doman-dato da Gorbaciov al FMI per evitare il collasso dell'URSS, cosa che puntual-mente avvenne).Nell'era della globalizzazione e del post-modernismo e di tanti altri mille

velocissimi processi, ognuno con la sua brava etichetta, il G8 si è dimo-strato uno strumento svuotato di gran parte del suo significato a causa della crescente incapacità degli Stati di con-trollare i flussi economici mondiali (soprattutto nelle loro conseguenze ne-faste) e dell'ascesa politica, economica e anche militare, di quei paesi “quasi sviluppati” come Cina, India, Brasile, Indonesia, Sud Africa e altri ancora. Tutti paesi non occidentali, non tutti democrazie e non tutti capitalisti (per-lomeno non secondo i dettami libera-li). Un tentativo di allargare in maniera graduale e relativamente indolore il G8 era venuta nel 2005 da Francia e Inghilterra, che avevano creato il G14 (G8 più Brasile, Cina, Egitto, India, Messico e Sud Africa). L'importanza di questo gruppo è però assai più limi-tata perché le 6 “economie emergenti” non possono partecipare ai lavori pre-liminari degli incontri del G8, riserva-ti ai soli membri del G8, ma solo alle discussioni seguenti e alla redazione delle dichiarazioni comuni. Questa formula, dal sapore vagamente neo-colonialista, è stata subito osteggiata da USA e Russia ed infatti è rimasta priva d'importanza, anche in occasione del recente vertice G8 a L'Aquila.Il G20 nasce alla fine del 1999, dopo che la crisi delle borse asiatiche aveva scosso le cosiddette “Tigri asiatiche” (Corea del Sud, Taiwan e altri peasi del Sud-Est asiatico) e ne aveva tempora-

neamente rallenta-to la fortissima crescita econo-mica. All'inizio era nato sem-p l i c e m e n t e come un forum di discussione dei governato-ri delle banche centrali e dei mi-nistri dell'econo-mia, ma si era rivelato ben pre-sto troppo esteso e differenziato

al suo interno per essere di reale utilità (ancora oggi è sempre molto difficile radunare tutti i partecipanti per la foto di gruppo di fine incontro!). D'altronde, l'elevata crescita economica a livello mondiale per tutto il decennio successivo aveva ben presto fatto dimenticare persino il significato del concetto stesso di “crisi economica” e quindi il G20 era rima-sta solamente un'esperienza sporadica in cui declamare le bontà del capitali-smo finanziario e della crescita infinita (e quindi di per sé non sostenibile).

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Federico [email protected]

I motivi di un Nobel contrastato Barack Obama

Il Presidente degli Stati Uniti Barack Obama che vince il premio Nobel per la pace sembra una notizia confeziona-ta a bella posta. Sembra uno scherzo. Io stesso ho creduto fosse uno scher-zo, e ho dovuto leggere due o tre lan-ci d’agenzia prima di convincermene. Ora, come al solito, nel mondo ci sa-ranno le solite discussioni prefabbri-cate. Io, obamiano della prima ora, difendo a spada tratta il premio; io, invece, sono a prescindere contrario: il premio è ormai un affare di politica. E in Italia…Sarà ancora peggio, per-ché questa discussione prefabbricata diventerà ancora più rozza e inquietan-temente rivestita di razzismo o di sno-bismo, a seconda della parte in causa. Se posso permettermi, dal basso della mia autorità. Forse posso permettermi, me lo riconoscerà soprattutto chi –ma chi?- si ricorda del mio articolo su que-sto giornale, all’epoca delle elezioni di Mr.Obama. Cercavo, allora, di media-re tra due posizioni fanatiche, di chi ri-gettava Obama come se fosse il figlio-letto primogenito del Satana sovietico, e di chi tentava di disegnargli attorno aureola e alette d’angioletto. E anche adesso: cerchiamo di capire, al di là delle posizioni che ognuno di noi man-tiene, le motivazioni di questo premio. Perché Obama merita il Nobel? Perché Obama è un simbolo, è la prima rispo-sta che mi do. Il simbolo di un popolo che si è emancipato. Della labile e de-bole pace etnica che vige negli USA. Mi do un altro paio di risposte, ve-diamo quali. Perché l’eredità di Bush Jr. conta, eccome, e qualunque nuovo Presidente che sia quanto meno in gra-do di articolare un discorso di senso compiuto sembra un miracolo della natura, e perché un Presidente che non considera l’Assemblea dell’Onu come un dannato sperpero di denaro, tempo e risorse, sembra l’Angelo della Pace in persona. O perché un Presidente che formula in astratto l’idea che forse con l’Iran e con il governo Palestinese si possa parlare, sembra un Gandhi redi-vivo. Infine, un’ultima risposta. Quella che ha pesato di più, azzardo. Il Nobel è, non nascondiamocelo, un premio europeo. Rappresenta soprattutto le idee europee. E l’idea europea, oggi, è che Obama sia un’icona progressi-sta, risolutrice, perfetta. Perfetta. Un moderno cavaliere senza macchia, che non considera l’Europa alla stregua di un fastidioso vicino d’oceano. Il che è, a grandi linee, anche un po’ condivisi-bile, sebbene in parte. Il premio, visto da quest’ottica, ha due facce: una è quella della gratitudine, la gratitudine degli europei, che da sempre voglio-no amare il sogno americano ma che a cicli ben precisi ne viene respinto con profonda repulsione e disillusione. L’altra è una richiesta, anzi un vinco-lo: Presidente Obama, le assegnamo il Nobel perché così, anche se ancora

nulla di concreto ha fatto per la pace (né ha avuto il tempo di farlo, siamo onesti), sarà costretto a farlo. Dovrà at-tenersi a quelle che saranno le motiva-zioni. E’ un Nobel per la Pace, non può ignorarlo. Del resto, questo fardello si accompagna ad un grosso vantaggio: la credibilità, la rispettabilità. L’autori-tà. Ora, Mr. Obama è un premio Nobel per la pace, un mediatore per defini-zione ed in più un mediatore nel pieno possesso dei suoi poteri. Perché Oba-ma non dovrebbe ricevere il premio Nobel? Ma perché non ha fatto davve-ro nulla di concreto, di materiale, per la pace. Ancora no. Perché è troppo presto, perché non ci è ancora riuscito. Poco importa, ma ancora non lo ha fat-to. Questo è un premio a prescindere, un premio in prospettiva, un contro-senso. I premi devono arrivare dopo, non prima. Le recensioni per un film non si fanno prima del lancio. I Nobel per la medicina non vincono nulla se non pubblicano studi, se non fanno ri-cerca. Un Nobel per la letteratura deve pur aver scritto qualcosa! Obama non ha ancora scritto nulla. Il mio giudi-zio sulla sua presidenza, finora, è più che ottimo, al contrario di quelle ac-que fresche progressiste che l’hanno prima elevato al rango di Messia per poi gettarlo nel fango, sdegnati per-ché non ha trasformato gli Stati Uniti in una Svezia degli anni settanta. Ma nonostante il mio giudizio così positi-vo, non posso sostenere restando serio che Obama meriti il Nobel. Lui stesso lo ha detto. Ma non posso nemmeno condividere l’articolo del Times, che vi consiglio di leggere, in cui si scrive che il premio non è altro che ‘una pre-sa in giro’. A mio parere, per quanto immeritato, questo premio è ben lun-gi dall’essere una presa in giro. Anzi, può essere davvero utile. E il comitato norvegese per il Nobel non è poi così sciocco. Anzi, potrebbe tranquillamen-te rivelarsi il più lungimirante. C’è chi ha detto che questo premio è ‘politico’ (va di moda questa definizione, ulti-mamente). E’ vero, credo sia politica. E non so quanto sia positivo come trend. Però, pensateci. Quanto può farci comodo un Presidente degli Stati Uniti che, proprio nel momento di dif-ficoltà, proprio quando stava calando nei consensi, riceve un riconoscimento così alto? Un Presidente all’improvvi-so più forte, più autorevole, e con la possibilità di attuare con più facilità i suoi progetti. Ora, Mr.Obama, non ha davvero più scuse. Scorre il tempo. E la storia La giudicherà ancor più seve-ramente, alla luce di questo premio. Sarà anche immeritato, ma potrebbe essere per tutti una benedizione, o una maledizione. A Lei la scelta, Presiden-te Obama.

Francesco [email protected]

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Sconfinare - Politica Nazionale Ottobre 20094

Il Parlamento ha bocciato la proposta di legge contro l’omofobia: le violenze continuano a consumarsi nel silenzio di troppi Stiamo vivendo un anno brutto, certo una crisi. Ma non la tanto citata crisi economica bensì una crisi di civiltà. Gli episodi di omofobia degli ultimi tempi si aggiungono alla salsa di omer-tà sulle violenze domestiche, sulla vio-lenza sulle donne e per la mancanza di rispetto per ogni età, fede, politica o orientamento sessuale. Il tanto decla-mato art. 3 della Costituzione non è mai stato così inascoltato o incompre-so. E più di tutto attaccato e poco dife-so. Al punto che la maggior governabi-lità di questo Paese dovrebbe passare, secondo il Governo, da un’eccezione costituzionale all’uguaglianza giudi-ziaria. Ma più di questo, al punto da far approvare una pregiudiziale di costitu-zionalità sollevata dall’UdC (con 285 sì, 222 no e 13 astensioni), che ha fatto cadere la proposta di legge che pre-vede l’aggravante dell’omofobia nei confronti di chi genera ed attua violen-

za contro la libertà di nascere secondo un determinato orientamento sessuale. E le parole che uso spero possano pon-derare bene il mio pensiero.Non ci si rende conto che lo Stato, nel suo compito di tutore della legge, deve anche guardare alla causa del male che combatte o debella. Deve capire che un braccio rotto da una caduta di mo-torino non è un braccio rotto per aver avuto coraggio di esprimere una pro-pria libertà, nel caso specifico quella sessuale. Né tantomeno è una scusante valida il fatto di non aver incluso nella stessa legge le aggravanti di età, disa-bilità o transessualità, a cui le direttive UE fanno esplicito riferimento. Tuttavia, volendo andare oltre al sen-so legislativo della proposta dell’On. Concia (di certo la legge proposta non sarebbe stata un capolavoro di lette-ratura giudiziaria), un atto del genere rappresenta una presa di posizione. Sa-rebbe stato un segnale da parte del Par-lamento, un modo efficace, come for-te, di puntare il dito ai molteplici atti di

violenza accaduti negli ultimi tempi ai danni di persone gay. E di questo se ne è resa conto anche il Ministro Carfa-gna che ha già promesso di ripresenta-re un testo di legge a breve giro di boa. Sembra invece che non se ne siano accorti tutti gli altri: le Associazioni GLBT urlano in silenzio (non per loro colpa, ma per la poca forza lobbistica che hanno sempre avuto in Italia), il Parlamento ha riscoperto la sua capa-cità conservatrice e la sua poca lungi-miranza, il Vaticano tace e, nel giro di poche ore dalla bocciatura della legge, un altro ragazzo si faceva picchiare a Roma. La giornalista Meli del Corrie-re della Sera lega l’aumento degli atti di omofobia alla maggiore visibilità pubblica che stanno avendo oggigior-no le scelte di orientamento sessuale. Difficilmente si può però dire una cosa simile alla luce del vandalismo che ha toccato la discoteca Qube o i loca-li gay del Colosseo. Non sono forse sempre esistiti? Si parli di escalation: che fine avrà allora? Tuttavia, ancora prima della bocciatura della proposta,

vi sono stati segnali che la socie-tà italiana non è ancora in grado di metabolizzare alcune realtà sociali. Soprattutto, le grandi aspettative dietro alla Conferen-za Internazionale sulla violenza contro le donne (preparativa del G8) si sono sgonfiate e l’atto di più grande risonanza è stato il di-scorso di apertura del P.d.R. Na-politano nel quale ha segnalato l’omofobia come una delle cause di violenza. Ad inizio settembre, in contem-poranea con il G8, i giornali e telegiornali riportavano la noti-zia della presenza della signori-na Noemi Letizia al Festival di Venezia. Ci si rende conto di due cose: di come i giornali italiani

non diano più notizie, ma letame; ma soprattutto, come la non partecipazio-ne della suddetta e delle sue colleghe alla Conferenza Internazionale sia sta-ta un’occasione persa. Persa l’occasio-ne di dare un risvolto etico-morale alla loro professione di escort; persa l’oc-casione di dare con loro una maggiore copertura mediatica all’evento. Anche questa volta, purtroppo, non si è aperto nessun dibattito sulla sessua-lità. Ancora si naviga nell’incompren-sione che le violenze nascono, il più delle volte, da problemi di sessualità. Etero o Omo che sia. Continueremo ad avere matrimoni in rovina, prosti-tuzione dilagante anche tra i giovani, onanismo incallito (ma solamente al-ternato al precariato del lavoro). E per vivere la propria sessualità, i giovani scapperanno in Europa, scappando dalla maggioranza incancrenita che controlla moralmente questo Paese. E che morale.

Edoardo [email protected]

Il tuo amore di che sesso è?Ferrara ormai ci è abituata. Ma io non ero preparato, quasi per nulla. Alla fol-la, le file, le corse tra i corridoio del teatro in cerca di un posto, anche in piccionaia, giusto quel tanto che basta per sbirciare il palco.C’è la festa di Internazionale, ecco. E come ogni anno, la città si riempie di persone, mica solo giovani, mica solo professoroni in tweed e sigaro d’ordi-nanza. C’è di tutto, dal cileno che ti offre del vino mentre sei in fila, alla napoletana che ti chiede ‘ma come, tutta ‘sta gente??’. Tutte le età, tutti i ceti, tutte le direzioni. Perché la festa di Internazionale, e qui non ne vorrei aver frainteso lo spirito ma penso sia realmente così, è soprattutto movi-mento. Spostarsi lungo i confini, come fa idealmente tutte le settimane, pas-sando pagina dopo pagina dall’Europa al Sudamerica, dal Giappone alla Sier-ra Leone. E anche qui a Ferrara, nel suo piccolo, ci sono confini. Quelli del Teatro Comunale, invaso da ragazzi che forse non ne hanno mai visto uno, e da abbigliamenti che contrastano con quelle ‘sacre stanze’.E così, ti sposti anche tu, fisicamente e idealmente. Una mattina sei in Iran, l’altra in Europa, passando per l’Italia della politica e quella della mafia –an-che se alle volte, e quante!, tendono a coincidere. Assisti a dibattiti colti e terra terra, riconosci volti e impari a conoscerne di nuovi, trovi spunti di riflessione, conferme, motivi di con-trasto. Trovi Ginsbourg, Foot e Marc Lazar, ad esempio. E ti senti fortunato a far parte di un dibattito che assomiglia di più ad una cena informale che ad un incontro ufficiale, mentre i tre si scam-biano frecciatine e risate ironiche, si battono punto per punto per i propri principi per il gusto di sentire cosa dirà poi l’altro. L’essenza del dibattito, e dunque Internazionale diventa: movi-mento, ma anche parole. Parole utili, parole che si inseguono e si perfezio-nano, cercano di trovare una giusta quadratura alla questione, si scontrano e si ritrovano. O trovi Saviano, che da troppi è con-siderato un vip, e da troppo pochi uno delle nostre ultime voci libere, perché così è più facile. E ascoltandolo dire che non si pente di aver parlato della mafia, che parlare delle nostre vergo-gne è l’esatto opposto di gettare ver-gogna, che il silenzio è vergognoso e davvero antipatriottico…Ascoltando-lo, ecco che pensi che Internazionale a Ferrara significa movimento, parole e coraggio. Non un coraggio di atti. Di pensiero. Il coraggio della chiarezza, anche se non dici niente di che. Il co-raggio di esprimere il proprio pensiero davanti ad una platea attenta, severa e preparata, che è la cosa più difficile, in fondo.E, dunque, a Ferrara trovi tante cose a cui pensare. Gente, atmosfera. Pensieri

Una festa Internazionaleche si agitano dell’aria.Ma forse esagero. Sì, forse esagero, e questo non è un reportage fatto bene. Anzi, non è per nulla un reportage, ma un diario di emozioni e pensieri spar-pagliati, brandelli di ciò che mi è pas-sato per la testa durante la tre giorni di Festa. Sensazioni, più che altro. Ma forse è questo l’importante. Forse è questo che conta, vero? La sensazione. Le informazioni, alla fin fine, non sono tante. Tutte cose che si sanno, o si pos-sono sapere. Ma la sensazione.

La sensazione di poter pensare, an-cora. La sensazione che ci sia ancora qualcosa a cui pensare. Su cui pensare. Per cui pensare.E la sensazione che ci sia ancora qual-cuno che pensa. Non solo tra il pub-blico, ma sul palco, persino. Una cosa rara.Per quanto riguarda i temi, quasi di-menticavo. Sì, c’erano anche cose utili, tra ciò che volevo dire. Le scelte sono state buone, devo dire, anche se è arrivato il momento delle critiche. Mancava qualcosa, in effetti. Qualche tema un po’ tralasciato. La Russia, ad esempio. O il Sudamerica. D’altron-de, qualcosa sfugge sempre. Il colle-gamento audio video per l’intervento era a dir poco pessimo. Le file assur-damente lunghe, i posti al primo che capitava. Certo che, però, questo dava anche sale alla manifestazione. Il bri-vido del ‘chissà se lo vedo’, l’eccita-zione del ‘questa volta il posto sarà mio’.E Ferrara è uno scenario pressoché per-fetto. Il Castello, le stradine, il Duomo, il Teatro. L’aria stessa che si respira, la gente che vi abita. Rassegnata, a volte, e a ragione, a vedersi invasa da miglia-ia di migranti dell’informazione, desi-derosa di conoscere ciò che succede al di là della nostra siepe. Perché i tele-giornali nazionali, se sono a corto di notizie, parlano dei gatti sugli alberi. Gli altri fanno inchieste, perché sanno che le notizie non finiscono mai. Sa-pete, succede questo, da qualche parte, lontano da noi. E, per una volta all’an-no, succede anche a Ferrara. All’anno prossimo, Internazionale!

Francesco [email protected]

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Sconfinare - Politica Nazionale2009 Ottobre 5

gli ascolti o aumentare sensibilmente le vendite. Appare tuttavia increscio-so che un pedofilo reo-confesso di-riga uno dei ministeri più prestigiosi di Francia. Così come appare incre-scioso che a capo del governo si trovi un pluriindagato, più volte prescritto (che, diciamolo a scanso di equivoci, significa solamente che il reato di cui si è accusati è “scaduto”, non che chi è accusato sia innocente). Infatti per il presidente del consiglio il modo migliore di porsi sulla questione sarà di dimenticare che questa graduatoria sia mai esistita e di farlo dimentica-re anche agli italiani, per esempio bandendo il tema dai telegiornali. La delegittimazione dell'informazione italiana ed estera serve al premier a evitare di confrontarsi con essa su questioni scottanti. Questa strategia di delegittimazione è seguita metico-losamente: lo stesso Economist so-stenitore di Reagan e Thatcher è stato ribattezzato “ecommunist”. L'Econo-mist si pone il problema in termini di assoluto realismo e sostiene che il premier non sia la persona giusta per guidare l'Ita-lia per molti e noti motivi, ma Berlusconi invece di rispondere a tono a un autorevole settimanale letto da tutte le élites mondiali sui dubbi più che legittimi che esso solleva, fa finta di niente, gli dà del comunista e la questione finisce lì. Nessuno del suo elet-torato ha chiesto spiegazioni, nessuno dei suoi alleati politici ha accennato una rea-zione, nessuno dei suoi quotidiani liberi ha posto la questione, anzi hanno seguito Ber-lusconi sostenendo che l'Economist fosse una rivista trascurabile, bollandola appunto come comunista. Infatti essere comunista in Italia non significa “essere d'accordo con Marx”, ma solamente “dover essere ignorati”. Chi viene bollato come comuni-sta non ha la dignità di porre domande, o quantomeno, di meritarne le risposte. La libertà di stampa in Italia esiste solo su alcune questioni, mentre su altre viene ca-lato una coltre di fumo. Così nei telegior-nali la questione Alitalia passa per essere uno dei grandi successi di questo governo, quando invece, a causa del blocco impo-sto da Berlusconi al governo Prodi sulla cessione ad Air France, ci siamo trovati a doverne pagare i debiti e migliaia di perso-ne hanno perso il lavoro (la prima offerta bloccata da Berlusconi prevedeva 2150 licenziamenti, quella accettata dal suo go-verno ne ha causati circa 7000; nella prima offerta i debiti di Alitalia sarebbero stati ripagati da Air France, con l'offerta fatta dopo, i debiti se li è accollati lo stato, cioè noi). Altro esempio: L'emergenza rifiuti, grande successo del governo Berlusconi. A Napoli. Nel casertano invece le strade sono anco-ra piene di immondizia. I telegiornali del servizio pubblico però si guardano bene dall'approfondire tali tematiche, come fa-rebbe qualunque servizio pubblico. Ora i lettori di centrodestra riterranno queste considerazioni frutto della propaganda di un comunista e le ignoreranno. Questo è uno dei problemi. In Italia infatti non c'è dialogo tra i due “schieramenti” di eletto-ri, si tende a delegittimare l'altro perché “comunista” o “fascista”. E questo è anche colpa dell'atteggiamento delegittimante te-nuto da Berlusconi nei confronti di chiun-que non sia lui stesso; lo stesso Fini e le sue dichiarazioni sono stati più volte smentite

da Berlusconi perché in disaccordo con le sue. I governi negli ultimi anni finiscono quindi per trasformarsi in una dittatura del-la maggioranza, causando una prima seria distorsione al sistema democratico italiano. Quante volte sentiamo Berlusconi pronun-ciare dati sul consenso? Questo, in un'otti-ca populista, è facilmente traducibile nella frase: “ho un mandato che il tot% degli ita-liani continuano a rinnovarmi ogni giorno, per cui faccio come vogliono loro”. Infatti altrettanto spesso ultimamente, sentiamo dire i suoi alleati: “Berlusconi è l'unico che capisce il popolo”. Il che significa in sostanza che la volontà del popolo è la vo-lontà di Berlusconi e viceversa. Ammesso e non concesso che i dati sul consenso sia-no veritieri (nessuno si è ancora peritato di smentirli anche se palesemente falsi, visto che cambiano di giorno in giorno), il pro-blema che si pone è serio; il restante 25% degli italiani cosa deve fare? La democra-zia fa governare la maggioranza, ma dà all'opposizione il ruolo di contrappeso. Se l'opposizione viene totalmente ignorata e delegittimata (grazie anche al famoso pre-mio di maggioranza che esiste solo in Italia e che in sistema maggioritario trova poche giustificazioni), la democrazia perde molto del suo significato. Quello della libertà di stampa rimane un problema di fondo che molto ha a che fare con questa distorsio-ne. È stata proprio la stampa a privarsi del ruolo che essa dovrebbe esercitare in una democrazia, ovvero quello di arbitro im-parziale: dovrebbe infatti portare le notizie nella società civile affinché quest'ultima possa scegliere al meglio a chi affidare la propria delega al governo. Se a sinistra si delegittimano molti quotidiani di destra perché “sono tutti del padrone”, a destra si delegittimano i quotidiani di parte opposta perché “comunisti”, “complottatori” e via dicendo. Alla fine l'informazione diventa duplice: ci sono l'informazione di destra e l'infor-mazione di sinistra, i quotidiani di destra sono letti da elettori di destra e viceversa, creando due visioni diametralmente oppo-ste della situazione in Italia, che però è una sola. Ne risulta una contrapposizione sor-da, tutti urlano le proprie ragioni convinti di quello che dicono senza che l'altro ascol-ti perché altrettanto fortemente convinto. Altro problema è quello dell'intoccabilità dei suoi leaders. Ancora una volta la libertà

di stampa ha un ruolo cruciale. Berlusconi nella sua carriera politica si è dimesso una volta, nel 1994, in seguito alla consegna di un avviso di garanzia inviatogli dalla que-stura di Milano per il reato di concorso in corruzione. Berlusconi allora, responsabil-mente, si dimise: come poteva rimanere in carica un presidente del consiglio sospet-tato di aver commissionato la corruzione di giudici? Nel 1994 la situazione però era ben diversa: si usciva da tangentopoli e i politici sospettati di corruzione erano il bersaglio di moltissimi quotidiani (quello di Feltri in primis), oltre che dell'insoffe-renza della maggioranza degli italiani. Inoltre Berlusconi ancora non aveva gioca-to le sue carte in termini di censura e pro-paganda: nel 2001, quando Travaglio da Luttazzi, Santoro e Biagi sollevarono nuo-ve critiche non dissimili da quelle del '94 sul passato di Berlusconi, furono accusati di fare informazione di parte. Nel '94 però sollevare le magagne del premier come fecero quasi tutti i quotidiani non era fare informazione di parte, mentre dal 2001 lo è diventato. Oppure semplicemente l’opi-nione pubblica era più sveglia e combat-tiva nel 1994. La differenza comunque si è notata: Luttazzi, Santoro e Biagi sono stati allontanati dalla RAI (Santoro ci è ri-entrato dopo aver vinto una causa contro la RAI per licenziamento senza motivo). Fatto sta che nessuno dal 94 ha più chie-sto le dimissioni del premier. Altro grave problema che sicuramente ha influito sulla nostra posizione nella graduatoria di FH è la cosiddetta legge bavaglio. Oltre a porre un limite molto debilitante alle indagini per intercettazioni, tale legge rende impossibi-le per la stampa informare l’opinione pub-blica di ciò che le intercettazioni mettono in luce, a causa delle multe salatissime imposte agli editori che contravvngono a questa norma. La motivazione è che è moralmente sba-gliato portare fatti anche privatissimi sulle prime pagine dei quotidiani, il che sarebbe giusto, se non fosse che questo vale solo per i cosiddetti “potenti”. Luca Stasi è sputtanato quotidianamente su tutti i tele-giornali, ma per il fatto di non farlo grazie a delle intercettazioni, ciò è considerato lecito.

Edoardo Da [email protected]

Freedom House? no moreCONTINUA da pagina 1

Sconfinare non identifica alcuna posizione politica, in quanto libera espressione dei sin-goli membri che ne costiuiscono il Comitato

di RedazioneSconfinare è un periodico regolarmente

registrato presso il Tribunale di Gorizia in data 20 maggio 2006,

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Ed ecco apparire magicamente un ultimo spreco. La libertà di stampa in Italia appare alle volte come un vero e proprio spreco. Da una parte perché sono innumerevoli i casi in cui tale libertà viene abusata e vio-lentata per esercitare una propaganda di basso, scarso, infimo livello, per proteg-gere l’interesse di quel qualcuno o di quei pochi. Dall’altra parte perché tante, tantis-sime volte è veramente penoso e triste ve-dere tante persone, lavoratori, pensionati, politici, dipendenti pubblici, professori e studenti che sprecano la possibilità di ra-gionare liberamente con la propria testa e che decidono di non leggere più i giornali, non leggere più libri, ascoltare o leggere approfondimenti tecnici di un argomento di attualità. E scelgono invece di affidarsi al Tgcom o allo Studio Aperto nella pausa tra il primo e secondo tempo del film in pri-ma serata per rimanere “informati”. Mah.Allora sprechiamo parole e aria per parlare del secondo uomo più perseguitato della storia, perché il primo è troppo impegna-to a non farsi processare come qualunque altro cittadino (almeno quel diritto lascia-molo ai Signori Onorevoli). Sprechiamo parole per parlare della crisi economica peggiore dal 1929 e dei modi che non stia-mo attuando per poterne uscire il più velo-cemente possibile. Sprechiamo parole per parlare di fantomatici attacchi che una coa-lizione di nazioni straniere, e i loro giornali nazionali, stanno scagliando contro i mi-gliori rappresentanti da oltre 150 anni della nostra povera Italia.Italiani stringiamci a coorte contro il nemi-co che senza alcun rispetto osa attaccarci (là dove ci fa più male).

Diego [email protected]

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Ancora un’altra critica per favore

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Sconfinare - Politica Glocale Ottobre 20096

Questo articolo è una marchetta. Lo dico subito, così ci togliamo il pensie-ro: andate a leggere www.bora.la. E però, se avrete la pazienza di arrivare fino in fondo, forse concorderete che questa marchetta un minimo di senso ce l’ha, perlomeno qui e ora.Bora.la era un blog, che il genialmen-te paranoico Enrico Maria Milic e la sempre adorabile Annalisa Turel- tut-tora direttrice di Sconfinare- hanno pensato bene di trasformare in quoti-diano. Non prima, però, di aver unito le forze con Gorizia Oggi.L’obiettivo, ambizioso quanto si vuo-le, è quello di creare il primo giornale on-line dedicato a queste terre. Ecco, quali terre? Non è una differenza da poco, visto che se qua da noi qualcuno dice doberdan anziché buongiorno, im-mediatamente si attribuisce alla scelta un valore politico. Allora Gorizia sì e Nova Gorica no? Invece ci sono sia Gorizia che Nova Gorica. E poi Lubia-na (Lublijana! taljani fassisti!), Udine, Koper (iiihhh! Capodistria!), Mon-falcone, Rijeka, Klagenfurt, Trieste e tutto quello che ci sta in mezzo. E, quando ci gira, facciamo pure un sal-to in Macedonia o in Baviera. Saremo mica comunisti? Saremo mica titini? E le foibe, eh, cosa ne pensiamo delle foibe? Perché si sa che, qui, i Quaranta Giorni sono il metro di tutto. S’ciavi contro taljani, fassisti e comunisti, pa-sta vs cevapcici. I campioni del mondo siamo noi, poporopopo. Ecco, cordialmente, vaffanculo. Po-tremmo dire che la nostra linea edito-riale si riassume in questa meraviglio-sa parola: vaf-fan-cu-lo. Le quattro sillabe della felicità. Il nostro direttore si chiama Enrico, come l’eroico Toti. E però di cognome fa Milic, che non rimanda proprio al dolce stil novo. Cos’è, italiano o sloveno? Chissene-frega. Sono astrusità, elucubrazioni, insicurezze esistenziali.L’idea di fondo del sito è quella di concepire tutte queste terre come un insieme in relazione, giusto per non essere retorici. Il confine è solo una li-nea tracciata su una cartina, e grazie a dio adesso li stanno tirando giù. Resta-no, eccome se restano, delle frontiere mentali ben incancrenite. E’ essenzial-mente contro di loro che si rivolge il nostro lavoro. Poi, detto questo, devo pure aggiun-gere che il secondo assioma, tanto im-portante quanto il primo, è la massima libertà: sia per gli autori degli articoli che pubblichiamo, sia per i lettori che scelgono di commentarli. Non c’è nes-suna forma di censura, se non per i

Piccoli Sconfinati cresconowww.bora.la: è online il nuovo

quotidiano euroregionalemessaggi apertamente violenti. Ecco, è capitato che qualcuno proponesse di bombardare Lubiana per convince-re il governo sloveno della bontà del rigassificatore. Il Gandhi in questione non è stato pubblicato, ma rappresenta un’eccezione. Cosmopolitismo e massima libertà, in-somma. E anche, con un po’ di presun-zione, la voglia di approfondire temi su cui, spesso, i media locali passano un po’ troppo in fretta. Ci piacereb-be svolgere delle inchieste, andare in giro, fare domande, rompere le balle. E poi pigliare per i fondelli chi si prende troppo sul serio. Parlare delle attività culturali. Dare spazio agli scrittori, ai musicisti, agli attori, a chiunque senta di avere qualcosa da dire. Creare un contenitore dinamico e caotico. Ci piacerebbe, non è detto che ci ri-usciremo. Siamo all’inizio, bisogna avere un po’tutti pazienza. I problemi non mancano, a cominciare dalla cas-sa che piange come un bimbo di due mesi, o dall’organico necessariamente limitato. Noi ci proviamo. Que sera sera e speriamo che, alla fine, ne sarà valsa la pena. Come nota a margine, e per dare un po’ di senso a tutta la marchetta, lasciate-mi ricordare il legame strettissimo che esiste fra Bora.la (il “la” sta per Laos, giuro che non è uno scherzo) e Scon-finare. Le due realtà editoriali sono nate praticamente in contemporanea, su impulso di persone che nemmeno si conoscevano, pur condividendo molti degli obiettivi di partenza. Era naturale che la collaborazione si intensificasse. Di Annalisa s’è detto. Davide Les-si, uno dei tre fancazzisti che hanno concepito questo giornale, oggi è una delle anime della redazione triestina di Bora.la. Rodolfo Toè, satrapo della musica e recordman per numero di ar-ticoli pubblicati su Sconfinare, non fa mai mancare il suo pezzo on-line set-timanale. E poi contribuiscono a vario titolo Emmanuel Dalle Mulle, Michela Francescutto, Davide Goruppi, Luca Gambardella, Francesco La Pia. Tutti sconfinati della prima redazione ora sparsi per l’Europa. Piccoli rompiballe crescono.Un’ultima cosa: non cerchiamo solo lettori, ma anche autori, fotografi, di-segnatori e idee: chiunque fosse in-teressato, batta un colpo a [email protected] o [email protected]. Grazie. Mandi mandi.

Andrea [email protected]

Quest’estate, 7 comuni d’Italia (Castel-delci, Maiolo, Novafeltria, Pennabilli, San Leo, Sant’Agata Feltria e Talamello) sono riusciti ad ottenere quello che tanti ave-vano bramato ma che nessuno aveva mai ottenuto: la secessione. Il 29 luglio scorso, infatti, il senato ha approvato in seduta deliberante il Ddl che ha sancito il pas-saggio dell’Alta Valmarecchia in Emilia Romagna. Val …che? VALMARECCHIA: è una vallata dell’Italia centro settentrio-nale, che scende dall’Alpe della Luna, in Toscana, divisa nella parte centrale dalle Marche,ed arriva fino al mare Adriatico presso Rimini. O almeno così è stato fino a poco tempo fa. Tutto incominciò quando il “comitato per la Valmarecchia unita in Emilia Romagna” riuscì a riproporre ai set-te comuni sotto le Marche il referendum – che ha avuto luogo il 17 e 18 dicembre 2006 – circa il passaggio di tutta la valla-ta dalla Provincia di Pesaro ed Urbino alla Romagna. L’83,91% dei votanti si espresse favorevole all’annessione. E si può facil-mente capire il perché, vista la distanza geografica dal capoluogo, Pesaro. Posso io stesso testimoniare che, utilizzando le strade provinciali, il tempo di percorrenza per il tragitto Pesaro – Pennabilli è di circa 2 ore!Fortunatamente la mia era una gita di piacere ma chiunque altro avrebbe seri problemi se per necessità lavorative o di servizi dovesse recarsi frequentemente a Pesaro. E Rimini è lì a soli 30 minuti di di-stanza … il piatto della bilancia non poteva che pendere a favore dei favorevoli. Da ciò nascono altre opportunità - come la possi-bilità di poter usufruire di servizi sanitari superiori più prossimi - ma anche di natura economico. La provincia di Rimini, di re-cente creazione(1992), ha avuto fin ad oggi un territorio molto ridotto, occupato per la maggior parte dall’hinterland costiero. L’aggiunta dei sette comuni, nuovo ed ago-gnato entroterra, non può che invogliarla a spostarvi i suoi investimenti, soprattutto a livello turistico, contrariamente alla pro-vincia marchigiana che deve spalmare i suo fondi su un entroterra ben più vasto. Ovviamente, i pareri delle giunte delle 2 regioni non potevano che essere completa-mente opposte: tanto l’Emilia-Romagna si è dimostrata entusiasta e sicura ad accet-tare l’annessione, quanto le Marche sono state titubanti e poco convinte nel rifiutare la secessione. Anche le motivazioni di tale rifiuto sono state alquanto misere e poco sostenute. La difesa dell’unità del territo-rio storico del Montefeltro non ha sortito alcun effetto - neutralizzato dalle contro risposte di coloro che sostengono che non solo la vallata del Marecchia, ma tutto il Montefeltro fosse da sempre storicamente Romagnolo – mentre la difesa del delicato

equilibrio economico è stato quasi del tut-to ignorata. Infatti, agli abitanti dei Sette l’idea di diventare l’unica fonte di turismo culturale del riminese fa troppo gola. Ma è proprio questo equilibrio che rischia di essere rotto: la mancanza di un turismo culturale locale che potesse coprire i gior-ni di mare “sprecati” per colpa del cattivo tempo, spingeva le agenzie turistiche del riminese ad organizzare eventi e gite nella provincia marchigiana. Ora con la molto probabile attrazione di questo genere di “tappabuchi” verso la sola Valmarecchia( ricca di magnifici paesaggi, paesini storici e rocche medievali) si rischia di assestare un grave colpo al turismo prevalentemente culturale di Pesaro ed Urbino. Il 6 maggio di quest’anno la camera ha approvato il disegno di legge con la successiva appro-vazione del senato. Così, il 3 agosto 2009 i sette comuni dell’Alta Valmarecchia hanno segnato una parte importante nella storia della“Questione dei confini regiona-li”, fenomeno che coinvolge da tempo or-mai tutta la Penisola. Le prime avvisaglie si ebbero negli anni ’60, con il rientro di Trieste all’Italia e la formazione della Re-gione “Friuli-Venezia Giulia”. Nel proget-to di creazione di una provincia del Friuli occidentale, infatti, il comune di Pordeno-ne coinvolse i comuni del mandamento di Portogruaro - parte storica del Friuli - ma, sebbene la provincia di Pordenone nacque, per il Portogruarese non si ottenne alcun risultato . Ciò fu dovuto fondamentalmente a causa delle scelte del parlamento, desi-deroso al più presto di istituire la nuova regione ed accantonare, inoltre, un iter legislativo come quello del passaggio di regione,ancora non ben disciplinato. La questione restò così assopita fino agli anni ’90, quando nella zona iniziarono a formar-si i primi comitati popolari che chiedevano l’annessione al Friuli-Venezia Giulia. Da quel momento, la questione prese piede e si diffuse in tutta Italia, andando ad interessa-re altre aree, come quella Dolomitica (con il caso di Cortina d’Ampezzo e i Comuni ladini confinanti). Ma l’art. 132, comma II della Costituzione – che dal 1970 disci-plinava la materia - rendeva praticamente impossibile il cambiamento: prescriveva, infatti, che il Comune, o i Comuni interes-sati, producessero una delibera con la quale richiedere l’indizione del referendum, cor-redata da un numero di delibere comuna-li e/o provinciali interessate di entrambe le regioni e rappresentanti un terzo della popolazione regionale. Solo in seguito, si sarebbe tenuto il referendum in entrambe le regioni. Nel 2001 si ebbe , per opera del governo Amato, la riforma del titolo V del-la Costituzione, comprendente anche l’Art 132. D’ora in avanti è necessaria per l’in-dizione del referendum la sola “approva-zione della maggioranza delle popolazioni della Provincia o delle Province interessate e del Comune o dei Comuni interessati”. Si ha avuto così negli ultimi anni il fiorire di un gran numero di Referendum, alcuni approvati ed in attesa dell’adempimento dell’iter istituzionale, come Carema e Noa-sca( dal Piemonte alla Valle d’Aosta), altri invece respinti, come Leonessa (nel La-zio). Il comitato per la Valmarecchia unita in Emilia Romagna può ritenersi dunque ben soddisfatta del suo primato.

Tommaso [email protected]

La Secessione

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Sconfinare - Una Estate all’Estero2009 Ottobre 7

Il SID si impone a TunisiCorso di arabo presso l’Istituto Bourguiba

Come una sorpresa, quella di Tunisi è stata un’esperienza nata all’ultimo istante. Un giro di voci incredibile che ha riempito l’estate di tre sidini che a maggio anco-ra tentennavano sul da farsi estivo. Già, perché il problema è che da noi vi è una concorrenza tale che certe opportunità non circolano, se non negli ambienti massonici del Polo Universitario goriziano. Per for-tuna, Maestro Natta si è invece adoperato nella ricerca di buoni e giusti discepoli da portarsi dietro. A partire dal veterano Buo-nerba, che già presagiva un ritorno nella terra dei suoi nonni. Ma anche dall’orien-tale Codeluppi, che lo studio dell’anarchia ha istruito alla partecipazione. Ma anche alla fuga, già che, nello spavento che il suo studio provocasse movimenti fascisti e ronde emiliane, ha abbandonato il Paese dalla mezza luna. Terra di socialisti quella, non di anarchici. Allora meglio difendere il proprio bastione emiliano e lasciare al Veneto voce in capitolo. E che voce ha por-tato Fiamengo, con il suo carico di… beh, diciamo che il cambio ci è dispiaciuto per Miss VC. ma ci è piaciuto per Miss GF. con tutto il suo carico di italianità. Statistiche alla mano, Jesolo ha avuto un calo netto del

3% contro un aumento del turismo in Tu-nisia. Se Maometto non va da Giorgia … (abbiamo scoperto che questo modo di dire non esiste nei Paesi arabi … mah!). Man-ca un personaggio nella nostra storia ed è Terrona. Già, la fedele jeep che ha accom-pagnato i tre naufraghi in giro per un mese e per 4.000 km al totale. Che ha attraver-sato i mari Mediterranei con molte ore di nave e con molti bolli, timbri tunisini e un affondamento nella sabbia. Tutto il resto? Beh, tutto il resto è forse storia troppo lun-ga da raccontarvi, troppo piena di dettagli da ricordare, troppe impressioni ma soprat-tutto troppe cose che, se non vissute lì in quel contesto, sono incomprensibili per chi ci legge. E’ oramai un mese e mezzo che ricordiamo quei momenti di ilarità, nella incomprensione di chi ci ascolta.Non ci resta quindi che farvi un quadro il più oggettivo possibile dell’esperienza ed invitarvi a consultare il sito www.iblv.rnu.tn . L’Istituto Bourguiba organizza corsi di lingua araba durante l’inverno (in sessioni trimestrali) e durante l’estate (con corsi in-tensivi di un mese, luglio ed agosto). Questi ultimi prevedono lezioni 5 giorni a settima-na per cinque ore quotidiane per un totale

E’ Febbraio, piena estate nell’altro emisfe-ro quando arrivo a San Paolo. Passare dalla sciarpa di lana alle infradito in meno di 24 ore non è l’unica cosa a lasciarmi basito. Il profumo di San Paolo mi investe dall’ar-rivo in aeroporto: è intenso, caldo, avvol-gente è… di America Latina. Un misto dolciastro, ma allo stesso tempo acidulo, di banana, ananas, muschio, sudore, smog e urina. E’ ovunque, è penetrante, è tota-lizzante eppure sembro essere l’unico ad accorgemene. Credo che sia come l’odore della propria pelle: solo il naso altrui lo può percepire e anche io mi sarei assuefatto all’olezzo di SP in meno di una settimana. Diciotto milioni di persone abitano questa metropoli senza limiti né proporzioni. Ed è proprio questa mancanza di misura a la-sciare spaesato chi si confronta con la città. SP è la prova vivente della teoria della re-latività in cui lo spazio e il tempo si dilata-no. Per arrivare in facoltà devo combatte-re con metro e bus per il centro, quasi tre ore di lotta contro il rush hour delle sette del mattino. Il quartiere in cui vivo e stu-dio è Higienópolis e solo dal nome – città dell’igiene – si può capire quale sia il livel-

lo medio del vicinato. A Higienópolis ci sono più parrucchieri per cani che per persone, ci sono più piscine che fermate dell’autobus, ogni palazzo re-sidenziale ha la sorveglianza 24/7, la FAAP – università privata dove studio – è vigilata da security ad ogni entrata e vi si accede solo con una tessera magnetica personaliz-zata. Decido di uscire da questa bolla pro-tetta per addentrarmi nel cuore della città, in quello che viene chiamato il centro – ammesso che se ne possa veramente iden-tificare uno. La Paulista, avenida di tre chi-lometri e cuore finanziario della capitale, è una serpentone di traffico, che si divincola

tra due interminabili pareti di grattacieli in cristallo. Una competizione di mega-lomania architettonica in un crescendo continuo, di dimensioni, forme e sfida alla statica. Poco distante il centrão dove svet-ta l’edificio Italia con i suoi trentasei piani di cemento. Deludendo il mio patriottismo non si tratta del grattacielo più alto della città ma la vista dalla terrazza panoramica del 36° è mozzafiato (vedi foto). Dall’alto SP è una selva illimitata di grattacieli che arriva fino all’orizzonte in ogni direzione, letteralmente non ha fine. Ma basta fare una fermata di metro per vedere la città denudata, nelle sue contraddizioni: nella 25 de Março una folla di ambulanti ven-de dvd masterizzati, computer e materiale informatico di dubbia provenienza, vestiti di carnevale, cocco fresco ed ogni tipo di ciarpame e droga che alimenta il mercato parallelo. Qui il clochard dorme all’ingres-so dei grattacieli, il venditore fugge dai

poliziotti, i prezzi si contrattano fino all’ultimo centesimo e nessuno ci si avventura a cuor leggero di notte. E poi c’è il lato B della città, quello che non appare nelle cartoline, quello che l’opulento busi-ness man evita, quelle che il turista prefe-risce non fotografare: la favela di SP. Mi addentro nell’avenida M’boi Mirim, in cui giungo dopo due ore e mezza di autobus da casa mia. Qui mi permetto di entrare solo perché sono accompagnato da un residen-te, uno dei tanti che lotta per sopravvive-re in una società che vorrebbe scartarlo. Il suo appartamento intero costa un terzo della stanza che divido con un francese, la

pizza più cara della favela costa meno del-la margherita di Higienópolis. E’ un altro mondo, mai così vicino e mai così lontano dalla città. E’ un universo parallelo tanto evidente quanto ignorato: Paraisópolis, la maggior favela della città è esattamente in mezzo all’Ipiranga, uno dei quartieri più ricchi di SP (secondo solo al Morumbi). Ed un muro alto tre metri recinta e separa fisicamente e socialmente questi due mon-di. A Jardim das Flores (Giardini dei Fiori) la maggior parte dei residenti è di colore e lo schema della città è totalmente diverso. Non ci sono grattacieli rutilanti, ma piccole casine ammonticchiate senza alcuna logi-ca urbanistica che si inerpicano sulle col-line attorno al lago del Guarapiranga. La favela di distingue perché gli edifici non sono intonacati ma i portanti in cemento armato e i mattoni da costruzione sono a vista, le finestre sono prive di imposte e le porte sono scrostate. Le stradine che sal-

gono tra le case sono costellate di vecchi garage riadattati a chiese evangeliche in cui i pastori gridano al megafono e le folle in trance, accompagnano con gran “Alle-luia” e “Sia lodato l’Altissimo” in una gara a chi si sgola di più. Non si ha nemmeno l’impressione di stare in una delle maggio-ri metropoli della Terra, in questi quartieri in cui tutti, dal panettiere al meccanico, si conoscono e si salutano per nome, in cui i bambini giocano scalzi per strada con pal-loni improvvisati, in cui i cani si azzuffano e le fogne scorrono a cielo aperto. Ma la cosa più agghiacciante non è lo squallore o il sudiciume, ma sono i racconti dei volti

O meu Brasil brasileiroSP dalla Paulista alla favela

che animano questo mondo derelitto. Dopo aver pernottato una notte in una stanza con la muffa alle pareti, mi alzo ed incontro una cugina della mia guida che mi chiede se sono stato disturbato dalla sparatoria della notte precedente. Fortunatamente il mio sonno è pesante ma sul marciapiede di fronte casa non posso fare a meno di notare la pozza di sangue che la prossima pioggia avrebbe lavato. Uno dei tanti morti viventi della città, che aveva peccato di tracotanza contro i trafficanti, ed aveva pagato il suo conto con i Signori della favela. Aspetta-vano solo di beccarlo alla sprovvista; poi nove colpi di pistola, tutti e nove in testa. E la cosa che più mi lascia turbato è che me lo raccontino come io potrei parlare della ultima serata al cinema; alla fine per loro si tratta solo di storie di vita quotidiana. Ogni dettaglio, ogni racconto si fa sempre più raccapricciante quando il narratore non sembra sconvolto dall’atrocità di quello che dice. Una ragazza mi confessa di es-sere rimasta incinta. Ha venti anni, è disoc-cupata e studia teatro, non ha le condizio-ni e non desidera avere questo bambino. In Brasile tuttavia l’aborto è illegale ed è anche reato. Lei mi parla dell’esistenza di alcune pillole che si comprano al mercato nero per 400 réis al paio (circa 150 euro). Bisogna prenderne per via vaginale solo una – raddoppiare la dose sarebbe letale – ed attendere a gambe all’aria fino alle prime perdite di sangue. Io resto allibito dalla descrizione di questa pratica a metà tra medicina e macumba ma non esistono alternative. La ragazza scompare per due giorni per andare da una mammana, nessu-no sa dove e nessuno sa come stia. Per tre volte tenterà questa ed altre operazioni fino a procurarsi un’infezione vaginale. Ma di andare in ospedale non se parla, se il medi-co si accorge che si è tentato un aborto ille-gale la polizia la deve arrestare. E nessuno vuole avere a che fare con la Polizia Fede-rale in Brasile. SP è fatta così, è l’apoteosi della contraddizione, l’iperbole della spe-requazione sociale, nulla in città può avere misura: il ricco è ricchissimo e il povero poverissimo, gli appartamenti o sono attici o sono porcili, il supermercato o carissimo o a buonissimo mercato, i bar o pienissimi o vuotissimi… perfino il discreto a SP deve essere ‘discretissimo’. Che parte della città vogliamo vedere, il lato A – delle banche e dei grattacieli con l’eliporto – o il lato B – delle favelas e degli emarginati – è una scelta tutta nostra.

Francesco Gallio [email protected]

di 105 ore mensili. All’arrivo all’Istituto si paga il corso, che è intorno ai 250 euro, si fa il test per essere posto in uno dei livelli di lingua araba e si decidono eventuali atti-vità pomeridiane che l’Istituto offre in più a costi ridotti (ad es. musica, teatro, cine-ma, dizione o laboratorio di lingua). Inol-tre, l’Istituto cerca di venire incontro il più possibile alle esigenze degli studenti orga-nizzandone la ricezione o in famiglie tuni-sine altrimenti in residenze universitarie sempre ben collegate al centro della città. Come potete ben capire, le due soluzioni hanno vantaggi e svantaggi da ponderare in base alle proprie necessità. I costi, anche in questo caso sono molto bassi e la famiglia offre anche colazione e cena (molto pic-cante!). Alla fine del corso, vi è un esame di produzione e comprensione orale e scrit-ta, con conseguente rilascio di diploma. E premiazioni per i migliori delle rispettive classi (ringraziamo Giorgia e Michela per averci provato, ma Alby e Edo salutano da-gli specchietti!). Bisogna sottolineare altre due cose importanti: l’Istituto organizza anche visite guidate ai vari siti di interesse del Paese. Il nostro consiglio però, avendo vissuto l’esperienza, è di organizzarsi in-

dipendentemente e di affidarsi alle agenzie al massimo per il solo giro nel deserto. Se possibile, organizzandosi in anticipo, vi potete portare la macchina (navi da Ge-nova, Roma o Trapani e forse altri porti) che, a livello di costi, eguaglia l’aereo e lo sbattimento del viaggio è compensato da un mese di divertimento. In secondo luo-go, comunque bisogna far presente che il costo di un corso estivo o di uno trimestra-le invernale è lo stesso!!! Quindi, se avete tempo, voglia e disponibilità… Infine, last but not least, stiamo portando avanti una richiesta in Consiglio di Facoltà per poter concludere un accordo tra Università e Isti-tuto Bourguiba per stanziare qualche borsa specificatamente per studenti SID. Ma di questo, vi aggiorneremo più avanti (Inshal-lah!). Per ulteriori informazioni, non esita-te a contattarci.

Edoardo [email protected]

Alberto [email protected]

Giorgia [email protected]

Jardim das Flores e favelas della zona Sud

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Sconfinare - Una Estate all’Estero Ottobre 20098

Dal 25 luglio al 10 agosto, ho avuto l’entu-siasmante opportunità di partecipare all’In-ternational Institute for Political & Econo-mic Studies (IIPES), in Grecia. L’istituto, frutto della collaborazione tra il TFAS (The Fund for the American Studies), la GAA-EC (Greek Association for Atlantic & Eu-ropean Cooperation) e l’università ame-ricana di Georgetown, di Washington D.C., è un esperimento avviato e giunto ormai alla sua 14 edizione, riscuotendo sempre maggiore successo agli occhi degli organizzatori.I partecipanti, una ottantina di ragazzi provenienti da ventuno paesi (Albania, Bosnia Erzegovina, Bulgaria, Croazia, Cipro, Egitto, Repubblica di Macedo-nia, Grecia, Israele, Italia, Giordania, Kosovo, Libano, Montenegro, Palesti-na, Romania, Arabia Saudita, Serbia, Siria, Turchia e Stati Uniti), hanno tra-scorso due settimane vivendo un’espe-rienza unica che difficilmente potran-no dimenticare. Ospiti del MAICh, un campus di agraria europeo incredibil-mente all’avanguardia, con campi spor-tivi, dormitori, numerose aree di svago e aule attrezzate per iniziative conferen-ziali, è stato a nostra disposizione du-rante le attivitá di questa summer scho-ol, alle porte della seconda cittá cretese di Chania. Sorprendentemente coinvol-genti le lezioni cui abbiamo preso par-te, che hanno toccato quattro discipline: Intellectual History (la storia interpretata dagli scritti e le idee di alcuni grandi per-sonaggi), The Good Society (filosofia con l’analisi di testi dei grandi pensatori da Pla-tone a Tocqueville), Political Economy e Conflict Management. Ovviamente tenute in inglese, sono rimasto positivamente col-pito dai professori, tutti americani: il me-todo di insegnamento trascinante e l’alta partecipazione richiesta durante le lectures hanno cancellato l’iniziale paura di affron-tare per la prima volta lezioni universitarie in lingua straniera: specialmente quelle di economia, verso le quali nutrivo profonde preoccupazioni non avendo mai affrontato un corso di inglese economico (le mie co-noscenze si fermavano a demand e supply), sono state tra le più seguite e le più interes-santi: il giovane professore Rotthoff ha, in una settimana, affrontato le basi della ma-cro economia che avevo precedentemente trattato in un anno di corso a Gorizia: la chiarezza delle spiegazioni, la passione e la disponibilità del professore ci hanno permesso non solo di capire con facilità argomenti per alcuni ostici, ma ci hanno spronato a “divorare” i readings consiglia-tici e spronare il professore a tenere una lezione aggiuntiva unicamente rivolta alla crisi finanziaria. La disponibilità dei pro-fessori si è tradotta, in molti casi, in veri e propri rapporti di stima e amicizia: non è raro, aggirandosi per il MAICh, notare i professori seduti a cena con gli studenti, di-scutere insieme davanti ad una birra o, per-ché no, chiacchierare in spiaggia o sfidarsi in estenuanti partite a tennis. Tutto questo ha contribuito a rendere l’apprendimento (che, per quel che mi riguarda, è stato pro-fondo e inaspettato) piacevole e attraente. L’interesse non è mai mancato, e molto è stato fatto per il coinvolgimento di noi stu-denti: intere ore di lezione erano dedicate a discussioni fra noi, e l’intreccio di culture e storie differenti ha reso il confronto con i miei coetanei di una rarità e straordinarietà

unica. Sedere nella stessa aula con israe-liani e palestinesi, serbi e kosovari, mi ha fatto sentire veramente “cittadino del mon-do”, e ho potuto toccare con mano storie, conflitti, racconti con i quali ero abituato a confrontarmi nei giornali o nei libri. Du-rante il corso di Conflict Management ci

siamo divisi in gruppi per analizzare, in un esercizio di simulazione, le possibili con-seguenze che un Pashtunistan indipendente (comprendente l’area di etnia Pashtun, tra Afghanistan e Pakistan) avrebbe portato all’equilibrio geopolitico mondiale. E’ fa-cile immaginare la tenacia e la passione con cui abbiamo, internet sottomano, dife-so il nostro punto di vista nell’arena finale.

Come ogni serio programma di studi che si rispetti, al termine delle due settimane abbiamo affrontato degli esami sul lavoro svolto nelle quattro discipline. Il risultato dei test (tutti a domande aperte) può fornire crediti elargiti direttamente dalla università di Georgetown, oltre che il più facile ac-

cesso agli altri progetti gestiti dal TFAS. Le domande di ammissione per questo e per gli altri programmi organizzati dal-la fondazione sono, infatti, abbastanza impegnative, e nel mio caso compren-devano oltre a curriculum, lettera di motivazione e certificato attestante la buona conoscenza della lingua inglese, un commento ad un articolo economico ed un colloquio telefonico di 5 minuti. La particolarità che fanno di questo programma il punto di forza e l’eccezio-nalità è, certamente, la variegata prove-nienza dei partecipanti e il multicultura-lismo. Unico rappresentante italiano (e dell’ovest europa), ho assistito e parteci-pato ad incredibili (e pacifiche) discus-sioni tra ragazzi israeliani e palestinesi, pur non mancando momenti di attrito. In particolare, mi preme ricordare un avve-nimento che difficilmente scorderò: il litigio tra una ragazza kosovara, Fjolla, e un ragazzo di Belgrado, Vojimir, ini-ziato tra i banchi durante la lezione e proseguito furiosamente nella hall del campus. Sotto gli occhi sbigottiti dei

ragazzi americani, che gettavano occhiate di palese incomprensione notando “quan-to incasinato fosse il vecchio continente”, i due ragazzi si davano battaglia riguardo la legittimità o meno dell’indipendenza kosovara. Il momento più emozionante è però stato, ai miei occhi, l’immagine del ragazzo serbo visibilmente sconvolto ti-rato in parte e consolato niente di meno

che dall’amico croato, seppellendo così odi antichi di guerre passate. I momenti di apprendimento non si sono limitati alle lezioni in programma: abbiamo ricevuto importanti ospiti che ci hanno intrattenuto con interessanti conferenze, a partire dal portavoce del governo greco, la speaker della camera ellenica del principale par-tito d’opposizione, l’ambasciatore serbo a Parigi e una giovane dipendente delle pubbliche relazioni della NATO slovacca. Merita una parola anche l’ambiente che ha ospitato l’esperienza: oltre alla cittadina di Chania, a ridosso della quale alloggia-vamo, (seconda città di Creta che mi ha colpito per la vivacità e la bellezza, meta dei nostri svaghi notturni), i week end li abbiamo trascorsi a scoprire le meraviglie dell’isola greca, a partire da Heraklion e il sito archeologico di Cnosso, fino alla favo-losa spiaggia di Elafonisis, con un viaggio di due ore interamente organizzato da noi studenti ripagato con gli interessi dalla sab-bia dorata e il mare caldo e cristallino di una delle migliori località balneari di tutta la Grecia. L’esperienza ovviamente non termina allo scadere delle due settimane: oltre al bagaglio di conoscenze che indub-biamente ha portato, i numerosi contatti di amici da ogni dove sono senza dubbio tra gli aspetti più entusiasmanti del program-ma. Si entra, inoltre, nella grande famiglia degli alumni, con l’obiettivo di mantenere una vasta rete di contatti tra partecipanti e organizzatori. Probabilmente non sono riu-scito a descrivere in queste righe cosa l’II-PES sia realmente e cosa abbia significato emotivamente per il sottoscritto. Credo che per chiunque voglia cimentarsi in un espe-rienza formativa e multiculturale, resti una sfida verso cui lanciarsi senza timori.

Matteo Lucatello [email protected]

www.matteolucatello.it

International Institute for Political StudiesChaina, Creta

Parto da un’idea e da una premessa. L’idea: chi fa volontariato lo fa prima di tutto per sé, altro che filantropismo. La premessa: per uno che a malapena sa gestire una ragazza, trovarsene cin-que da coordinare è sfida ardua. Ecco, ora, scolastica-mente. Due settimane della passata estate le ho trascorse in una comuni-tà per tossicodipendenti e alcolizzati. L’occasio-ne me l’ha data lo SCI, acronimo di “servizio civile internazionale”, da non confondere con l’omonima attività dello stato italiano. Lo SCI è più datato del “servizio civile” e non dura 9 mesi: la sua storia inziò al termine della I guerra mondia-le, quando un certo Pierre Ceresole, amico di Gandhi, decise di far qualcosa affinché amici ed ex-nemici potessero riconciliarsi e lavorare insieme per la pace. Il primo campo di lavoro interna-

“Posso essere perplesso se chi fa il volontario ci guadagna un salario”

Non se incassa (solo) il suo amor proprio, senza obrobrioL’esperienza di un campo di lavoro con il Servizio Civile Internazionale (SCI)

zionale, organizzato a Verdun, in Fran-cia, prevedeva la partecipazione di due volontari tedeschi. Dopo cinque mesi, parte della popolazione locale chiese di allontanare gli ex-nemici. Fu un

fallimento. Noncurante della débacle, Ceresole, da buon karma-yogi, conti-nuò a promuovere workcamps in cui partecipavano volontari provenienti da paesi diversi. Più forte del nazionali-smo imperante nei ’30, il movimento

si espanse fino al 1939. Con lo scoppio della II guerra mondiale fu costretto a cessare le sue attività, continuando però in molti paesi ad esistere clan-destinamente e ad organizzare attività

per i rifugiati e gli ebrei. Dopo il ’45 ci fu una nuova espansione, tanto che, dopo il ’48, si trava-licarono i confini europei. Anticipatore dei tempi nel riavvicinamento est-ovest, lo SCI pianificò, già negli anni ‘50’, i pri-mi workcamps in Polonia e in altri paesi dell’URSS. All’opposizione col ne-mico si preferì il contatto con il diverso, il lavoro fianco a fianco, per il pro-seguimento di progetti d’utilità sociale.

E così avanti, passando per il Vie-tnam, allargandosi i propri programmi all’Africa, fino ad arrivare al 2009. A me e a quest’estate, che poi è di questo che dovevo parlare.(CONTINUA A PAG. SEGUENTE)

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Sconfinare - Una Estate all’Estero2009 Ottobre 9

[Da leggere ascoltando Tocotronic - Schatten werfen keine Schatten]

Sono arrivato a Berlino sicuro che il tempo che ci avrei trascorso mi avrebbe di sicuro cambiato. Sono partito pensando che qua, dove vi-viamo, nelle nostre piccole cittadi-ne, siamo ombre e che le ombre non gettano altre ombre. Là ho realizza-to che, in una metropoli che è una piccola città, le persone, per quanto siano chiuse, grigie e fredde, ti ri-mangono nel cuore, anche se non le hai mai conosciute, perché ti illumi-nano. E le ricordi per i loro sguar-di. Sguardi di gente selvatica, come quella città dove le volpi, la notte, escono dai parchi in cerca di resti degli ultimi kebab mangiati prima di rincasare, poco prima che il sole

Il workcamp “La Genovesa” si è svol-to a Verona, località Genovesa, dal 12 al 26 luglio. La mia è stata una non scelta. Il pensiero era chiaro: semmai avessi deciso di coordinare un campo lo avrei fatto nel centro-sud d’Italia, ché per motivi di nascita-residenza-studio, ero stufo di quell’angolo chia-mato Nordest. Alla fine dell’incontro di formazione tenutosi a Bologna, uno dei formatori mi aveva proposto una serie di progetti. Di questi, uno aveva colto subito la mia attenzione: località Isola delle Femmine, regione Sicilia. Femmine e Sud: perfetto! Naturalmen-te le date non ci azzeccavano con i miei impegni universitari. Poi, qualcuno mi disse: “A Verona senza responsabile il campo non parte, pensaci bene…”. No, se ci avessi pensato bene, il cam-po non l’avrei fatto. A fine giugno, da Roma, mi avevano comunicato che i volontari iscritti erano cinque. Tutti con un segno destintivo: il sesso fem-minile. E, qui torno alla premessa. Ora, non vorrei sembrare maschilista o ancor peggio misogino, ma per coordinare un campo di sole donne ci vuole un po' d’incoscienza. Senza pensarci più di tanto, ma tenendomi continuamente - ma invano - informato con la segrete-ria romana, sull’iscrizione di nuovi vo-lontari (maschi, il numero massimo di femmine era stato ben che raggiunto), ho deciso di intrapendere questa sfida. Vivere in comunità prevede un diffi-cile adattamento ai tempi della stessa. Tranne per la colazione, posticipata di mezz’ora, rispetto a quella dei ragazzi in terapia (alle 7.15), orari di lavoro, pause, pranzi e cene sono ritmati dalla campanella della comunità. Quanto al lavoro, siamo stati impegnati in tutte le attività portate avanti dalla comunità: mantenimento della struttura d’allog-gio, raccolti nelle serre di agricoltura biologica, pulizia delle gabbie e nutri-mento animali nella fattoria didattica. Per uno del nordest – ma, a quanto pare, anche per le volontarie dell’est- non è stato immediato capire che l’efficienza nel lavoro doveva lasciare il passo alla pazienza e all’entusiasmo da riversare sullo stesso: i ragazzi della comunità lavorano con propri tempi, cercando di limitare gli sforzi il più possibile, e hanno bisogno di nuova energia e nuo-vi stimoli più che di lavoratori capaci. “Riappropiarsi della lentezza”, ne farei uno slogan stile slow food. Ah, se solo avessi il tempo. Vivere in comunità prevede anche il rispetto di regole ferree. Per uno sre-golato – ma a quanto pare anche per le volontarie dell’est – era neccessa-rio stemperare la tensione dei vincoli stringenti. Così, come avviene in ogni workcamp, non sono mancati i giorni liberi. “Oh Venice” dicevano sognanti le volontarie, e via le porti a San Mar-co, “Oh Romeo..” e vai con loro a visi-tare il centro della città scaligera, “Oh, too much work” e vai a riposarti sul lago di Garda o alle terme di Caldiero.

Eine Wiederholung genen das VergessenRicordi di un’estate passata a Berlino

sorga. Sguardi di chi vive come aveva sognato di vivere quando era ragazzo: un poco sopra le righe, un poco oltre le proprie possibilità, ma felice. Sguar-di pieni di respiro, come questa città che mi ha colpito fin dall’ inizio, che mi mancherà e che non ritroverò facil-mente altrove. Una grande città, pochi alti palazzi, molto verde. Non c’è un centro oppure ce ne sono molti: ogni quartiere è realtà a sè cosicché quando sei a Prenzlauerberg non puoi confon-derti con Kreuzberg, Wedding o Mitte. Ogni quartiere con la sua personalità, uno Stimmung per ognuna di queste piccole cittadine: così quando giri per questa città non ti rendi conto di essere in una metropoli, non fosse per la U-bahn, le grandi distanze e la gente che la popola.Berlino d’estate è bella: si camminano

Insomma, c’è stato anche tempo per la conoscenza reciproca per l’intessitura di quei rapporti che poi come fili ti le-gano ad ogni angolo d’Europa, e oltre.E qui torno all’idea di partenza. Un campo di lavoro è soprattutto questo: un’opportunità per conoscersi e farsi conoscere. Sentendosi, qualche volta, utili. Imparando altre storie di vita, non per forza sbagliate. Ecco perché penso che parteciparvi sia un atto di egoismo. Sì, un workcamp è qualcosa che ti dedichi, è un atto di volontà per sconfinare quel nulla che permea la “storia infinita” e può impossessarsi di tutti, anche di te.

Davide [email protected]

volentieri le sue strade fino a tardi, si siede nei parchi, tra un grill e un pomeriggio al sole con gli amici, sdraiati a guardare quel cielo che da noi non c’è, a farsi scompigliare i capelli da quel vento che fa pas-sare le nuvole così velocemente come non ho visto da altre parti. E poi tornare a casa, a Kreuzberg, passando accanto agli odori turchi che escono dai baracchini del ke-bab o dai mercati domenicali. La domenica mattina ai mercati delle pulci a cercare qualche curiosità, a fare amicizia con gente che arriva da chissàdove e deve vendere tutto quello che ha per poter acquistare il biglietto aereo di ritorno (chissà da quanto tempo sono in viaggio). E conoscere qualche artista che ha

lo studio nella soffitta di qualche casa da qualche parte a Wedding.I tedeschi di Berlino sanno godersi la vita e noi dovremmo imparare da loro. E loro dovrebbero imparare da noi a ridere: difficile trovare chi, in metro-politana, sia disposto a una chiacchie-rata. Ma verso sera, i berlinesi escono di casa, si comprano un paio di birre al tabacchino, le bevono passeggiando e diventano simpatici.Di loro ho apprezzato la loro tolleran-za, al limite con il menefreghismo, e il loro essere così distanti dal moralismo cattolico che ci attanaglia in Italia. Mi sentivo più libero, più rispettato, più sicuro, senza militari. Con il tempo ho scoperto il loro tipo di moralismo e la loro rigidità nel non accettare chi esce dai loro schemi. Ho scoperto che il Muro è ancora in piedi: tra Ossi e

Wessi, tra gay veri e gay che provano ad esserlo, tra cool e uncool, tra nudisti e vestiti, tra italiani berlinesi e italiani turisti. Per quanto ti facciano sentire straniero però è tutto così familiare.Finalmente in quella città, chi ero? Chi sono diventato? Sono diventato co-sciente, ho alzato gli occhi e il mondo era lì, davanti ai miei occhi.

Alessandro [email protected]

LOKALEN TIPS: Alessandro ha scrit-to anche dei “Suggerimenti pratici e ludici per vivere Berlino”, che potete trovare sul sito di Sconfinare (www.sconfinare.net) digitando nella casella di ricerca del sito “Battiston Lokalen Tips”.

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Ah les italiens… Sono venuto di per-sona, e nel cuore della Francia, per capire che cosa esprime questo rim-provero sospirato, tra l’impaziente e il divertito, che esce spesso dalla bocca dei francesi quando commentano le stravaganze del nostro paese. I primi giorni a Parigi, in piena psicosi collettiva per i pericoli della influenza suina, mi sono ammalato di quella Sin-drome Gaber, che quasi inevitabilmen-te colpisce l’italiano all’estero. «Noi italiani per gli altri siamo solo spaghet-ti e mandolini», e Gomorra e Berlu-sconi. Con gli occhi iniettati di questa certezza, patriota sciovinista come non mi sentivo dalla finale dei Mondiali, ho notato che di cinema e arte italiani si parla moltissimo, come del resto di politica&veline. Tuttavia, se il cugino della penisola viene a trovare la Fran-cia in casa, le provoca grandi imbaraz-zi. La République cerca di ignorare gli eccessi di gridi e risate; previene ogni inconveniente spiegando molto detta-gliatamente in italiano corrente ogni divieto o fatto spiacevole da evitare; tenta di calmare l’ospite tirando fuori dall’armadio tutti i regali che ha rice-vuto da Oltralpe e lo fa gongolare tra Gioconda e Renzo Piano; prova co-munque a fargli capire che dovrebbe andarsene il prima possibile evitando di usare la nostra lingua in qualunque didascalia o annuncio che possa esse-re utile a renderlo meno impacciato al museo o nella metro! Questa prima impressione, è lenta-mente sfumata insieme ai sintomi della mia malattia gaberiana.Primo, perché ho conosciuto un sacco

Ah, les Italiens!Prime irriverenti impressioni da un Erasmus parigino

Ci sarebbero molte cose da scrivere, parlando di un Erasmus. Anche se esso è iniziato da appena tre settimane un mese; ma si sa, il periodo iniziale è sempre quello più ricco di impressioni e emozioni. Potrei fare i soliti pane-girici sull’università estera, sulla sua organizzazione, e ad esempio sugli ottimi mezzi pubblici; ma sarebbe un po’ ripetitivo, e non avrebbe molta utilità per nessuno. Ma come si pre-senta, invece, Vienna ad uno studente straniero? E soprattutto, è una scelta che rifarei?La risposta alla seconda domanda è abbastanza semplice: sì. Giorno dopo giorno, sono sempre più convinto che questa sia la città che rispecchia di più il mio carattere. Ho trovato una città che si muove al mio stesso rit-mo, e questo è importantissimo. Per dire, scordatevi il traffico caotico di Roma, ma anche la metropoli tenta-colare londinese, o le infinite banlie-

di gente, comunque ben più di quel che pensavo, che apprezza davvero l’Italia, chi innamorato dello splendo-re rozzo di Roma, chi della finezza di Venezia o dalla mondanità di Milano. Molti – anche grazie a un nonno italia-no partito all’estero – parlano la nostra lingua e così hanno veramente accesso al nostro paese per la porta principale, e non attraverso il filtro di giornali e televisioni stranieri; che comunque, a quanto pare, non fanno molti danni. Forse anzi aiuterebbero anche noi a capire meglio che cosa succede tra i nostri confini.Secondo, vivendo a contatto con la Francia di tutti i giorni, ci si accorge che non è tutta grandeur quel che luc-cica. Molti sono gli avvistamenti di boeuf francese, anche se normalmente vive chiuso in casa, si ammazza di fa-tica a tifare Équipe de France davanti alla televisione e trova sollievo in una birra fresca e qualche mugugno senza erre. Un Homer in salsa francese. Sua moglie Lucille, intanto, disinfetta la casa con litri di Amuchina: oggi tutti sembrano aver dimenticato la temibile grippe A, il virus mortale H1N1; ma solo fino a due settimane fa la televi-sione mandava a ripetizione uno spot (“les gests de chacun font la santé de tous”) che oltre a entrarmi irrimedia-bilmente in testa, ha fatto la fortuna di quei maledetti gel disinfettanti. Gli affari per la ditta che li produce vanno benissimo, perché ormai il prodotto è entrato nelle abitudini dei consumatori! Che tristezza, poi gli emotivi saremmo noi... “Bastien, dammi una mano a but-tare la spazzatura”: non è raro vedere

mobili e materassi sui marciapiedi, la signora dove abito di raccolta differen-ziata non ha mai sentito parlare. Quel-lo della burocrazia è un altro capitolo, e qui a farne le spese son soprattutto gli stranieri. Iscrizione amministrativa all’università, ab-bonamento della metro, allaccia-mento internet, conto in banca da aprire e casa da trovare. Per avere i primi ser-ve il conto, per aprire il conto è indispensabile un tetto, per avere una casa servono solide garanzie finanziarie: cioè un conto in banca francese. Ah! Per la matematica il sistema è irreso-lubile, per uno studente in Era-smus no. Soluzioni a pagina 17 di que-sto numero. Ognuno di questi passaggi implica ovviamente code agli sportelli, “non ce ne occupiamo noi, si rivolga al piano di sopra”, “manca un documen-to”, “l’ufficio è chiuso rispondiamo solo via mail” eccetera eccetera. Corri, presto, chiude l’uffico! Passo col ros-so al semaforo per i pedoni, dietro una colonna di francesi incravattati, e sen-to, da dietro, la voce dell’unica france-se che si è fermata allo stop: “Ah, les italiens… ils passent toujours avec le rouge…”. Ah, i pregiudizi. L’altra sera ho conosciuto un’americana in parten-za per l’Italia che mi ha detto: “Ho un po’ di paura per la mafia.”Insomma, cari miei, in sostanza sono uguali a noi. Solo che in generale mi sembrano molto meno divertiti, un po’ ingabbiati dal dovere di essere supe-riori, faro di civiltà anche in fila al su-

permercato. La grande e vera differen-za resta comunque l’abilità di questo popolo vedere nella sua Storia un pro-getto, una strada da seguire, condivisa anche se in forme diverse dal Presi-dente come dal panettiere. Noi invece

ce ne freghiamo, forse abbiamo veramente capito che il mondo è un teatrino [Gaber] e che passare il tempo a creder-sela non serve a niente; o forse facciamo di tutto per dimenticare Garibaldi e sia-mo un po’ rimasti al Medioevo dei Comuni, localisti e felici.La missione d e l l ’ i t a l i a n o all’estero resta ardua. Risponde-re tutti i giorni a

domande sull’incomprensibile politica italiana richiede energia e nervi saldi. Parlare gesticolando sotto gli sguar-di divertiti degli stranieri (per la pri-ma volta nella mia vita mi sono reso conto che anche io, e solo noi italia-ni, facciamo il “gesto del carciofo”!). Magari però qualcuno, conoscendoci, imparerà che gli italiani saranno pure ritardatari, urlatori, volgari e berlu-sconiani, ma restano comunque tra i popoli più felici del mondo! Ah les italiens… Sono venuto di persona, e nel cuore della Francia, per capire che cosa esprime questo rimprovero sospi-rato che esce spesso dalla bocca dei francesi quando parlano di noi. Nono-stante tutto, un pizzico d’ammirazione e d’invidia.

Francesco [email protected]

ues francesi: a Vienna tutto si muove al ritmo di un grande villaggio, piuttosto che di una città, senza che per questo risulti noiosa o provinciale. Anzi, è molto vivace, se si sa dove andare a

Sul bel Danubio bluesCome innamorarsi di Vienna in un mese

cercare. In più, Vienna è priva di pe-riferie in senso classico; le zone “su-burbane” sono dei villaggi a sé stanti, autonomi e con una propria identità, in cui la delinquenza e il degrado qua-

si non esistono. Ogni quartiere ha la propria storia, ed è orgoglioso di essa. Tutto è umano, e la persona ha il palco d’onore. Ad esempio, il parco di Scho-enbrunn è percorso per la maggior parte da persone che fanno jogging e da famiglie con i passeggini. Come tutti gli altri moltissimi parchi della città: qui è molto viva la cultura degli spazi aperti, e vedere nei pomeriggi di sole centinaia di persone camminare, correre o giocare al Prater o sulla Do-nauinsel contribuisce a creare un’at-mosfera rilassata che non vedevo da un pezzo.

Per quanto riguarda la prima doman-da, la risposta si lega a quanto detto fino ad ora: Vienna è una continua sorpresa. E’ una sorpresa quando la burocrazia di iscrizione si rivela mol-to rapida, e in poco tempo ti ritrovi immatricolato all’università di Vien-na, la più antica del mondo tedesco

Sconfinare - Università Ottobre 200910

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Tutto da rifare! Ad un mese dall’entra-ta in vigore della riforma dei piani di studio dettata dal Decreto Mussi sono già in cantiere altre norme ministeria-li destinate a stravolgere nuovamente l’offerta formativa… Il MIUR ha in-fatti diramato il 4 settembre una nota ministeriale che annuncia nuovi prov-vedimenti per la “razionalizzazione e qualificazione dell’offerta formativa”.Per quanto concerne i piani di studio, il Ministro Gelmini annuncia di voler rivedere il decreto 544/2007 (cosiddet-to Decreto Mussi) che, in attuazione del decreto 270/2004 (Ministro Mo-ratti) fissava i requisiti minimi per la formazione di corsi di laurea. Proprio il Decreto Mussi, in applicazione del quale da quest’anno sono partiti i corsi di laurea rivoluzionati, fissava una se-rie di requisiti qualitativi e quantitativi miranti a ridurre il numero dei corsi di laurea e degli insegnamenti attivati: rendeva necessario un numero fisso di personale di ruolo per ciascun anno e vietava l’assegnazione di una percen-tuale troppo elevata di insegnamenti a personale contrattista esterno, oltre a stabilire precise tabelle ministeria-li contenenti gli esami da attivare per ciascuna classe di laurea.Eppure le università sono state veloci a trovare le falle (più o meno volute) della legge per cercare di mantenere il sistema il più simile possibile a prima. Si potrebbe citare ad esempio proprio la nostra Facoltà di Scienze Politiche che, pur essendo costretta a rinunciare alla specialistica in Scienze Politiche ed Internazionali, ha ostinatamente mantenuto il corso di laurea in Socio-logia, comunque destinato a scompa-rire nei prossimi anni con il pensio-namento di alcuni professori. Con il piccolo artificio delle lauree interclas-se è inoltre riuscita a mantenere sia la laurea in Scienze Politiche (classe LM-62) sia quella in Scienze dell’Am-

ministrazione (classe LM-63), mentre sul fronte SID sono stati mantenuti i 3 curriculum della specialistica, seppur con pesantissimi cambiamenti sul pia-no contenutistico.Il ministro Gelmini evidenzia dunque che “Il risultato conseguito, per quanto sicuramente apprezzabile, non appare ancora soddisfacente”. Se nell’anno accademico 2008-2009 il 48% dei corsi di laurea aveva dei curriculum al proprio interno, nell’anno 2009-2010 tale percentuale è salita al 68%. Insomma, curriculum e lauree inter-classe hanno sostituito de facto i corsi di laurea. Da qui una serie di misure volte a contrastare questo fenomeno, nel cui dettaglio è meglio non entrare in questa sede [invito però a scaricare on-line su www.sconfinare.net la nota ministeriale originale con tutti i dati e le regole ministeriali]. Il risultato?La nostra Facoltà non potrà permet-tersi più di 2 lauree triennali e 2 lauree magistrali! Occorre quindi fare scelte ancora più dolorose che in passato. Cosa tagliare? Le ipotesi, nel Consi-glio di Facoltà di ottobre, sono state le più disparate! L’esistenza del corso di Scienze Internazionale e Diplomatiche di Gorizia non sembra in pericolo (al-meno nella forma) grazie alla legge del 29 gennaio 1986 sugli “Incentivi per il rilancio dell’economia delle province di Trieste e Gorizia” [il testo in origi-nale disponibile su www.sconfinare.net], ma non manca chi propone di modificarne in profondità la sostanza.Molti hanno infatti evidenziato che sa-rebbe poco conveniente per la Facoltà sopprimere i corsi di laurea in Scien-ze dell’Amministrazione e Sociologia (attualmente i meno frequentati) per conservare il SID e Scienze Politiche, le cui lauree triennali appartengono alla medesima classe di laurea (L-36). C’è pertanto chi propone di mantenere a Trieste Scienze dell’Amministrazi-

ne ed a Gorizia Scienze Internazionali e Diplomatiche (in modo da rispettare la legge del 1986), cambiando però in profondità il corso Goriziano: numero aperto (per avere più studenti! Sigh!) ed un piano di studi più vicino a Scien-ze Politiche. Insomma un’abolizione de facto del SID!Fortunatamente gli orientamenti del Consiglio sembrano essersi indirizzati verso il mantenimento del SID a Gori-zia e di Scienze Politiche a Trieste. Il nostro corso di laurea dovrà rinuncia-re ai curriculum della specialistica. Il piano di studio resterà nella sostanza invariato, ma sarà perso il riconosci-mento formale dei tre indirizzi: PD, EI e SEE.Se il MIUR confermerà la linea an-nunciata nella nota del 4 settembre, ci saranno ben pochi margini di manovra. Di fronte a questo non possiamo fare altro che tornare a chiedere, come or-mai facciamo da 2 anni, che l’Univer-sità degli Studi di Trieste, la Facoltà di Scienze Politiche e gli enti locali gori-ziani prendano seriamente in conside-razione la creazione a Gorizia di una “Scuola Superiore di Studi Internazio-nali e Diplomatici”.L’insediamento a Gorizia della Facoltà di Architettura è stata indubbiamente un grande passo in avanti per il PUG e per la comunità studentesca goriziana. Ma non possiamo non dire che l’idea di una “Scuola Internazionale di Ar-chitettura”, lanciata con clamore dal Preside Borruso ed accolta con tanto favore dalla comunità locale gorizia-na (un favore fruttato ad architettura il pagamento di 300,000 euro l’anno per 3 anni), non può che essere accol-ta da noi con un pizzico di amarezza. Non sarebbe stato meglio spendere quei soldi per creare attorno al SID la Scuola Superiore? Non potevano es-sere spostati da Trieste corsi di laurea che avrebbero creato maggiori siner-

gie con quanto di già esistente? Perché non portare a Gorizia l’intera Facol-tà di Scienze Politiche? Interpreti e Traduttori? Oppure corsi di laurea ad indirizzo internazionalistico di Econo-mia e Giurisprudenza? Si sarebbe così creata una base sulla quale costruire la Scuola Superiore, che avrebbe allar-gato le possibilità di formazione degli studenti iscritti a questi corsi di laurea, creando un Polo di Eccellenza che avrebbe avuto nel nuovo Conference Centre la sua sede naturale.Non vogliamo ricostruire qui il proces-so politico che ha portato allo sposta-mento di architettura a Gorizia. Certo è che l’operazione ha avuto per pro-tagonista l’intraprendenza del Preside Borruso che, in un momento di crisi per l’università, in cui la sua Facoltà rischiava di uscire fortemente ridimen-sionata dalle politiche governative, ha saputo sfruttare al meglio le condizio-ni esistenti per operare una coraggiosa scelta di rinnovamento.Forse coloro che in passato ci accusa-vano di essere irrealistici per le nostre proposte si sono oggi ricreduti di fron-te alla creazione della “Scuola Inter-nazionale di Architettura”. È evidente che alla nostra causa è mancato solo un Borruso che la perorasse con efficacia presso gli enti locali goriziani e l’Uni-versità di Trieste. È necessario che le belle parole spese durante l’Alumni Day dal Presidente Agostinis, dal Pre-side Scarciglia e dal Rettore Peroni ab-biano ora un seguito concreto. Il SID non deve diventare la cenerentola del panorama universitario goriziano, ed il suo destino non può essere affidato alla sola intraprendenza dei suoi stu-denti e di qualche professore di buona volontà.

Attilio Di [email protected]

Rappresentante degli Studenti, Consi-glio di Facoltà di Scienze Politiche

Eliminati i curriculum della specialistica!Tutto da rifare: cambiati di nuovo i requisiti minimi del MIUR

A rischio anche il numero chiuso. Si prenda esempio da Architettura!

Sconfinare - Università2009 Ottobre 11(cosa che, lo ammetto, da’ una certa soddisfazione; anche perché vendono le felpe dell’università!). E’ una sor-presa quando gli impiegati dell’ufficio Erasmus, della segreteria studenti e persino delle banche sono gentilissimi e disponibilissimi ad ogni esigenza, nonostante ciò che ti avevano detto pri-ma della partenza. Ma è una sorpresa anche che ad ogni suo angolo, in ogni suo scorcio ai grandi monumenti si af-fiancano momenti di vita quotidiana che rivelano una molteplicità che non ti aspetti. Si tratta di una grande capi-tale europea, a pieno titolo; abbondano i ristoranti etnici, e l’inglese è parlato correntemente. Anche troppo: a miei ripetuti tentativi di parlare tedesco, il

mio interlocutore mi risponde regolar-mente in inglese. Perfetto, per carità. Però non aiuta molto la mia autostima.

Vienna è una grande capitale anche per l’offerta di attività. Le scelte sono moltissime, e (quasi) tutte di altissimo livello. E quello che colpisce di più, è che si respira un rapporto con la cultu-ra diverso da quello a cui siamo abitua-ti noi: essa è viva, moderna, affrontata senza timori reverenziali. Un esempio su tutti: il primo sabato di ottobre si è tenuta la Lunga Notte dei Musei, un evento in cui tutti i musei della città rimangono aperti fino all’una di not-te, e sono tutti visitabili con un unico biglietto da 11 euro. A parte l’enorme

massa di gente che vi ha partecipato, la cosa che mi ha colpito è il fatto che i musei siano considerati dei luoghi di ritrovo: ci sono bar, discoteche e loca-li, cosicchè la cultura non è qualcosa di morto, ma diventa parte dell’identi-tà del popolo. Identità che si riconosce in un passato glorioso, in cui a Vienna si decidevano i destini del mondo, e che ora si sente soffocata come capi-tale di un piccolo Stato alpino in cui, in fondo, non si riconosce. Ogni an-golo di strada richiama gli Asburgo, e si respira un certo senso di nostalgia per l’epoca d’oro perduta. Ma questo, appunto, non porta Vienna a piegarsi su sé stessa e addormentarsi, ma al contrario, la spinge ad aprirsi al mon-

do, per riacquistare quella grandezza. Vienna è una vera capitale europea, più ancora di Parigi o Londra: esse lo sono per forza di cose, ma in ogni caso la loro identità è prima inglese o fran-cese, e poi europea. Invece, Vienna compie il salto; vive e si muove prima di tutto a livello europeo, perché solo a quel livello si sente a proprio agio. Così, la nostalgia, da punto di debolez-za e rimpianto per il passato, è diventa-ta punto di forza e di spinta verso il fu-turo.Il valzer, inno di Vienna, risuona di alcuni accordi blues. E la melodia che ne esce è da applausi.

Giovanni [email protected]

Page 12: Sconfinare numero 21 - Ottobre 2009

MODENA CITY RAMBLERS!Che roba, Contessa. Si figuri che c’è gente che può dar retta a questi bi-folchi, questi boari che improvvisa-mente prendono in mano una chitarra e si mettono in testa di unire il punk e la musica tradizionale irlandese, e per fare cosa poi! Musica di protesta! Combat Folk, lo chiamano!Stia a sentire: pensi che all’inizio il loro nome per esteso era “Pogue Ma-hone”, che tradotto significa proprio quello che pensa lei, mia cara, bacia-mi il – lei sa naturalmente a cosa al-ludo. A ripeterlo non ce la faccio, mi creda. Che roba, Contessa. Meno male che poi per la censura si sono convinti ad abbreviare il loro nome in Pogues. Grazie a Dio, altrimenti sa lo scandalo, e i bambini poi, con tante oscenità!L’ho sempre detto: di questi ubriaconi irlandesi non ci si può fidare. Ho qui il loro disco, l’ho sequestrato a mio nipo-te sa? Lo ascoltava a ripetizione e mi ha confessato di voler suonare il flauto. Proprio il flauto, capisce? L’ho pregato di comprarsi qualcosa di più classico e meno violento, una chitarra elettrica, ma niente! E’ un sedizioso, un ribelle! Al pensiero che possa unirsi a siffatti scempi musicali, non dormo la notte. Gli ho detto che dovrebbe trovarsi una bella compagnia a posto, come quel

suo amico Johnny, quel caro ragazzo. Se lo ricorda coi Sex Pistols? Loro sì che erano bravi ragazzi, e poi Johnny l’ho rivisto in TV sull’Isola dei Famo-si. Ma lui non ne vuole proprio sapere.Guardi qui il loro disco, Contessa, guardi che roba: “Rum Sodomy And The Lash”, in copertina si sono pure presi gioco di quel bellissimo dipinto che abbiamo visto insieme al Louvre, si ricorda? La Zattera della Medusa. Che squallore, Contessa. Non c’è più rispetto nemmeno per l’Arte. E’ chia-

ro che poi si fa cantante il primo ba-lordo da pub, non importa se ha una voce che pare il latrato d’un cane, altro che quel Cisco di cui si lamenta lei, quello al massimo avrà rubato qualche caramella a un bambino, ha ascoltato questo disco e poi l’ha scopiazzato alla bell’e meglio. E sa perché accade? Perché manca la famiglia, che altro, e poi uno eccolo all’osteria, ad UBRIA-CARSI! Del resto, questi Pogues non cantano d’altro. Donne, alcol, e risse. Acqua non ne bevono mai, solo whi-skey e pinte su pinte, è chiaro che poi la società se ne va a quarantotto.Che poi, io, questi giovani non li ca-pisco proprio. Con tutto il loro bere. Forse che l’alcol ha mai aiutato a pen-sare, o ad amare, o a rimboccarsi le maniche? E’ solo una perdita di tempo, di soldi e di salute, dico io. Ha visto in faccia il cantante, non so nemmeno come si chiami, Shane MacGowan, o qualcosa del genere. Lo direbbe, Con-tessa, l’hanno perfino cacciato, perché beveva troppo. Guardi, guardi che fac-cia che ha. Non ha un dente sano. Mi perdoni l’espressione, ma lui, ebbene sì, glielo dico, mi fa schifo! Dovreb-bero appendere un suo ritratto in ogni bar, come avvertimento!

Non so proprio come dirglielo, Contes-sa, sono troppo indignato. Anzi. Guar-di, Contessa, questo disco glielo rega-lo, così può liberamente scandalizzarsi anche lei. Come dice? I Modena? No no no, mi dia retta. Li lasci perdere, gli amanuensi. Se proprio pensa che possa piacerle quel tipo di musica, la ascolti almeno nella versione originale.

Rodolfo Toè[email protected]

radiomancanza.blogspot.com

Tutti i miei miti hanno più di cinquant’anni.

Ovvero, il che è lo stesso, la mia ge-nerazione mi delude sempre di più. In altri tempi, un giovane avrebbe cercato punti di riferimento tra i suoi coetanei. Oggi, se ancora gli riesce d’indivi-duarne qualcuno a fatica, li incorona tra i suoi genitori (difficilmente) o tra i nonni addirittura, ed i nonni sono dav-vero i migliori.Il fatto è, signori, che per il mito ci vuole tempo. Non è che si possa tirarlo su dal nulla, così, e costruire una casa sulla sabbia. Gianmaria , prima di fare quello che fa ora, ha lavorato come ferroviere per venticinque anni. Non c’è da stupirsi che abbia un sacco di cose da dire, e che lo faccia benissimo. Anzi. Semmai, la cosa che dovrebbe far pensare è che lui ora è lassù sul pal-co che suona le sue canzoni con l’aria del saggio della montagna di Bra, però è circondato da giovincelli e giovincel-le che, siamo onesti, il più vecchio di loro avrà trent’anni – non sanno nulla della vita, eppure lo adorano. Ed è que-sta la cosa davvero stupefacente.Non pensiate che tutti i ventenni siano degli stupidi, signori. Anzi, ce ne sono anche di belli svegli ed attivi. Il pro-blema è che non hanno nessuno che li faccia sentire degni e orgogliosi d’es-sere giovani. Quali icone ha partorito la nostra società che avessero meno di trent’anni? Parlo di icone serie, perché a me pare che l’ultimo Personaggio under 20 della beneamata cultura po-polare italiana sia stata Noemi Letizia, un po’ di perplessità è lecito nutrirla.A me, a noi Gianmaria Testa piace perché è una boccata d’aria fresca in un mondo schizofrenico. Si siede, fa il suo bel concerto con un bicchiere di vino, non ha fretta e non alza la voce. Ammette, citando poesie, che “ci vuo-le la forza d’un bue / a far l’amore un giorno su due”. Quest’uomo ha fatto l’esaurito per quattro date all’Olympia di Parigi. E non soltanto perché fosse bravo. E’ solo che, secondo me, ne avevano bisogno. I Parigini rivendica-

vano il loro diritto naturale ad avere un rappresentante imperfetto, non sexy, non atletico, non cocainomane, che detesta i métro e va a piedi, imbranato a letto e perfino un po’ impreciso con la chitarra e – perché no? – se ha anche un’amnesia durante il concerto, e deve ricominciare daccapo la canzone, tanto meglio! E’ umano! Umano, capite?

Oppure, diciamola tutta, sono morti.

Ma in Italia, per diventare qualcuno e godere finalmente il tuo meritato successo, devi schiattare. E’ stato di-mostrato in tanti e tanti casi. De Andrè era già bravino prima, ma da morto è diventato Dio. Mike Bongiorno pure è stato canonizzato e c’è chi giura di averlo visto risorgere per una pubblici-tà della Wind.Gianmaria, il mondo è uno schifo e l’Italia è ingiusta. Ti sei fatto un maz-zo tanto, e ti hanno scoperto prima in Francia. Qui è tutto più difficile, anche se in linea puramente teorica i France-si dovrebbero capire i tuoi testi un po’ peggio di noialtri. Ma non ti preoccu-pare, vedrai che da morto ti riconosce-ranno tutto il tuo talento, ristamperan-no tutti i tuoi dischi, li allegheranno a “Tv Sorrisi E Canzoni” e venderai milioni di copie. Si dirà che la tua voce era tra le più belle della canzone d’au-tore, cosa che noi sappiamo già da un sacco di tempo. Con un po’ di fortuna ti dedicheranno anche un paio di vie, in una di quelle località balneari affol-latissime di turisti, o un vialetto. O un bagnasciuga.

P.S.

Ah. Comunque, Gianmaria, non mi va poi tanto d’aspettare. “Dentro la tasca di un qualunque mattino” è la migliore canzone d’amore italiana mai scritta. E te lo dico già.

Rodolfo Toè[email protected]

radiomancanza.blogspot.com

Gianmaria Testa a TriesteSconfinare - Musica Ottobre 200912

Page 13: Sconfinare numero 21 - Ottobre 2009

Le giornate del cinema mutoa Pordenone

Sconfinare - Cinema2009 Ottobre 13

Dopo “Vicky Cristina Barcelona” – che onestamente non ci ha affatto con-vinto – Woody Allen sembra essere tornato in sé con la sua ultima opera: “Basta che Funzioni”. Un film che, per fortuna, ci mostra che il nostro vecchio Woody è quello di sempre: paranoico, fissato con l’altrui antise-mitismo, logorroico ed infinitamente acuto. Lo schema del film in realtà non è nulla di innovativo come non lo sono gli espedienti cinematografici usati: il protagonista che si rivolge al pubblico (già visto in “Io e Annie”), le battute balbettate e le grandi conversazioni sui massimi sistemi al bar, ma la pellicola in generale scorre frizzante e piacevo-le. Questa vicenda è – prevedibilmente – ambientata a New York, ed i perso-naggi intrecciano le loro vicende in maniera lineare ma brillante. Una gio-vane ragazzina di campagna, interpre-tata nella sua ingenuità da una grazio-sissima Evan Rachel Wood, si perde a New York ed incappa per caso in un vecchio, pessimista, scorbutico, ebreo genio della fisica – Larry David – con il quale comincia una bizzarra convi-venza. A poco a poco il professore, che può vantare solo di “essere stato preso in considerazione” per la nomination al nobel, si lascia intenerire dalla bel-

Basta che funzionidi Woody Allen

A vent’ anni dalla caduta del muro di Berlino, dovremmo aver compreso che erigere muri è un ritardante nella riso-luzione dei conflitti, una violenza, un disgregante irragionevole che, impe-dendo la libertà, la suggerisce richia-mando alla ribellione. Continuano a crescere muri: Padova, Botswana, Isra-ele, tra i giardini di casa, con i nostri vicini di casa, con i nostri amici, con noi stessi. Muri fisici, psicologici, etni-ci, di mattoni, di gomma, irragionevoli ma comprensibili. Comprensibili per-ché ormai fanno parte del nostro DNA:

Cineforum “Muri”la Muraglia cinese, edificata tra il III e il IV sec a.C. è distintamente visibile dalla luna; palizzate di legno furono trovate durante gli scavi archeologici in cui fu scoperta di Lutece.Possiamo pensare che sia un’ utopia la rimozione delle divisioni. Per lo meno rimane la possibilità di indaga-re i muri che in questi ultimi 50 anni gli esseri umani hanno eretto o cercato di comprendere. Per questo motivo io e Cinzia abbiamo organizzato anche per voi lettori un piccolo cineforum: una serie di film che da metà ottobre a

Giunte alla XXVIII edizione, “Le giornate del cinema muto”, appunta-mento tipico autunnale nel panorama culturale pordenonese, continuano ad attirare numerosi appassionati del ge-nere, amanti di cinema e anche sem-plici curiosi alla scoperta di alcuni capolavori degli albori del cinema. Le presenze, come ogni anno, partono da tutta l'Europa centro-occidentale, e non solo, per ritrovarsi nel capoluogo pordenonese per questa vivace setti-mana. Queste serate, fonte di stupore, riscrivono la storia per immagini in un alternarsi di humour: il primo Charlie Chaplin per poi approdare, sempre la sera di giovedi 8 ottobre, al “Der Fürst von Pappenheim” (Il Principe di Pap-penheim, 1927) di Richard Eichberg, rimasto in penombra nella Germania nazista mentre i suoi colleghi sotto la luce della California saccheggeranno a buon fine il patrimonio dell'imma-ginario europeo. Da Ernst Lubitsch a Billy Wilder, ecco il gustosissimo mix di umorismo yiddish e slapstick in questa commedia, classificata come «farsa nel mondo della moda», che elegge l'atelier e i saloni di bellezza a set del travestitismo e dell'ambiguità sessuale. Tanto per cominciare, viene in mente "A qualcuno piace caldo" con la sua orchestrina jazz al femmini-le, Tony Curtis e Jack Lemmon rivali di Marilyn Monroe nei loro abitini di chiffon, inseguiti dai gangster e co-stretti a subire il corteggiamento mo-lesto dei maschi di turno. Qui la star in abiti femminili è Curt Bois, attore al fulmicotone, piccolo, schizzato, mal-destro, eletto «l'Harold Lloyd tedesco» e che continuerà la carriera in America (interprete cult, tra l'altro, di Casablan-ca). Recita nella parte del direttore di un atelier di Berlino, Egon Duke, che si fa passare per Duca, circondato da uno stuolo di mannequins adoranti, prima di incontrare una vera princi-pessa in incognito, Elizabeth (Mona Maris). Ribelle alle regole dell'aristo-crazia, non vuole sposare il principe di Lovonia (tradotto, “Amoronia”) e fugge nella metropoli per incontrare la

modernità, un lavoro e un amore vero. Finirà supermodella nella sfilata sen-sazionale di abiti parigini che attraver-sa il film e parteciperà alla girandola di equivoci comici e piccanti dominati dall'indomabile Duke. Anche se il film ogni tanto segna il passo, è una minie-ra di segni e segnali della futura sophi-sticated comedy, un'esplosione di fol-lie e dinamismo genere «funny girls», derivato del musical di Hugo Hirsch, celebrità dell'epoca, scritto da Franz Robert Arnold e Ernst Bach, autori di teatro leggero. Perfino Katharine Hep-burn si ispirerà al Duca di Pappenheim quando indosserà i pantaloni da ragaz-zo in “Sylvia Scarlett” di Cukor. Eliza-beth si improvvisa uomo mentre Egon Duke prende il posto della «modella mascherata» in un completino di raso e merletti per sfuggire a un vero con-te energumeno, pazzo di gelosia per un'indossatrice volubile. Al culmine del paradosso, il film devia verso una soluzione anti-hollywoodiana. Il bel giovanotto, incontrato per caso all'ini-zio della storia e di cui si innamora Elizabeth, altri non è che il principe di Lovonia, marito scelto dalla casata, e tutto finisce in un bel matrimonio re-ale. Mai i registi emigrati oltre ocea-no avrebbero scelto un finale simile, mentre il regista e produttore berlinese Richard Eichberg, re dell'operetta e del cinema d'avventura, incorona i suoi in-namorati. Emblema della Germania di Weimar, tutta la pellicola accarezza e culla sogni e capricci della società bor-ghese dell'epoca, pur nel coronamento finale, l'aristocrazia appare quanto mai compromessa e superata, corrotta dal denaro e dai piaceri volubili del nuovo secolo. All'Europa piacciono le teste coronate e le classi sociali differenzia-te, all'America le Cenerentole, i Cene-rentoli e i venditori di macchine usate, mestiere-copertura del principe di Lo-vonia. Lì arriverà Roosevelt, qui Adolf Hitler. Nonostante tutto, confesso, mi sono sentito molto europeo.

Francesco [email protected]

dicembre cercherà di farci comprende-re la parola “muro”. Per ulteriori informazioni trovate su Facebook gruppo e calendario delle proiezioni: cercate “Kino tag” (giorno del cinema), iscrivetevi, invitate altre

persone interessate. Se non siete iscrit-ti a Facebook contattatemi e vi invierò il calendario delle proiezioni.

Alessandro [email protected]

lezza della ragazzina e nonostante la consideri allo stesso livello intellettivo di un “vermetto” finisce per sposarla. La vita di coppia dei due procede in un fragile equilibrio in cui il professo-re è il pigmalione della giovane e lei la fair lady innamorata dell’arguzia del vecchio marito. In questo quadretto bislacco interviene la madre della ra-gazza, una donna dell’alta società con-servatrice che detesta il genero e fa di tutto per rompere l’unione tra lui e la

figlia. Ma la tremenda morale materna sembra non essere immune al fascino devastante della capitale e in breve la donna scopre la propria vena artistica e si trasforma da casalinga stereotipata in fotografa alternativa e provocante. Il tutto condito con triangoli amorosi, foto scandalose, il ritorno del marito fedifrago che scopre di essere gay…Insomma, un’altra piccola gioia di Woody Allen, che gioca con la psico-logia dei personaggi e mette in luce l’influenza rivelatrice di New York: la città che ha il magico potere di trasfor-mare la potenza in atto, di far emergere e sbocciare le qualità dei singoli, la cit-tà che permette la piena realizzazione di un io che fuori dal mondo urbano è represso e soffocato nell’attaccamen-to alla tradizione. Tutti i personaggi sembrano passare per questo proces-so metamorfico: la giovane trovando finalmente la capacità di formulare opinioni personali ed indipendenti dal marito, la madre dedicandosi all’arte e ai menages, il padre con il nuovo com-pagno. L’unico che sembra essere im-mune alla forza di New York è prorio Larry David, che dall’alto della propria ipertrofica autostima si rifiuta di evol-versi in una versione migliore di se stesso. E dal momento che è evidente che l’attore è l’alter ego di Allen, ci si

può forse leggere un po’ di autocritica da parte del regista: l’uomo che si rico-nosce nella sua genialità ma che sa di essere pieno di piccoli difetti e manie ridicole. Probabilmente non il maggior capolavoro del regista ma sicuramente un film che ne riflette profondamente la poetica e lo stile. L’unica pecca: Al-len avrebbe dovuto recitarvi.

Francesco [email protected]

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Sconfinare 2009 OktobraIII

O meu Brasil BrasileiroSveti Pavel (Paulista – favela)

Februar je, že pravo poletje v drugi polobli, ko dospem v SP. Presenečem sem, da v dnevu (v teku 24-ih ur) preidem od tople-ga plašča do poletnih oblačil in natikačev. Že na letališču me je prevzel vonj po SP: močan in hkrati topel, da me je popolnoma objel… in me popeljal v Južno Ameriko. Bil je skupek sladkih in ostrih vonjev (banane, anana-sa, duh po mahu, potenju, smogu in izločanju). Čutim te vonjave na vsakem koraku, tako prodorne in razširjene, le sam jih občutim, so dišeče kot moja koža, tudi drugi jih občutijo, me omamljajo v enem sa-mem tednu.

Osemnajst milijonov ljudi živi v tem velemestu brez meja. In zme-den sem spričo pomanjkanja di-menzij in primerjave z mestnim življenjem. SP je živ primer pro-storske in časovne relativnosti.

Da pridem do fakultete, ki je v središču mesta, se že ob sedmih zjutraj prekladam od metroja do avtobusa. Tri ure napora v tej zmedi. Mestna četrt, kjer živim in študiram, je Higienopolis, kar pomeni mesto higiene in že po sa-mem imenu spoznaš nivo okolice.

V Higienopolis je več frizerjev za pse kot za ljudi, je več bazenov kot avtobusnih postaj, vsako stano-vanje ima dnevni in nočni nadzor, FAAP – privatna univerza, kjer študiram – ima nadzor pri vsakem vhodu, dostop je mogoč z osebno magnetsko kartico. Odločim se, da izstopim iz te zaščitene situacije in vstopim v center – središče mesta, če ga je sploh mogoče določiti. Paulista - 3 km dolga avenida in finančno središče mesta - je pro-metna ulica, ki se vije med kri-stalnimi nebotičniki. Tekmovanje arhitektonske megalomanije je v stalni rasti dimenzij, oblik in je pra-

vo izzivanje ravnotežja. Nedaleč je Centrao, kjer se dviga stavba Italija s svojimi 36 nadstropji betona. Kot razočaran domoljub menim, da ne gre za najvišjo stolpnico, čeprav te povsem prevzame pogled iz te razgledne točke. Mesto SP je natr-pano nebotičnikov. Ob postajališču metroja pa se zavedaš, da je mesto pravzaprav prazno v svojih pro-tislovjih: v 25 de Marco množica prodajalcev prodaja masterizirane dvd-je, računalnike in računalniški material dvomljivega izvora, pu-stna oblačila, kokos in vsako vr-sto ropotij in mamil ter vzdržuje bližnji trg. Klošar spi ob vhodu nebotičnikov, prodajalec beži pred

policijo, pogajajo se do zadnjega centa, ponoči ni nihče gotov.

Obstaja tudi druga plat mesta, ki ni prikazana na razglednicah, saj se je poslovneži izogibajo in turist je ne mara fotografirati: revna četrt SP. Grem v M’ boi Mirim, dve uri in pol vožnje z avtobusom od doma. Vstopim, ker me spremlja domačin; kot vsi drugi se bori za preživetje v družbi, ki bi ga sicer odstranilo. Najemnina njegovega stanovanja znaša tretjino za sobo, ki jo delim s Francozom. Najdražja pica v faveli stane manj kot margherita v Higie-nopolis. Je drugačen svet, ki je bli-zu in hkrati tudi daleč od mesta. To je svet, ki ga vsi poznajo, vendar je nekaterim neznan: Paraisopo-lis, največja favela mesta, je točno v sredini Ispirange, najbogatejša mestna četrt (po Marumbi). Visok zid ločuje ta dva svetova in lju-di. V Jardim das Flores (Vrtovi z rožami) je večina prebivalcev tem-ne polti in mesto je različno. Ni sijajnih nebotičnikov, so le majhne hiše, nakopičene brez nikakršne urbanistične logike, ki so na gričih okrog Guarapingaškega jezera. Fa-vela se razlikuje od drugih: stavbe niso pokrite z ometom, vidni so le nosilci in opeke, okna so brez

naoknic in vrata poškodovana. V ozkih ulicah so stare garaže, pri-lagojene za evangelijske cerkve, kjer pastorji kričijo ob zvočnikih in množica ljudi odgovarja s še glasnejšimi napevi. Nimaš občutka, da si v največjem velemestu tega sveta; v teh mestnih četrtih se vsi, od peka do mehanika, poznajo in se pozdravljajo, otroci se igrajo bosi na cesti z žogami, psi se te-pejo in vidni so odtočni kanali. Kar je najbolj grozljivo, ni revščina ali umazanija, ampak pripovedi ljudi, ki oživljajo ta zapuščeni svet.

Prenočil sem v sobi, ki je imela plesen na stenah. Zjutraj sem srečal

sestrično svojega vodiča, ki me je vprašala, če sem prejšnjo noč slišal strel. Na srečo imam trden spanec, toda na pločniku nasproti svoje hiše sem zagledal mlako krvi, ki bi jo lahko dež spral. Nek domačin, predrzen mešeter, je bil kaznovan od tamkajšnjih gospodov. Pre-senetili so ga in ga zadeli: devet strelov pištole narav-nost v glavo. Kar me najbolj vznemirja je to, da mi pri-povedujejo to zgodbo kot bi bile vsakdanje dogodivščine. Vsaka malen-kost, vsaka pripoved po-staja vedno bolj grozljiva, čeprav se pri-povedovalec tega ne zaveda.

Dekle mi je zaupalo, da je noseča. Ima dvajset let, je brezposelna

in se ukvarja z gledališčem, nima pogojev in možnosti, da bi imela otroka. V Braziliji je splav ilegalen in kaznivo dejanje. Povedala mi je, da obstajajo tablete, ki so v pro-daji za 400 réis (okoli 150 evrov). Uporaba je zagotovljena po točnih in nazornih navodilih, ki so me v opisih presenetili. Zgodilo se je, da dekle izgine, nihče o njej ne ve, po vsej možnosti se zateče k zvodni-ci, da zarodek odpravi. Vse to pa povzroči notranjo infekcijo. Dekle ne mara v bolnico, ker se boji, da bo zaradi splava aretirana. Nihče pač ne mara imeti opravka s Fede-ralno Policijo v Braziliji.

SP se kaže v taki podobi: je slika kontradikcij, socialne neenakosti, je kraj brez vsakršne omejitve. Kdor je bogat, je najbogatejši in kdor je reven, je najrevnejši; sta-novanja so podstrešna bivališča ali hlevi, cene v marketih so zelo viso-ke ali zelo nizke, kavarne so polne ali prazne, kar je v SP prav dobro, je tudi najboljše. Torej, kateri del mesta želimo obi-skati? Stran A - banke, nebotičnike s helikopterskim vzletiščem ali stran B - favelas in emarginirane ljudi? To je naša izbira.

Predlagatelj: Francesco [email protected]: Fabiola Torroni

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Oktobra 2009 IISconfinare

Razlogi za nasprotovano nobelovo nagradoBarack Obama

Resnična skrb Slovencev, deset dni pred “Schengensko nočjo” je dru-ga: kdaj bodo lahko ljudje prosto prečkali mejo, “veliko Kitajcev, Romunov in Afričanov – vsi, ki jih vi imate odveč – bodo imeli priložnost vstopiti v Slovenijo”. Tak pogled je povsem paradok-salen, nekaj metrov oddaljen od Italije, ki se boji vala imigracije iz vzhodne Europe.Razlogi za nasprotovano nobelovo nagrado Predsednik Združenih Držav Ame-rike Barack Obama, ki osvoji No-belovo nagrado za mir se zdi že prepakirana novica. Zdi se, da je

šala. Sam sem si mislil, da je hec, in sem si moral prebrati dva ali tri članke raznih agencij, da bi se prepričal. Zdaj pa, kot ponavadi, po svetu bodo običajne predvidlji-ve razprave. Jaz pravi vzdrževalec Obame z mečem branim nagrado; a jaz, pa temu nasprotujem: nagrada je sedaj postala politična stvar. In v Italiji... bo še slabše, ker bo ta raz-prava postala še bolj zaskrbljujoče groba in prekrita z rasizmom ali snobizmom, odvisno od stranke. Če si lahko dovolim iz dna svojega ugleda. Mogoče si lahko privoščim, al mi je to priznano, še posebej od tistega – toda kdo? - ki se spomni mojega članka v tem časopisu, ko je bil Mr.Obama izvoljen. Tedaj sem poskušal posredovati med dvema fanatičnima položajema, t.j. tistih, ki so zavrnili Obamo, kot če bi bil

prvi sin sovjetskega Satana, in ti-stih, ki so poskušali sestaviti okoli njega žarni venec in krila angelčka. In tudi zdaj: skušajmo razumeti, poleg stališč ki vsak od nas ima, razloge za to nagrado. Zakaj Oba-ma si je zaslužil Nobelovo nagra-do? Ker Obama je simbol, to je prvi odgovor ki si dam. Simbol ljudstva, ki se je osamosvojilo. Od labilnega in šibkega etničnega miru, ki obsta-ja v ZDA. Si dam nekaj drugih od-govorov, vidimo katere. Razlog je, da dediščina Busha mlajšega teži, in še kako, in vsak novi predsednik, ki je sposoben vsaj oblikovati smi-selni govor, se zdi čudež narave,

temveč ker predsednik, ki ne sma-tra skupščino OZN za prekleto in ki zapravlja denar, čas in sredstva, se zdi Angel Mira v osebi. Ali ker predsednik, ki formulira abstraktno idejo, da je morda mogoče govori-ti z Iranom in s palestinsko vlado se nam dozdeva kot novi Gandhi. Nazadnje, končni odgovor. Tisti, ki teži največ, mislim. Nobelova na-grada je, nič skrivnostnega, evrop-ska nagrada. Predstavlja predvsem evropske ideje. In ideja Evrope je danes, da je Obama liberalna, odločna in odlična ikona. Odlična. Pravi sodobni vitez brez madeža, ki ne gleda na Evropo kot na sitnega bližnjega na drugi strani oceana. To je, na splošno, tudi malo razu-mljivo, čeprav le delno. Nagrada iz tega vidika ima dva obraza: eden je obraz hvaležnosti, to je hvaležnost

Evropejcev, ki od vedno si želijo ljubiti ameriško sanjo, ampak v dobro opredeljenem ciklu jo zavr-njijo z gnusom in razočaranjem. Drugi obraz pa je zahtevek, oziro-ma omejitev: predsednik Obama, vam dodelimo Nobelovo nagrado, vendar še nič konkretnega ni bilo storjeno za mir (niti ni imel časa, da to stori, bodimo si iskreni), tako bo prisiljen, da nekaj naredi. Mo-ral bo biti v skladu z motivacijami. To je Nobelova nagrada za mir, ne more jo ignorirati. Poleg tega, to breme spremlja veliko prednost: verodostojnost, ugled. Avtoriteta. Zdaj, gospod Obama je Nobelov

nagrajenec za mir, posredovalec z mnogimi opredelitvami in me-diator v popolni lasti svojih moči. Zakaj Obama ne bi smel prejeti Nobelovo nagrado? Ker pač res ni storil ničesar konkretnega, ma-terialnega za mir. Vsaj ne še. Ker je še prezgodaj, saj mu ni še uspelo. Morda ni važno, vendar ni še ničesar storil. To je nagrada, ne glede na kaj, nagrada v perspektivi, protislovje. Nagrade mo-rajo priti potem, ne prej. Ocene za film niso napisane pred ogledom filma. Nobel za medicino ga ne dobiš, če ne objaviš študije, če ne preiskuješ. In tudi nagra-jenec za književnost mora vsaj nekaj napisati! Oba-ma še nič ni napisal. Moje

mnenje o njegovemu predsedovan-ju je do sedaj več kot odlična, v na-sprotju s tistimi svežimi vodami, ki so ga najprej zvišali na čin Mesije, nato pa vrgli v blato, jezni, ker ni spremenil Združene Države Ame-rike v Švedsko sedemdesetih let. Toda kljub temu,

Eprav je moje mnenje tako pozitiv-no, resnično, ne morem podpreti to, da si Obama zasluži Nobelovo na-grado. On sam je to dejal. Ampak ne morem niti podpreti članek Ti-mes-a, katerega vsem priporočam branje, ko pravi, da nagrada ni nič drugega kot “šala”. Po mojem mnenju,

Eprav nezaslužena, nagrada še zdaleč ni šala. Dejansko je lahko res koristna. In norveški Nobelov odbor ni tako neumen. Dejansko bi bil lahko celo najbolj daljnovidni. Nekateri so dejali, da je ta nagrada “politična” (opredelitev, ki zgleda, da je v modi, v zadnjem času). To je resnica, mislim, da je res politična. In ne vem, koliko je lahko dober, kot trend. Toda pomislite. Koliko je lahko nam udobno, da predsed-nik Združenih Držav Amerike, v trenutku težav, prav medtem ko izgublja soglasje, je prejel tako visoko nagrado? Predsednik, ki nenadoma postane močnejši, bolj avtoritativen, in s sposobnostjo, da lažje izvaja svoje načrte. Zdaj Mr.Obama res nima več izgovorov. Čas teče. In zgodovina ga bo še bolj strogo ocenjevala, v skladu s to nagrado. Morda je res nezaslužena, toda lahko bo za vseh blagoslov ali prekletstvo. Imate izbiro, gospod Obama.

Prelagatelj: Francesco [email protected]: Samuele Zeriali

Page 16: Sconfinare numero 21 - Ottobre 2009

Bi lahko marsikaj napisali, ko govo-rimo o Erazmusu. Čeprav se je začel šele en mesec in tri tedne od tega, vendar se zna, začetno obdobje je vedno najbogatejšo z vtisi in čustvi. Bi lahko govoril o običajnih stva-reh kar se tiče univerze v tujini, o njeni organizaciji in na primer bi lahko hvalil odlični sistem javne-ga prevoza; vendar pa bi bilo malo ponavljivo, in ne bi bilo za veliko uporabo nikomu. Toda, kako se predstavi Dunaj tujemo študentu? In predvsem, je to izbira, ki bi jo naredil še enkrat? Odgovor na drugo vprašanje je precej preprost: da. Dan za dnem, sem vse bolj prepričan, da to je mesto, ki najbolj odraža moj značaj. Našel sem mesto, ki se premika z mojim lastnim ritmom, in to je zelo pomembno. Recimo, pozabiti morate na kaotični rim-ski promet, ter na komplicirano ureditev londonske metropole, ali na neskončna francoska predme-stja: na Dunaju vse se premika s hitrostjo velike vasi, vendar Du-naj ni dolgočasno in deželno mesto. Pravzaprav je zelo živahno, če se ve, kje iskati. Poleg tega, Dunaj nima predmestja v klasičnem smislu; področja predmestja so ločene vasi, samostojne, ki imajo svojo lastno identiteto, in v katerih skoraj ne obstajata hudodelstvo in degrada-cija. Vsaka četrt ima svojo zgodo-vino, in je na to ponosna. Vse je človeško, in vsaka oseba ima svoj dvor. Na primer, v parku Schoen-brunn srečamo večinoma ljudi, ki telovadijo in družine s sprehajal-ci. Tako je tudi v mnogo drugih parkih mesta, ker tu je zelo živa kultura odprtih prostorov, in videti v sončnih popoldnevih na stotine ljudi, ki hodijo, tekajo ali igrajo na Praterju ali na Donauinselju po-maga ustvariti sproščeno vzdušje, ki ga že zdavnaj nisem občutil.

Kar pa zadeva prvo vprašanje, odgovor je povezan s tem, kar je bilo že rečeno: Dunaj je konstanto presenečenje. Je presenečenje, ko

Na Lepi Donavi Blues Kako se zaljubiti na Dunaj v enem mesecu

BREZPLNCA ŠTEVILKA Številka 21 - Oktobra 2009www.sconfinare.net

Direttrice: Annalisa Turel [email protected]

burokracija vpisnin se izkaže za zelo hitro, in kmalu se znajdete vpisani na dunajski univerzi, na najstarejši uni-verzi nemškega sveta (odkritosrčno povedano tudi z zadovoljstvom, ker prodajajo jope na univerzi!). In je

presenečenje tudi, ko zaposlenci ura-da Erasmusa, tajništva študentov in celo bank, so zelo prijazni in vljudni ter na razpolago za vsako potrebo, v nasprotju s tistim, kar so mi po-vedali, preden sem odpotoval. Pa je

presenečenje, da na vsakem vogalu, pri vsakem pogledu na velike spo-menike si lahko ogledamo trenutke vsakdanjega življenja, ki razkrivajo številnost, ki ga ne pričakujemo. To je v celoti velika evropska presto-

lnica; etničnih restavracij ne man-jka, in prebivalci tekoče govorijo v angleščini. Celo preveč: saj na moje ponavljajoče poskuse z nemščino, moj sogovornik mi rutinsko odgo-vori v angleškem jeziku. Vsekakor

odlično. Vendar to ne pomaga dosti moji samozavesti.

Dunaj je velika prestolnica tudi za ponudbo različnih aktivnosti. Izbire so številne, in (skoraj) vse na najvišji

ravni. In kar je najbolj presenet-ljiv, da lahko dihaš odnos s kultu-ro, kateri je drugačen od tistega, ki smo mi navajeni: tu kultura je živahna, moderna in obravnavana brez strahu. Na primer: prvo so-boto v oktobru je potekala Dolga Noč Muzejev, dogodek, v katere-mu so vsi mestni muzeji bili odprti do ene ure zvečer, in vseh si jih je lahko ogledalo z eno samo karto, ki je stala 11 evrov. Poleg ogrom-ne mase ljudi, ki je sodelovala, st-var, ki me je prizadela je dejstvo, da so muzeji videni kot zbirališča: obstajajo bari, nočni klubi in pubi, tako da kultura ni nekaj mrtvega, ampak postane del identitete lju-di. Identiteta, ki se spozna v sla-vni preteklosti, ko se je na Dunaju odločila usoda sveta, in ki sedaj se počuti zadušena kot prestolni-

ca majhne alpske države, po kateri se po vsem, ne prizna. Vsak vogal spominja na Habsburžane in se diha občutek nostalgije za izgubljene zla-te dobe. To pa ne vodi Dunaj naj na sebi zaspi, ampak, po drugi strani, ga vodi naj se odpre na svet, da ponov-

no pridobi to veličino. Dunaj je res evropska prestolnica, še bolj kot Pariz ali London: one so po potre-bi, toda v vsakem primeru njihova identiteta, je najprej angleška ali francoska, nato pa evropska. Na-mesto tega, Dunaj naredi korak; ter živi in se premika predvsem na evropski ravni, saj samo na tej ravni se udobno počuti. To-rej, nostalgija, od točke slabosti in obžalovanja na preteklost, je postala močna točka, ki pelje v bodočnost. Valček, himna Dunaju, sliši se ga z nekaj akordov bluesa. In melodija, ki nastane je vredna aplavza.

Predlagatelj: Giovanni [email protected]:Samuele Zeriali