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Storie @ Storia @

Ses 0 3 2013

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Storie @ Storia

Via Divisione Folgore n. 1331 70 Pordenone - PNCF/IVA 91 01 6720939Tel. 0434 20 90 08Fax 0434 08 1 6 49

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Anno 0 Numero 3

Dicembre 201 3Fondato da Marco Pirina

Quella del popolo istriano è una vicenda storica

che ancora scuote numerose coscienze. Una di

quelle che non troverà certo pace fino a quando

non saranno poste chiaramente in luce le

responsabilità anche morali di quella situazione

che gli esuli vennero a ritrovare una volta giunti

nella Penisola. A volte si legge la storia anche

coll’andare a visionare un’opera cinematografica

o uno scritto minore, che riesce a indirizzare la

mentalità popolare.

Da sempre l’opinione

pubblica viene

indirizzata, più o meno

coscientemente, dai

mass media ad avere

certe convinzioni e

certe rappresentazioni mentali di quello che ha

davanti. E, d’altra parte, anche i creatori di opere

Perché un WEB-NOTIZIE?

Un sito non può essere

solamente il “museo” di un

Istituto, ove si conservano

le memorie degli eventi,

l’elenco delle pubblicazioni,

che trasportano nella

“STORIA” le “storie”. Un

sito “storico” deve generare dibattito, non blog

sterili che vengono gestiti dai soliti ignoti,

trasformandosi in piccoli o grandi club, né essere

il supporto di “profili”o di gruppi di “amici”. Un

sito “storico” attraverso la comunicazione

reciproca, via e-mail, deve personalizzare

l’approfondimento, la scoperta, la ricerca della

verità , preda dei “silenzi dei vivi”, delle

“rimozioni”, delle “negazioni”. Un sito “storico”

deve concorrere alla costruzione della ricerca e

nella distribuzione della ricerca per rendere vivo

il concetto della libertà, che è soprattutto

cammino per un confronto da condividere

attraverso i risultati del dibattito. Da qui l’idea di

costruire un notiziario bimestrale per ritrovare i

popoli e la loro Storia. Il notiziario avrà un

percorso su canali di interesse che si

modificheranno in ogni numero, ma che si

proporranno nelle pagine. A seconda dell’e-mail

suggerito sarà risposto a tutti, vista la complessità

degli argomenti entro 2 o 3 giorni . Ed ora Vi la-

sciamo alla lettura ed ai Vs, commenti, a presto!

Centro Studi e Ricerche Storiche

“Silentes Loquimur”

@Arrangiatevi...

e gli esuli lo fanno

di Giovanni Crosato

In questo numero

Arrangiatevi. . . e gli esuli lo fanno

La più elegante beffa dell'Ultima Guerra

Donne contro donne nelle storie d'orroredella guerra civile: partigiane o soldatesseun libro ricorda il loro sacrificio

Il bunker del Castello di Duino nei ricordidi un duinate

Pubblicazioni da segnalare

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Storie @ Storia Anno 0 Numero 3

Dicembre 201 3

cinematografiche, televisive o comunque rivolte

al pubblico devono intuire quali siano i prodotti

appetibili al grande pubblico onde riceverne il

consenso, anche in termini di risposta economica

al botteghino o, nel caso della televisione, con

l’audience. Sarebbe un discorso che porterebbe

lontano e, pertanto, ora vorrei analizzare solo

quel punto di vista che avrebbe avuto, della

vicenda istriani, chi fosse uscito dalla sala ove si

proiettava quello che potremmo definire un film

comico della cosiddetta commedia all’italiana.

Correva l’anno 1959 e stava per terminarsi

l’ultimo grande esodo degli istriani, quello di chi

si era arreso all’evidenza dei fatti solo dopo che,

nel 1954, con il Memorandum di Londra si era

sancito il passaggio, poi reso definitivo dagli

accordi di Osimo, della zona B alla Repubblica

Federativa di Jugoslavia. Una situazione che

sarebbe dovuta essere provvisoria, ma che

divenne definitiva. Un’altra ondata di persone

che cercava, pertanto, di trovare scampo a quella

situazione e, occorre dirlo, incontrò anche

diverse difficoltà al lasciare la zona.

Decine di migliaia d’istriani, quindi italiani e

veneti, che lasciarono definitivamente la zona per

recarsi in terre lontane – come ad esempio

l’Australia – o nella Penisola. Un esodo che

terminerà solo nei primi anni sessanta. Nel 1958

un’altra situazione veniva a dividere le coscienze

nell’Italia post bellica: la cessazione delle

cosiddette case chiuse. Era la proposta di legge

che la senatrice Merlin, di origini bellunesi,

aveva presentato e che, alla fine, porterà alla

decisione di una definitiva chiusura delle case di

tolleranza.

Verrete a chiedervi

cosa possa

azzeccarci quella

legge con gl’istriani e

il loro esodo.

Nulla o quasi,

evidentemente,

direttamente, se non

che nel 1959 il

regista Mauro

Bolognini ebbe a

girare un film,

interpretato da due

attori famosi della comicità italiana d’allora: Totò

e Peppino de Filippo, che accomunava le due

cose. La trama del film Arrangiatevi, infatti, era

incentrata sulla vicenda di un certo Peppino

Armentano (interpretato da Peppino de Filippo)

che si ritrova col problema, anche allora ben

presente nel nostro Paese, della crisi degli

alloggi. Un bel mattino, ritrovandosi a percorrere

una via di Roma, egli apprende che la

proprietaria di un alloggio era stata assassinata.

Si precipita, allora, in un commissariato alloggi

onde reclamare la citata abitazione, risultata – a

seguito della morte violenta della sua proprietaria

– disabitata.

Nella trama cinematografica si spiegava, infatti,

che tali case lasciate vuote sarebbero state

acquisite da chi le avesse reclamate per primo ad

un ufficio ad hoc. Una corsa che lo vede

contrapporsi ad un’altra persona parimenti

desiderosa dell’appartamento.

Arriveranno contemporaneamente e, pertanto,

l’Armentano dovrà adattarsi alla coabitazione. In

sintesi il film prosegue e presenta la

degenerazione della convivenza e l’abbandono,

pertanto, da parte dell’Armentano che – per

ragioni economiche – si vedrà costretto a vivere,

con gli equivoci e problemi del caso, in quella

che era stata fino a poco tempo prima, una casa

di tolleranza. Quello che interessa la nostra

vicenda esula, naturalmente, dal punto focale

dell’opera cinematografica e verte su quella

difficile convivenza tra l’Armentano e l’altra fa-

miglia.

Iniziamo col ritrarre la famiglia dell’Armentano.

Questa era composta anche dalla consorte

dell’Armentano, ovvero Maria Armentano, dai

figli Maria Berta, Bianca, Nicola e Salvatore e

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dal nonno (interpretato dall’attore Totò). Si

tratta, nel caso, di figli oramai maturi e in

procinto di crearsi a loro volta una famiglia.

L’altro nucleo familiare, e qui iniziamo ad andare

a bomba, era di origine istriana. Erano, infatti,

dei profughi che cercavano

di potere vivere

decorosamente nel nostro

Paese. Una famiglia

composta di marito e

moglie, e nonno, che –

come si soleva dire un

tempo – era allietata

dall’arrivo di sempre nuova

prole.

Una gioia non condivisa

dalla signora Maria

Armentano che vede in

questo un qual danno alla

propria vita, una difficoltà

nella coabitazione e arriva a

definire da criminali il

riempire la sua vita di quei

marmocchi. E il ritratto che

viene fatto di quella

famiglia di istriani è

certamente, a dir poco,

impietoso. S’inizia a

definirli impropriamente

“slavi”. Mentre sarebbe

stato sufficiente avere

maggior controllo della

comunità coinvolta per

comprendere che si trattava

d’italiani e di origine

chiaramente veneta. Come

si evidenziava anche dalla parlata degli interpreti.

Parlano in veneto ma, per dare maggior credito

all’esposizione, ecco che, tra loro, marito e

moglie parlano perfettamente, cosa assurda, in

slavo. E senza neanche avere una certa cadenza

veneta.

E arriviamo anche alla motivazione economica.

Si nota quando i due nonni sono ricoverati in

ospedale e si raffigura una famiglia Armentano

che deve pagare la retta ospedaliera, con ovvi

problemi di natura economica, mentre quella dei

profughi ne era esentata per legge. Col risultato

di presentare, implicitamente, queste differenze

tra i trattamenti come privilegi di quegli “slavi”.

E si potrebbe anche continuare, ma ritengo che

certamente il problema “esodo” in questo film

non sia stato affrontato, per dirla con Wikipedia,

con magistrale ironia e

sorriso. Se avranno riso

tante persone non ritengo

lo abbiano fatto gli esuli.

Non ritengo che ritrarre

una madre istriana che

pulisce il sederino del

figlio nei pressi di una

pentola sulla stufa,

ricevendo i rimproveri

della signora, sia il

massimo dell’ ironia, a

meno di non volere far

passare quelle persone per

delle sozze.

E, in quanto ai privilegi,

sarebbe da porre in

evidenza che Tito

nell’incamerare i beni

abbandonati da parte dei

profughi li pose in conto

delle riparazioni di guerra

dovute dall’Italia e che

tuttora non mi sembra che

le pendenze siano state

definitivamente chiuse da

parte dell’Italia con gli

esuli. Insomma era l’Italia

a essere in debito verso

quelle persone, verso quei

veneti.

Ma forse era anche questa una colpa degli

istriani e ben si è sempre visto il modo in cui il

popolo veneto è stato ritratto nella

cinematografia e nella televisione italiana. Ma

questo sarebbe un discorso che porterebbe lonta-

no.

Per ora fermiamoci a questo film e vediamo

com’era ritratta allora, in una commedia

popolare, una certa popolazione. Come la si

presentava al grande pubblico.

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La più elegante beffa dell'Ultima Guerra

Algeciras è una città spagnola di 114.000 abitanti

sita nella provincia di Cadice (comunità

autonoma dell’Andalusia), posta in una piccola

baia all’estremo meridionale della penisola

iberica, sullo stretto di Gibilterra. Il suo nome

deriva dall’arabo “isola verde”. La principale

risorsa economica è il suo porto, il principale

della Spagna per volumi di traffico merci e

passeggeri.

Gibilterra era uno degli obiettivi principali degli

uomini dei mezzi d’assalto italiani nella Seconda

Guerra Mondiale in quanto la base era il punto

d’appoggio per le squadre navali che operavano

in Atlantico e nel Mediterraneo occidentale, oltre

ad essere il crocevia per i convogli in sosta e

formazione da e per l’Inghilterra e Malta.

A lanciare l’idea di creare una base a Gibilterra,

più precisamente la “base Olterra” fu Antonio

Ramognino, un tecnico incorporato nella X

flottiglia Mas ed esperto di mezzi d’assalto. Da

tempo il tecnico studiava il progetto e nella

primavera del 1942 fece una ricognizione nella

rada di Algeciras per cercare il punto d’appoggio

da cui partire all’attacco dei mercantili inglesi.

Ramoglino sposò una giovane spagnola e prese in

affitto una villa situata nelle vicinanze di Puenta

Maiorga, chiamata in codice “Villa Carmela”. In

ottima posizione sopraelevata, era situata a 4.000

metri da Gibilterra e forniva un ottimo posto di

osservazione per seguire costantemente i

movimenti dei mercantili inglesi ancorati ad una

distanza dai 500 ai 2000 metri dalla spiaggia

antistante la casa. Per non insospettire le autorità

spagnole, il tecnico disse che la villa serviva a

“ritemprare le forze di donna Conchita

Ramognino, esaurita dalla permanenza d'alcuni

mesi in Italia”. Ottenuto il punto d’ appoggio,

Ramognino studiò e poi scelse delle piccole

imbarcazioni su cui sistemare una carica

esplosiva di tre quintali, oppure otto cariche di

tipo “mignatta”. Ma nell’attesa del loro arrivo, il

comando della Xa Mas decise di compiere

un’operazione contro i mercantili alla fonda. Le

operazioni videro il comando è la partecipazione

del sottotenente di vascello Agostino Straulino,

poi asso mondiale ed olimpionico della vela.

Furono affondati dagli uomini rana nel luglio e

settembre 1942 cinque piroscafi di medio

tonnellaggio, a pieno carico (Meta, Shuma,

Empire Snipe, Baron Douglas e Ravens Point).

L’Intelligence Service inglese pensò che si

trattava di uomini portati a Gibilterra da

sommergibili. Durante la missione svolta nella

primavera del 1942, Ramognino aveva notato che

la nave cisterna italiana Olterra (di proprietà

dell’armatore genovese Zanchi) era stata portata

dal Comandante Amoretti sui bassi fondali delle

adiacenti acque territoriali spagnole, proprio di

fronte a Gibilterra, e fatta appoggiare sul fondo,

mediante l’apertura delle valvole Kingston, per

impedire che gli inglesi se ne impadronissero con

un colpo di mano.

L’Olterra era una nave cisterna di 4929 tsl. ,

costruita dai cantieri “Palmer’s Co. Ltd.” a

Hebburn on Type, varata il 22.05.1913 e

completata nel mese di giugno dello stesso anno.

Il primo nome fu Osage (una tribù pellirossa) con

armatore la “Deutsch-Amerikanische Petroleum

Ges.” di Amburgo, un’affiliata della “Standard

Oil Co.” di New Jersey (la futura Esso Standard).

Nel

1914, per

evitare

che la

nave

venisse

bloccata

dalla

guerra,

di Mario Conforti

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come tutte le navi

con bandiera

tedesca, la casa

madre la trasferì al

registro americano e

ribattezzò con il

nuovo nome Baton

Rouge (capoluogo

della Louisiana).

Mantenne quel nome fino al 1924, poi nel 1925

divenne Olterra per B. Rappoport (bandiera

inglese). Nel 1930 l’Olterra venne acquistata

dall’armatore Andrea Zanchi di Genova. Secondo

il Repertorio di Marina Mercantile avrebbe allora

cambiato nome in Emma, per poi ritornare

Olterra nel 1931 . Dopo l’8 settembre, e più

precisamente l’11 .10.1943, venne rimorchiata a

Gibilterra con il consenso delle autorità spagnole.

Restituita all’Italia e all’armatore nel 1945,

continuò a navigare fino alla sua demolizione

(Savona a partire dal 9.1 .1961 ).

Appena Ramognino fece rientro in Italia fece

presente al Comando della Xa Mas l’idea

veramente allettante di sfruttare la petroliera

italiana per far partire i mezzi d’assalto da un

punto vicino alla Rocca che avrebbe permesso,

dopo l’attacco, di recuperare gli operatori senza

che cadessero inesorabilmente nelle mani

nemiche. La proposta fu accettata e iniziarono le

trattative con l’armatore, che accettò. L’armatore

comunicò alle autorità spagnole che voleva

rimettere in efficienza la nave per utilizzarla a

guerra finita, ed incaricò una ditta spagnola di

provvedere al recupero. Dopo sommarie

riparazioni alla carena, logorata per l’usura del

tempo e del mare oltre al fatto che era da un

anno e mezzo ferma e sbandata sui bassi fondali,

l’Olterra, fu rimorchiata nel porto spagnolo di

Algeciras ed ormeggiata alla testata del molo

esterno, proprio sotto le finestre dell’albergo

Vittoria, sede del consolato britannico. A questo

punto l’organizzazione entrò in azione: d’accordo

con il T.V. Visintini, distaccato sull’Olterra per

appoggiare gli uomini rana che operavano a Villa

Carmela, il Comando stabilì di trasformare la

petroliera in base per i nuotatori d’assalto e per i

“maiali”, stando attenti a non destare sospetti

nelle autorità spagnole (fin dal 10.06.1940 un

picchetto di carabineros alloggiava sulla

cisterma, internata a norma degli accordi

internazionali) e negli inglesi. A partire

dall’estate del 1942 tutti gli sforzi della flottiglia

furono dedicati all'Olterra. Con la nave

ormeggiata occorreva attrezzarla e poi

imbarcarvi gli operai ed i tecnici per ripristinare

i macchinari. Soprattutto bisognava trovare il

sistema di far salire a bordo i mezzi d'assalto

smontati e imballati, gli operatori, gli attrezzi e

gli utensili indispensabili per il montaggio degli

ordigni, all'insaputa degli spagnoli e dei

britannici. Si giocava d'astuzia: appena lo scafo

fu riportato a galla, venne subito semi-affondato

per far riemergere dall'acqua tutta la prora,

dicendo che occorreva martellarla e ripulirla.

Due uomini su una zattera ben coperta da un

telone si infilarono sotto la prora e lavorarono,

pulirono e batterono, finché aprirono un bel buco

di un metro quadrato, chiudibile dall'interno con

un pezzo di lamiera fissa come un portello.

L'Olterra venne rimessa in orizzontale quindi si

passò alle caldaie. Si ottenne che dall'Italia

arrivassero casse piene di tubi necessarie alle

riparazioni. L'officina di montaggio si poteva

raggiungere solo dal ponte di coperta e per tre

strade: smontando la nave, conoscendo bene la

strada o dedicando all'impresa ore e ore perché

bisognava percorrere un intricato labirinto che

non finiva mai, reso impraticabile da cunicoli,

scalette ripide e buie, pertugi che si potevano

varcare solo strisciando, inseguiti da topi grossi

come gatti. L'ultimo possibile passaggio era

costituito da una scaletta a pioli che

perpendicolarmente scendeva da un buco aperto

nel soffitto della stiva di prora. Lì in fondo

lavoravano i sommozzatori. A missione

compiuta, il foro superiore della stiva sarebbe

stato rinchiuso con una lamiera, nascondendo il

rifugio e sarebbe stato riaperto per il prossimo

montaggio. Un’altra lamiera chiudeva anche

l'ingresso della piscina, attraverso il quale erano

messi in acqua, uno alla volta, i “maiali” che, da

quel buco sotto la prora, entravano in mare

cavalcati dai piloti. I “maiali” rimasti senza testa,

dopo l'assalto agli obiettivi, venivano riappesi

agli argani sopra la piscina, completamente

nascosti, in attesa di essere nuovamente riforniti

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Storie @ Storia Anno 0 Numero 3

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della carica di tritolo. Il comando della base

avanzata costituito sulla Olterra fu affidato al

T.V. Visintini e, dopo la sua morte in azione, al

C.C. Notari. Dalla Olterra la Xa Flottiglia Mas

effettuò tre azioni: Operazione B.G.5, 7.12.1942

- Operazione B.G. 6, 7.5.1943 - Operazione

B.G.7, 3.8.1943.

L'organizzazione era diventata, nel frattempo,

così perfetta che non soltanto gli spagnoli (i quali

dopo la terza missione cominciarono a effettuarvi

parecchie ispezioni) ma neppure gli inglesi (che

dopo l'8 settembre 1943 la rimorchiarono a

Gibilterra) non scoprirono mai nulla. A nessuno

venne in mente che da lì erano partiti i mezzi

d'assalto italiani violatori della piazzaforte

britannica. Ma probabilmente la cosa più

stupefacente della vicenda dell'Olterra era che un

presidio spagnolo di sei uomini, comandati da un

sergente, sostava permanentemente a poppa con

l'incarico di vigilare e garantire la neutralità della

nave; c'era una vera e propria officina che

lavorava a pieno ritmo e non hanno mai sentito e

visto niente. Con la scusa dei raddobbi da

effettuare e dell’avvicendamento dell’equipaggio,

arrivarono dall’Italia uomini trasandati,

scansafatiche e litigiosi. I nuovi arrivati

appartenevano alla Marina da guerra o erano

tecnici specializzati. Ci fu tutta una preparazione

in Patria prima di mandarli ad Algeciras:

impararono, imbarcandosi sopra un piroscafo

mercantile nel porto di Livorno, i modi, il gergo

e il vestire dei marittimi, trasformandosi nelle

sembianze di autentici rudi e rissosi “lupi di

mare”. Entrarono così in Spagna con libretti di

navigazione veri e con passaporti dai nomi e

qualifiche falsi. Arrivati a destinazione,

frequentarono le osterie del bassoporto, bevendo

e fingendo di ubriacarsi, tendendo a parlare da

lupanare, imprecando contro la guerra, contro il

comandante e contro tutti; una finzione

riuscitissima. Tornando a bordo, sparivano

barcollando sottocoperta, raggiungendo i locali di

prua, lontani dalle sentinelle che sonnecchiavano

a poppa. Di giorno pitturavano e raschiavano le

lamiere dei ponti, effettuavano finte operazioni

di manutenzione e rabboddo mentre di notte

lavoravano nell’officina, ove erano arrivati

smontati in pezzi, con i più fantasiosi espedienti,

i mezzi

d’assalto. Si

creò così la

“Squadriglia

dell’Orsa

Maggiore”.

Dall’Olterra

venne

attentamente

tenuto sotto

controllo il

movimento

delle navi in

rada ed il 6

dicembre

1942

sostarono a

Gibilterra due corazzate e due portaerei: era l’ora

tanto attesa di attaccare. Alla mezzanotte del 7

dicembre prese così il via l’“Operazione B.G. 5”

con l’uscita di tre SLC (Siluri Lenta Corsa) con

gli equipaggi T.V. Licio Visintini e serg.

Giovanni Magro, G.M. Girolamo Manisco e

serg. Dino Varini, S.T.A.N. Vittorio Cella e serg.

Salvatore Leone. Purtroppo l’attenta vigilanza

delle motovedette e proiettori inglesi, le bombe

di profondità da queste lanciate a ritmo intenso,

ebbero la meglio sull’audacia degli incursori: uno

soltanto rientrò alla base, due caddero prigionieri

e tre vennero uccisi. Qualche giorno dopo

affiorarono in superficie i corpi di Visintini e

Magro, recuperati da un certo tenente Lionel

Crabb, ufficiale della sicurezza e subacqueo, che

seguiva da tempo le gesta degli incursori della

Decima per poterne ripetere l’organizzazione

nella Royal Navy. La sua ammirazione per i

nostri incursori lo aveva spinto ad appendere una

foto del Comandante Borghese nella sede

britannica degli incursori con queste parole “Non

potete dirvi operativi finché non abbiate

eguagliato i risultati raggiunti da quest’uomo”.

L’Italia ha onorato la memoria di questi eroi con

il film in b/n “I sette dell’Orsa Maggiore” mentre

è notizia di alcune settimane fa che ad

Hollywood hanno in progetto di girare una serie

di film ispirata proprio alle gesta della

DecimaMas.

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Donne contro donne nelle storie d'orrore della guerra civilePartigiane o soldatesse un libro ricorda il loro sacrificio fino al martirio

Donne in divisa, donne alla macchia. Stuprate,

umiliate, ammazzate. Marco Pirina scosta il velo

di piombo e sangue per raccontarle una dopo

l'altra, inesorabilmente, nel suo «1943-1945

Donne nella Guerra Civile Italiana tra Gladio e

Stella Rossa». Presidente del Centro Studi e

ricerche storiche Silentes Loquimur di

Pordenone (www.silentesloquimur.it) e oltre

venti libri-documento su quegli anni, Pirina

viaggia sulla memoria condivisa e punta alla

riconciliazione. Emblematiche in copertina le

immagini affiancate di Fede Arnaud,

comandante ausiliari X Mas, e Irma Bandiera,

partigiana, medaglia d'oro. Nero su bianco vinte

e vincitrici. Prima di tutto donne che hanno

rifiutato l'attendismo e sono uscite allo scoperto,

fossero Ausiliarie della Repubblica Sociale o

staffette partigiane. Elenchi parziali, dimezzati,

cancellati, che non fa comodo a nessuno leggere

scempio e strazio. Pirina lo fa: «In questo libro

non potremo trascrivere tutti gli orrori vissuti

dalle donne: racconteremo alcune delle migliaia

di testimonianze custodite gelosamente negli

Archivi del nostro Istituto, a disposizione di

chiunque voglia ricordare le scomparse dalla

Storia». Un nome via l'altro, una storia via l'altra

e comuni denominatori raccapriccianti. Parte

dalle ausiliarie della Rsi, pubblica un elenco delle

«cadute» che ha dietro anni di ricerche,

testimonianze, documenti sulla Guerra Civile. Un

numero provvisorio e parziale: 403. Poi le

sopravvissute: «Nei loro occhi ho visto splendere

un orgoglio mai sopito di aver percorso una

scelta di vita e di fronte, di cui non si non mai

pentite, travolte dall'odio dei vincitori ma non

vinte» scrive Pirina.

Le foto, tantissime, a coglierne una bellezza

antica stretta nella divisa, la copertina della

Domenica del Corriere a schizzare l'Ausiliaria

dell'Esercito Repubblicano Angelina Milazzo che

fa scudo col suo corpo ad una donna incinta;

Margherita Audisio che scrive l'ultima lettera alla

madre: «Io vive per la Patria e per la Patria saprò

morire». La commozione e le budella contorte

vengono dopo: Pirina depone una storia vicina

all'altra: dal 26 aprile 1945 gli orrori di Villa del

Vesco, l'eccidio di Cuneo in cui furono soppresse

11 donne,la testimonianza di Don Riva su Anna

Forni «catturata e percossa a sangue, portata in

una macelleria e appesa ad un gancio». Ancora

foto a testimoniare l'umiliazione: donne

trascinate nude per strada, rasate, accusate

d'essere collaborazioniste. Un orrore che replica

immutato dall'altra parte, quando sono le

partigiane a stramazzare sotto una violenza

inaudita. «Difficile quantificare l'adesione delle

donne al movimento partigiano: - scrive Pirina -

nei documenti partigiani sono conteggiate solo le

donne combattenti». Ma ci sono le altre, quelle

che corsero a raccogliere i biglietti che i militari

italiani deportati in Germania lanciavano dai

treni, e passavano loro di nascosto acqua e pane.

Una maggioranza non combattente, ma

organizzata per far giungere viveri, vestiti e

notizie ai loro uomini. Alla fine della guerra

«anche le partigiane si resero conto di essere

delle vinte - commenta l'autore - furono escluse

dalla direzione del Paese e rimandate ai fornelli».

Poi le civili uccise da formazioni partigiane,

«accusate genericamente d'essere spie, pagarono

con la vita la colpa d'essere legate a militari della

Rsi o aderenti al Partito Fascista». Seviziate,

straziate, gettate in fosse comuni, «giacciono

ancora oggi in luoghi conosciuti solo dai loro

assassini». In chiusura il tragico piano sequenza

delle donne «scomparse dalla Storia»: con un

colpo alla nuca, la gonna sollevata, la camicia

strappata. Un libro a cannocchiale rovesciato:

con l'urgenza piatta di fissare l'occhio e tenerlo

puntato fino in fondo.

Marco Pirina «1943 - 1945 Donne nella Guerra

Civile Italiana tra Gladio e Stella Rossa», edito

da Centro Studi Silentes Loquimur, 335 pagine,

26 euro.

di Maria Vittoria Cascino ilgiornale. it

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Storie @ Storia Anno 0 Numero 3

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Il bunker del Castello di Duino

nei ricordi di un duinate

di Romano Marcuzzi

Nel mese di settembre dell’anno 1943 la

provincia di Trieste, con quelle di Fiume, Udine e

Trento, fu annessa alla Germania del Terzo

Reich.

Il controllo di tutto questo territorio che andava

da Fiume fino a Trento, fu dato al “Commando

Militare dell’Alto Adriatico”. Il Generale

Comandante aveva piena autonomia nelle scelte

strategiche militari e nel coordinamento dei civili.

I vari Comuni avevano conservato le loro

autorità. Sindaci e dipendenti, tutti italiani, erano

rimasti al proprio posto ma ogni decisione presa

doveva avere il benestare del “Commando

Militare dell’Alto Adriatico”.    

Il Generale Comandante rispondeva del suo

operato soltanto a Hitler dal quale riceveva

direttamente gli ordini.

Il Castello di Duino fu requisito e divenne “Zona

Militare” vietata a chiunque volesse entrare.

L’amministratore dei Beni dei Principi della

Torre e Tasso era il signor Ervino Luzar. Nella

prima guerra mondiale egli aveva combattuto

nelle file dell’Esercito Austriaco con il grado di

ufficiale. Parlava molto bene il tedesco e,

probabilmente anche per queste sue

caratteristiche, riuscì a conservare la disponibilità

di alcuni vani del castello nei quali poter

mantenere la presenza giornaliera di alcuni

dipendenti. Tre donne, due delle quali erano le

mie zie paterne, e mio padre, fuochista-idraulico

e quindi conoscitore degli impianti del castello,

erano autorizzati, ad entrare nel maniero. A mio

padre, in considerazione delle sue mansioni, era

permesso di muoversi, liberamente, per tutto il

castello.

Gli ambienti a

disposizione

erano situati

nella parte 

nord dell’ala

est del 

castello,

proprio accanto al lato

della torre che guarda

verso Sistiana, ed erano

adibiti a guardaroba.

Erano disposti su due

piani. Le pareti interne

erano nascoste da

armadi bianchi alti fino

al soffitto. Nel mezzo

della stanza un gran

tavolo imbottito che

fungeva da stireria. Le

finestre guardavano la stupenda scogliera

frastagliata dell’attuale “Passeggiata Rilke” che si

allungava dal Castello fino alla baia di Sistiana.

Volgendo lo sguardo al di sotto, a picco, dopo un

balzo di circa 65 metri, si vedeva il mare lambire

la roccia nella zona dove oggi c’è una piccola,

ospitale spiaggia di ghiaia.

Non molti sanno che quella “Spiaggetta” si è

andata a formare grazie al materiale di scavo del 

BUNKER. Il mare, con il tempo, ha fatto franare

e levigato le pietre fino a formare quella piccola

perla incastonata nella roccia che oggi è amata da

molti bagnanti e conosciuta come: “La spiaggetta

del Castello”.

Io abitavo appena al di fuori le mura del castello,

proprio vicino alla Foresteria. Da alcuni giorni

sentivamo delle forti esplosioni che provenivano

dal sottosuolo. Queste facevano tremare le case e

vibrare paurosamente i vetri alle finestre. Nelle

vetrine i bicchieri e le porcellane rischiavano di

rompersi.

Fu mio padre, un giorno arrivato a casa dal

lavoro, a dirci che gli operai della TODT (Forza

lavoro obbligatoria comandata dai tedeschi)

stavano scavando un “bunker” nella roccia tra il

castello e la foresteria. Naturalmente nessuno

sapeva il perché di quell’opera e, tanto meno,

nessuno immaginava le dimensioni che  la stessa

sarebbe andata ad assumere.

Io, bambino di cinque /sei anni, trascorrevo

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Storie @ Storia Anno 0 Numero 3

Dicembre 201 3

molte giornate al castello, in quei vani

“guardaroba”. Ero portato dalle mie zie le quali,

ormai, avevano acquisito una certa confidenza

con le guardie tedesche. Queste non trovavano

nulla di strano nel vedermi entrare ed uscire dal

Castello. Molte volte, pur essendo  io così

piccolo, mi presentavo al Corpo di Guardia posto

alla portineria del castello. I militari  avvertivano

telefonicamente le zie del mio arrivo e mi

facevano passare. Io salivo da solo dalla

portineria al castello. Tutti, con me, erano molto

gentili ed io non avvertivo nessun pericolo,

nessun'antipatia. Nonostante il periodo non fosse

dei più tranquilli, io ero un bambino sereno.

In alcuni armadi erano conservati bellissimi libri

di fiabe e molti giochi per bambini che io usavo

spesso per trascorrere delle ore piacevoli. La cosa

che però mi divertiva di più era: accostare una

sedia alla finestra e volgere lo sguardo all’esterno.

Da qui avevo l’impressione di volare. La mia

fantasia infantile mi faceva vivere molte

emozioni. Ero particolarmente affascinato nel

vedere, circa 30 metri più sotto, quel carrello

ribaltabile da cava che  usciva da un buco nella

roccia e scaricava il suo carico di pietre, giù,

verso il mare.

Con il tempo quella cascata di pietrame aveva

unito il mare all’imboccatura del bunker. Man

mano che il tempo passava il lato a mare

diventava sempre più ampio fino a raggiungere la

dimensione che oggi ha la “Spiaggetta”.  

Il bunker aveva gia preso la sua forma che era

quella di un “ferro di cavallo” molto aperto.

Dall’altra parte lo scavo terminò vedendo la luce

proprio al di sotto della Foresteria. La zona era a

terrazze degradanti costruite su muri in pietra a

secco. Su queste terrazze, non molto tempo

prima, si coltivata la vite che dava l’uva da tavola

per i Principi, Signori di Duino. Le terrazze si

raggiungevano scendendo dei gradini in pietra 

posti sul lato est della Foresteria, all’inizio della

pineta.

Noi, che abitavamo nelle vicinanze, quando

l’allarme ci avvertiva dell’arrivo di aerei Alleati,

avevamo come unico riparo un piccolo, poco

sicuro, rifugio antiaereo. Più che un vero e

proprio rifugio antiaereo si trattava di un buco

scavato nella roccia, profondo quattro/cinque

metri, dove, a malapena, una persona adulta

riusciva a stare in piedi.

Ora, non ci sembrava vero di poter usare il

Bunker. C'era data questa possibilità e la sotto ci

sentivamo proprio al sicuro. Nulla poteva

colpirci, nemmeno un bombardamento aereo di

grosse dimensioni avrebbe  potuto preoccuparci.

Ogni volta che la sirena posta sulla torre più alta

del castello suonava, e questo succedeva varie

volte durante la giornata e pure di notte, la scala

in pietra ci vedeva scendere velocemente  e,

come i topi, colti da un pericolo improvviso

riparano nella loro tana, così noi entravamo di

corsa nel Bunker.

Eravamo autorizzati ad usare solamente la prima

parte della galleria. Più in là si continuava a

scavare e non c' era data la possibilità di

avvicinarci.

Appese alle pareti di roccia c’erano delle

lampade ad acetilene le cui fiammelle davano

all’ambiente una strana, tenue luce tremolante. Il

Carburo che bruciava lasciava nell’ambiente un

odore inconfondibile. In quella parte del bunker

c’erano sempre delle infiltrazioni d'acqua e non

vi era un posto dove potersi riparare dalle gocce 

che continuamente, estate ed inverno, scendevano

dalla volta del bunker. Ogniqualvolta la

permanenza nel rifugio si prolungava, nell'attesa

che la sirena sulla torre del castello suonasse il

“cessato allarme”, noi uscivamo tutti bagnati.

Successivamente erano stati disposti, credo dai

tedeschi, dei “letti” a castello fatti in modo molto

semplice e grezzo, con tavole di legno. Chi dei

duinesi arrivava per primo nel bunker poteva

ritenersi fortunato in

quanto aveva la possibilità

di scegliere il letto di sotto

evitando, così, il fastidioso

gocciolio dell’acqua sulla

testa.

Ci sentivamo molto sicuri

la sotto con molti metri di

roccia sopra di noi. . Quella

sicurezza, purtroppo, non

durò per molto tempo.

Ultimati i lavori in

cemento armato sul lato

opposto alla nostra entrata,

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Storie @ Storia Anno 0 Numero 3

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e quelli che dalla metà del bunker salivano fino al

castello, chiusero l’accesso dalle terrazze. Ora, un

grosso getto in cemento armato, profondo circa 2

metri, e due porte blindate in acciaio, un'esterna

ed un'interna, c'impedivano l’entrata.

Al posto del carrello che scaricava le pietre, giù,

verso il mare, c’era un cannone antiaereo e una

mitragliatrice pesante che sorvegliava il mare e il

cielo. A metà del Bunker  un’altra porta blindata

dava accesso ad una galleria in salita scavata nella

roccia attraverso la quale, salendo circa 120

gradini, si raggiungeva il sottopassaggio che

univa il Castello alla Foresteria. Nella parte

esterna un blocco in cemento armato custodiva

ancora una porta  d'acciaio che permetteva di

uscire all’aperto.

Raggiunto questo stato dei lavori e armato il

Bunker, ai civili non fu più consentito l’accesso. I

lavori erano terminati e gli operai della TOT

erano andati via. Da quel momento anche il

Bunker divenne: “Zona Militare”.

Nel tardo pomeriggio del 1° maggio 1945 i mezzi

blindati del 19° Reggimento Corazzato

Neozelandese, provenienti da Monfalcone,

avevano raggiunto l’incrocio che porta a Duino.

Da quella postazione sparavano verso il villaggio

ed il castello. Sulla torre sventolava ancora la

bandiera con la svastica che i

tedeschi, in ritirata, avevano

trascurato di ammainare.

Il pericolo per i duinesi era più

forte che mai e l’amministratore

dei Principi della Torre e Tasso,

signor Luzar, aveva autorizzato

l’apertura del cancello del

castello onde permettere  ai

duinesi di raggiungere il Bunker

e, attraverso l’accesso superiore, mettersi in salvo.

Mentre noi entravamo dal “Borgo” passando

davanti alla portineria  per raggiungere l’entrata

del bunker, dal viale del castello, con le mani

incrociate dietro la nuca, scendevano i militari

tedeschi per arrendersi all’avanguardia degli

Alleati, i militari neozelandesi. . Ricordo con

chiarezza quest'immagine accompagnata dal

crepitio delle mitragliatrici che non smettevano

nemmeno per un attimo di sparare.

In braccio di mia madre e con mia sorella che

camminava accanto, scendemmo per la prima

volta quella lunga scalinata nella roccia, anch’essa

illuminata da lampade ad acetilene, portandoci in

quel bunker che già in altre occasioni ci aveva

ospitato.

Più tardi, dopo aver ammainato la bandiera

tedesca dal pennone sulla torre, ci raggiunse pure

mio padre il quale ci portò la notizia che le

mitragliatrici avevano smesso di sparare..

Trascorremmo tutta la notte la sotto, al sicuro,

senza sapere quello che succedeva al di fuori del

Bunker.

La luce era sempre la stessa, tenue e traballante

come le fiammelle delle lampade e faceva sì che

le gocce d’acqua  sulla roccia e tra i capelli di mia

madre luccicassero da sembrare tanti cristalli. Mi

addormentai tranquillo e sereno tra le braccia

amorevoli della mia mamma, accanto a mio

padre e a mia sorella. Mi sentivo proprio al

sicuro.

Il mattino seguente qualcuno  c'informò che tutto

era finito e che potevamo uscire in sicurezza per

ritornare, ognuno, nelle proprie case.

Nel Bunker pioveva ancora ma fuori c’era il sole.

Immagino che nel cuore e nella mente degli

adulti ci fossero emozioni molto forti. Per me,

bambino di sei anni, quella era "una giornata

come tante altre".

Non ero consapevole di aver

trascorso nel Bunker del

Castello lo spazio di tempo tra

un capitolo ed un’altro della

nostra storia.

Ero entrato con l’immagine dei

militari tedeschi che uscivano

dal castello con le facce tristi e

preoccupate ed ora, mentre

ritornavo alla mia casa, ai miei giochi, alla mia

spensieratezza, vedevo i soldati neozelandesi,

sorridenti, che vi entravano.

Molte volte, da adulto, sono ritornato nel Bunker

e ad ogni discesa la mente ha riportato alle mie

narici l’odore del Carburo che bruciava nelle 

lampade ad acetilene innescando, con molta

chiarezza, quelle immagini di quando ero …

soltanto un bambino.

* Si ringrazia il Castello di Duino per la gentile concessione

dell'utilizzo delle foto del bunker.

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Storie @ Storia Anno 0 Numero 3

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Foglio informativo trimestrale web gratuito a cura delCentro Studi e Ricerche Storiche “Silentes Loquimur”(Istituto di notevole interesse regionale, L.R.n.17/2008,

Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia e Patrocinio della

Regione Veneto, Provvedimento 5.2.2009).

www.silentesloquimur.it

Anno 0 . Numero 3 . Dicembre 2013

Direttore responsabile: Gianfranco Baldas

Direttore editoriale: Bruno Vajente

Grafica e digitalizzazione: Franz Zanne

Autorizzazione del Tribunale di Pordenone

Registro della stampa n. 43 del 23/05/2013

E-mail: [email protected]

Pubblicazioni da segnalare

“La Legione Tagliamento. Dalle origini allaSeconda Guerra Mondiale, alla GuerraCivile”

Scritto dal Dottor Leonardo Malatesta ed edito dal

Centro Studi e Ricerche Storiche “SILENTES

LOQUIMUR” di Pordenone. Partendo dalla nascita della

Milizia esamina il reparto nelle varie fascie temporali: i

primi anni del fascismo, il ruolo che ebbe la 63ª legione

nel friulano, la Seconda Guerra Mondiale e la

partecipazione della legione alla campagna di Russia per

concludere con il ritorno in Italia e la riorganizzazione del

reparto, la caduta del fascismo fino alla fine della

Seconda Guerra Mondiale.

“Bus de la Lum e Cansiglio”

Edito dal Centro Studi e Ricerche Storiche “SILENTES

LOQUIMUR” di Pordenone. Scritti e documenti del

fondatore Marco Pirina raccolti e riordinati a cura del

Dottor Bruno Vajente. Tratta delle vicende e delle

atrocità commesse nella zona del Cansiglio nella Seconda

Guerra Mondiale fino alla fine del Conflitto con

particolare attenzione al Bus de la Lum e aree limitrofe.