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Simone - La Mente Ai Tempi Del Web

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Dello stesso autore in edizione Garzanti: n paese del pressappoco

fl Mostro Mite Le passioni dell'anima

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RAFFAELE SIMONE

PRESI NELLA RETE

La mente ai tempi del web

BIBLIOTECA PENI Via Dino Penazzato, 1

Inventario N ... ~.

m-Garzanti

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PROLOGO IN TRENO

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L'UBIQUITÀ DEI MEDIA

1. La «mediasfera»

Internet rende stupidi? Questa domanda non è priva di senso, se nel 2010 un intero libro è stato dedicato al tentati­vo di darle risposta. 1 Un'analisi apparsa una decina di anni prima attribuiva già alla rete la capacità di trascinare il navi­gatore in una «estasi inquietante»,2 e altre posizioni apoca­littiche dello stesso timbro abbondano. Tuttavia, anche chi considera esagerato questo tipo di preoccupazione è d'ac­cordo sul fatto che il web ha modificato radicalmente il nostro modo di pensare e di comportarci.

I viaggiatori seduti attorno a me in questo affollato vago­ne del treno ad alta velocità danno di ciò una prova imme­diata. Sono donne e uomini adulti. Tutti, nessuno escluso, armeggiano da ore col telefonino, senza interruzione: stru­sciano il dito sullo schermo, premono tasti, fanno chiamate, provano e riprovano numeri che non hanno risposto, apro­no e chiudono il coperchio (si chiama cover); ogni tanto ti­rano fuori il telefonino e gli gettano uno sguardo, come per assicurarsi che dal piccolo schermo non sia uscito qualcosa di cui non si sono accorti. Due di loro in particolare, che so­no in coppia, seduti ai lati dèl corridoio, si lanciano ogni tanto gridolini, di soddisfazione o di rabbia. Ciascuno ma­neggia simultaneamente un telefonino e un computer, ten­tando, a quanto capisco, una complessa operazione paralle-

1 Mi riferisco a Carr (2010). 2 Alludo a Finkielkraut & Soriano (2000).

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la: scaricare dal proprio telefonino delle applicazioni (si chiamano app) e poi provare a trasferirle sul computer del partner. Ma il partner è proprio lì accanto! La soddisfazione segnala che l'operazione è riuscita, altrimenti uno sbuffo di fastidio.

Se allungo lo sguardo nel corridoio, non ci vuol molto a vedere che la maggior parte dei viaggiatori, salvo quelli·che dormono, sono presi in operazioni somiglianti: armeggiare col telefonino e il computer, parlare e ascoltare servendosi di un qualche apparecchio, digitare numeri o far scorrere sullo schermo immagini, guardare film, spesso ascoltando !!UOni portati al loro orecchio da una cuffietta ..

In parole povere, quasi l'intera popolazione del vagone, e forse di tutto il treno, passa ore maneggiando attrezzi elet~ tronici, la maggior parte dei quali connessi con la rete. Ma dicendo «passa ore» non dico nulla su quel che stanno fa­cendo in realtà con questi attrezzi. Chiaramente, non se ne stanno servendo per un bisogno effettivo, per un 'urgenza

·seria. Sembra piuttosto che sperimentino, quasi lottando con una sorta di ginnastica forzosa, qualcosa di misterioso .. Ma in questa ginnastica mettono un fare ossessivo e nello stesso tempo testardamente infantile, che lascia capire che quel che hanno in mano è un oggetto inquietante ed enig­matico, che li attrae e li tenta con un richiamo a cui non pos­sono dire no. Scrutano lo schermo come fosse un buco da cui può uscire di tutto, anche roba pericolosa, e picchiano -sulle tastiere proprio per vedere che cos'è che può venir fuo­ri da quella ignota cavità. La maggior parte parla nel telefo­·nino, a gran voce, raccontando di consigli di amministrazio­ne, di madri in attesa, di figli in ansia, di vacanze da fare, di soldi, e ripetendo in continuazione le stesse cose, con un ef­fetto di vaniloquio dawero sconcertante: «È difficile vivere con. gli uomini, proprio perché tacere è così difficile.»3

3 Friedrich Nietzsche, Così parlò 7arathustra, in opere, VI I (tr. it. di Maz­zino Montini:iri), Adelphi, Milano 1979, p. 173.

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In ogni caso, il comportamento dei miei compagni di viag­gio urta sul mio e lo influenza: a ogni tocco i tasti emettono un bip, dentro il proprio apparecchio ognuno parla ad alta voce, da alcuni di questi aggeggi esce musica, i telefoni squil­lano con jingle invadenti, la luce azzurrina dello schermo si spande attorno, mentre leggo sono costretto a vedere le im­magini sullo schermino del passeggero accanto ... Inoltre, mi viene imposto di sentire le loro storie: quel che raccontano, le loro pronunce locali (non tutte per me gradevoli), il lin­guaggio punteggiato dalle espressioni scurrili che ormai l'u­so frequente ha nobilitato ... A nulla serve augurarsi che si ri­peta la miracolosa situazione descritta nell'Apocalisse (8, 1): «Nel cielo si fece silenzio per quasi mezz'ora»!

Il mio ambiente, la mia ecologia personale, è deciso da queste persone e dal loro armamentario, non da me. Siamo insomma tutti avvolti nella mediasfera, un ambiente cioè in cui i media elettronici in rete giocano un ruolo fondamen­tale, non più come strumenti ma ormai come presenze ar­roganti.

2. Mediasfera e noosfera

Questa premessa vagamente narrativa serve a indicare i temi di cui questo libro si occupa. Li presento ora in termi­ni più generali.

Ubiquità e convergenza dei media. La fase attuale è caratteriz­zata da un'ubiquità dei media che non ha precedenti nella storia. Per riprendere il termine che ho appena introdotto, siamo immersi in permanenza nella mediasfera. Media di va­ria natura, personali e no, sono infatti ovunque: addosso alle persone, per le strade, nei posti di lavoro, sui mezzi di tra­sporto, negli spazi pubblici e privati, nei negozi, nelle stazio­ni, negli ospedali, nelle banche ... Ciascuno ne ha addosso uno o più, siano essi materiali (hardware) o immateriali

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(software): da una parte telefonini, computer connessi in re­te, tabl,ets, fotocamere, webcam; dall'altra le applicazioni (le app) che possono girare su quelli: dai socia[ forum ai pro­grammi per i più vari scòpi. Questa rete ricopre l'intero pia­neta: non c'è praticamente alcun punto geografico che non possa esser raggiunto dalla rete, in cui non sia possibile te­lefonare, mandare e ricevere posta elettronica, scaricare fil,es dal web, perfino farsi localizzare e vedere se, attorno a noi, ci sono persone che conosciamo. Ciò significa anche, più alla radice, che non c'è più nessun punto del globo dove si possa essere veramente soli, appartati e in silenzio. Anche se que­sto luogo esistesse, sopra la nostra testa ci sarebbe ugual­mente un satellite a fotografarci, per poi mandare in rete le immagini che riprende (compresa quella della nostra perso­na). Analogamente, quasi tutto quel che accade è sotto gli occhi di una telecamera o di una fotocamera: sulla rete spun­tano di continuo immagini delle cose più singolari, rare, im: pensabili e anche sconvolgenti, inclusa la morte e la violenza.

C'è poi un altro lato importante: i contenuti. L'ubiquità dei media ha messo a disposizione di chicchessia, di qua­lunque paese, credo politico e religioso e cultura, contenuti per l'innanzi inaccessibili e introvabili: informazioni, cono­scenze, immagini, suoni, testi. Si tratta di conoscenze di ogni livello, da quelle andanti e generiche a quelle specialistiche. E, oltre che conoscenze, la rete mette a disposizione im­mense quantità di informazioni minute (orari ferroviari, da­te di nascita e di morte, nomi e opere, immagini e filmati, dati geografici ed economici, e così via continuando).

La convergenza di più media nello stesso supporto ha ac­centuato il fenomeno in misura drammatica. Paventata co­me un grave pericolo dai primi analisti della mediasfera, 4 la convergenza è ormai trionfante e inarrestabile, anche se non ha ancora completato il suo cammino. Il cosiddetto

4 Come Paul Virilio (vedi per es. Virilio 1998) e Ignacio Ramonet (per es. Ramonet 1999) in Francia, e, in Italia, Franco Ferrarotti (cfr. Ferrarot­ti 1997).

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smartphone è un esempio spettacolare di ciò: telefono, com­puter, terminale telematico, terminale radio, televisivo, ap­parecchio fotografico e webcam, navigatore topografico si fondono in un unico oggetto fisico, portatile e mobile. Il ta­blet (come l'iPad), che non ha ancora sviluppato tutte le sue funzionalità nel momento in cui scrivo, probabilmente ce ne farà vedere ancora delle belle.

In conclusione, non c'è stata nessuna fase della storia del mondo in cui la mediasfera sia stata così avvolgente e non c'è quasi nessun luogo sul pianeta che sia oggi del tutto pro­tetto dai media. Con un accerchiamento così serrato e ine­ludibile, qualcuno potrebbe addirittura vagheggiare una si­tuazione di completa libertà dalla mediasfera, cioè (siccome i fenomeni prendono maggiore evidenza se li indichiamo con un nome inglese, magari anche un po' sciocco) un me­dia liberation day. Però, un media liberation day può esser so­gnato da singoli individui, che possono magari festeggiarlo a casa propria (ma fino a quando?), ma di certo non può es­sere organizzato su base collettiva. Ormai i media sono in­fatti indistruttibili e inestirpabili dalle nostre vite, dove anzi penetreranno sempre più in profondità.

«Esattamento»:funzioni create dagli organi. La varietà di me­dia è talmente ampia che non si riesce più a catalogarli; ma, a dispetto delle differenze, nel loro insieme essi hanno atti­vato un eccezionale processo di «esattamento» ( exaptation). Il termine, che proviene dalla biologia,5 contiene un'evi­dente strizzata d'occhio a adattamento, il processo in cui «la funzione crea l'organo». Nell'esattamento avviene il contra­rio: funzioni e bisogni prima inesistenti vengono alla luce e diventano perfino urgenti appena si rende disponibile un mezzo tecnico capace di soddisfarli. In tal modo, il nuovo organo, che può anche esser nato per caso (per esempio, a seguito di un'invenzione industriale), genera dal nulla nuo-

5 VediJay Gould & Vrba (1982), dove si trova la prima proposta del ter­mine, che ebbe nel seguito grandissimo successo.

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vi impulsi, bisogni e necessità. L'ubiquità dei media è tal­mente capillare da dar luogo, nei loro utilizzatori, a una gi­gantesca catena di esattamenti.

La quantità dei bisogni così risvegliati è tale che è diffici­le darne una spiegazione in due parole. Il bisogno di parla­re al telefono era stato represso per secoli oppure è nato ex novo dalla disponibilità di apparecchi versatili ed economi­ci? In quali profondità dell'uomo si nascondeva lo spettaco­lare bisogno di comunicare che si osserva in tutto il mondo dacché esiste il telefonino? L'esigenza di spedirsi messaggi sms (miliardi e miliardi ogni giorno attorno al pianeta) gia­ceva insoddisfatta in fondo all'inconscio oppure è stata creata di sana pianta dalla disponibilità della risorsa tecni­ca? Il bisogno di ascoltare musica in ogni luogo e momento era represso con la forza oppure è stato indotto ex novo dal­la creazione di apparecchi portatili per immagazzinare e ascoltare suoni? Il bisogno di vedere e farsi vedere da altri· in rete era nascosto nelle profondità oscure della mente in attesa di esprimersi, oppure a portarlo alla luce è stata l'e­splosione planetaria della fotografia digitale (ormai possibi­le con qualunque mezio: apparecchi dedicati, telefonini, webcam, tablets, e così via) ?

Credo che la risposta giusta a tutte queste domande sia la seconda che ho dato ogni volta: se così è, la modernità tec­nologica ha dato luogo a un gigantesco esattamento della specie.

Metamorfosi dell'ambiente_ e dei comportamenti. L'ubiquità dei media ha sconvolto l'ambiente quotidiano. Lo mostra la li­sta seguente, del tutto incompleta, di oggetti e usi, un tem­po frequentissimi e ora scomparsi o declinanti: quasi scom­parse le agenzie di viaggi, le cabine telefoniche e l'uso dei telefoni in albergo, dissolte le botteghe di sviluppo e stampa di fotografie, praticamente scomparso l'uso di scrivere lette­re a mano, dimenticati i gettoni e i taccuini telefonici perso­nali, scomparsi gli elenchi e le segreterie telefoniche, tra-

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sformate le librerie, quasi soppressi i dischi musicali, sempre più prive di clientela le agenzie bancarie ...

Perfino alcuni aspetti del comportamento fisico sono tra­sformati. Basterà pensare ai gesti indotti dalla televisione, che li ha elaborati e diffusi sul pfaneta intero: l'usanza, tipi­ca delle celebrità, di puntare il braccio con l'indice teso ver­so un interlocutore che in realtà non c'è; il gesto ripetitivo e scattante con cui le donne scostano i capelli dalle tempie; la modifica del gesto di additare, che una volta si faceva con l'indice teso e ora invece, per effetto della televisione, si fa con due o tre dita ripiegate; e tanti altri. Su questo terreno già la pubblicità aveva aperto la strada alla «falsificazione» del comportamento; la mediasfera spinge il processo ancora più avanti.

Queste trasformazioni sono arrivate a urtare pesantemen­te anche quella che (col bel termine di Teilhard de Chardin) possiamo chiamare la noosfera, cioè l'insieme dei pensieri, va­lutazioni, opinioni, concezioni sui temi più diversi, che risie­dono nella testa dell'essere umano. Sono numerosi i fattori che modificano la noosfera, alcuni dei quali sono oggetti fi­sici e tecnologie: basta pensare a come il frigorifero, l'auto­mobile e l'aeroplano hanno trasformato la nostra vita e la nostra visione delle cose. Ora intervengono in modo prepo­tente i media elettronici e telematici - la mediasfera.

Alcuni esempi. (a) L'ubiquità di video e fotocamere, an­che minuscole e portatili, rende quasi impossibile nascon­dersi alla vista, così come cancella la possibilità stessa di un evento che non abbia testimoni: quasi in ogni luogo del pia­neta, una webcam ti sta riprendendo o un satellite ti sta se­guendo. ( b) La disponibilità di fotocamere di mille tipi sti­mola a dismisura la produzione e l'uso di immagini e filma­ti e più in generale trasforma il mondo in oggetto da foto­grafare (cioè da vedere e far vedere, piuttosto che da cono­scere e sperimentare).6 (e) La possibilità di localizzarsi e far-

6 Ho analizzato in un altro libro (Simone 2008) alcuni effetti dell'ubi­quità dei media sulla nostra concezione del vedere e dell'essere-visto.

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si localizzare mediante uno smartphone riduce lo spazio del­l'irreperibilità e perfino la possibilità di perdersi (che qual­cuno può considerare come una risorsa più che come un

• ) 7 guaio ... D'altro canto, alcune categorie cruciali dell'esperienza in­

teriore sono intaccate senza rimedio. Il nostro tempo è in­terrotto senza posa dal bisogno compulsivo di controllare i media che portiamo addosso, consultare il telefonino, scat­tare fotografie, cercare siti con mappe e informazioni. Tutte queste pratiche stravolgono l'esperienza del tempo continuo e indisturbato trasformando il tempo in una sequenza di in­terruzioni e di frammenti. La concezione della privacy, per parte sua, è alterata dalla possibilità di parlare in qualunque luogo raccontando qualunque cosa, senza nessuna preoccu­pazione per la presenza di altri. In questi fenomeni risalta il carattere intrusivo della mediasfera: ai suoi strumenti e gad­get si ha bisogno di accedere in ogni momento, anche men-. tre si eseguono operazioni complesse e pericolose (come guidare un autobus o un treno, pilotare un aereo o fare un'operazione chirurgica8) o si sta assistendo a spettacoli o rituali collettivi (un film, uno spettacolo musicale o teatrale, non meno che una cerimonia o una manifestazione). An­che il computer in rete può essere un fòmite di interruzio­ne: mentre si lavora a qualsiasi cosa si può passare alla rete, navigare un po' di tempo, scrivere messaggi elettronici, con­trollare Facebook e altri socia[ forum e tornare magari al pro­prio lavoro. Insomma, la mediasfera esalta l'interruzione rispet-

Trascuro qui il fatto importante che l'enorme esplosione degli strumenti per riprendere immagini (fotografiche o in movimento) ha alterato tutti i comportamenti connessi al fotografare (il modo di impugnare l'appa­recchio, di osservare nel mirino, di trattare le foto ottenute eccetera); e, come effetto finale, ha distrutto l'idea stessa di fotografia come riprodu­zione di immagini scelte invece che come raffigurazione di cose ed eventi qualunque.

7 Sul perdersi, vedi La Ceda (1988). 8 Queste allusioni si riferiscono a fatti reali, più volte segnalate dalla

stampa dei primi anni di questo secolo.

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to alla concentrazione, la frantumazione rispetto alla conti­nuità. In ciò amplifica a dismisura l'effetto di intrusione ti­pico della pubblicità.9

Del pari, la nozione dello spazio, sia individuale sia collet­tivo, si è alterata. Quanto al livello individuale, lo spazio di rispetto che circonda ciascuno è continuamente violato dal­l'intrusione mediatica degli altri: racconti al telefono di fat­ti propri, schermi che spandono luce nel cinema o al teatro, immagini che scorrono su display nelle mani del signore ac­canto. Tutto ciò produce effetti profondi nella concezione dello spazio tipica del diritto, per la quale il luogo è fonda­mentale: così, per esempio, nella formulazione di un con­tratto o in vista della notifica di un atto o di un mandato.10

Analogamente, i.media portatili (in specie il telefonino) sono il perno di un campo di ansia di spettacolare potenza, dato che attraggono e veicolano ansia sia dal lato del chiamante sia da quello del ricevente. La ricerca scientifica, che co­mincia a occuparsi di alcune dimensioni della mediasfera, dà informazioni più dettagliate e perturbanti: per. esempio, uno studio di psicologia sociale del 2011 11 ìndica che usan­do l'email si tende a mentire molto più che quando si co­munica faccia a faccia. Questo dato di fatto collima con l'im-

. pressione che in generale, usando i media, ci si lasci andare a un linguaggio molto meno controllato e composto e si scelga facilmente un codice aggressivo e volgare. Può darsi che internet non ci renda più stupidi, ma sembra certo che ci rende più bugiardi.

9 Un'analisi dei fenomeni di interruziÒne è in Ferreiro (2001) e in Pittèri (2006).

10 Irti (2001) discute gli aspetti giuridici della mediasfera e la connessa dissoluzione del carattere territoriale delle norme giuridiche.

11 Mi riferisco allo studio di Zimbler & Feldman (2011). Sulla base del­l'esame di 110 soggetti, si conclude che per mail si mente il 4,9% di volte più che nelle interazioni di faccia, e che, usando il programma di chat messenger, si mente il 2,7 % in più. Il computer allenta le inibizioni sociali e spinge a considerarsi «nascosti» e «poco visibili».

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Potere incantatorio e maniacalità nell'uso. Potenziato dall'ef­fetto di esattamento, l'uso delle risorse della mediasfera è per lo più ossessivo-compulsivo. Tipicamente, l'utilizzatore è indotto a comportamenti maniacali, che arrivano alla vera e propria dipendenza: insomma, non riesce a trattenersi dall'u­sare i gadget mediatici. La ripetitività coatta è l'aspetto più per­turbante: tutti esplorano in continuazione gli oggetti me­diatici, battono sui tasti, spediscono messaggi; consultano fonti internet, fanno interminabili telefonate, fotografano, consultano, guardano, studiano le app ... Nessun'altra ope­razione simultanea è in grado di inibire l'accesso alla me­diasfera: si telefona mentre si guida, si fotografano le cose più varie, si parla e si fotografa mentre si è alla toilette, men­tre si parla con un'altra persona. Questo fenomeno si ac­centuerà via via: la disponibilità di gadget portatili (televiso­ri, tablet e simili) nelle automobili renderà più rischiosa' la circolazione stradale e distruggerà la concentrazione del\e operazioni relative. (Non dico nulla sul fatto che queste pra­tiche possono dar luogo a nuove forme di rischio, anche grave, per la salute o la vita.) Il comportamento mediatico è insomma intrusivo e inarrestabile. E ogni giorno l'intrusio­ne scavalca nuove frontiere e trova nuovi spazi: in Italia, nel 2011, per esempio, si notò l'inedito fenomeno del politico che, invitato a un talk show televisivo, inviava messaggi col suo tabl.et sotto l'occhio della telecamera, con una sorta di spettacolare, è spiazzante, mise en abime.

La mediasfera ha dunque la stessa diabolica forza sedutti­va di un demone incantatore, al quale non è possibile sfuggire. Non conosciamo ancora il motivo di questo fenomeno, che certamente avrà a che fare con la sfera profonda dell'uomo; ma che le cose stiano così è sotto gli occhi di tutti.

Parvenza di democrazia. Per un curioso stereotipo, la me­diasfera è vista in genere come uno spazio di felicità e di de­mocrazia.12 Dato che quest'ultimo termine è tra i più ambi-

12 Cfr. Pittèri (2007, pp. 9 ss.) .

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gui che esistano, 13 bisogna intendere bene in che senso è in­teso in riferimento alla rete. Chi sostiene che la rete è de­mocratica allude al fatto che chiunque può accedervi - ac­cedere cioè a una o più delle risorse che essa offre: blog, so­cial forum, siti di chat, siti internet, giornali online- e farci qualcosa. Quindi la rete amplia gli spazi di libertà indivi­duale e salta, almeno in gran parte, i controlli e i filtri. La

· natura del «qualcosa» che ci si può fare è varia e non mette conto analizzarla qui. In sostanza, in rete chiunque può prendere la parola e dire (o far vedere) quel che vuole, an­che se non è affatto certo che qualcuno stia lì a vedere o leggere proprio quel messaggio. Questo dà all'autore dell'in­tervento la sensazione di «poter fare quel che vuole» e di «esser libero», cioè di non dover sottostare ai vincoli che di solito si applicano negli ambiti in cui si pubblica qualcosa (giornali, libri, e simili). Altri elementi rafforzano questa valutazione positiva: per esempio, con fotografie o film gi­rati di nascosto è possibile mettere nei guai delinquenti di vario tipo. Il caso Wikileaks, che turbò lopinione mondiale nel 2010, fu presentato e sentito da molti come un esempio di libertà e di democrazia: masse di documenti «ingiusta­mente» segreti potevano essere letti da tutti, finalmente! Li­bertà di accesso, decentramento degli interventi, libertà di linguaggio, allargamento delle possibilità di indagine, pos­sibilità di servirsi della rete anche a partire da paesi privi di diritti civili. ..

È chiaro che questa percezione di libertà e di spazio aper­to vale più dalla parte dell'emittente che da quella del rice­vente: mentre l'emittente si sente libero da vincoli e lacci, per contro il ricevente può sentirsi oppresso dall'enorme quantità di sciocchezze, di volgarità e di imposture che la re­te veicola senza posa. Il «mito positivo»14 della rete deve es­ser quindi riesaminato con attenzione: la libertà che con-

13 Per una discussione aggiornata dei significati di questo termine, Ma­stropaolo (2011).

14 Come lo chiama Pittèri (2007).

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sente avrà dei costi (per l'utilizzatore quapto per il riceven­te) e la democrazia che esalta sarà magari più apparente che sostanziale. ·

Perdite e guadagni. Talune delle trasformazioni a cui ho ra­pidamente accennato possono esser considerate acquisizio­ni per la noosfera; altre invece vanno trattate come perdite, passi indietro, perfino pericoli. Naturalmente, siccome que­ste sono valutazioni personali, può darsi che altri esprime­ranno giudizi diversi. Ma non si può negare che siamo al centro di una tempesta culturale senza pari, della quale nes­suno è in grado di prevedere l'esito.

Non è privo di significato che questa serie di cambiamen­ti si sia avviata e coincida con l'era che chiamiamo modernità globalizzata, che si aprì alla metà degli anni Ottanta.15 In ef­fetti, globalizzazione e ubiquità dei media coincidono larga­mente. Gli aspetti più marcati della modernità, e anche qualcuno dei più atroci, sono stati generati proprio dall'u­biquità dei media: transazioni finanziarie istantanee su scala planetaria, controllo visivo continuo degli ambienti di lavo-

. ro e limitazione della privacy, produzione e commercio di materiale pornografico e pedofilo ...

15 La data di inizio dell'era globale è tema di discussione. A me pare plausibile proporre la metà degli anni Ottanta del Novecento, quando si realizzò una catena di eventi che ~ommando i loro effetti produssero una formidabile rivoluzione inavvertita. Ne indico alcuni, senza dir nulla sulle loro connessioni causali: nascita e diffusione del personal computer, nascita della telematica e della posta elettronica; nascita delle negozia­zioni finanziarie telematiche, cioè istantanee; emersione di India e Cina come mercati planetari; inizio dei grandi processi di fusione aziendale in tutto il mondo; nascita del gusto internazionale nei consumi di massa; nascita delle compagnie aeree low cost, deregulation statunitense e conclu­sione del programma thatcheriano di qistruzione del pubblico a vantag­gio del privato (capitalistico); dissociazione della finanza dall'economia reale; diffusione planetaria dei comics televisivi giapponesi; nascita della soap opera ...

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3. La Terza Fase

Questo libro non contiene riferimenti a gadget dal nome commerciale, perché il suo obiettivo non è quello di pas­sare in rassegna gli oggetti tecnologici tipici della media­sfera. Non punta neanche a dare un'analisi dei tanti softwa­re che girano su questi media, anche se alcuni di essi sa­rebbero interessanti dal punto di vista adottato qui. Il mio angolo di osservazione è concentrato piuttosto sui cambia­menti che la mediasfera ha prodotto sulla noosfera, il suo ambiente e i comportamenti connessi; cioè sul modo in cui la rete ha cambiato la nostra mente, la nostra intelligenza e le loro operazioni.

Il libro è nato dalla sensazione che siamo ormai molto avanti in una nuova cruciale fase della storia del conoscere, che riguarda il modo in cui si creano e si elaborano il nostro sapere, le nostre idee e le nostre informazioni. Per sapere non intendo quello degli studiosi e degli scienziati; intendo, più in generale, tutte /,e forme di conoscenza diffusa di cui di­sponiamo e di cui ci serviamo anche nella vita quotidiana ir­riflessa. Per questo, una modificazione profonda nel modo di formarsi delle conoscenze non è un tema accademico, ma una questione che tocca la vita di tutti, perché influenza (per esempio) le opinioni politiche e le decisioni di ognu­no. Non mi pare che, tra le tante storie che si scrivono, ce ne sia una dedicata a un tema così importante. È un peccato, specialmente perché (come si sostiene in questo libro) sia­mo tra i flutti di grandi cambiamenti di cui non abbiamo an­cora un'immagine chiara e su cui non siamo in grado di esprimere una valutazione precisa.

Infatti, sono convinto per molti motivi che ci troviamo in una Terza Fase della storia del modo in cui si formano le co­noscenze della specie umana e si alimenta il suo sapere. Non è la prima volta che nella storia dell'uomo si realizza un cambiamento drastico nel modo di formarsi delle cono­scenze. Prima di oggi, si sono susseguite almeno due Grandi

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Fasi. 16 La Prima Fase coincise con l'invenzione della scrittura, che permise di fissare le informazioni su un supporto stabile con segni scritti, liberando la memoria individuale e collettiva dal peso di un'enorme quantità di dati che, prima di allora, dovevano essere registrati a mente. La consapevolezza del­l'importanza di quel cambiamento dovette essere acutissima, se l'inizio di quella fase stimolò addirittura le analisi di Plato­ne, che nel Fedro analizzò nel dettaglio i vantaggi e gli svan­taggi della scrittura. (Ne vedremo alcuni aspetti nel cap. 5.)

La Seconda Fase si aprì venti secoli dopo con l'invenzione della stampa, la «rivoluzione inavvertita» (come l'ha chia­mata Elizabeth Eisenstein in un famoso lavoro: Eisenstein [1979] 1986), che di colpo fece del libro, fino allora costo­sissimo e non riproducibile, un bene a basso prezzo e quasi popolare, mediante cui un vastissimo pubblico poté acco­starsi a testi che fin allora poteva soltanto sentir raccontare a voce. Questa scoperta modificò in profondità diversi aspe.tti della vita culturale e sociale, come Eisenstein ha dimostrato nei dettagli. Data l'importanza rivoluzionaria che finì per avere nel C<?rso della storia, il libro è stato per più secoli ed è ancora un simbolo pregnante del sapere e della cultura.17

Malgrado la loro apparente diversità, le due Grandi Fasi hanno un punto in comune: le trasformazioni a esse con­nesse hanno colpito lo scrivere e il leggere, che, malgrado le differenze, sono per molti aspetti due facce della stessa cosa, dato che sono, tutte e due, operazioni della mente (oltre che del corpo) che hanno a che fare con testi. Le due operazioni oggi ci sembrano ovvie e naturali, ma non apparivano così ai filosofi classici: questi si rendevano conto meglio di noi che scrivere e leggere erano capitali per il formarsi e il conser­varsi delle conoscenze. Ai primi del Seicento, a più di un se­colo dall'invenzione della stampa, Francis Bacon dedicò ma-

16 l)na periodizzazione non del tutto dissimile è quella proposta da Marshall McLuhan nel suo Gutenberg's Galaxy (McLuhan 1962).

17 McLuhan (1962) chiamò espressivamente «uomo tipografico» l'uo­mo definito dalle proprietà della Seconda Fase.

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gnifiche pagine nel De dignitate et augmentis scientiarum alla potenza della scrittura come mezzo di conservazione del sa­pere. La sua analisi è ispirata a una preoccupazione che og­gi, erronea,mente, non sentiamo più: le conoscenze sono un patrimoniofragile, delicato, sempre esposto al rischio dian­dar perduto o disperso. Sono, in fondo, un monumento fat­to di nulla: carta, caratteri, discorsi. Per questo a Bacon sem­brava urgente trovare un modo efficace di immagazzinarlo e salvarlo dalla rovina, di dargli insomma ciò che intrinseca­mente gli manca - stabilità e durata. Secondo lui, proprio la scrittura e la lettura avevano creato questa stabilizzazione, permettendo a milioni di persone di attingere a cose pensa­te da altri a immense distanze di tempo e di spazio.

Oggi ci sembra che le conoscenze siano più al sicuro. Cer­to, spesso vengono lanciate profezie sulla deperibilità della carta dei libri (che entro pochi decenni potrebbe diventare polvere, trasformando le biblioteche in ammassi di sabbia), e sul rischio che i supporti magnetici che coµservano dati nei calcolatori possano smagnetizzarsi e per incanto ritor­nare vergini. Ma nell'insieme nessuno di noi crede davvero che questi rischi siano reali e nessuno se ne preoccupa dav­vero. Ciò ci ha fatto dimenticare il problema che preoccu­pava Bacone: come si conserva e si trasmette quel che sap­piamo? il sapere che si è accumulato per secoli è veramente stabile? lo ritroveremo intatto tutte le volte che ci servirà? La domanda non è da poco: anche se non ce ne accorgiamo quasi più, buona parte delle cose che sappiamo (dalle più elementari alle più complesse e raffinate) le dobbiamo pro­prio al fatto di averle ktte da qualche parte, dove qualcuno le aveva depositate per iscritto. 18 E leggendole, soprattutto, ci aspettiamo di poterle ritrovare facilmente nel caso che non ce le ricordassimo. Basta pensare a quel che succederebbe se all'improvviso ci accorgessimo che uno strumento banale come il database che contiene, nel nostro telefonino, tutti i numeri che ci interessano, fosse misteriosamente svanito ...

18 Argomenti analoghi in Popper ( 1949).

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Benché le conquiste prodotte dall'invenzione della stam­pa ci siano sembrate permanenti e immutabili, a un cc;rto punto è successo qualcosa. Gli ultimi quindici o venti anni del xx secolo ci hanno infatti traghettato in una Terza Fase, fi­nora (come è ovvio) immensamente più breve delle due precedenti, ma non per questo meno drammatica. Intanto, si è avuto un drastico cambiamento quantitativo: oggi, la quantità delle cose che sappiamo per averle lette da qualche parte è molto minore di trent'anni fa. Sappiamo infatti mol­tissime cose che non abbiamo letto da nessuna parte, tan­tomeno su libri in senso convenzionale: possiamo averle semplicemente «viste» - in televisione, al cinema, su un giornale o uno dei tanti supporti stampati di oggi - o ma­gari «lette» con quella speciale forma di lettura che faccia­mo con lo schermo del computer e dei tanti gadget a cui è affine. Possiamo anche averle «sentite», non più dalla viva voce di qualcuno ma da una radio, o più probabilmente da un amplificatore (magari piantato nelle nostre orecchie sotto forma delle cuffiette di un iPod) che diffonde segnali «letti» da un supporto (una memoria magnetica e simili: il senso stesso della parola leggere è molto più ampio di trenta anni fa).

Anche qui si sta disegnando un cambiamento, dapprima inavvertito, poi consapevole di sé stesso e del suo potere, e talvolta perfino sfrontato. Come aveva intuito Platone, il cambiamento sta avendo effetti profondi non solo sul con­tenuto delle conoscenze ma anche sul modo in cui sono or­ganizzate, la loro forma o (come la chiamerò nel cap. 6) la loro charpente. Infatti, è noto che il mezzo di cui un messag­gio si serve finisce per influire dapprima sulla natura del messaggio. Per esempio, la scrittura permette di esprimere un sapere più articolato e complesso che la lingua parlata -forse perché mette in moto una specifica maniera di funzio­nare dell'intelligenza. Può darsi perfino che tale comples­sità e finezza sia prodotta proprio dal fatto di usare la scrittu­ra, per una sorta di straordinario circolo virtuoso.

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Il passaggio dall'una all'altra delle Grandi Fasi è stato ca­ratterizzato da fenomeni di due tipi diversi, uno tecnico e uno mentale. Il fenomeno tecnico risiede nel fatto che si in­ventano continuamente «strumenti» materiali che hanno a che fare con la conoscenza, nel senso che la fissano, la vei­colano, la trasmettono, la precisano: prima lo stilo e la pen­na, poi la stampa, oggi il computer e i media, che hanno raggiunto una eccezionale varietà di forme. Quello mentale è costituito invece dal passaggio prima dall'oralità alla scrit­tura, poi dalla lettura alla «visione» e all'ascolto. A questi cambiamenti se ne collega un terzo, meno vistoso perché ri­siede nella mente, ma più importante: riguarda il lavoro che la nostra mente fa sulle informazioni, il modo in cui le rice­ve e le elabora, il modo in cui le conserva e le dimentica. Può darsi che, con la mediasfera, si attivino nuovi moduli o nuove funzioni della mente; nello stesso tempo, vecchi mo­duli e funzioni, che senza accorgercene abbiamo tenuto at­tivi per secoli, potranno tornare in riposo, magari per re­starvi per sempre.

Qual è il motore di questa Terza Fase? Si possono dare due risposte. La più semplice è la. seguente: i motori del cambiamento sono il video e il computer, con tutti gli effet­ti che hanno sulla società, sulla cultura e sulla mente e con gli sviluppi tecnologici che hanno prodotto. Non dimenti­chiamo che la televisione nacque con la reputazione (falsa sin dall'inizio) di «elettrodomestico gentile», strumento di puro svago. Ma oggi ha gettato la maschera e si mostra qual è: nel bene e nel male, fa più formidabile «scuola di pensie­ro» che l'uomo abbia mai frequentato. (Qualcuno, come Sartori 1998, ha addirittura sostenuto che la televisione ·pro­duce «post-pensiero»; e Popper 1995, chiamandola «cattiva maestra», l'ha definita «Un pericolo per la democrazia».) Perfino chi non ha mai letto un libro può assorbire qualche conoscenza, informazione o opinione dalle immagini (più che dalle parole) della televisione.

Ma oggi, nel secondo decennio del secolo XXI, evocare la

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televisione come oggetto isolato non è più all'altezza dei tempi. Sebbene sia ancora lì tra noi, l'oggetto «televisione» ha fatto uno spettacolare salto qualitativo: dall'inizio del se-· colo XXI, infatti, è un display sul quale arrivano immagini e suoni originati da un computer o da un server. Il televisore non è che la componente visibile di una rete. Per questo, una risposta più appropriata alla domanda qui sopra è la se­guente: la Terza Fase comincia con l'avvento dell'informatica e della te/,ematica ma trionfa con l'avvento della rete e dei gadget connessi a essa. Questo fenomeno ha cambiato la natura di diversi oggetti quotidiani: la televisione è stata poco più di un oggetto di casa finché non è stata risucchiata nel territo­rio della rete; la stessa cosa è accaduta al telefono, altro og­getto «mite» che si è trasformato in una potente «Stazione di partenza» verso altri pianeti.

Per tutti questi motivi, il libro non è più l'emblema unico, e ormai neanche il principale, del sapere e della conoscen­za. Il computer (specialmente se connesso alla rete), la tele­visione (diventata interattiva) e il telefono (inteso come ter­minale di una rete e come porta verso altri mondi) e in ge­nerale i media rappresentano meglio. la situazione d'oggi. Nel frattempo - inutile dirlo - l'idea stessa di conoscenza è profondamente cambiata e non sappiamo più bene come definirla. ·

Mentre descrivo il declinare di forme di sapere che ab­biamo ingenuamente ritenuto destinate a durare in eterno, ammetto che non sono capace di prevedere, se non per cen­ni e frammenti, quelli che si stanno creando. Credo nortdi­meno che nel frattempo possa essere salutare rendersi con­to, magari con l'aiuto delle considerazioni che presento qui, che alcune forme di sapere le abbiamo perdute irrevocabil­mente: ci sono molte cose, nel conoscere, che non facciamo più; altre che addirittura non sapremmo più come fare.

Ma, beninteso, una gran varietà di cose che prima erano inimmaginabili ora ci risultano facili e naturali: l' esattamen­to non produce solamente mostri.

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I SENSI E L'INTELLIGENZA

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1. L'ORDINE DEI SENSI

1. Sordo o cieco ?

Se ci capitasse di dover rinunciare a un senso, sarebbe meglio essere sordi o ciechi? Questa domanda insegue mol­ti di noi sin dall'infanzia e ognuno avrà dato la sua risposta; ma la questione non è né infantile né generica. Nasconde infatti un'altra domanda parecchio più profonda: quale sen­so è il più importante per noi? E quindi: quali informazioni sono dawero primarie per la nostra vita?1 Infatti, quando si contrappongono occhio e orecchio, non ci si domanda solo come questi organi funzionano nella percezione. Si fa qual­cosa di più: si suppone che ciascuno dei due sensi, siccome può percepire cose diverse, dia accesso a diverse modalità di conoscenza e addirittura a sfere diverse di esperienza.

La domanda che ho formulato all'inizio chiama quindi in causa l'intera questione del conoscere e della sua importanza per la vita. (Inoltre, essa si presenta in modo particolarmente acuto nella modernità, dato che occhio e orecchio sono -perora-gli unici sensi dawero coinvolti nell'accesso alla me­diasfera.) Non sorprende perciò che questa domanda abbia anche un gran rilievo filosofico: ne troviamo antecedenti im­portanti nella storia del pensiero, che si è interrogato per se­coli sul peso dei diversi sensi per il formarsi della conoscenza.

1 Questa domanda ingenua coincide con quella che si facevano molti filosofi nel Seicento e Settecento, quando, con una specie di esperimento mentale, immaginavano che cosa sarebbe successo nella mente di una persona senza vista, o senza udito, e così via. Alcuni di questi argomenti sono ricordati più avanti nel testo.

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Può essere utile perciò ricostruire alcune delle fasi di quella discussione, che si protrasse a lungo e si concluse lasciandoci un'opposizione ricca anche oggi di significato, quella tra le conoscenze che passano attraverso l'occhio e le conoscenze che passano attraverso l' orecchio.2 Del resto, gli etologi e gli zoologi distinguono, anche tra gli animali, quelli «a mentalità visiva» (come i primati) da quelli «a mentalità olfattiva» ( co­me il gatto o il cane), secondo il senso che guida primaria­mente la loro conoscenza del mondo esterno. In questo mo­do, l'uomo può essere considerato un animale «a mentalità visiva e uditiva» (essendo molto meno ricco il suo odorato), con un peso diverso per i due sensi, e con diversi apprezza-

. menti dati a ciascuno nel corso della storia. È proprio con un riferimento all'importanza dei diversi

. sensi che si apre, per esempio, uno dei testi cardine della fi­losofia europea, la Metafisica di Aristotele.3 Gli uomini, dice Aristotele,

amano, più di tutte, la sensazione della vista. Infatti, non solo ai fini dell'azione, ma anche senza avere alcuna intenzione di agi­re, noi preferiamo il vedere, in certo senso, a tutte le altre sen­sazioni. E il motivo sta nel fatto che la vista ci fa conoscere più m tutte le altre sensazioni e ci rende manifeste numerose differenze fra le cose. (Metafisica 980A-B) 4

Del resto, già al tempo di Aristotele il tema dell'impor­tanza rispettiva dei sensi non era nuovo. Eraclito aveva so­stenuto che «gli occhi sono testimoni più sicuri degli orec­chi» (framm. 61),5 privilegiando quindi l'attendibilità delle

2 Ho discusso di filosofia del vedere in un altro lavoro (Simone 2008, spec. cap. 4), in particolare con riferimento alle posizioni di Hannah Arendt e di Hansjonas.

3 Nelle osservazioni sul pensiero antico seguo a tratti Napolitano Valdi­tara (1994).

4 Ovviamente il corsivo è mio. Cito dall'edizione italiana a cura di G. Reale (2 voll., Loffredo, Napoli 1968).

5 Cito dall'edizione italiana a cura di C. Diano e G. Serra (Eraclito, I

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informazioni che passano per la vista. Per Platone la vista «è il più acuto dei sensi permessi al nostro corpo» (Fedro 250C­D), 6 e l'importanza dell'occhio risalta anche dal fatto che es­so è, «tra gli organi di senso [ ... ], quello che più ricorda nel­l'aspetto il sole» (&pubblica 508B 3-4). La vista è quindi il più «teoretico dei sensi» (Napolitano Valditara 1994, p. 6), quello attraverso cui acquisiamo più informazioni e di natu­ra più ricca.

Insomma, l'antichità aveva identificato due «vie regie» della percezione, l'occhio e l'orecchio, la vista e l'udito, e tra queste aveva stabilito molto per tempo un'opposizione e una gerarchia. Quest'opposizione segna un tema costante della riflessione filosofica successiva.

2. I sensi e l'anima

Nella storia del pensiero c'è anche una versione mistica (o teologica) della contrapposizione tra occhio e orecchio. Essa è depositata per esempio nella tradizione platonica, e poi dei primi cristiani, dei padri della Chiesa e nello gnosti­cismo. Nell'insieme, questi indirizzi negano ogni fiducia ai sensi del corpo, che considerano ingannevoli per natura. Perciò ai sensi corporei vengono fatti corrispondere altret­tanti sensi interni, localizzati chissà dove, ma che sono gli unici sicuri. 7

Una versione particolarmente interessante di quest'oppo­sizione è offerta da Agostino nei paragrafi (X xxviii-xxxix) delle Confessioni dedicati ai sensi, considerati nell'ambito di

frammenti e l,e testimonianze, Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, Mila­no 1980).

6 Cito dall'edizione del Fedro con il commento di G. Reale (Fondazio­ne Lorenzo Valla, Mondadori, Milano 1998).

7 Il tema era presente già in Platone, che all'occhio interno attribuiva la capacità di vedere le entità ideali (come quelle della matematica: Gor­gia 508a). Sulla questione della vista interiore nella Gnosi, cfr. per esem­pio Filoramo (1987, pp. 64 ss.).

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un'analisi del sé spinta all'estremo. In queste pagine i sensi sono presentati non solo come un'indispensabile via dico­noscenza ma soprattutto come fonte di incessanti pericoli per l'anima. È una sorta di versione teologico-morale dell'a­nalisi del conoscere, in cui la conoscenza è rischio continuo ed è profondol'allarme verso «questa immensa foresta di in­sidie e di pericoli» (X xxxv 56) che sono i sensi.8

Oltre infatti alla concupiscenza della carne, che inerisce al pia­cere di ogni senso e voluttà, [ ... ] c'è nell'anima, grazie a quei medesimi sensi del corpo, un'altra cupidigia, vana e curiosa, paludata del nome di scienza e conoscenza, [ ... ] che risiede es­senzialmente nell'appetito del conoscere. (X xxxv 54)

L'orecchio è il canale attraverso cui entrano più sollecita­zioni, e le più pericolose: il pericolo sta essenzialmente nel fatto che l'udito può indulgere al piacere della musica, per­dendo il senso delle parole. «Quando succede che il canto mi tocca più del testo cantato, confesso che il mio peccato è degno di pena, e preferirei allora non sentir cantare. Ecco a che punto sono!» (X xxxiii 50).

Anche locchio ha i suoi rischi, anche dato che la vista è «la prima tra i sensi della conoscenza». L'importanza del­la vista è tale che «parliamo di "vedere" anche per altri sensi, quando li applichiamo alla conoscenza» (X xxxv 54): vedere significa anche, per esempio, «capire», «senti- · re», «Udire». Ma l'occhio, essendo una delle vie principali per l'accesso alla bellezza delle forme, comporta una sua concupiscenza (la concupiscentia oculorum: X xxx 41; xxx 54), che produce effetti perfino nel sogno, quando si fan­no avanti immagini che «agiscono su di me con una forza di persuasione che non hanno quelle vere da sveglio». La

8 Cito le Confessioni dall'edizione a cura di M. Simonetti (Fondazione Lorenzo Valla, 4 voll., Mondadori, Milano 1992-97). In Agostino questo tema si salda con una generale diffidenza nei confronti dell'attività se­miotica. Vedi per questo Simone ( 1969).

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forza delle immagini dei sensi interni non meno che di quelli esterni è tale che, «per avidità di esperire e di cono­scere» (X xxx 55), si è spinti a inutili forme di curiosità, come quella di «guardare un cadavere dilaniato che ti fa inorridire» (ivi).

Questa demolizione della percezione travolge anche la conoscenza in generale: il conoscere «i misteri della natura fuori di noi» è inutile ( scire nihil prodest), anzi, addirittura analogo alla «morbosa curiosità» che spinge a «far mostra, negli spettacoli, di stranezze di ogni sorta» (X xxxv 55). Tra­volto dalla sua diffidenza verso i sensi, a un certo punto di questo vertiginoso capitolo, Agostino arriva a lodare «la luce che vedeva Tobia» da cieco! (X xxxiv 52).

In alcune versioni di ques.ta opposizione si distingue allo­ra tra due diverse vie di senso: una esterna, corporale, e una interna, del~'anima. Così abbiamo due diversi occhi: quello esterno (del corpo), che vede le cose in modo analitico e in­sopprimibilmente approssimativo, e quello interno (dell'a­nima), che le coglie tutte d'un colpo, in una conoscenza ful­minea e perfino visionaria. Allo stesso modo avremo un orecchio corporeo e uno interiore. Quest'ultimo è l'unico vero, dato che è il solo in grado di cogliere la voce incorpo­rea della coscienza.

3. Una ripresa illuministica

L'esame del rapporto della visione con l'udito riemerge nel Seicento e nel Settecento. Il vedere è il fondamento di una varietà di innovazioni del grande secolo della scienza: sull'esaltazione della vista poggia, per esempio, la 'rinascita della geometria, e soprattutto la riscoperta del sapere empi­rico di cui si occupa la Nuova Scienza seicentesca. Anzi, que­sta è soprattutto scienza del vedere e della vista: non a caso, essa conta proprio sull'acuirsi della capacità di vedere che è resa possibile dalla scoperta di nuovi mezzi di osservazione

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(come il cannocchiale o il microscopio: Rossi 1995, pp. 70 ss.), che permettono di posare lo sguardo su cose infinita­mente grandi o infinitamente piccole, prima di allora del tutto inattingibili. Con l'invenzione e il perfezionamento del microscopio, «SÌ apriva allo sguardo un mondo nuovo e inaspettato di minerali e ·di tessuti organici, strutturati se­condo forme, un mondo popolato da esseri viventi invisibili all'occhio umano» (Rossi 1995, p. 73).

Anche nell'ambito dell'Illuminismo si sviluppa una di­scussione imponente sulla natura .dei sensi e sul contributo che ognuno di essi dà alla formazione della conoscenza. Il quadro in cui questa si accende è costituito da due esigenze: da un lato l'intensa elaborazione di nuove teorie del cono­scere, dall'altro il tentativo di definire la natura e la specifi­cità delle diverse arti.

Il Traité des sensations (1754).di Condillac offre a questa di­scussione un'immagine famosa. Condillac infatti ipotizza, per descrivere la funzione dei sensi nello sviluppo della co­noscenza, una statua inerte, che simula la condizione del­l'uomo ancora privo di vie di senso. Condillac immagina che a questa statua si aggiungano via via i singoli sensi, presi _ ognuno separatamente, e ricostruisce i tipi di conoscenza che derivano da questa graduale integrazione sensoriale. Poi immagina che i sensi si associno l'uno all'altro, a coppie o in combinazioni più ricche, e che infine siano integrati tra loro creando la capacità conoscitiva completa dell'uomo. ·

Con quest'esperimento mentale Condillac mostra che cia­scun senso permette alla statua di acquisire una nuova por­zione di conoscenze e di attivare nuove capacità. Benché il senso «che istruisce tutti gli altri» sia per lui il tatto ( cap. 8), 9

nella sua classificazione delle vie di formazione della cono­scenza l'udito ha un posto speciale: è particolarmente fine e, in più, permette di percepire una molteplicità di stimoli simultaneamente:

9 Cito dalla tr. it. in Opere, a cura di C.A. Viano, Utet, Torino 1976.

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l'orecchio, essendo organizzato per sentirne esattamente i rap­porti [si intende: tra i suoni], li distingue in modo più fine ed esteso; le sue fibre sembrano dividersi le vibrazioni dei corpi so­nori, ed esso può sentire distintamente più suoni insieme. [corsivo mio] (p. 383)

Co,ndillac fa un passo in più. In diverse sue opere sviluppa una singolare concezione delle lingue come «metodi anali~ tici», cioè come risorsa che ha l'effetto di costringere il pen­siero, per sua natura disordinato e spesso caratterizzato da immagini simultanee, a scomporsi in parti e a ordinarsi in successione. QuindÌ, mentre la percezione visiva muove sempre da una specie di tableau, da un «quadro» in cui non si distingue il prima e il dopo, e nel quale non si ha un'ar­chitettura temporale organizzata, nelle lingue il prima e il dopo sono fondamentali. La narrazione di storie è possibile soltanto perché le lingue costringono a dire una cosa prima e altre dopo. È l'udito, si può dire, che impone alle lingue questa proprietà. In questo modo, le lingue costringono il pensiero ad articolarsi e a scomporsi, rendendolo così co­municabile agli altri.

Sulla stessa linea stanno le riflessioni di Johann G. Her­der, al punto di transizione tra Illuminismo e Romantici­smo. In Uber den Ursprung der Sprache (Sull'origi,ne del linguag­gi,o, 1769) 10 Herder si domanda quale sia stata, alle origini, la funzione dei diversi sensi, e se ce ne sia uno che abbia potu­to contribuire alla nascita del linguaggio. Ne risulta, ancora una volta, una gerarchia dei sensi ordinata secondo il con-' tributo che ognuno di essi dà all'acquisizione delle cono­scenze, e secondo il tipo di conoscenze a cui dà accesso, che serve specialmente a definire quale senso abbia operato nel­la formazione del linguaggio.

In questa gerarchia, a differenza della posizione preva­lente tra i Greci, non è la vista che spicca, ma l'udito, di cui

1° Cito dall'edizione italiana a cura di A.P. Amicone (Saggi,o sull'origine del linguaggi,o, Pratiche editrice, Parma 1995).

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Herder sostiene il carattere «mediano», cioè centrale in re­lazione alla nascita del linguaggio.

Siccome l'uomo riceve il linguaggio insegnatogli dalla natura esclusivamente attraverso l'udito, senza il quale non può inven­tare il linguaggio, l'udito è diventato in certo qual modo il suo senso mediano [corsivo dell'autore], vera e propria porta dell'anima ed elemento di unione fra i vari sensi. (pp. 84-85)

L'udito è il senso mediano anche per altri aspetti. Lo è «quanto a distinzione e chiarezza, e dunque [ ... ] è il senso del linguaggio». La vista al contrario

è così lucida e abbagliante: offre una tale quantità di tratti che l'anima soccombe sotto la loro varietà e forse riesce a malapena · a isolarne uno, ma tanto debole che ogni riconoscimento per suo tramite diventa difficile. (p. 86)

Herder conclude che è inevitabile che il linguaggio sia dovuto all'udito: «fu del tutto conforme alla natura che l'o­recchio di~entasse il primo maestro di linguaggi,o [corsivo mio]» (p. 71). Ogni senso ha per così dire una specializzazione per­quanto concerne il modo di elaborare le informazioni che riceve. In particolare, l'udito ha la capacità di trattare le per­cezioni in successione, che è ciò che specificamente lo distin­gue dalla vista:

L'udito è il senso mediano in considerazione del tempo in cui opera, quindi è il senso del linguaggio. [ ... ] La vista presenta tut­to davanti a noi di colpo [corsivo mio], sgomentando l'apprendi­sta con il quadro smisurato della successione spaziale. Notate che riguardo ci usa la maestra di lingua servendosi dell'udito! Essa ci sgrana nell'animo soltanto un suono per v,olta, dà senza mai stancarsi, dà e ha sempre più da dare. (p. 87)

Su questo tema Herder ritorna trent'anni più tardi nella Metakritik (Metacritica, 1799), opera polemica in cui attacca senza riserve l'indirizzo della Critica della ragi,one pura di

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Kant, riesaminando i fondamenti della percezione e il suo contributo al formarsi della conoscenza. In questo libro, due paragrafi sono dedicati significativamente a La vista e lo spazio e a L'udito e il tempo. Nel primo,Herder sostiene che la vista «CÌ mostra d'un tratto più cose le une accanto alle altre» [corsivo mio] (p. 51).11 Se

fossimo privati, con il senso della vista, anche di questa grandio­sa contiguità e concomitanza del creato, [ ... ] e la nostra capa­cità intellettiva fosse limitata alla sola successione delle cose le une dopo le altre, saremmo capaci allora di calcolo aritmetico e musicale ma privi di fantasia figurativa, e perciò anche pensa­tori molto limitati. (p. 52)

Al contrario:

Per l'orecchio il suono è ciò che per l'occhio è il raggio di luce: questo è la più precisa descrizione della linea, quello la più pre­cisa ·descrizionè del momento, di una successione di momenti che fluiscono. L'intero dominio della modulazione, la misura­zione d'ogni movimento più o meno lento o rapido, regolare o irregolare, compete all'orecchio: prima tra tutte la successione più nobile [corsivo mio], quella del linguaggio, che aderisce ai nostri pensieri. (p. 52)

Dall'altro lato, come ho accennato prima, costruire una gerarchia dei sensi serve per definire le possibilità e i limiti rispettivi delle diverse arti. G.E. Lessing, nel suo Laocoonttf 2

(1776), ricerca per esempio la specificità e i limiti della pit­tura nei confronti della poesia. E trova il criterio distintivo proprio nel fatto che ognuna delle due arti attinge a una di­versa modalità di senso': la poesia, che si serve di suoni arti­colati nel tempo, può rappresentare eventi sitccessiiJi, mentre

11 Cito dall'edizione italiana parziale a cura di I. Tani (Metacritica, Edi­tori Riuniti, Roma 1993).

12 Cito dall'edizione italiana a cura di T. Zemella (Rizzoli, Milano 1994).

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la pittura, attraverso segni simultanei (che devono essere visti cioè tutti in una volta, come nel tableau di Condillac), rap­presenta oggetti che si presentano nello stesso momento.13

Ne derivano considerazioni importanti su quel che le due arti possono fare e, rispettivamente, non fare:

Oggetti che esistono uno accanto all'altro, o le cui parti esistono una accanto all'altra, si chiamano corpi. Quindi i corpi con le loro proprietà visibili sono i veri oggetti della pittura. Oggetti che seguono uno dojJo l'altro, o le cui parti seguono una dopo l'al­tra, si chiamano in generale azioni. Quindi le azioni con le loro proprietà visibili sono i veri oggetti della poesia. [corsivo mio] (p. 143) 14

Questa discussione approda ad alcune conclusioni: (a) i sensi hanno responsabilità diverse nell'acquisizione della co­noscenza; ( b) tra essi, due in particolare sono importanti, la vista e l'udito; a ciascuno di essi è riservata nella storia una valutazione alterna, ma si riconosce universalmente la loro profonda complementarità e insieme la radicale opposizio­ne; (e) talune risorse essenziali sono legate strettamente a questi due sensi: in particolare, all'udito il linguaggio (Her­der) e la poesia (Lessing), alla vista la pittura.

13 La stessa preoccupazione di distinguere le potenzialità delle vie di senso è in Diderot, che l'analizza nella Lettre sur l,es aveugl,es (1749) e lari­prende nella Lettre sur l,es sourds et l,es muets ( 1751), con una netta predile­zione (forse ispirata da Condillac) per il tatto. In quest'ultima opera, Di­derot sostiene per esempio: «ho trovato che tra tutti i sensi l'occhio era il più superficiale, l'orecchio il più orgoglioso, l'odorato il più voluttuoso, il gusto il più superstizioso e ìl più schizzinoso, il tatto il più profondo e il più filosofico» (traduco da Oeuvres Complètes, voi. IV, Hermann & Cie, Pa­ris 1978, p. 140).

14 Questo tema non si esaurisce con Lessing. Eugène Delacroix (cit. in Wunenburger [1997] 1999, p. 32), per esempio, sottolineava acutamente «l'impossibilità dell'abbozzo in letteratura, l'impossibilità di dipingere qualcosa con lo spirito, e la forza, al contrario, che l'idea può sprigionare in uno schizzo appena abbozzato. [ ... ] In letteratura il pressappoco è in­tollerabile [ ... ];in pittura[ ... ] una bella prova, uno schizzo di grande ef­fetto possono eguagliare le opere espressivamente più compiute».

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4. Due modelli a confronto

Due modelli ... Come mostra questa sommaria raccolta di ri­ferimenti, la filosofia europea ha lavorato a h.ingo per defi­nire le vie di senso attraverso le quali si forma la conoscenza; e non è affatto un caso che questo sforzo sia stato più inten­so proprio nelle epoche (come i primordi della filosofia in Grecia e l'Illuminismo in Europa) in cui si tentava di co­struire una sorta di storia genealogfra del conoscere.

Da quella discussione abbiamo ereditato un'idea forte, a cui siamo ancora attaccati anche senza essere filosofi o psi­cologi, e che riappare spesso nel ragionare moderno: esiste un ordine dei sensi, una gerarchia di importanza e di attendi­bilità, entro la quale la vista e l'udito sono le vie principali della conoscenza. Ciascuno ha i suoi compiti e i suoi limiti, ciascuno ha contribuito alla nascita di una facoltà della mente, ma, quanto a ricchezza di informazioni e a sicurezza, è la vista a prevalere. Malgrado i pericoli che presentano, lo sguardo, il guardare, l'osservare sono alla base del sapere dell'uomo. 15

Se però si riflette su questa gerarchia, colpisce che, in tut­ta la storia di questa discussione, nessuno si sia reso conto di un fenomeno importante, che cambiò drasticamente le car­te in tavola. A un certo punto della storia la gerarchia dei sensi fu infatti modificata dalla scoperta della scrittura - forse la prima vera rivoluzione cognitiva della storia. Tenendo conto degli effetti della scrittura, infatti, la gerarchia dei sen­si si fece più sfumata e complessa, perché si creò una nuova e diversa modalità sensoriale. Vediamo perché.

Da alcuni lavori fondamentali sappiamo ormai con sicu­rezza che l'invenzione della scrittura non fu solo un pro­gresso tecnico, ma molto di più: costituì per la vita dell'in-

15 In Simone (2008) ho discusso questa tesi, arrivando alla conclusione che la vista non è affatto il più «nobile» dei sensi (secondo la formula del saggio The nobility of sight di Hans Jonas: Jonas 2001, pp. 136-147) ma il più freddo e il più cinico.

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telligenza una vera e propria svolta, che fu ricchissima di conseguenze.16 La scrittura - essendo anzitutto un mezzo per rendere stabile il discorso, che fino ad allora era stato so­lo parlato, e quindi evanescente e non immagazzinabile -rese disponibile una sorta di straordinaria memoria, indivi­duale e collettiva, in cui si poterono conservare informazio­ni che prima si dovevano conservare a mente. 17 Ebbe quindi un effetto rivoluzionario in vista della costituzione di nuovi quadri della conoscenza.

Ma ebbe anche effetti generali sull'attrezzatura sensoriale dell'uomo, della quale modificò l'ordine e la gerarchia in­terna. Essa infatti esaltò enormemente il vedere rispetto all'u­dire.18 Ma non lasciò senza cambiamenti la vista, bensì la tra­sformò in profondità, perché ebbe l'effetto di far emergere un ulteriore, ben distinto, modulo di percezione, che è la visio­ne alfabetica.19 Chiamo così quella modalità della visione che permette di acquisire informazioni e conoscenze a partire da una serie lineare di simboli visivi, ordinati l'uno dopo l'altro alla stessa maniera dei segni alfabetici su una riga di testo.

16 Quest'osservazione era già nel Fedro di Platone, sul quale vedi più avanti (cap. 4). Per gli studi moderni, cfr. specialmente Havelock (1978), Ong (1982) e Olson (1994), dei quali mi servo a tratti nelle argomenta­zioni che seguono.

17 Su questo tema ritorno più avanti, nel cap. 3. 18 Cfr. per esempio un'affermazione di Havelock ([1978] 1981,.pp.

276-277), che è una straordinaria descrizione degli effetti profondi della scoperta e della diffusione della scrittura nell'antica Grecia: «In condizio­ni pre-alfabetiche, la cognizione della lingua [ ... ] dipende dall'orecchio. La sua esistenza dipende dalla bocca. In condizioni di alfabe_tismo, le leg­gi (o le abitudini) della visione vengono usate in aggiunta a quelle dell'o­recchio, sia nel processo cognitivo sia in quello creativo».

19 Ricerche moderne sulla neurobiologia del leggere in Dehaene (2003; 2010). Un'idea somigliante è in Havelock ([1978] 1981, p. 277): «La vista, che non può essere usata a scopi linguistici nelle società pre-al­fabetiche, aveva ancora una funzione per quanto riguarda la conservazio­ne [dell'informazione], in quanto forniva alla memoria le forme degli ar­tefatti usati e riusati nella cultura; artefatti che, replicati nel corso di ma­nifatture successive, dettero continuità e struttura anche al comporta­mento».

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Non c'è dubbio che si tratti di un nuovo e specifico modulo di percezione rispetto alla vista e all'udito così come li iden­tificava la filosofia classica: nel bambino che impara a legge­re, la visione alfabetica deve essere laboriosamente allenata per proprio conto, il che significa che essa originariamente non esiste affatto o non è pronta a operare.

Per effetto della scrittura, la visione alfabetica ampliò quindi la gamma delle modalità Cli percezione preesistenti, arricchendo le vie di formazione della conoscenza. Inoltre (come aveva intuito Condillac20), si sviluppò un'opposizio­ne tra due tipi di intelligenza (o meglio due modi di lavo­rare dell'intelligenza): quella simultanea e quella sequenzia­le. La prima opera su dati simultanei e per così dire sinotti­ci (come gli stimoli visivi, che si presentano in gran nume­ro nello stesso momento e tra i quali è difficile stabilire un ordine) e quindi ignora il tempo; la seconda opera invece sulla successione degli stimoli e li dispone in linea, analiz­zandoli e articolandoli (Simone 1988, pp. 211-212).

Diverse ricerche fanno pensare che l'intelligenza sequen­ziale sia più evoluta della sua corrispondente simultanea. Goody ([1986] 1988) ha mostrato per esempio che dobbia­mo alla scrittura il passaggio dalle norme consuetudinarie alla legge. Codificare una consuetudine, spiega Goody, si­gnifica prima metterla per iscritto, e poi darle forza di legge. In altre parole, la scrittura fissa e rende autorevole il diritto: in un certo senso, lo crea e gli conferisce forza normativa. In modi simili, essa contribuisce in generale a modellare alcuni aspetti dell'organizzazione sociale.

Quindi, dopo la scrittura, la gamma delle risorse disponi­bili per acquisire conoscenza evoluta si può descrivere così: l'uomo è attrezzato:

(a) per l'ascolto lineare, in quanto può ascoltare suoni di­sposti in ~uccessione. L'ascolto, benché possa cogliere (co­me aveva visto Herder) anche più fonti simultanee di suono,

20 Ho sviluppato l'idea di Condillac in Simone ( 1987).

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è comunque lineare. Benché non tutto quel che ascoltiamo sia ordinato in successione come gli elementi di un testo (in senso proprio, come un discorso verbale, o in senso traslato, come un brano musicale), l'ascolto è lineare perché deve se­guire lo svolgimento del segnale sonoro;

( b) per la visione non-alfabetica, in quanto può vedere og­getti in generale. Questa visione è caratterizzata dal fatto di non essere lineare (si ricordi l'osservazione di Herder se­condo cui «la vista presenta tutto davanti a noi di colpo»), cioè di non esser costretta a seguire una successione ordina­ta nel suo movimento;

( c) infine, per la visione alfabetica, che permette di vedere quegli specifici oggetti che sono le scritture, decifrandone il valore fonico (capendo cioè «come si pronunciano») e al tempo stesso cogliendone il significato. Ora, le scritture so­no di norma il supporto di testi verbali, la cui proprietà fon­damentale è quella di essere disposti in quella speciale suc­cessione che i linguisti chiamano appunto linearità.21 In ciò, la percezione segue la natura stessa dei testi: siccome il testo si svolge linearmente, anche la visione che lo percepisce de~ ve essere allenata a operare in senso lineare.

La nascita della visione alfabetica costituì un arricchi­mento fondamentale dell'ordine dei sensi ed espanse con uno strumento formidabile (l'intelligenza sequenziale) l'at­trezzatura conoscitiva dell'uomo moderno.22 Certo, a diffe-

21 Il termine linearità fu proposto da Ferdinand de Saussure nel suo Cours,de linguistiquegénérale (1916).

22 E interessante ricordare che Giacomo Leopardi, geniale filosofo del linguaggio, attribuiva proprio all'analisi l'invenzione dell'alfabeto: «Que­sta invenzione [dell'alfabeto e della scrittura in generale], per dirlo bre­vemente, apparteneva tutta all'analisi; è di natura sua, tutta opera ed ef­fetto di questa; richiedeva essenzialmente la risoluzione negli ultimi e semplicissimi elementi, le quali cose sono appunto le più difficili all'uma­no intelletto, e le ultime operazioni eh' egli soglia giungere a fare» ( Zibal­.done 2950-2960; cito secondo la paginazione delle schede leopardiane, e seguendo la classica edizione di G. Pacella, 3 voll., Garzanti, Milano 1991).

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renza delle altre forme di visione, essa deve essere educata, allenata, tenuta in esercizio, e fa da base a una varietà di for­me di attività mentale, che possono essere anche molto complicate. Una volta che l'occhio ha decifrato il segno scritto, occorre dare a questo un valore fonico ed estrarre il reticolo dei significati dall'intera operazione. Ma, dinanzi all'intrinseca difficoltà del vedere alfabetico, va valutato l'e­norme vantaggio offerto dalla gamma di informazioni di cui esso è la porta: la maggior parte delle conoscenze evo­lute dell'uomo provengono dall'atto di lettura, cioè dal fat­to di averle decifrate da uno scritto mediante la visione al­fabetica. 23

... e i loro emblemi. L'opposizione tra occhio e orecchio ha generato un'ulteriore opposizione, tra i prodotti tipici del­l'uno e dell'altro, cioè tra i loro rispettivi emblemi.

All'epoca di Lessing e di Diderot, questi emblemi erano costituiti - come si è visto - dalla pittura e dalla poesia. Og­gi se ne sono imposti altri, più adatti ai tempi e alle richieste della cultura di massa globalizzata. Per esempio, la visione alfabetica ha come terreno privilegiato di applicazione la scrittura e in generale i testi (ma non è affatto detto che questi testi siano costituiti o rappresentati da libri); la visio­ne non-alfabetica trova il suo terreno nella visione, negli og­getti che essa presenta e nell'enorme varietà di stimoli visivi che caratterizzano il nostro tempo; l'orecchio si esercita sul­la grande varietà delle manifestazioni della voce, del suono e di tutti gli strumenti che li veicolano - un fenomeno che negli ultimi trent'anni ha avuto uno sviluppo esplosivo e che non è stato ancora completamente catalogato.

23 La visione alfabetica va distinta accuratamente dalle altre modalità sensoriali. Essa ha infatti caratteri in comune con la visione non-alfabeti­ca e, insieme, con l'ascolto, ma assomiglia piuttosto a quest'ultimo: come la visione non-alfabetica, essa è, ovviamente, mediata dall'occhio; ma, co­me l'ascolto, aggiunge a questo tratto quello di essere lineare, cioè di po­tersi applicare a oggetti disposti in successione.

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5. Un cambiamento nei modelli d'intelligenza

Il cambiamento di emblemi a cui ho accennato non è un episodio marginale. È insieme causa ed effetto di un più profondo cambiamento nel modo di acquisire la conoscen­za, che si è verificato a partire dagll ultimi due decenni del xx secolo - un passaggio inavvertito ma radicale, che ci ha portato da una modalità sensoriale all'altra, da una forma d'intelligenza all'altra, e che ricorda per molti versi ciò che accadde all'epoca dell'invenzione della scrittura.

Si tratta di questo: alla fine del XX secolo siamo gradual­mente passati da uno stato in cui la conoscenza evoluta si ac­quisiva soprattutto attraverso il libro e la scrittura (cioè attra­verso locchio e la visione alfabetica o, se preferiamo, attra­verso l'intelligenza sequenziale), a uno stato in cui essa si ac­quista anche - e per taluni soprattutto - attraverso l'ascolto (cioè lorecchio) o la visione non-alfabetica (che è una speci­fica modalità dell'occhio), cioè attraverso l'intelligenza si­multanea. Perciò; siamo passati da una modalità di cono­scenza in cui prevaleva la linearità a una in cui prevale la si­multaneità degli stimoli e dell'elaborazione.24

Purtroppo, questo fenomeno non dà manifestazioni di­rette e clamorose, ma si lascia osservare solamente attraver­so indizi. Uno di questi è costituito dal graduale arrestarsi, in tutto il mondo, del decremento dell'analfabetismo, e, corrispettivamente, dall'enorme aumento della varietà degli stimoli uditivi che veicolano messaggi e della tipologia delle immagini visive.25 L'arresto dell'alfabetizzazione è tanto più sconcertante in quanto fa seguito a un'avanzata che per di­versi anni era sembrata interminabile. Esso lascia pensare che la diffusione dell'alfabeto (e, più in profondità, quella

24 Come ho già accennato nel testo, l'ascolto e la visione non-alfabetica hanno in comune il fatto di permettere la percezione di più segnali simul­tanei, ai quali non impongono nessun ordine specifico: sono, cioè, vie di senso che richiedono un basso grado di governo.

25 Un interessante tentativo di tipologia delle immagini visive si trova iriWunenburger ([1997] 1999).

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delle. procedure di conoscenza che esso permette e attiva) abbia incontrato impedimenti imponenti e profondi - cioè che per qualche motivo lo «Spirito del tempo» non sia più favorevole alla diffusione .dell'alfabeto, della visione alfabe­tica e delle forme di intelligenza che essa favorisce. 26

Alla base di questo fatto sta un fenomeno nuovo, che pos­siamo considerare di importanza storica: la creazione di un nuovo ordine dei sensi, per il quale, nell'uomo della fine del xx secolo, la vista e l'udito si sono ancora una volta scam­biati di posto, dopo secoli di primato della visione alfabetica. Oggi è tornata a dominare la visione non-alfabetica, e una varietà di analisi si sono soffermate su questo fatto. 27 Stiamo tornando a una. dominanza dell'orecchio e della visione non-alfabetica, e le giovani generazioni sono un'avanguar­dia di questa migrazione a ritroso. Il passaggio dalla domi­nanza dell'orecchio a quella dell'occhio, conseguente alla nascita della scrittura, era apparso un progresso definitivo, e ora invece si mostra solo come una delle fasi di un pendolo.

Il cambiamento non è da poco. Bisogna ricordare, infatti, che le nostre intelligenze hanno vissuto per non meno di duemila anni nel quadro segnato dalle tre vie di senso che ho illustrato (ascolto lineare, visione non-alfabetica, visione alfabetica). L'unica variazione davvero rilevante in questo ambito fu costituita dall'invenzione della stampa, che pro­dusse per parte sua svariate trasformazioni nell'organizza­zione dei modi di pensare e delle mentalità, e che, per con­seguenza, dette luogo a una «esplosione [ ... ] della cono­scenza» (Eisenstein [1979] 1986, p. 92 e altrove). _ Eisenstein, tra le innovazioni che la stampa produsse nel­la conoscenza, elenca le seguenti:28 si modificarono gli stru-

26 Ho discusso altrove (Simone 1988) il problema della forma di in­telligenza che può essere connessa all'alfabeto. Dico qualcosa in più nel testo.

27 Sartori (1998) adopera il concetto di primato della visione per trar­ne conclusioni interessanti a proposito del ruolo della televisione nella formazione del consenso politico.

28 Nelle osservazioni che seguono mi rifaccio spesso al magnifico capi-

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menti della memoria (per esempio, non furono più neces­sarie rime e cadenze per ricordare formule e ricette); si svi­luppò l'uso delle immagini stampate a fini mnemonici ed esplicativi, e quindi si rese possibile la produzione di trattati tecnici (nei quali si potevano usare numeri, diagrammi e mappe) per la diffusione di conoscenze pratiche; si diffuse la tradizione dell'ordinamento e della classificazione dei da­ti e delle informazioni, favorendo così la nascita di risorse pratiche come schedari, indici, indici analitici, repertori e si­mili.

Inoltre, siccome la stampa favorì il «passaggio da un pub­blico di ascoltatori a un pubblico di lettori», questi ultimi si abituarono a un contatto coi testi di natura più individuale di quella che era tipica degli ascoltatori: si ascolta in compa­gnia, si legge in solitudine. D'altro canto, si diventò più sen­sibili ad awenimenti lontani nel tempo e nello spazio e la stessa vita privata cominciò a essere influenzata in profon­dità dalla diffusione di testi stampati. In conclusione, risul­tarono modificati non solo i quadri della conoscenza, ma in generale le relazioni sociali, specialmente entro le comunità di persone abituate a frequentarsi.

Tutte queste sono trasformazioni importanti e profonde, ma va detto che la rivoluzione della stampa non mandò in soffitta l'intelligenza alfabetica, che rimase indispensabile per operare su testi, cioè su entità fatte di elementi disposti in linea. Semmai la articolò e la rese più raffinata e comple­ta; ma su di essa continuò a contare, e anzi ne fece uno dei cardini dell'intelligenza moderna.

Negli ultimi due decenni del secolo XX, però, senza che nessuno lo awertisse con nettezza, questo stato di cose ha ri­cominciato a modificarsi, dando luogo, per approssimazioni e derive rapide, a una nuova condizione della conoscenza. Occorrerà cercare le ragioni di questo cambiamento, ma si tratta di un compito non facile. Come è noto, la pura e sem-

tolo di Eisenstein ([1979] 1986) intitolato «Caratteristiche della cultura della stampa».

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plice innovazione tecnologica è in grado di attivare effetti profondi nel sistema di formazione e trasmissione della cul­tura. Nella storia gli esempi di questo tipo sono numerosis­simi. Nel nostro caso, bisognerebbe pensare che l'enorme aumento degli stimoli uditivi e la cultura dell'ascoltare e del vedere che esso ha stimolato abbiano reso meno rilevante la visione alfabetica e il suo supporto tipico, il testo. Sta di fat­to che l'alfabeto, e le sue principali materializzazioni fisiche, il testo e il libro, hanno gradualmente cessato di essere il ter­reno privilegiato al quale si applica l'azione dell'occhio e hanno cominciato a perdere terreno.

Quest'arretramento può dar luogo perfino a nuove con­dizioni individuali: l'occhio dell'uomo di fine secolo può tro­varsi a essere incapace di leggere, o più in generale di cavar­sela dinanzi a un testo scritto. Un poderoso emblema di que­sto fatto è offerto da Imerio, un personaggio marginale di Se una notte d'inverno un viaggi,atoredi Italo Calvino29 (che è qua­si interamente dedicato al tema della natura e del significato della scrittura e del destino del libro):

- Io? Io non leggo libri! - dice Imerio. - Cosa leggi, allora? - Niente. Mi sono abituato così bene a non leggere che non leggo neanche quello che mi capita sotto gli occhi per caso. Non è facile: ci insegnano a leggere da bambini e per tutta la vita si resta schiavi di tutta la roba scritta che ci buttano sotto gli occhi. Forse ho fatto un certo sforzo anch'io, i primi tempi, per imparare a non leggere, ma adesso mi viene proprio natu­rale. Il segreto è di non rifiutarsi di guardare le parole scritte, anzi, bisogna guardarle intensamente fino a che scompaiono. (pp. 47-48)

In questo passo Calvino allude con notevole preveggenza (il suo libro è del 1979) a un proce.sso che è una sorta di ri­valsa evolutiva. L'uomo rinuncia alla conquista della visione

29 Pubblicato da Einaudi, Torino 1979.

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alfabetica nel momento in cui, con lo smisurato crescere dell'informazione mediata dall'orecchio e dalla visione non­alfabetica, ha avuto l'impressione di disporre di fonti dico­noscenza ugualmente ricche. Ha così, forse, rinunciato a una conquista evolutiva che la scrittura aveva stimolato, per fare un passo indietro. È quasi come se si lasciasse da parte la visione alfabetica - un medium pieno di tensioni e di «fa­tica» - per tornare a media più naturali, più primitivi, che ri­chiedono un minor grado di governo.

Ciò significa forse che esiste una gerarchia di «naturalez­za» nell'impiego delle diverse vie di acquisizione della co~ noscenza. L'esercizio della visione alfabetica è non solo più avanzato ma anche più impegnativo e faticoso di quello del-1' orecchio e della visione non-alfabetica. (Tornerò su questo tema più avanti.)

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2. PERCHÉ GUARDARE È PIÙ FACILE CHE LEGGERE

1. «Homo videns» ?

In un libro di qualche anno fa, Sartori (1998) ha immagi­nato la nascita di un Homo videns tipico dell'epoca moderna e ha suggerito che all'incremento del consumo della televi­sione vada attribuito un «impoverimento del capire» (p. 21), dato che, a differenza della parola scritta,.la televisione «produce immagini e cancella i concetti; ma così atrofizza 'la nostra capacità astraente e con essa tutta la nostra capacità di capire». Insomma, l'Homo sapiens è sul punto di essere soppiantato dall'Homo videns, che sarebbe portatore non di un pensiero ma di un «post-pensiero». Più di recente, Geor­ge Steiner ha osservato lapidariamente che «stiamo assisten­do a una demolizione progressiva del linguaggio, travolto dall'immagine, soprattutto quella telematica».1

. A queste osservazioni catastrofiche si può obiettare che Sartori e Steiner, nati e cresciuti in una cultura che oggi è dé­modée, per questo non sono in grado di capire che l' enciclo­pedia di oggi non si forma più sulle stesse fonti. Sebbene io stesso sia cresciuto più o meno nella stessa cultura, non sono sicuro che, verso il fenomeno della disaffezione alla lettura, si debba prendere un atteggiamento così drasticamente ne­gativo. Tra l'altro ho cercato di mostrare più su (nel cap. 1) che a prendere il sopravvento nella formazione di cono­scenze non è stato il video, ma qualcosa di più globale e av-

1 In un'intervista di Leonetta Bentivoglio apparsa in «la Repubblica», 15 luglio 2011, p. 36.

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volgente, cioè una modalità percettiva e conoscitiva che ho chiamato visione non-alfabetica, la quale si applica, tra l'altro, al guardare tutto ciò che appare sul video.

Malgrado tutto, però, credo che le osservazioni di Sartori contengano più di una pista interessante, in quanto alludo­no non solamente a un cambiamento di costumi, ma più in profondità a una trasformazione di stile conoscitivo. Per que­sto, nel presente capitolo, voglio suggerire alcune spiegazio­ni di questa disaffezione nei confronti della scrittura e dei suoi supporti.

Prenderò le cose un po' alla lontana. Tornando su una di­stinzione che ho già proposto nel cap. 1, sosterrò che la let­tura chiama in causa una forma specifica di intelligenza e che quindi, se la lettura è in calo, ciò significa che è in calo l'intelligenza che le è connessa. Alla fine, cercherò di soste­nere una tesi ancora più globale: il calo internazionale non solo del consumo della lettura ma anche della capacità di leggere2 segna il passaggio da un mezzo di acquistarè cono­scenze a un altro: non si tratta insomma di un accidente oc­casionale, ma di un'altra delle transizioni profonde su cui questo libro vuole richiamare l'attenzione.

2. Due tipi di intelligenza

La lettura e in generale l'uso di codici alfabetici favori­scono la formazione e l'uso di un'intelligenza che nel cap. 1 ho chiamato sequenziale; il video (e in generale l'uso di codi-

2 Il declino della capacità di leggere è sottoposto a indagini comparati­ve sin dagli inizi delle ricerche internazionali sugli skiUs. Un'indagine del­l'IEA (lnstitute for Educational Achievement) svolta agli inizi degli anni Novanta dette risultati inquietanti per varie ragioni. Non solo per la bassa posizione nelle classifiche internazionali di paesi economicamente svi­luppati (come l'Italia), ma anche per il calo della capacità di leggere con il crescere degli anni di età. L'indagine OCSE/PISA del 2000 ha conferma­to lo spettacolare declino internazionale delle capacità di leggere nella maggior parte dei paesi avanzati.

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ci iconici, cioè basati sull'immagine) favorisce invece un al­tro tipo di intelligenza che ho chiamato simultanea. Come ho osservato sopra, l'intelligenza simultanea è caratterizzata dalla capacità di trattare nello stesso tempo più informazio­ni, senza però che sia possibile stabilire tra di esse un ordi­ne, una successione e quindi una gerarchia. La usiamo tipi­camente quando guardiamo un quadro o in generale un'immagine: per quanto l'occhio si poggi prima su un punto e poi su un altro, è impossibile dire che cosa, nel qua­dro stesso, vada guardato prima e che cosa dopo. Certo, in alcuni tipi di immagine è indicata o suggerita una successio­ne dei movimenti dell'occhio: se rappresentano (come tal­volta accade) più momenti di una stessa scena impaginati nello stesso spazio, l'osservatore dovrà (almeno in teoria) guardare prima una inquadratura e poi un'altra. Ma di soli­to la visione permette di muoversi liberamente nello spazio da osservare, mettendo in moto quindi un'elaborazione si­multanea.

L'intelligenza sequenziale si applica invece alla lettura o al­la scrittura: chi l'adopera deve procedere un passo per volta, linearmente, seguendo il testo, che si svolge dinanzi ai suoi occhi (o alla sua mente) come un nastro; e deve, per così di­re, codificare i propri pensieri (che possono essere simulta­nei tra loro) in modo da renderli successivi. Due pezzi qua­lunque di un messaggio linguistico (siano essi suoni, unità morfologiche, frasi o qualunque altro tipo di entità) non possono occupare lo stesso punto della catena; ciascuno deve occupare una sola posizione. Non sono possibili sovrapposi­zioni.3

È plausibile supporre che nel corso dell'evoluzione que­ste due forme di intelligenza si.siano sviluppate in momenti successivi: quella simultanea è infatti per molti aspetti più primitiva di quella sequenziale. La nascita di quest'ultima,

3 Chi ha qualche pratica di linguistica riconoscerà che questa è una ge­neralizzazione della proprietà dei codici verbali che Ferdinand de Saus­sure chiamava linearità.

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probabilmente favorita dalla nascita stessa del linguaggio e, più tardi, della scrittura, segna un avanzamento nei con­fronti dell'altra e coincide largamente con la nascita della tecnologia. Questa, infatti, può nascere solo a condizione che l'operatore abbia la capacità di spezzare in segmenti (cioè, letteralmente, di analizzare) gli atti che deve compie­re, di disporli mentalmente in successione e di eseguirli nel­lo stesso ordine, stabilendo gerarchie tra operazioni di di­verso livellò di importanza. Anche nell'atto, apparentemen­te semplice, di scheggiare una selce, si procede secondo una sequenzialità di azioni strutturata, per la quale la semplice intelligenza simultanea non è sufficiente.

Sotto questo profilo, l'intelligenza simultanea è inglobata in quella sequenziale e convive con essa: ciascuna delle due (in misture opportune secondo i casi) interviene per far fronte a specifici ordini di problemi. Ogni categoria di pro­blemi attiva, infatti, questo o quel tipo di intelligenza (più o meno come, in un calcolatore, è necessario un programma specifico per ogni tipo di lavoro che occorra fare) .

La ragione per la quale questa distinzione ci interessa è che esiste una relazione tra i diversi tipi di intelligenza e il medium che essa privilegia. Il nesso tra media e attività del-1 'intelligenza è ben conosciuto, e non ha avuto bisogno de­gli interventi di McLuhan per venire in risalto.4 Nel nostro caso, in particolare il linguaggio e la scrittura favoriscono l'intelligenza sequenziale, l'attività di guardare le immagini invece ha a che fare con quella simultanea.

3. Sette tratti

Gli anni della mediasfera sono caratterizzati da un pro­cesso planetario di disaffezione dalla lettura, a dispetto del

4 Basti pensare (lo ~edremo più da vicino nel cap. 3) alle riflessioni · che Platone fece a proposito della connessione tra la nascita della scrittu­ra e l'organizzazione della memoria e della conoscenza.

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fatto che sono sempre più numerosi e vari i supporti (fisici non meno che virtuali) per testi alfabetici, i tipi dei prodot­ti visivi e delle risorse per produrli, conservarli, trasmetterli e visualizzarli. Se sono infinitamente più numerose le cose da leggere, insomma, e i supporti che le ospitano, è dram­maticamente declinante la lettura (almeno nel senso «clas­sico» del termine: vedi cap. 5) e la tipologia di testi che la sti­molano. Alla base di questo paradossale fenomeno sta l'a­scesa incontrastata del vedere come senso primario. Il visivo e il vedere sono diventati davvero (come sostenne Popper 1995) «ladri di tempo», perché hanno sottratto attenzione e impegno ad altre forme di acquisizione del sapere («Non ho letto il libro, ma ho visto il film» è una frase che si usa ab­bastanza spesso per dire che, anche se. la fonte di una cono­scenza non è un libro, la conoscenza è comunque disponi­bile nella nostra mente).

Per illustrare il mutamento occorrono alcune considera­zioni semiotiche, riguardanti cioè la natura stessa dei testi che si possono produrre con linguaggio verbale rispetto a quelli che si producono con le immagini. Se, d'ora in poi, chiamiamo lettura il processo di ricezione di un testo verba­le scritto («il testo che si legge») e visione quello di un testo visivo trasmesso per televisione o comunque per video («il testo ch,e si guarda»), possiamo dire che la lettura e la visio­ne comportano due diversi tipi di ricezione e di elaborazio­ne testuale.5

5 I riferimenti che si fanno nel testo alla «visione» e al «testo che si guarda» riguardano essenzialmente le produzioni visive che contengano una qualche dimensione di narrazione, che implichino cioè personaggi, azioni, dinamismo - che siano cioè delle «storie». Mi rendo ben conto che questa categoria di produzioni è ben lontana dall'esaurire la tipolo­gia del visivo di questo inizio di secolo. In realtà, oggi, un'infinità di cose «Si guardano», sia nel mondo esterno sia, e specialmente, su schermi e di­

'splay di diversa natura (da quello del televisore a quello del calcolatore e di oggetti comunque incorporanti un 'informatica). Tra queste, una posi­zione di particolare importanza spetta oggi ai videogiochi, sui quali è fio­rita una folta letteratura, una parte della quale vorrebbe perfino trattarli

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Ri,tmo. C'è anzitutto una differenza di ritmo: per compiere l'atto di lettura l'utente deve seguire un ritmo (relativamen­te) lento, nell'atto di visione segue invece un ritmo (relati­vamente) veloce.

Nel caso della lettura, il ritmo di presentazione del testo è determinato dal lettore. Se vogliamo usare un termine un po' peculiare, possiamo dire che il ritmo del lettore è auto­trainato, cioè è il lettore stesso che trascina il processo del leggere. Nella lettura, il ritmo definito dal lettore interagisce con quello tipico del testo: possiamo leggere lentamente Dumas (uno scrittore dal ritmo veloce, cioè che rappresenta fatti che si succedono e accavallano velocemente) o veloce­mente Proust (uno scrittore dal ritmo lento, che racconta cioè pochi fatti e abbonda in elaborazioni proprie), e, anche se non possiamo forzare il testo oltre un certo limite, è il let­tore che decide. Nella visione, invece, il ritmo è etero-traina­to dall'emittente: chi guarda è costretto a seguire un ritmo interno all'evento visivo e non è in grado di determinarlo personalmente.

Ciò comporta una differenza essenziale dal punto di vista dell'utente: per esempio, chi non capisce o non ricorda quel che ha letto può tornare indietro a rileggere. Invece, chi ha perduto un'inquadratura di un film non può tornare indie­tro a ricercarla (salvo che non abbia un videoregistratore o altri gadget oggi disponibili). Allo stesso modo, chi nella let­tura non capisce qualcosa può fermarsi a riflettere, a docu­mentarsi, a prendere tempo liberamente, per poi tornare al contatto col testo. Nella visione ciò non è possibile.

Correggibilità. La seconda proprietà (che propongo di chiamare correggi,bilità) fa sì che la lettura sia altamente cor­reggibile, mentre la visione non lo è. Ciò significa che chi

come una delle principali fonti di conoscenza del momento e perfino co­me un mezzo per l'apprendimento scolastico. Per talune di queste forme di visivo i criteri che propongo più sotto sono probabilmente insufficienti o inadatti. Ma mi pare che, fino a che ci si attiene alle «Storie che si guar­dano», essi possano trovare applicazione.

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legge può fermarsi in qualunque momento per domandarsi che cosa vuol dire una parola, per riconsiderare una frase, per verificare se abbia ben capito quel che ha letto, per cer­care su un dizionario o un'enciclopedia. Chi guarda un te-sto visivo non può farlo. ·

La risorsa della correggibilità è in sé ambigua: può essere di grande aiuto nei momenti di difficoltà (quando non si è sicuri di aver capito, quando si cercano chiarimenti per ca­pire meglio ecc.), però impegna il ricevente in un maggiore sforzo di governo. Chi legge deve infatti gestire da solo (o quasi) il proprio movimento (oculare e mentale) sulla riga e sulla pagina e deve curare continuamente le proprie opera­zioni di riflessione e di comprensione; chi guarda no. L'u­tente della visione sa in anticipo che quello che sta guar­dando è etero-trainato, e per questo non si sforza di con­trollare l'avanzamento del suo ragionamento. Il lavoro di controllare il proprio processo di comprensione correggen­dolo di continuo porta quindi un maggiore impegno da par­te dell'utente.

Ri,chiami enciclopedici. Il testo che stiamo leggendo o guar­dando può chiamare in causa, in misura maggiore o minore, conoscenze ulteriori: in altri termini, ci costringe in misura diversa a richiamare la nostra enciclopedia6 di conoscenze precedenti. Senza richiamare queste conoscenze previe, l'u­tente può non riuscire a procedere nell'elaborazione di quel che riceve, cioè può non capire. Il richiamo enciclopedico è collegato con il tipo di traino che è proprio del canale: un canale auto-trainato (come la lettura) ci permette di sfrutta­re di più l'enciclopedia, perché dà modo e tempo di fer­marci e decidere il ritmo; un canale etero-trainato (come la visione) non permette invece il richiamo di conoscenze en­ciclopediche, perché non ne lascia il tempo, o, se lo permet­te, lo fa soltanto dopo che il contatto ha avuto termine.

6 Sul concetto di «enciclopedia» e su diversi dei suoi aspetti ritorno più avanti, nei capp. 5 e 6 di questo libro.

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Convivialità. Lettura e visione si collocano in posizioni di­verse su una seconda scala, che chiamo di convivialità. La lettura è poco conviviale, perché deve esser fatta relativa­mente in silenzio, in solitudine, con concentrazione (per­lomeno nel modello «classico»; v. cap. 5; Asor Rosa 1990, pp. 31 ss; Ferrarotti 1997, pp. 94-95), ed è impossibile men­tre si fanno altre cose che impegnano la vista e taluni altri sensi (tale è normalmente il caso dell'udito: non possiamo leggere in mezzo al rumore). La visione può avere luogo in­vece in ambienti molto più conviviali: possiamo (per esem­pio dinanzi alla televisione) guardare uno spettacolo e nel­lo stesso momento fare altre cose più o meno impegnative, anche per il senso della vista, stando in mezzo alla gente e magari parlando con qualcuno che ci sta attorno. La con­centrazione, il silenzio, la solitudine sono possibili ma non indispensabili.7 Si può guardare collettivamente, si legge in solitudine.

Questa differenza può creare perfino situazioni parados­sali: chi è abituato a usare la lettura come mezzo principale per acquisire informazioni tenderà a stare in silenzio anche durante la visione (al cinema, dinanzi alla televisione); al contrario, chi non è abituato alle regole della lettura, tende a essere conviviale (quindi, per esempio, rumoroso) anche in luoghi che dovrebbero essere silenziosi. In molti paesi è normale, per esempio, parlare o mangiare guardando un film al cinema. Questo non è dovuto a pura e semplice «ma­leducazione», ma al fatto che si applicano rituali conviviali in luoghi che di per sé non sono conviviali.

Per questo motivo, il lettore è spesso consideràto dal non-

7 Quest'analisi non tiene conto di altri aspetti percettivi importanti della lettura, che forse non sono universali ma per alcuni lettori sono im­portanti. Essi hanno a che fare essenzialmente con la «sensorialità» del leggere: il maneggiare la carta, l'apprezzare i caratteri di stampa, perfino la percezione dell'odore della carta o dell'inchiostro. Queste proprietà non hanno un corrispettivo nella visione, dove l'impegno sensoriale è molto più povero. Alcuni aspetti della sensorialità dellà lettura sono di­scussi nel cap. 5.

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lettore come una persona lenta, solitaria e musona: la sua vi­ta si svolge in parte al chiuso, il suo tempo è più lento, e mentre legge talune cose gli sono impedite (Simone 1990, p. 19). Alla fine, la lettura non solamente è poco conviviale (per sua natura), ma può essere anche percepita come «po­co moderna» da chi è abituato piuttosto alla visione. Queste persone sono infatti convinte di avere fonti di informazione, sapere e svago non meno dei lettori, e non si sentono affat­to isolate nella circolazione delle idee.

Multisensorialità. Un canale è multisensoriale quando si ri­volge nello stesso momento a più sensi del ricevente. Da questo punto di vista, la visione è multisensoriale, la lettura no. Nel caso della visione televisiva, poi, la multisensorialità è tale che il canale visivo è perlopiù duplicato da quello udi­tivo: quel che viene ricevuto con l'orecchio (voci, rumori, musica) ripete in modo ridondante quel che l'immagin~ convoglia all'occhio.

La multisensorialità è importante perché garantisce, o sembra garantire, all'utente una certa sicurezza di coglie­re comunque l'informazione trasmessa: se si perde quella che deriva dal canale visivo, è possibile seguire il canale uditivo; se si perde l'uditivo, è possibile seguire il visivo. Alla fine, una certa quantità di informazione dovrà pur sempre rimanere. Per questo motivo, i canali multisenso­riali sono più rassicuranti per l'utente di quelli monosen­soriali.

Grado di iconicità. Come è noto, in semiotica si chiama ico­nicità il fatto che, in alcuni segni, il significato e il significan­te si somiglino in qualche misura. Per esempio, la fotografia di un bambino somiglia al suo soggetto molto di più della parola bambino. Quindi, la fotografia è in generale più ico­nica della parola.

La visione permette di cogliere un livello iconico ele­mentare, la lettura no. In altri termini, vedendo un'imma-

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gine o una sequenza di immagini, si capisce, almeno in qualche misura, che cos'è quel che si sta vedendo. Leg­gendo un testo, invece, può capitare di non capire assolu­tamente nulla per un buon tratto, se non addirittura per tutto il tempo. Le parole stampate non rivelano affatto la natura del loro soggetto a prima vista, e per conseguenza tendono a escludere la dimensione del pathos da parte dell'utente.8

Anche se possono avere altri livelli di significazione, le im­magini hanno un alto livello di iconicità: l'immagine di un angelo può significare la bontà, la giustizia, l'amore, la de­vozione o quant'altro, ma rappresenta anzitutto un angelo. Nella lettura invece il livello di iconicità è zero: se leggiamo la parola angelo, la forma grafica e quella fonica della parola non hanno niente a che fare con l'angelo, e tanto meno con la bontà.

Questa differenza ha un'importante conseguenza sul pia­no della comprensione e della partecipazione in termini di pathos. Le immagini di un testo visivo si possono vedere e capire anche senza capire il «discorso» che il testo Visivo sta facendo. Possiamo quindi capire, per esempio, chi è l' «atto­re» del testo visivo, anche se non capiamo che cosa sta fa­cendo. Abbiamo pur sempre l'impressione di star ricono­scendo qualche elemento tra quelli rappresentati.

8 Osservazioni interessanti su questo tema in Wunenburger ([1997] 1999, p. 28): «L'esperienza visiva[ ... ] ci pone in presenza della cosa stes­sa, escludendo a priori qualunque tipo di mediazione o di identificazione segnica. [ ... ] Al contrario, l'immagine linguistica [ ... ] ci pone in presenza di un segno, che si tiene a distanza dall'apparizione sensibile e ne media l'effetto. [ ... ] La visione è dawero qualcosa di primario, una specifica mo­dalità dell'intuizione, che ci fa assistere all'affiorare di qualcosa nello spa­zio, partes extra partes, alla manifestazione originaria dell'essere nel mon­do: un fenomeno che, per una sorta di eccedenza semantica, pare incom­mensurabile con qualsiasi verbalizzazione. [ ... ] La visione, nella sua glo­balità, coinvolge quindi il soggetto molto più intensamente della verbaliz­zazione, che necessita di un apprendistato, di una scoperta progressiva, e implica un'inibizione del pathos».

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Citabilità. Chi ha a che fare con un testo (scritto o visto), può parlare ad altri di quel testo: per esempio, può raccon­tarlo, discuterlo, ripeterne la trama, e così via. In altre paro­le, può citarlo. Una delle proprietà dei testi sta appunto nel­la possibilità di essere citati ad altri.

A differenza dei testi parlati e scritti, la visione si presta poco a esser citata (per esempio, raccontata ad altri), per­ché ciò comporta un drastico cambiamento di codice, cioè la traduzione delle immagini in parole; al contrario, la let­tura può essere citata più o meno facilmente (perfino in modo letterale, per esempio rileggendo a qualcuno quel che noi stessi abbiamo letto).

La citabilità ha qualche conseguenza interessante. Per esempio, un testo che si presta a essere facilmente citato può essere diffuso da un utente all'altro e quindi entrare nella circolazione ciilturale.

Una scala di affabilità. In base ai tratti che abbiamo propo­sto fino a questo momento possiamo costruire una scala di affabilità o di amichevolezza su cui si possono disporre i canali che stiamo considerando. Un medium è amichevole se è fa­cile avervi accesso, se è possibile interrompere il contatto e riprenderlo senza perdita di informazione, se le elaborazio­ni che richiede sono relativamente poco onerose.

Al massimo di amichevolezza collocheremo allora un ca­nale che sia: etero-trainato, non correggibile, altamente conviviale, rimltisensoriale, povero di implicazioni enciclo­pedich€, facilmente citabile e di grande iconicità. Le ragioni di questo fatto sono evidenti: il canale più amichevole è quello che dà «meno da fare» al suo utente e che ne stimo­la maggiormente il pathos. Al maggior numero di parametri risponde evidentemente il canale visivo, il «testo che sì guar­da». All'opposto, la lettura ha, rispetto alla visione, l'unico vantaggio di essere facilmente citabile; per il resto è certa­mente meno amichevole.

Lo schema che segue illustra questa situazione:

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Visione Lettura

Auto-trainato no sì Correggibile no sì Conviviale sì no Multisensorialità sì no Implicazioni enciclopediche no sì Citabilità bassa alta Livello di iconicità alto basso

Questa netta differenziazione permette, credo, di spiega­re come mai la lettura abbia dovuto cedere terreno dinanzi all'avanzata della televisione e della visione, cioè di «testi che si guardano». La «fatica di leggere» non può competere con la «facilità di guardare».

Siccome molte scoperte hanno radici antiche, non sor­prende di trovare considerazioni simili a quelle che ho ap­pena presentato in una tradizione tardo-cinquecentesca di tutt'altra natura. Il confronto è impressionante. Quando la Controriforma dovette affrontare il problema di recuperare la fede degli incolti perturbata dalle dottrine della Riforma, i suoi teorici si resero subito conto che la «vera» Bibbia po­teva esser diffusa presso il popolo non con discorsi ma solo mediante immagini. A uno di questi teorici, l'arcivescovo bolognese Gabriele Paleotti, si deve il celebre Discorso intor­no aUe imagi,ni sacre et profane (1582), che elaborava questa dottrina e ne fissava alcuni punti fermi. «!libri sono letti da­gl'intelligenti che sono pochi», scrive per esempio Paleotti, «ma le pitture abbracciano universalmente tutte le sorti di persone.» E aggiunge: «Il popolo minuto le cose che i dotti leggono sui libri, egli le intende dalla pittura», perché per capire qualche libro sono necessarie «difficili cose, come la cognizione della lingua, il maestro, l'ingegno capace e la commodità d'imparare, tal che la cognizione loro si ristrin­ge solo in pochi, che si chiamano dotti et intelligenti». Le pitture invece «servono come libro aperto alla capacità d' o­gni uno» dato che sono «composte di linguaggio commune

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a tutte le sorti di persone, uomini, donne, piccioli, grandi, dotti, ignoranti». Per questo le immagini «si lasciano inten­dere [ ... ] da tutte le nazioni e da tutti gli intelletti, senza al­tro pedagogo o interprete». Non basta: se le immagini sono velocissime, dato che «in un momento, o più tosto in uno sguardo, fanno capaci subito le persone», per i libri occor­rono «tempo et oglio»!9

L'Homo videns preconizzato da Sartori ha insomma buoni motivi per lasciare da parte (e in qualche caso per guardare con sufficienza) l'Homo legens al quale siamo abituati. Il pri­mo è convinto di acquisire conoscenza e informazione senza fare la fatica che deve fare il secondo, e soprattutto senza do­ver rinunciare alla convivialità e al pathos che il testo che si guarda permette a chi lo sta guardando.

Certo, questa transizione non riguarda solo la superficie dei fenomeni. Riguarda anche le funzioni dell'intelligenza necessaria per passare da una categoria di testi all'altra: se la visione diventa fonte primaria nell'acquisizione di cono­scenza, essa attiva l'intelligenza simultanea, indebolendo o comunque svalutando quella sequenziale, alla quale è inve­ce necessaria un'alimentazione di tipo (per così dire) alfa- . betico, cioè lineare - così come è tipicamente rappresentata dal linguaggio. ·

Appendice. Strutture testuali a confronto

Non bisogna però pensare che la visione sia pura regres­sione. In effetti, anch'essa si rivolge a messaggi dotati di una struttura testuale; alcuni meccanismi di questa struttura so­no affini a quelli della struttura dei testi verbali. Per questo, anche la visione addestra ad alcuni tipi di testualità, dei qua-

9 Dal Discorso intorno aUe imagini sacre et profane, diviso in cinque libri, Be­nacci, Bologna 1582, cap. XXIII. Del Discorso esistono varie edizioni mo­derne, come quella a c. di G.F. Freguglia, Libreria Editrice Vaticana, Ro­ma 2002.

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li vorrei considerare qui, più analiticamente, taluni mecca­nismi fondamentali.

Ordine del testo. Qualunque testo (in particolare quelli nar­rativi, ai quali farò qui riferimento) può essere immaginato come una rappresentazione del mondo (reale o immagina­rio), e in particolare come un ordinamento cronologico de­gli eventi del mondo. Esiste in questo modo una relazione tra l'ordine degli eventi così come lo presenta il testo e l'or­dine degli eventi come si presenta nel mondo reale. Se chia­miamo il primo ordine testuale e il secondo reale, possiamo dire più semplicemente che ogni testo disegna una relazio­ne tra l'ordine testuale e quello reale.

Questa relazione può essere distinta in due diverse classi. Da una parte c'è l'ordine naturale. Chiamo così (con un'e­spressione tipica della retorica classica) il caso in cui l' ordi­ne testuale è identico all'ordine reale, lo ripete così com'è. L'ordine naturale si può rappresentare schematicamente in questo modo:

Ordine testual,e Ordine reale

El El' E2 E2' E3 E3' E4 E4'

Questo schema significa che, nell'ordine del testo, gli eventi dell'ordine reale sono rappresentati esattamente nel­la stessa successione in cui hanno avuto luogo nei fatti. Po­tremmo dire che gli eventi sono organizzati soltanto in base all'operatore E-DOPO. Essi hanno dunque questa forma: «A e-dopo B, e-dopo C, e-dopo D» ecc.

L'altra classe è costituita dai testi basati su ordini artificia-li. Come si è detto, l'ordine testuale non combacia con quel­lo reale, ma lo modifica in diversa misura e modo, e può :;i.r-

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rivare fino ad alterarlo completamente. Nel linguaggio, gli ordini artificiali sono resi possibili dal fatto che questo ( co­me si è accennato prima) è costretto per natura a rendere li­neari eventi, oggetti, stati che sono, in realtà, simultanei. Per questo, il testo può ridistribuire gli eventi reali: può, per esempio, collocare all'inizio dell'ordine testuale quel che, nell'ordine reale, è accaduto per ultimo, può creare eventi simultanei, può sfalsare gli eventi l'uno rispetto all'altro fa­cendoli apparire e scomparire quando occorre, e così via.

Gli ordini artificiali si distinguono a loro volta in diversi ti­pi. Anzitutto l'ordine inverso: esso consiste, semplicemente, nel riprodurre gli eventi reali nell'ordine contrario a quello in cui si sono presentati. Molti testi cominciano in questo

. modo: gli articoli di crònaca giornalistica partono spesso dalla fine (nella successione degli eventi reali), e, dopo aver rimontato a ritroso l'ordine degli eventi, ricominciano dac­capo nell'ordine naturale.

Va inoltre ricordata la sottoclasse degli ordini ramificati: essi si distinguono dai precedenti per almeno due ragioni:

(a) vengono evocati (nel testo, ovviamente, in successio­ne) eventi che, nell'ordine reale, sono simultanei. Questo genere di testi è organizzato dall'operatore E-INTANTO: la lo­ro forma tipica è «A e-intanto B, Be-intanto C», e così via;

(b) gli eventi sono riportati con l'impiego di una varietà di operatori che funzionano in complesse gerarchie: possia­mo rappresentare questi testi così: «A e-dopo Be-intanto C e-dopo D» ecc. Queste gerarchie sono spesso di tale com­plessità che è difficile raffigurarle schematicamente.

Ora, il bambino impara gli operatori che organizzano il te~ sto in momenti diversi della sua evoluzione e secondo moda­lità diverse. L'operatore E-DOPO appare molto prima di tutti gli altri, attorno ai quattro anni di età: in quell'epoca, l'ordi­ne che il bambino preferisce è l'ordine naturale, per la sua facilità di impiego. L'operatore E-PRIMA, che organizza i testi in ordine inverso, si presenta più tardi (tra i cinque e i sette anni), l'operatore E-INTANTO appare per ultimo. Per queste

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ragioni, si può pensare che E-DOPO sia più «naturale» di tutti gli altri, in quanto può essere padroneggiato senza appren­dimento esplicito e molto presto. Gli altri operatori richie­dono invece una certa (maggiore o minore) elaborazione.

Queste considerazioni valgono ugualmente per i testi verbali e per quelli visivi: tanto un romanzo quanto un film televisivo o uno spot pubblicitario, se sono narrativi, posso~ no essere strutturati in base a uno o più degli ordini men­zionati.

D'altro canto, va segnalata tra i due tipi di testi una diffe­renza importante, che rende specifica la fruizione di ciascu­no. Nel testo, gli operatori di ordine possono ~ssere marcati o non marcati. Marcati significa che esistono parole o grup­pi di parole, esplicitamente menzionati, che segnalano il ti­po di ordinamento col quale si ha a che fare. Nei testi ver­bali, se diciamo mentre tu sei in viaggio, io finisco il lavoro, men­tre è una marca di ordinamento, perché segnala che le due frasi in questione sono in successione, ma rappresentano due eventi simultanei. Non marcato, invece, significa che l'or­dinamento tragli eventi non è segnalato da nulla, e deve es­sere immaginato dal ricevente.

Ora, nel testo verbale, alcuni operatori di ordinamento possono essere cancellati: anche se abbiamo tu sei in viaggio e io finisco il lavoro, le due frasi verranno intese comunque come rappresentanti evehti simultanei. Altri operatori, inve­ce, non possono essere cancellati, in quanto la loro soppres­sione rende equivoca l'interpretazione del testo.

Nel testo che si guarda, invece, gli operatori di ordina­mento (o, per meglio dire, le marche che li indicano) sono meno espliciti che in quello verbale. La tecnica chiamata flash-back serve proprio a far capire che si sta usando l'ope­ratore E-PRIMA, il montaggio in parallelo a far capire che usiamo l'operatore E-INTANTO (perché serve a narrare even­ti simultanei). Tra le tecniche per segnalare l'operatore E­

DOPO va menzionato il piano-sequenza: la camera riprende senza interruzione e senza stacchi, sicché la successione de-

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gli eventi è riprodotta col massimo possibile di iconicità nel­la successione delle immagini. Ma oltre a questa risorsa (ab­bastanza poco diffusa nella pratica di ripresa, per la sua dif-

. ficoltà tecnica) è la semplice giustapposizione delle sequen­ze l'una appresso all'altra che perlopiù serve a marcare che gli eventi sono successivi.

Va però notato che tanto ilflash-back quanto il montaggio in parallelo sono poco vistosi dal punto di vista percettivo, perché sono meccanismi molto astratti. Per questo, benché il canale visivo sia..:... come si è detto - più amichevole di quel­lo scritto, i testi che si guardano sono meno chiaramente strutturati dei testi verbali, dal punto di vista dell'ordina­mento degli eventi. A capire l'organizzazione temporale del testo visivo si arriva con -notevole difficoltà, specialmente quando questa sia piuttosto complessa.

In una narrazione complessa, lo spettatore che non riesce a correggere la propria interpretazione del testo si può aiu­tare con il livello zero di iconicità: per esempio, un perso­naggio che invecchia può suggerire, allo spettatore inesper­to, che è passato del tempo, cioè che gli eventi sono organiz­zati dall'operatore E-DOPO; all'inverso un personaggio che appare giovane dopo essere apparso vecchio suggerisce che si è andati a ritroso nel tempo, cioè che gli eventi sono orga­nizzati dall'operatore E-PRIMA. Questo riassestamento del­l'ordine degli eventi viene compiuto anche ricorrendo al-1' enciclopedia di conoscenze di cui si dispone. Ma, malgrado l'esistenza di simili meccanismi di emergenza, è tutt'altro che raro che lo spettatore si smarrisca nella narrazione e non riesca a ristabilire l'ordinamento giusto degli eventi.

Continuità e discontinuità tematica. Un'altra importante ca­ratteristica testuale è che i testi possono essere tematica­mente continui o discontinui. Un testo è tematicamente continuo quando parla della stessa cosa, discontinuo in tut­ti gli altri casi.

Rispetto alle aspettative dell'utente, non c'è dubbio che

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l'utente, posto dinanzi a un testo, si aspetta che esso sia con­tinuo, cioè che parli sempre della stessa cosa o di cose che comunque «starino insieme». Ciò è tanto vero che molte lin­gue non segnalano esplicitamente la continuità, ma solo la discontinuità. In italiano, per esempio, se diciamo Luigi è uscito e ha comprato il giornal,e non abbiamo bisogno di ripete­re il soggetto dinanzi al secondo verbo per sapere che si trat­ta sempre della stessa persona (cioè di Luigi). Se invece ab­biamo Luigi è uscito e lui ha comprato il giornale, abbiamo buo­ni motivi di supporre che lui designi una persona diversa da Luigi. La comparsa di un'informazione che non ci aspettia­mo ci mette nel sospetto che si annunci un cambiamento te­matico.

Ora, per muoversi entro l'organizzazione testuale, è di grande importanza capire se il testo è continuo o disconti­nuo. In teoria, possiamo identificare quattro tipi di conti­nuità tematiche:

Continuità

1. o

I o

I o

I o

Discontinuità

Discontinuità con sorpresa

2. l o

I o--o

I o o

3/l l I o o

I o o

Discontinuità

4. 0

""

o

I o

/ o

Il caso 1 è quello della continuità perfetta, che non pre­senta nessuna particolare difficoltà per il ricevente. Gli altri, invece, sono casi di discontinuità: i nodi collocati su assi di­versi indicano cambiamenti di tema rispetto a quelli attesi. 2 e 3 rappresentano la discontinuità con sorpresa: i rami trat­teggiati rappresentano gli sviluppi che ci si aspetterebbe,

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quelli a tratto pieno rappresentano invece gli sviluppi che effettivamente si verificano. Il caso 4 si riferisce invece a una discontinuità «ovvia»: non è in vista nessun tipo di alternati­va, il testo si muove da un tema all'altro, poi ritorna a quel­lo iniziale in maniera assolutamente «normale», cioè senza violare le attese del ricevente. Per riprendere la scala dina­turalezza prima accennata, possiamo dire che l'organizza­zione più naturale è quella di piena continuità, seguita dalla discontinuità «normale», e dalla discontinuità con sorpresa.

La sorpresa. La sorpresa è un classico meccanismo testuale, che la letteratura ha sfruttato sin dai suoi primordi. Consiste nell'introdurre un tema in modo imprevisto, il che si può ottenere con una varietà di risorse:

(a) ritardando il tema finché è possibile, anche mentre su di esso si accumulano informazioni che per il momento non trovano nulla a cui appoggiarsi;

(b) sviluppando nel ricevente l'attesa plausibile di un al­tro e diverso tema per poi disattenderla con la presentazio­ne di un tema inopinato;

(e) con un sistema ancora più raffinato, attraverso quella che possiamo chiamare sorpresa mancata: si creano una serie di attese che sembrano annunciare una sorpresa, poi si di­sattende l'aspettativa riprendendo e confermando il tema precedente.

Per creare sorpresa, il testo che si guarda e il testo che si legge usano meccanismi diversi, anche se strutturalmente questi meccanismi servono alla stessa funzione. Nel testo verbale, un tipico meccanismo di sorpresa consiste nell'atti­vare un'aspettativa condivisa da tutti - che mette in moto presso il ricevente una serie di attese - e poi nello smentirla di colpo. Un altro meccanismo è costituito dal ritardare la presentazione del tema pur avendo, nel frattempo, accumu­lato una serie di informazioni su di esso: in questo caso, il ri­cevente non sa a chi riferire queste informazioni, le tiene per così dire in sospeso, e nondimeno sulla scorta di esse

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(come con i tratti di un identikit) si prefigura il tema su cui esse potranno andarsi a poggiare. La smentita di queste at­tese costituisce sorpresa.

L'uso di aspettative «a inganno» è adoperato anche nel vi­sivo. Esso però usa anche altri tipi di meccanismi di sorpre­sa. Uno di questi si basa sulla multisensorialità di cui si è parlato prima. Possiamo avere una forte dissociazione tra il canale visivo e quello uditivo per quanto riguarda le attese dell'utente: la colonna musicale può essere sinistra e minac­ciosa, la colonna video evocare scene tranquille e distese. In questo caso si crea una tensione tra le due, perché l'utente non sa su quale delle due informazioni fare affidamento nell'immaginarsi lo svolgimento ulteriore del testo.

La sorpresa visiva e quella verbale hanno anche un altro tratto in comune, che, alla fin dei conti, costituisce però una differenza. L'una e l'altra sono percepibili solo a condizione che l'utente abbia una forte esperienza intertestuale. Il ter­mine intertestualità si riferisce al fatto che un dato testo si ri­collega in vari modi ad altri testi: o citandoli, o riprenden­done movenze, temi e motivi, o rielaborandoli e parodian­doli, e in vari altri modi. Per capire uno specifico testo, ab­biamo bisogno di conoscere (anche senza rendercene con­to) un;i varietà di testi affini a quello, è ai quali quello si ri­collega in diversa maniera. Quando un bambino sente leg­gere una favola, ha una quantità di conoscenze intertestuali (come mostrò Vladimir Ja. Propp con la sua celebre analisi funzionale delle fiabe), che lo aiutano a interpretare il suo sistema di attese: sa che deve esserci un eroe, che questo sarà sottoposto a una serie di prove, e così via secondo una trama che viene immagazzinata nella sua memoria insieme alla trama di primo livello.

Per questo, nel campo testuale vale il principio dell'accu­mulazione: chi conosce più testi può capirne e conoscerne più facilmente di nuovi. La quantità di esperienza prece­dente, testuale e intertestuale, si converte presto in qualità dell'interpretazione. Una delle ragioni per cui i bambini e i

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ragazzi non colgono una varietà di snodi testuali (per esem­pio, la sorpresa o il comico) è che non hanno l'esperienza intertestuale che gli permetta di prevedere che, in un certo punto, sta per accadere qualcosa di un certo tipo (come una sorpresa) e non di un altro.

Contrazione del tempo. Un altro aspetto importante dell'or­ganizzazione testuale sta nel diverso trattamento che il testo che si legge e quello che si guarda fanno della contrazione del tempo. L'ordine testuale non può essere della stessa du­rata dell'ordine reale: se così fosse, i testi sarebbero immen­samente lunghi. Di fatto, l'ordine testuale è sempre infinita­mente più sommario di quello reale.

Ma, per questa intrinseca sommarietà, i due ordini sono molto difformi: l'ordine testuale può contrarre quello reale. Per esempio, un testo (di qualunque natura sia) può rac­contare un anno in un secondo, oppure saltare del tutto pe­riodi di tempo lunghi a piacere.

La contrazione del tempo reale è di grande importanza, perché disturba le aspettative dell'utente, specialmente se si tratta di un bambino. Questi si aspetta un ordine testuale che sia omogeneo rispetto all'ordine reale, e si aspetta an­che che la grana dell'intervallo temporale tra un evento e l'altro sia sempre la stessa; per capire che le cose non stanno così deve cogliere alcuni segnali testuali, che hanno la spe­cifica funzione di marcare la contrazione. Nel testo verbale, questi segnali sono del tipo tre anni dopo, dopo qualche tempo ecc.; nel caso del testo visivo i segnali sono di varia natura: scritte che ripetono il messaggio linguistico, o salti non an­nunciati esplicitamente che però spostano il teatro dell'a­zione in un momento anche molto distante da quello in cui si trovava un istante prima.

Frames. Il termine inglese frame significa «cornice, inqua­dratura» ed è molto conosciuto nel campo dell'intelligenza artificiale e in una varietà di discipline affini, per indicare

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una sequenza di eventi-tipo, che ognuno di noi impara e im­magazzina, e sulla base della quale si aspetta che si sviluppi­no anche nuove situazioni, mai incontrate prima.

Per esempio, un enunciato come Maria era stata invitata alla festa di Pietro. Pensò di portargli un pallone (citato da Schank [1982] 1992) attiva nella mente di ciascuno una se­rie di conoscenze tipiche, che guidano nell'interpretazione del messaggio e determi~ano le attese nei suoi confronti. Sappiamo che, se si «porta» qualcosa a qualcuno che ci ha invitato a una festa, questo «qualcosa» è un regalo; sappia­mo anche che se questo regalo è un pallone, chi invita e chi è invitato sono con probabilità dei bambini ecc. Tutte que­ste informazioni non sono esplicitamente menzionate nel­l'enunciato, ma sono supplite dal ricevente .sulla base della sua conoscenza di questo specifico frame.

La produzione e l'interpretazione di testi di diversa natu­ra sono in larga misura guidate da frames. Questi sono in parte acquisiti attraverso l'esperienza del mondo esterno e in parte estratti dall'esperienza testuale e in tertestuale che abbiamo accumulato in precedenza. A dirci che ogni favola deve avere un eroe non è il mondo reale, ma è l'esperienza intertestuale delle favole che abbiamo letto o ascoltato in precedenza. All'inverso, è il mondo reale che ci dice che, se ci sediamo al ristorante, il cameriere non ci chiederà il no­stro parere sulle ultime novità della politica, ma vorrà sape­re che cosa vogliamo mangiare.

L'interpretazione è guidata da questa mescolanza di fra­mes di primo livello (che si accumulano come deposito di esperienze reali), e di frames di secondo livello (riguardanti la natura dei testi, il modo in cui ci aspettiamo che debbano esser fatti: i cosiddetti meta-frames). In questo modo, nell' e­sperienza di ognuno si deposita via via una raccolta (una «biblioteca», come suol dirsi calcando l'inglese library) di frames, che vengono riattivati secondo le necessità.

È facile vedere che l'acquisizione di una buona «bibliote­ca» di frames dipende dall'enciclopedia di conoscenze di cui

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ciascuno di noi dispone. Il richiamo enciclopedico, che (co­me abbiamo visto) è relativamente più intenso nei testi da leggere, non è infatti che un insieme di frames che richia­miamo secondo le necessità che il testo produce.

Che nesso c'è tra Jrames e i due tipi di testo di cui ci stia­mo occupando? L'uno e l'altro tipo attivano nella nostra mente una serie di frames, la percezione dei quali è tanto forte da determinare la produzione e l'interpretazione di testi: è ben noto, per citare un fatto curioso ma conosciuto da tutti, che se raccontiamo a un bambino una fiaba leg­gendola per finta da un quotidiano, lui si ribella e si rifiuta di credere che la stiamo veramente leggendo sul giornale. Un meta-frame gli ha insegnato che nei quotidiani non ci possono essere le fiabe.

Ma tra i due tipi di testo ci sono differenze per quanto ri­guarda l'accesso aiframes che ciascuno di essi permette. Non ho dati indiscutibili a questo proposito, ma direi che il.frame attivato dal testo che si vede è più «trascinante»: le specifi­cità di ritmo e di traino, tipiche del testo che si vede, delle quali ho parlato sopra, rendono meno accessibili i Jrames dei testi che si vedono. Il testo che si legge consente, probabil­mente, una migliore gestione dei Jrames che contiene, pro­prio perché ha un ritmo che il lettore determina da sé.

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IL TESTO E IL SUO AUTORE

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3. TESTO SCRITTO, TESTO PARLATO, TESTO DIGITALE

1. La scrittura e la memoria

Le più antiche tracce di scrittura si trovano su oggetti ri­salenti perlomeno al paleolitico: graffiti su pietre o su osso, diffusi in aree geografiche che vanno dall'Europa all'Au­stralia. Queste scritture avevano funzioni diverse (per quello che possiamo saperne): contabilità del bestiame, annotazio­ni di proprietà, iscrizioni magiche e religiose.1 Si trattava quindi di scritture non-testuali, cioè non organizzate in «di­scorsi», ma fatte di annotazioni frammentarie, essenzial­mente di liste.

Benché nata in forma non-testuale, a un certo punto la scrittura deve essersi sviluppata in una versione specifica­mente testuale (in una fase notevolmente successiva, dato che presuppone il crearsi di una mente capace di gestire or­ganizzazioni complesse come i «discorsi») . La nascita di que­sta dovette essere un evento non meno importante di quella della scrittura in quanto puro sistema grafico.

Per queste sue origini remote e complesse, non è un caso che la scrittura fosse subito percepita come un'attività magi­ca o addirittura divina. Ciò si dovette forse alla scoperta che aveva a che fare con le facoltà profonde della mente, prima tra tutte la memoria: l'uomo dovette infatti rendersi conto per tempo che col suo aiuto poteva ritrovare, a distanza di anni e tutte le volte che voleva, un'informazione che aveva

1 Vedi per questo Cardona (1988).

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fissato in un momento precedente, mentre prima della scrit­tura quell'informazione sarebbe andata perduta senza scam­po (se non a patto di memorizzarla).

Per questo non sorprende che l'origine divina della scrit­tura sia evocata in testi filosofici di altissimo livello, primo tra tutti quel bellissimo resoconto «in diretta» della sua na­scita che Platone offre nel Fedro (274 ss.), che è, come è no­to, dedicato in gran parte proprio a questo tema. La ragione per cui cito il Fedro non è puramente archeologica. In effet­ti, Platone immette immediatamente nel dibattito di oggi, anche perché suggerisce un certo numero di parametri per l'analisi del testo scritto a confronto di quello parlato che possono aiutarci nella nostra esplorazione.

Come è noto, nel Fedro, Platone racconta il mito secondo cui il dio Theuth inventò «i numeri, il c_alcolo, la geometria, l'astronomia, il gioco del tavoliere e dei dadi e, infine, an­che la scrittura», e poi andò da Thamus, re d'Egitto, per an­nunciargli che bisognava insegnare al suo popolo tutte que­ste cose. In particolare la scrittura, secondo Theut_h, sarebbe stata «il farmaco della memoria e della sapienza», perché, secondo il dio, essa era in grado di alleggerire la memoria degli uomini, che fino a quel momento avevano dovuto ri­tenere a mente le conoscenze, e di favorire lo sviluppo del sapere.

Thamus reagisce bruscamente alla proposta di Theuth, riflettendo in ciò la posizione di Platone stesso. La scrittura non sarà il farmaco della memoria, dice, ma servirà solo a favorire l'oblio e la presunzione nelle persone che l'avranno imparata, perché

Della sapienza tu procuri ai tuoi discepoli l'apparenza, non la verità; divenendo per mezzo tuo uditori di molte cose senza in­segnamento, essi crederanno di essere conoscitori di molte co­se, mentre, come accade per lo più, in realtà non le sapranno. (275A-B) .

La ragione di ciò è che gli uomini

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fidandosi della scrittura, si abitueranno a ricordare dal di fuori mediante segni estranei, e non dal di dentro e da se stessi. (274 A) 2

La scrittura, insomma, sposta la conoscenza dal di dentro al di fuori dell'uomo, cioè la rende superficiale e crea la fal­sa percezione di sapere. Secondo Thamus, essa ha un'altra debolezza: il testo, una volta scritto, non può più aiutare il lettore nell'opera di comprensione, perché si stacca dall'au­.tore e vive per proprio conto. Il parlato, all'inverso, può es­sere continuamente spiegato da chi lo emette. Infatti,

una volta che sia scritto, un discorso rotola dappertutto, nelle mani di coluro che se ne intendono come in quelle di coluro a cui non importa nulla, e non sa a chi deve parlare e a chi no. E se gli recano offesa e a torto lo oltraggiano, ha sempre bisogno dell'aiuto del padre, perché non è capace di difendersi e di aiutarsi da solo. (275 D-E)

In questo passo, il discorso scritto è personificato: la sua debolezza sta nel non potersi difendere da solo nella di-. scussione dialettica, dato che si è staccato dall'autore. Al contrario il discorso parlato, che presuppone ovviam~nte che l'autore sia presente, può essere difeso, chiarito, ap­profondito dall'autore stesso secondo gli obiettivi che vuo­le raggiungere; insomma è più consono alle necessità della dialettica e adatto a esprimere cose importanti. Per questo, aggiunge Platone, la scrittura comporta sempre una certa dose di gioco; al confronto, il discorso orale è più serio, l'u­nico in grado di esprimere la ricchezza dei pensieri profon­di. Il discorso scritto è, dice Platone, il «figlio bastardo» di quello parlato.

Insomma, Platone nota che il testo, per effetto della scrit­tura, cambia natura. Non solo perché il discorso scritto si stacca dal suo autore e passa nelle mani di altri. Ma anche per un altro motivo profondo: attraverso la scrittura, l'auto-

2 Le citazioni dal Fedro sono tratte, con qualche modifica, dalla tradu­zione italiana commentata di G. Reale (Fondazione Lorenzo Valla, Mon­dadori, Milano 1998).

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re consegna al·lettore un testo che ha raggiunto uno stato specifico - la stabilità, la permanenza (in greco, la bebai6tés). E, descrivendo questo passaggio, insiste sul fatto che pro­prio per questo, una volta messo per iscritto, il testo può an­dare anche in mano di chi non è in grado di capirlo, e so­prattutto non può essere più difeso dal suo autore; che non può commentarlo, spiegarlo, chiarirlo.

Lo stabilizzarsi del testo messo per iscritto non esclude la possibilità di manipolarlo. Ma in realtà secondo Platone si manipolano solo i discorsi di basso livello. Il discorso che na­sce ricco, infatti; non ha bisogno di esser rimodellato, per­ché la ricchezza dei suoi significati prevale sulla forma in cui è espresso. In rapporto a questo, Platone a un certo pun­to (278 D-E) distingue tra due tipi di creatori di testi: da una parte il filosofo, che «possiede cose che sono di maggior va­lore rispetto a quelle che ha composto o scritto», dall'altra il poeta, il compositore di discorsi e lo scrittore di leggi, che invece «rivolta le cose in su e in giù per molto tempo, incol­lando o togliendo una parte rispetto all'altra». Quest'e­spressione («incollando [kollaò] e togliendo [ aphaireò] ») colpisce perché allude alle operazioni che oggi chiamerem­mo di «taglia e incolla» (o più tradizionalmente di «forbici e colla»), che per chi scriveva prima del calcolatore erano operazioni concrete e che, come vedremo, non sono affatto esterne al processo della scrittura.

Per Platone, quindi, lo stabilizzarsi del corpo del testo non è una conquista; al contrario è un pericolo. Il testo, sta­bilizzandosi, non è più vivo. Da questo punto di vista, la scrit­tura ha una proprietà negativa (che condivide con la pittu­ra), che a Platone appare addirittura «terribile» (dein6n):

le creature della pittura ti stanno di fronte come fossero vive, ma se domandi loro qualcosa se ne restano zitte; e così fanno anche i discorsi. Tu. crederesti che parlino pensando essi stessi qualcosa, ma se, volendo capire bene, domandi. loro che cos'è che hanno detto, continuano a ripetere una sola e medesima cosa. (275 D)

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Platone offre qui una prima formulazione, straordinaria­mente acuta, dell'effetto che taluni media hanno sulla co­noscenza, anzi addirittura sulla mente e il suo modo di fun­zionare: l'uso della scrittura influenza la capacità della me­moria e altera la relazione tra il testo e chi lo legge e lo scri­ve. Per usare i termini che ho suggerito all'inizio, Platone in­tuisce insomma il vincolo tra la noosfera e la mediasfera, suggerendo che non si può introdurre un nuovo medium che abbia a che fare con la mente senza produrre degli ef­fetti sulla mente stessa.

Inoltre dà la prima analisi che distingua nettamente il di­scorso parlato da quello scritto, suggerendo taluni parame­tri differenziali che possono ancora servire. Intanto, il par­lato nasce «dal di dentro», cioè risponde a un bisogno dico­municazione immediato e profondo, a un «sapere che re­spira»;3 in secondo luogo, il fatto che possa essere «difeso dal suo autore» significa che è immerso in un contesto di­retto, che l'autore del discorso controlla e governa, artico­lando il discorso secondo il variare della situazione comuni­cativa.

Anche della scrittura si possono intrawedere alcuni tratti specifici. Essa è sì un «segno grafico» registrato su un sup­porto stabile, ma è anche un particolare tipo di «processo» che approda a uno speciale tipo di «discorso». Infatti

(a) ha un nesso diretto con la memoria, perché la alleg­gerisce (su questa diagnosi Thamus e Theuth concordano, anche se ognuno valuta questo fatto in modo diverso); quin­di favorisce la nascita di luoghi in cui il sapere e l'informa­zione si depositano.

( b) È pubblica, perché «rotola dappertutto» e «non sa a chi deve parlare e a chi no». E siccome si stacca dal suo au­tore, che non la può più difendere (almeno, non in tempo reale) né controllare, deve «parlare da sola», farsi intendere

3 Prendo questa espressione dal commento filosofico al Fedro offerto daLled6 (1992).

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indipende9temente dal suo emittente. Per conseguenza, il discorso scritto deve dotarsi del giusto grado di esplicitezza per essere capito anche in assenza dell'autore. In altri ter­mini, la scrittura dipende dal contesto molto meno del testo parlato.

( c) Non è la pura e semplice trascrizione del discorso Par­lato, ma è regolata da meccanismi propri. Questo può esse­re il senso della formula platonica secondo cui la scrittura è il «figlio bastardo» del discorso parlato. Come tale, essa se­gue regole proprie rispetto alla sua matrice.

2. Concezioni recenti

Le pagine del Fedro che ho citato segnano una pietra mi­liare insuperata nella discussione sulle specificità della scrit­tura rispetto al parlato.4 Va segnalato anche, però, che, se l'a­nalisi platonica sembra reggere oggi quasi come al momento in cui fu formulata, la valutazione con cui si conclude (se­condo cui la scrittura non è un farmaco della memoria, ma al contrario un incitamento alla dimenticanza) oggi è stata sowertita. Nessuno potrebbe dire, oggi, come Thamus, che la scrittura non sia un'acquisizione essenziale. Infatti

(a) nella maggior parte delle culture evolute, essa è rico­nosciuta come il più potente mezzo di cui l'uomo disponga per conservare la propria esperienza; la memoria collettiva si manifesta principalmente sotto forma di scrittura, e anche le innovazioni informatiche non hanno del tutto spezzato questo primato, se solo si pensa che anche in esse l'infor­mazione si presenta sotto forma scritta. Il deposito della co~ noscenza passata si sposta dalla mente dell'uomo agli archi­vi e alle biblioteche e, in epoca moderna, ai data base.

4 Riprendono, per esempio, motivi platonici le analisi della scrittura contenute in T. De Mauro, Tra Thamus e Theuth (in De Mauro 1971), e (sia pure senza menzionare Platone) Halliday (1985).

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(b) Da secoli, l'acquisizione del sapere di ciascuno dipen­de in gran parte proprio dall'accesso a fonti scritte.

( c) La scrittura serve non solo a registrare la conoscenza per renderla accessibile in momenti successivi e ripetuti, ma anche a renderla esplicita, a metterla a fuoco, a formularla con precisione. Questa funzione ha preso tanta importanza, che, addirittura, alcune forme di conoscenza possono for­mularsi esclusivamente con il suo aiuto: il ragionamento ma­tematico, per esempio, nelle sue forme evolute, può essere sviluppato solo per iscritto.

( d) La scrittura è creatrice di istituzioni. In questo campo ci aiuta di più la ricerca antropologica e linguistica, che ha mostrato che la scrittura è connessa alla nascita di una va­rietà di istituzioni fondamentali del mondo antico e moder­no. 5 Essa per esempio trasforma (come ho già accennato) la consuetudine in legge, perché rende stabili le formulazioni normative, crea e sviluppa la letteratura e favorisce la circo­lazione della cultura, e produce anche altri effetti culturali (per esempio; contribuisce alla nascita delle tradizioni ali­mentari, attraverso la registrazione e la stabilizzazione delle ricette).

3. Specificità del testo scritto

Nei termini scrittura e scrivere si condensano sensi molto disparati, che possono produrre fraintendimenti. In questi due termini vanno distinti perciò di volta in volta più sensi, come cerco di precisare nella tabella 1, in cui indico le di­verse funzioni della scrittura, le figure che le realizzano, e il tipo di prodotto che generano.

Questi significati si confondono a tal punto tra di loro che per alcune delle figure che ho indicato nella seconda co­lonna non abbiamo neanche una specifica denominazione.

5 Penso soprattutto ai lavori di Jack Goody (per es. Goody 1986) e di David Olson (per es. Olson 1996).

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Tabella 1. Funzioni scrittorie, /,oro denominazioni e loro prodotti

Funzione Nome della figura Prodotto

1 ) chi traccia i segni sul «Scrivano», amanuense, Segni grafici di supporto fisico, che può dattilografo, digitatore ecc. testi propri o essere altrui

a) chi verga il testo con strumenti di scrittura che permettano di riconoscere il ductus (per es. l'amanuense); b) chi comanda l'impressione del testo (per es. digitandolo) su strumenti di scrittura che non permettano di riconoscere il ductus;

2) chi concepisce ed Autore (scrittore, redattore Testo proprio elabora il testo che viene ecc.), con le responsabilità scritto; conseguenti

3) chi detta il testo che ? Testo proprio o viene scritto, che può altrui anche coincidere con 2;

4) chi sottoscrive il testo Sottoscrittore Segni grafici · che viene scritto, anche personali senza rientrare in nessuna ( «autòchiri») delle categorie precedenti;

5) chi ricopia o riporta il ? (in taluni casi, tipografo, Segni grafici testo che viene scritto, compositore, digitatore) che può anche coincidere con 1.

In talune pratiche di scrittura queste figure coincidono; in altre invece sono nettamente separate. Diversi scrittori (nel senso «letterario» del termine), per esempio, concepiscono il testo e insieme lo tracciano sul supporto, occupando quin­di nello stesso tempo sia la posizione 2 sia la posizione 1 del­la tabella. Ma in molte professioni della scrittura è frequen­te che il testo venga concepito da una persona e poi traccia-

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to sul supporto da un'altra, per .esempio attraverso la detta­tura. In questo caso il segno che (sulla casella 4) ho chiama­to «autòchiro»6 apparterrà a chi ha tracciato il testo, ma del testo stesso costui non è l'autore. In taluni ambienti, la divi­sione del lavoro è ancora più spinta, e si può avere una figu­ra diversa per ogni funzione.

Come conseguenza di questa scomposizione, variano an­che i significati del termine scrittura. La scrittura infatti, co­me aveva intuito Platone, è da un lato la gestione di un pro­cesso, cioè l'insieme delle operazioni necessarie per ottenere un testo (soprattutto se questo è un testo proprio), dall'altro è il testo che si ottiene come risultato o prodotto dello scrivere. In questa seconda area intervengono ovviamente tutte le fi­gure che ho indicato nella tabella 1. Questa differenza è es­senziale, perché talune specificità del testo scritto dipendo­no proprio dalle particolarità di gestione del processo di scrittura, da quello che chiamerei il suo «ambiente operati­vo» (sul quale vedi sotto).

Ora, immaginando che il testo scritto sìa già definito e re­so visibile in qualche modo, possiamo attribuirgli le seguen­ti proprietà.

Pubblicità. Il testo scritto è pubblico, perché (come Plato­ne aveva ben visto) si rivolge a destinatari che possono non essere presenti e nella maggior parte dei casi non lo sono, né nel tempo né nello spazio. Per conseguenza, «non è an­corato al momento»7 in cui viene prodotto, ma deve poter portare il suo messaggio anche in altri momenti e luoghi.

Questa proprietà è fondamentale per il formarsi del te­sto scritto: la scrittura costringe il suo autore a separarsi da-

6 Adopero il neologismo autòchiro, che mi pare più pregnante di auto­grafo (dato che il primo fa riferimento all'uso della mano nella scrittura), per dare risalto al fatto che, in talune forme di attività scrittorià, può esse­re essenziale riconnettere il tracciamento grafico-fisico di un segno alla mano di una specifica persona.

7 Cfr. Halliday (1985, p. 64).

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gli eventi e dalle esperienze di cui sta parlando, a deconte­stualizzarsi o a decentrarsi, lasciando da parte, cioè, il pro­prio punto di osservazione e adottando quello di una terza persona assente (il lettore), la cui presenza è comunque ineliminabile dall'organizzazione del testo stesso. Questa proprietà è talmente spinta che in alcuni testi letterari ci si può indirizzare al lettore come se fosse presente, e model­lare la narrazione in base alla sua presunta conoscenza del mondo.

Quando si scrive, bisogna allora rimodellare tutti gliele­menti che, nel discorso, servono a designare gli oggetti tra i quali ha normalmente luogo il discorso parlato. Si parla nel gergo dei linguisti di conversione deìttica: tutti i deittici, cioè i termini che designano spazio o tempo, devono cambiare. Non basta più, per esempio, dire questo qui o quello lì (come faremmo nel parlare), ma dobbiamo dare un nome agli og­getti, gli eventi e gli «attori» (le persone che entrano in gio­co) di cui stiamo parlando; dobbiamo indicare le posizioni degli eventi e degli attori nel tempo e nello spazio, e così via. Dobbiamo, insomma, rappresentare con parole un mondo, mentre nel parlare possiamo accontentarci di indicarle pun­tando il dito.8

Una delle conseguenze di ciò è che il testo scritto, essen­do rrieno legato al contesto, dev'essere più esplicito di quello parlato. In altri termini, da parte dello scrivente esso richie­de la simulazione del ricevente (per supporre che cosa sa e che cosa non sa di ciò che stiamo scrivendo) e quindi l'esplicita­zione delle informazioni, soprattutto per quanto attiene al contesto in cui si colloca la comunicazione. Ciò produce, al­meno in linea di principio, una riduzione della vaghezza e della genericità del discorso parlato.

Ambiente operativo: correggi:hilità e controllo. La scrittura si svolge in un ambiente operativo profondamente diverso

8 Questo tema è trattato particolarmente in Halliday (1985).

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da quello del parlato. Già Platone aveva intuito ciò, sotto­lineando la differenza tra i discorsi scritti, che nascono «dal di fuori» e quelli parlati, che nascono invece «dal di dentro».

Il parlato fluisce più o meno istintivamente, seguendo i pensieri che affluiscono nella mente.9 Ciò ha una conse­guenza importante: via via che viene prodotto, il discorso parlato svanisce, per il fenomeno che è a volte chiamato fa­ding («evanescenza»). Per questo fenomeno, non possiamo annullare quello che abbiamo detto: il parlato non può es­sere né corretto né modificato. Il testo scritto invece, una volta realizzato, può essere illimitatamente carretto: completato un testo, possiamo ritoccarlo, modificarlo, limarlo, correg-

, gerlo e perfino cancellarlo del tutto. Questa sua illimitata correggibilità ne determina una proprietà profonda: nel suo farsi, il testo scritto è fluido e plastico, perché può essere esteso o compresso a piacimento, integrato di nuove parti o privato di parti preesistenti, fino a che non se ne raggiunge una configurazione convincente.

Siccome la scrittura è illimitatamente correggibile, per poterla eseguire a un buon livello è indispensabile avere pie­na coscienza di quel che si sta facendo. In altre parole, chi scrive in modo consapevole si domanda di continuo: «che cosa sto scrivendo?», o anche: «quello che sto scrivendo so­miglia a quello che volevo scrivere?». Lo scrivente insomma controlla sia il suo processo sia il prodotto che ne deriva, molto di più di quanto lo faccia il parlante.

Questo controllo diventa quasi automatico negli scriventi di professione (siano essi scrittori in senso proprio o no); al contrario richiede uno sforzo esplicito e continuo in chi non è padrone del processo della scrittura. Il caso, segnala-

9 Per comodità esplicativa, considero qui il testo parlato come una'ca­tegoria monolitica e semplice. In realtà, come esistono vari tipi di testo scritto, esistono vari tipi di testo parlato, e una sezione notevole della lin­guistica testuale (indicata con il termine tedesco Textsortenlehre) si dedica proprio all'identificazione di questi tipi.

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to dagli psicopatologi e nelle pratiche di parapsicologia, del­la cosiddetta «scrittura automatica» non basta a turbare que­sto quadro.

A ciò si aggiunge che nella scrittura, molto più che nel parlato, si intrecciano abilità di basso e di alto livello. Chi scrive deve controllare per esempio l'ortografia, gli accordi tra le parole, la punteggiatura, e una varietà di altri aspetti di dettaglio, che contribuiscono molto a fare di uno scritto un testo di buona qualità. A un livello più alto, deve con­trollare dimensioni più astratte ed elaborate, come la scelta degli argomenti, il loro montaggio, la lingua con cui espri­merli, e così via. L'aspetto fastidioso di questa distinzione è che normalmen'te le abilità di basso livello interferiscono sulle altre, disturbandole e facendo da barriera alla piena padronanza di quelle di alto livello, e impegnando l'atten­zione dello scrivente in modo esclusivo.

Va da sé che il tipo e il grado di controllo che si esercitano sul testo scritto possono variare secondo la figura che inter­viene nel processo di scrittura. Lo scrivano e l'amanuense, per esempio, controllano il testo solo localmente e con abi­lità di basso livello, mentre l'autore, specie nel caso che scri­va con la propria mano, si incarica di controllarlo ad alto li­vello e globalmente.

Livello locale e livello globale. Nella scrittura il testo viene controllato a livello locale e a livello globale. Sul primo, ci assicuriamo per esempio che le parole siano ordinate a do­vere, che la posizione degli elementi sintattici sia appropria­ta ecc.; sul secondo, verifichiamo che i blocchi di discorso siano montati in modo persuasivo, che la loro successione sia conforme allo scopo che abbiamo in mente, e che, per così dire, l'insieme «funzioni».

Lo scrivente evoluto domina queste due dimensioni in modo simultaneo e automatico; quello inesperto tende a controllare meglio il livello locale che quello globale (come si vede, in particolare, dal modo in cui corregge: si intervie-

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ne più spesso su «pezzetti piccoli» del testo che sui grandi blocchi che lo costituiscono) .10

Tipizzazione. I testi scritti tendono a tipizzarsi, cioè a ricade­re entro una gamma ristretta di tipi, ognuno dei quali ha tratti costanti. Ciò accade in qualsivoglia cultura, e l'utente si accorge di questo fatto in maniera intuitiva e molto precoce.

È difficile dire come mai i testi siano tipizzati. Una possi­bile spiegazione sta nel fatto che la nostra mente tende a ela­borare aspettative su ogni testo dinanzi a cui si trova: ~e ci aspettiamo un racconto romanzesco, sappiamo più o meno

. quali ingredienti possiamo trovarci dentro, e in questo mo­do ci prepariamo tacitaniente a ricevere certe specifiche

. informazioni e non altre. La mente esercita una sorta di fil­traggio preventivo delle informazioni che è disposta ad ac­cogliere; è insomma conservatrice, probabilmente per ra­gioni di economia. Se ogni testo fosse del tutto diverso dagli altri, invece, per capirlo (o per scriverlo) sarebbe necessario un tale sforzo da scoraggiarci nel tentativo: occorrerebbe ogni volta partire ab ovo. Questo è forse il motivo per cui la mente si forma con l'esperienza, e tiene conservate biblio­teche virtuali di tipi di testo, che le permettono di classifica­re unnuovo testo sin dalle sue prime battute, e di procede­re poi con l'aiuto di quel che altri testi dello stesso tipo le hanno già insegnato. 11

In ogni caso, la questione della tipizzazione ci interessa qui anche perché chiama in causa una varietà delle figure di scriventi che ho indicato nella tabella 1. In taluni casi, pro­prio a causa del tipo di. testo con cui si ha a che fare, il testo stesso va attribuito al sottoscrittore (si pensi ai contratti, in cui il sottoscrittore non è l'autore dell'atto, ma si limita ad

10 Il modo in cui lo scrivente opera sul testo che sta scrivendo è oggetto di discussioni e ricerche intense, specialmente in psicologia, dove sono stati formulati diversi modelli per interpretarne le procedure.

11 Questo tema è studiato dall'intelligenza artificiale. Una presa di po-sizione interessante in Schank (1982). ·

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«adottarlo» con la sua firma); in altri va ricondotto all'auto­re in senso proprio (così nei testi cosiddetti «creativi», in cui all'autore si attribuisce il testo, ma non la sua realizzazione materiale).

Localizzazione e «despotìa». Rispetto al contesto, il testo scritto ha due caratteristiche fondamentali, che designerò, solo allo scopo di renderle evidenti, con neofogismi un po' bizzarri: è localizzato ed è dotato di despotìa.

Localizzato significa che è prodotto in un luogo determi­nato e spesso riconoscibile (quello che, nelle lettere e nella maggior parte dei documenti, viene precisato con l'indica­zione della città accanto alla data), il che in alcuni tipi di scrittura può essere essenziale. È chiaro che i testi parlati so­no ben più avanti nella scala della localizzazione, per le ra­gioni che abbiamo visto sopra con l'aiuto di Platone (e di al­tri); ma anche di una varietà di testi scritti possiamo ricono­scere il sito di produzione.

Che un testo scritto sia dotato di despotz'a (dal greco despo" tes «padrone») significa che esso ha un autore o più autori, individuali o collettivi. Gli autori garantiscono (almeno in alcuni ambiti, come la creazione letteraria, la scrittura giuri-· dica, i contratti ecc.) alcune condizioni fondamentali: 12

(a) che la scrittura sia autentica: ciò è alla base, per le scrit­ture letterarie, dell'idea stessa di autore, e conseguentemen­te dell'idea di diritto d'autore, con tutti i privilegi e gli one­ri che ne discendono; per talune scritture giuridiche (per esempio i contratti), ciò comporta che i contraenti siano consapevoli di quel che sottoscrivono e siano pronti ad as­sumersi le obbligazioni che esse prevedono;

( b) che sia chiusa, cioè completa e definitiva, ossia che ab­bia raggiunto lo stato che i filologi chiamerebbero ne varie­tur, cioè immutabile, permanente e stabile;

12 Considerazioni ulteriori su questo tema si trovano al cap. 4 di questo libro.

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( c) che la responsabilità di quel che si è scritto apparten­ga a una persona definita e riconoscibile.

È facile vedere eh~ tutte queste conseguenze sono conse­guenze della stabilità della scrittura, quella proprietà che Platone considerava nefasta. La scrittura è, sì, infinitamente correggibile, ma questa proprietà vale primariamente nel suo processo, nel suo farsi; come prodotto essa è invece stabile e permanente. Per questo, il testo scritto tende per sua natura a stabilizzarsi e a chiudersi in una forma ne varietur.

In ogni caso, la despotìa di cui parlavo è diversa secondo la figura della persona che scrive. Se chi scrive è anche la persona che traccia il segno grafico, questa si assume la pa­ternità anche della formulazione grafica (è il caso dell'auto­grafia). Se invece chi scrive ha solo concepito il testo (ne è quindi l'autore), si assume la responsabilità del solo tenore del testo e non della sua formalità fisica.

È infine abbastanza evidente che anche per la despotìa si dà una scala, e che anche su questa il testo parlato è molto più avanti dello scritto, dato che non si può dissociare dal suo autore.

4. L'effetto stabilizzante della stampa

Le proprietà discusse sopra, che erano, come si è accen­nato a più riprese, già evidenti all'epoca di Platone, ruotano attorno all'idea di stabilità. È inevitabile allora che, appena si rendono disponibili mezzi tecnici che esaltano tale stabilità, il testo scritto accentua le sue proprietà: riappare l'esatta­mento che ho menzionato all'inizio. Per intenderci, le pro­prietà accennate diventano più vistose con la nascita della stampa: questa rappresenta infatti l'esaltazione della stabi­lità del testo, formalizza l'idea di «pagina» con tutte le sue caratteristiche, alcune delle quali (come il bordo esterno che separa il testo dal non-testo) stanno proprio a sottoli-

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neare l'impenetrabilità del corpo testuale. 13 In questo mo~ do, la stampa rende ancora più netta la distinzione tra le fa­si del processo e del prodotto.

Nella sua processualità, nel suo farsi, il testo scritto è - co­me si è visto-'- sempre illimitatamente correggibile. In que­sta fase è in mano al suo autore: questi può rielaborarlo quanto e quando vuole;_a lui anzi spetta fino all'ultimo l'o­nere di modificazione. Negli studi di genetica testuale che si conducono da alcuni decenni è stato sottolineato con straordinaria evidenza il fatto che presso alcuni autoril'ela­borazione del testo (cioè la sua modificazione) è continua, intensissima e talvolta drammatica e sofferta (così in Flau­bert o in Proust);14 in altri (come Manzoni o Balzac) essa si protrae sin nella fase della bozza di stampa, dove il testo ha trovato una sua apparente stabilizzazione. In quanto pro­dotto, invece, il testo stampato è un ne varietur totale, cioè qualcosa che non può. essere modificato né dal suo autore né da altri e veramente «rotola dappertutto», andando a fi­nire sia nelle mani di chi sa come trattarlo sia in quelle di persone che non sanno che farne.

5. Il testo di~tale: tecnolo~a a ondate

Le considerazioni proposte fin qui a proposito del testo scritto si sono applicate senza difficoltà a una catena di testi che è durata secoli. Esse vanno però completamente rifatte al momento in cui appare il terzo tipo di testo menzionato nel titolo di questo capitolo: il testo di~tale. Questo, pur essendo in apparenza nient'altro che la continu<)Zione del testo scrit­to in altra forma e «con altri mezzi», in realtà altera alla radi­ce i parametri del testo scritto così come li conosciamo.15

13 La nascita dell'idea di pagina nella storia della scrittura è documen­tata in Zali ( 1999) .

14 Dati e illustrazioni in Scavetta (1992); Zali (1999). 15 Anche qui mi servo, per ragioni di evidenza e di spazio, di qualche

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Già la prima videoscrittura (termine ormai quasi dimen­ticato) negli anni Ottanta del Novecento fece gran colpo per la sua eccezionale capacità di rendere plastico (cioè, in termini platonici, «instabile») il testo. Ciascuna delle ulte­riori ondate di tecnologie (fino alla telematica, i socialforum e oltre) ha dato nuovi scossoni alle proprietà del testo scrit­to. E siccome le tecnologie di scrittura cambiano di conti­nuo nella storia della mediasfera, alcune proprietà del testo digitale variano anch'esse secondo la tecnologia adottata. Se vogliamo un esempio di questo fatto, basta pensare alle differenze tra la scrittura via computer e quella via tablet o te­lefonino.

Cominciamo nondimeno dalle proprietà comuni.

Esaltazione della fase processuale. Anzitutto, il testo digitale enfatizza oltre misura la fase processuale, cioè di creazione del testo. Nello scrivere, chiunque adoperi risorse digitali può compiere una varietà di operazioni molto più vasta di quelle possibili con le tecnologie di scrittura tradizionali: re­digere, scalettare, modificare, incollare, tagliare, spostare, sintetizzare ecc., in misura larghissima, e senza lasciare alcu­na traccia del lavoro che queste operazioni hanno compor­tato. Sul display di un calcolatore il testo si riassesta da solo a ogni nuova modifica, cancellando via via i passaggi che so­no stati attraversati per arrivare al prodotto finale. In questo modo, l'idea stessa di prodotto finale si indebolisce fino a scomparire. Il testo digitale non è mai ne varietur.

Ciò dipende dal fatto che, una volta che il testo è stato chiuso, lo si può riaprire senza limite e ogni nuova riapertu­ra è, come tutte le precedenti, priva di tracce. Ciò crea un effetto speciale, a cui non è facile abituarsi: malgrado il suo

semplificazione. Parlo infatti di «testo digitale» come se si trattasse di un oggetto unitario. Al contrario questa espressione designa una vasta cate­goria di oggetti, in cui ricadono numerose forme non ancora ben scheda­te. Alcune di queste sono menzionate occasionalmente nel testo che se­gue, ma la lista completa è ben lontana dall'essere definita.

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aspetto formalmente del tutto definito, il testo digitale è per­manentemente e intrinsecamente instabile. La bebai6tes di cui par­lava Platone, che ha resistito per duemila anni come aspetto fondamentale della testualità, non esiste più. Su questa base si possono riconoscere alcune ulteriori proprietà di questa categoria di testi.

Immaterialità. Il testo digitale è immateriale. Non ha biso­gno di depositarsi su un supporto di carta o di altra sostanza stabile, non forma volume né massa, non si tocca e non si accumula.16 Si vede, sì, su uno schermo, ma su questo in ef­fetti non ci sono segni grafici bensì solo pixel elettronici. Il testo digitale non può quindi portare traccia della mano del suo autore: non il ductus, non la consistenza o il peso della mano che scrive, non il colore dell'inchiostro ... Perfino la pagina che vediamo sul display, e sulla quale abbiamo l'im­pressione di scrivere, non è affatto una pagina, ma qualcosa che iconicamente le rassomiglia.

Questa proprietà del testo digitale è connessa alla sua mancanza di localizzazione e di despotìa (vedi sopra). Infat­ti il testo digitale non porta tracce fisiche della persona che lo ha scritto (in nessuno dei sensi indicati nella tabella 1) e non conserva alcuna indicazione circa il luogo in cui è stato prodotto. In tal modo, dissolve una proprietà fondamentale che il testo scritto ha manifestato nella storia della scrittura (e della paleografia, della storiografia e di tutte le discipline che si incentrano sulla scrittura e il documento, non escluso il diritto): quella di significare il suo autore, di esserne l'espres­sione anche grafica. Nella scrittura digitale si dissolve il con­cetto di autografia e più specificamente di autochirìa, sul quale sono basate una varietà di conseguenze filologiche, paleografiche, giuridiche ecc.

16 Questa formulazione, nella sua drasticità, è ill)precisa. Il testo digita­le in effetti si deposita nella memoria di massa del calcolatore sotto forma di segnali magnetici. Quindi ha una sua «fisicità». Ma è facile vedere che questa fisicità non ha molto in comune con quella per la quale possiamo mettere un testo scritto in una borsa, su uno scaffale, e simili.

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Delocalizzazione e adespotia. Queste proprietà della scrittura digitale vengono esaltate in talune delle sue forme, che si diffondono oggi con grande rapidità. Il messaggio di posta elettronica può essere spedito e ricevuto in ogni parte del mondo, quindi è totalmente delocalizzato: non esiste (non per l'utente comune, perlomeno) nessun modo di ricostruire il sito dal quale esso è stato inviato né quello in cui è stato ri­cevuto. Analogamente, esso è totalmente adespota: reca sì, in cima, l'indirizzo elettronico del mittente, che viene inserito automaticamente dai programmi di e-mail, ma nulla garanti­sce che il mittente sia anche l'autore del testo. I programmi in uso attualmente, per giunta, richiedono una password solo a chi vuole leggere i messaggi pervenuti, ma non a chi vuole spedirli. Per conseguenza, è possibile al momento spedire messaggi elettronici da un indirizzo non proprio o fingere di essere altri con un gesto noto come «furto di identità».17

La posta elettronica esalta quindi anche un'altra pro­prietà del testo digitale, la sua illimitata diffondibilità: una volta scritto, il testo può essere spedito immaterialmente a un numero illimitato di destinatari, ognuno dei quali può riaprirlo e farlo circolare a sua volta presso un numero illi­mitato di nuovi destinatari. La posta elettronica può essere quindi «inoltrata» (nel gergo tecnico, forwarded) ad altro o ad altri mittenti in numero illimitato: nell'inoltrare, il nuovo mittente può inserire quel che vuole, senza che la sua ag­giunta nel messaggio originario sia riconoscibile.

Un altro fenomeno notevole è costituito dai «gruppi di conversazione» (o chat groups), in cui ciascuno si può inseri­re digitalmente, cioè da un qualunque luogo e in qualun­que momento. In pratica, si tratta di una sorta di simulazio­ne scritta di una conversazione a più voci. La differenza è che, nel chat group, le «voci» possono provenire dalle sedi più diverse e remote, senza che possiamo identificarle. Si al-

17 Questa proprietà fa il paio con la possibilità di creare siti fittizi (detti fake nel gergo di internet), in cui un mittente anonimo finge di essere un altro, soprattutto una celebrità ( cel, nel gergo dei media).

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tera così, drasticamente, l'idea di contesto alla quale siamo abituati. Essendo immateriale, il testo digitale può circolare senza limiti di tempo e di spazio e senza limiti al numero di destinatari. I social forum, numerosissimi nella mediasfera, completano questo intricato panorama.

In questo modo, la scrittura digitale fonde le due fasi che la scrittura pre-digitale separava nettamente. In questa, la fase processuale era illimitatamente aperta, mentre la fase del prodotto era stabile e definitivamente chiusa. Nella scrit­tura digitale invece esiste solo una illimitata fase processuale: non c'è nessun momento in cui si possa dawero dire che il testo è finito, e quindi stabile. Perfino la forma conclusiva del testo può essere modificata.

6. Effetti sulle pratiche di scrittura

Elenco in forma di tabella alcuni tratti che caratterizzano il testo parlato rispetto a quello scritto in maniera tradizio­nale e a quello digitale (vedi tabella 2).

Non è difficile vedere che queste differenze comportano serie conseguenze su diverse delle pratiche scrittorie, e altre sul piano per così dire formale dell'operatore della scrittura.

7. Fine dell'autore?

Per dare solo qualche idea di questi cambiamenti, basta pensare alla metamorfosi a cui va incontro il concetto di au­tore, così lungamente elaborato dalla tradizione occidenta­le. Il concetto stesso di autore si associa a un testo che sia chiuso, non modificabile e riconducibile a una fonte deter­minata.18 Al contrario, un testo aperto può perfino non ave­re più autore, quasi come i poemi omerici: a ogni nuovo

18 Sull'idea di autore e sulla sua formazione nella storia della coscienza europea, vedi il cap. 4.

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Tabella 2. Differenze princi,pali fra testo parlato, testo scritto e testo digi,tal.e

Testo parlato Testo scritto Testo digi,tale

Forte contestualità Media contestualità Nulla contestualità

Sola fase processuale Due fasi nettamente Sola fase processuale, distinte: enfatizzata e • Fase processuale aperta illimitatamente aperta

• Fase del prodotto chiusa

Non interpolabile Interpolabile 'solo nella Interpolabile in ogni fase processuale momento

Non archiviabile, se Archiviabile in forma Archiviabile in forma non con supporti materiale immateriale esterni

Supporto immateriale Supporto materiale Supporto immateriale

Limitatamente Largamente diffondibile Illimitatamente diffondi bile diffondi bile

Fortemente localizzato Relativamente localizzato Non localizzato

Fortemente despota Despota Adespota

«Autografo» 19 Potenzialmente autografo, Non autografo in taluni casi autòchiro

passaggio, un nuovo autore può interpolare un suo fram­mento di testo e ottenere un prodotto ugualmente definito e rifinito.

Si dissolve così la «membrana protettiva» che il testo scrit­to ha da secoli e che permette di entrarvi solo con l'inter­pretazione ma non con nuovi interventi testuali. In altri ter­mini, il testo perde quella sorta di habeas corpus che permet­teva di riconoscerne l'autore, l'originalità, la responsabilità (nei diversi sensi di questa parola). In numerosi testi digita­li, l'autore non esiste semplicemente più. È chiaro che que­ste considerazioni devono essere proiettate sulla vasta tipo-

19 Uso per metafora questo termine a proposito del testo parlato: è chiaro che, a causa della sua inseparabilità dall'autore, il testo parlato porta inestricabilmente il segno di questo, e quindi è omologo a un testo scritto autografo.

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logia dei testi scritti, che dovrà tenere conto delle specificità di questi.

A rappresentare le cose con immagini, potremmo dire che a trovarsi in una condizione nuova e più difficile saran­no specialmente i filologi e i giuristi. Per i primi, il concetto di testo autentico potrebbe semplicemente non esistere più: dinanzi a un testo immateriale, privo di autochirìa, che non porta nessuna traccia di autore, l'idea stessa di autore po­trebbe scomparire, e con essa anche l'idea di testo autenti­co.20 Archiviare files elettronici non è evidentemente la stes­sa cosa che archiviare scartafacci.

Per i giuristi si aprirà una varietà di conseguenze serie, di natura diversa secondo la tipologia dei testi a cui si fa riferi­mento. Per esempio, non sembra pensabile che i testi nor­mativi, benché prodotti digitalmente, possano essere consi­derati aperti e interpolabili. Il testo normativo è chiuso per definizione. Resta aperto nella fase di produzione e di ela­borazione, ma si chiude nella forma di prodotto.

Ma oggi, con il testo digitale, la transizione dal processo al prodotto è comunque una fase carica di rischi, che toccano direttamente il problema della sicurezza del testo o della sua protezione. Chi può assicurarci che un testo normativo, nel passare dalla produzione alla stampa; non venga inter­polato? Una forma di pirateria informatica può essere im­maginata anche da questo punto di vista, e non mi pare che di questo tema si sia maturata una coscienza chiara.

Altri tipi di testi di natura giuridica sono esposti al rischio

20 La coscienza di questo fatto è un fenomeno recente. È singolare che nel 1984, agli albori dunque della diffusione generale dei persona[ compu­ter, uno scrittore accorto e sensibile come il grande Primo Levi avvertisse, nell'uso del calcolatore per scrivere, piuttosto il senso di libertà che quello di allontanamento dell'opera dall'autore: «Non escludo che il nuovo stru­mento eserciti una sottile influenza sullo stile; un tempo, il dover incidere le lettere ad una ad una con martello e scalpello costringeva alla concisio­ne, allo stile "lap~dario"; la fatica si è via via ridotta, ed ora è quasi annulla­ta» (in Levi & Regge 1984, p. 53). Per la «scomparsa» del concetto di auto­re in taluni prodotti di letteratura elettronica, cfr. Nunberg ( 1988).

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di essere destabilizzati, modificati, manipolati. Come si può esser sicuri che il testo di una perizia non sia manipolato? Che una testimonianza resa dinanzi a un giudice o a un po­liziotto, una memoria, una sentenza siano proprio come le ha volute il loro rispettivo autore? Per il momento, nulla esclude che in questi tipi testuali si creino manipolazioni e falsificazioni. Esistono certamente metodi per renderli sicu­ri, e altri se ne creeranno, ma non si può dimenticare che la storia del mondo digitale va di pari passo con l'evoluzione della falsificazione dei suoi prodotti.

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4. IL TESTO SI DISSOLVE

1. Il libro e il suo ospite

Normalmente il libro è l'ospite fisico di un oggetto del tutto diverso: contiene un testo, cioè un corpo discorsivo or­ganizzato secondo leggi proprie. Tra il testo e il libro che lo contiene c'è una diversità e un'indifferenza totale: nel libro in quanto oggetto fisico, infatti, può trovare ospitalità una varietà di testi diversi - un elenco telefonico, il bilancio di un'azienda, un codice di leggi o un romanzo storico o an­che la mescolanza più o meno ordinata di tutte queste cose.

Le due entità (loggetto fisico e il testo) sono di solito fu­se e confuse sotto l'unico termine libro, per una sorta di identificazione che si trova in una quantità di lingue. Ma ciò non toglie che le due cose siano distinte e che in certe occa­sioni debbano essere separate con cura. Per questo, quando ci domandiamo quale sarà il «futuro del libro» (una do­manda che nella storia recente si è presentata spesso, ma con particolare urgenza nella modernità della mediasfera, in cui si sono registrate tanto nuove forme-libro quanto nuo­ve tipologie dell'oggetto libro, a partire dall' e-book), non dobbiamo solo chiederci che cosa sarà del libro-ospite, o dei rapporti tra questo e i suoi lettori, ma anche che cosa potrà succedere al testo che nel libro è depositato. Il testo infatti, proprio per essere un corpo - cioè una struttura organizza­ta e articolata secondo certe leggi -, può essere sottoposto alle più diverse manipolazioni.

Descriverò allora soprattutto loscillazione tra due entità: il testo «protetto» e il testo «disarticolato» - un'oscillazione

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che caratterizza in maniera importante diverse fasi della no­stra storia culturale e che trova per ora una forma nuova nella modernità.

Il testo è protetto quando è sentito come un corpo intangi­bile, delimitato da una membrana invisibile che impedisce di portarvi modificazioni. Nessuno di noi, per esempio, pub­blicherebbe a suo nome un'edizione manipolata dei Promes­si sposi, perché sentiamo questo libro come un testo protet­to, chiuso all'intervento di altri. All'opposto, il testo è disar­ticolato quando non è percepito come un corpo chiuso e protetto dagli interventi esterni, a cui il lettore può accede­re solo per leggerlo, ma come un'entità in cui si può entrare - per così dire - sia per leggerlo sia per scriverlo (o meglio per «Scriverci dentro»). Quando è disarticolato, infatti, il te­sto si può manipolare, scomporre e ricomporre senza che ciò comporti nessuna sofferenza né per il testo stesso né per il suo autore.

Nessuna di queste concezioni è difesa da un'autorità as­soluta. Entrambe sono plausibili e sostenibili, e infatti en­trambe si incontrano in momenti diversi della storia. Si trat­ta di due convenzioni culturali che si sono spesso date il cambio nella mente dell'uomo. Per questo, nella nostra cul­tura, la convinzione che il corpo del testo sia delimitato da una membrana protettiva invisibile e invalicabile non è per niente un dato di fatto, ma ha avuto forti oscillazioni nel tempo. Ci sono di continuo momenti in cui il testo viene trattato come un corpo che può essere penetrato, altri inve­ce in cui la sua intangibilità è preservata con rispetto e per­fino con venerazione. Si potrebbe indicare la prima classe di fasi con il termine di momenti di interpolazione, la seconda col termine di momenti filologjci, dato che è la filologia la disci­plina che ha contribuito di più a creare e difendere l'idea che il testo è impenetrabile e può essere toccato esclusiva­mente con l'interpretazione.

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2. Presupposizioni del termine «testo»

La mia generazione è cresciuta nella convinzione intuitiva che il testo vada considerato come un'entità chiusa, anzi che sia un 'entità chiusa (anche quando si tratti di un'opera aper­ta in senso proprio) . Per conseguenza, crediamo che il let­tore abbia, rispetto al corpo testuale, solo il diritto di leg­gerlo (a parte, naturalmente, la sua libertà di interpretare). Il lettore legge il testo e lo sottopone a interpretazione con la più ampia libertà; ma l'interpretazione è un atto immate­riale, perché il corpo fisico del testo non si tocca.

Ora, l'idea che il testo sia un'entità chiusa non è affatto scontata. È, al contrario, il risultato di un'evoluzione cultu­rale tra le più imponenti. Adottandola si accetta ipso facto una serie di presupposizioni importanti: è quello che faccia­mo tutte le volte che, come persone colte dotate di capacità riflessive, prendiamo in mano un libro.

Di queste presupposizioni la seguente è una rapida lista.

(a) Anzitutto, il primato dell'autore. Se il testo è chiuso (cioè completo e compiuto), ci si aspetta che abbia un auto­re o più autori in numero definito. E l'autore non è la pura e semplice fonte che ha prodotto il testo; è anche un sog­getto giuridico, perché, col puro e semplice fatto di render­si autore di quel testo, assume diritti e doveri specifici.

Prima di tutto, siccome il testo è generato da lui, l'autore ne risponde, cioè ne è responsabil,e. Ciò vuol dire che è titola­re della paternità del testo, e quindi è tenuto a definire qua­li sono le parti originali ( = dovute solo al suo ingegno) e quelle non originali ( = dovute ad altri). Inoltre, solamente a lui è riconosciuto il diritto di mettere mano a quel testo, e so- . prattutto di decidere quando esso 'è finito, cioè quando è per­fectum («compiuto e completo»). «L'opera», scrive Barthes, «è coinvolta in un processo di filiazione: l'autore è conside­rato il Padre e il proprietario della sua opera, e la scienza let­teraria impara a rispettare il manoscritto e le intenzioni del-

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l'autore, la società postula una legittimità nel rapporto tra l'autore e la sua opera.»1 Nel momento in cui è perfectum, e solo allora, il testo si chiude agli altri, e da quel momento il lettore può entrarci solo per leggerlo o interpretarlo.

La chiusura del testo, però, vale solo per le persone diver­se dall'autore: l'autore (finché è in vita, cioè continua a esse­re titolare del processo di'generazione di quel testo) lo può riaprire illimitatamente, perché il testo è suo. Può modificar­lo, integrarlo, manipolarlo, trasformarlo quante volte e co­me vuole. Può perfino rifiutarlo (dichiarando che non se ne sente più padre - o madre) o distruggerlo (o chiedere ad al­tri di distruggerlo: così, per esempio, Virgilio con la sua Enei,­de o Kafka con tutta la sua opera). Può copiarsi da solo ( co­me nel caso di Pirandello, che trasferiva spessissimo pezzi di novelle in drammi e viceversa), perché l'idea di plagio non si applica alle operazioni che l'autore fa nei confronti dei suoi stessi testi. Il plagio esiste solo se a plagiare è un altro, e nes­suno accuserebbe Pirandello di aver plagiato sé stesso.

( b) In base alla seconda presupposizione, ci si aspetta che il testo sia consegnato dall'autore ai lettori in stato di com­piutezza. Il testo deve presentarsi nell'ultima stesura voluta dall'autore, o comunque in una forma unica, finale e inva­riabile (quella che i filologi chiamano ne varietur). Neppure all'autore si riconosce il diritto di lasciare il testo «aperto», cioè incompiuto. Il testo può essere incompiuto solo se l'au­tore non ha avuto la possibilità pratica e materiale di chiu­deilo: per esempio, se è morto prima di poterlo fare o se, per qualunque motivo, ha deciso di dedicarsi ad altro. Que­sto è il caso, per esempio, dei romanzi di Carlo E. Gadda (nessuno dei quali è completo) o delle opere del cosiddetto «secondo Wittgenstein», tutte incompiute. E in ogni caso le produzioni incompiute devono essere denunciate come tali.

L'autore può tutt'al più riaprire il suo testo per modifi­carlo, ma una volta che lo ha modificato deve tornare a chiuderlo, deve riconsegnarlo al lettore, a cui - come ho

1 In Barthes (1994, p. 1215).

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detto - la nostra cultura riconosce soltanto il diritto di in­terpretare, ma non quello di toccare il testo, cioè di alterar­ne il corpo. Scrittori come il portoghese Fernando Pessoa, che ha lasciato diverse stesure di parti dei suoi testi, creano parecchio fastidio non solo ai filologi ma anche ai lettori: quale versione del testo è quella buona? È all'autore che tocca, in questa prospettiva, il compito di scegliere una so­luzione tra le diverse che gli si prospettavano.

(e) Una terza presupposizione pretende che il testo sia origi.nale, e il lettore (soprattutto se colto) dà per scontato .

. che lo sia. Dà per scontato, insomma, che quel testo nasca solo dallo sforzo ideativo del suo autore, di quell'autore, e che questo si sia impegnato a distinguersi da quel che han­no fatto gli altri. Naturalmente all'autore si concede di tener conto dell'esistenza di testi di altri, magari per utilizzarli in citazioni, rinvii e allusioni, ma il testo finale che produce deve essete originale.

Siccome questa presupposizione è molto impegnativa, sia­mo portati a guardare con diffidenza i testi che non dichia­rino e dimostrino la propria originalità. Non a caso il plagio è considerato uri reato in diversi sistemi giuridici; e nella tradizione europea esistono diverse formule che condanna­no ogni forma intenzionale di mancanza di originalità: «imi­tazione pedissequa», «plagio», «plagio servile» ecc.

Per le stesse ragioni siamo portati a guardare con un cer­to sospetto i testi «anonimi», dei quali non possiamo identi­ficare l'autore. Analogamente, se siamo lettori colti (dotati cioè di una qualche idea tacita di ciò che un testo deve esse­re), trattiamo in modo diverso un libro interamente origi­nale rispetto a uno che sia stato ottenuto per compilazione, cioè montando e incollando testi altrui (come un'antolo­gia, un'opera di consultazione, una lista o un repertorio).

È difficile dire da dove venga questa serie di presupposi­zioni, che, come si vede, formano un insieme coerente. Può darsi che siano state elaborate e diffuse in Europa dalla filo­logia, la scienza che si occupa di ricostruire i testi (special-

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mente antichi) di cui non ci sia arrivato un originale plausi­bile. Non bisogna dimenticare che questa disciplina nacque tra Quattro e Cinquecento proprio col compito di definire qual è la forma autentica che l'autore ha dato al suo testo, il modo in· cui lo ha chiuso, la forma finale in cui lo ha pre­sentato. È chiaro che la filologia può esistere solo se si ac­cetta l'idea che il testo è unico e chiuso, e che occorre risa­lire alla sua forma «vera». Ciò dipende dal fatto che siamo convinti che il lettore ha diritto al testo nella sua forma vera.

Dinanzi a un testo chiuso, il lettore ha, come ho detto, so­lo il diritto di interpretare. Proprio partendo da questo fat­to, alle soglie dell'età contemporanea un indirizzo filosofico importante come l'ermeneutica ha contribuito a consolida­re l'idea che il testo non si tocca materialmente, ma soltan­to con la mente che lo esplora. È importante notare che l'ermeneutica nacque nella Germania di inizio Ottocento in relazione a testi sacri. In un certo senso, infatti, essa tra­sferì anche ai testi profani talune proprietà di quelli sacri: siccome il testo sacro è intoccabile (specialmente nelle tra­dizioni cristiana, ebraica e islamica), il lettore lo può toccare solo con la mente; alla stessa maniera, ogni categoria di testi finisce per essere sentita come intangibile.

Questo complesso di idee non è affatto scontato. È una convenzione che si è creata come risultato di una storia, e che altre tradizioni culturali possono non conoscere. Per esempio, nel suo 1984 George Orwell immaginava un mon­do in cui era possibile perfino riscrivere i libri per farli rien­trare nell'ideologia del .(>Otere, e dove interi uffici er<!.nO ad­detti proprio a questo. E chiaro che in un ambiente simile l'idea di paternità del testo non può esistere: i testi non han­no forma vera, ma possono essere manipolati a piacimento secondo le necessità.

Come conseguenza di queste presupposizioni, si può dire che il testo ha un corpo, anzi che gode di un vero e proprio habeas corpus, che impedisce ad altri (salvo l'autore) di met­tervi mano e che lo protegge da ogni tipo di intrusioni. Per-

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fino la cultura tipografica occidentale (e, prima ancora, quella degli scrivani che ricopiavano i testi antichi) ha con­tribuito al costituirsi di questa concezione, inventando dei segnali grafici e delle trovate di impaginazione per delimita­re questo corpo: il titolo (che è, come è noto, un'invenzione piuttosto recente), il nome dell'autore, i bordi che sulla pa­gina delimitano e racchiudono lo spazio del testo, e perfino i segni di citazione (le virgolette - un'invenzione, sembra, di Aldo Manuzio, quindi molto più prossima a noi che all'anti­chità: Mortara Garavelli 2008) che permettono di distingue­re le parole degli altri dalle proprie. 2

3. L'idea di testo chiuso non è intuitiva

L'analisi che ho appena fatto delle presupposizioni con­tenute nel termine testo potrà apparire ovvia a una persona colta a cavallo tra i due secoli. In realtà, come ho detto, que­sta stratificazione di implicazioni non è affatto scontata né si è prodotta d'un colpo. Nella creazione dell'idea di corpo del testo ha un ruolo essenziale la classe colta europea mo­derna, ~n ceto particolarmente cosciente del testo, che ha inventato quest'idea e protegge l' habeas corpus testuale da ogni tipo di violazione.

La cultura europea ha impiegato infatti forse più di un millennio per crearsi un'idea di testo come entità chiusa e protetta rispetto a interventi esterni. Malgrado il lungo pro­cesso che è stato necessario per crearla, questa convinzione non si è però mai imposta in modo definitivo, ma ha conti­nuato ad alternarsi con l'idea secondo cui il testo è un'en­tità aperta. Per molto tempo, infatti, il testo è stato percepito come uno spazio in cui era non solo possibile ma perfino le­g;ittimo fare ogni sorta di intrusioni. I primi testi (in senso

2 L'origine dei dispositivi per l'organizzazione della pagina del testo come un corpo si segue attraverso i saggi e le illustrazioni contenute in Zali (1999).

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proprio) prodotti in Europa nell'antica Grecia nascevano aperti: si tratta di testi di natura orale, trasmessi con la me­diazione di professionisti della memoria e della voce, e quin­di esposti alla possibilità di essere alterati nella trasmissione da una persona e da una generazione all'altra. Un esempio illustre e ben noto di questo fatto è costituito dai poemi omerici, dove porzioni diverse del testo possono essere state incluse in una cornice originaria per l'intervento di autori successivi. Il testo era dunque aperto e creato da autori mul­tipli, nessuno dei quali poteva imporre la propria «firma» di autore. Omero è un autore plurimo, la cui legittimità si spie­ga proprio perché ai suoi tempi il testo era percepito in ma­niera diversa da quella attuale.3

Se le cose stavano così, come mai si è formata l'idea di te­sto come corpo chiuso, caratterizzato da unicità d'autore, originalità e impenetrabilità (quindi da una radicale cor­poreità, garantita dall' habeas corpus che dicevo)? La prima possibile spiegazione è che lo sviluppo di questa idea sia dovuto alla scrittura. È sensato pensare che sia stata proprio la scrittura a creare la convinzione che il testo (che era na­to aperto, senza autore e privo di doveri di originalità) fos­se un'entità stabile, cristallizzata, generata da un solo auto­re, il quale lo consegna al lettore senza che questo·possa modificarlo.

La descrizione di questa connessione si trova in Platone, che - come abbiamo visto nel capitolo precedente - dette un commento quasi «in diretta» del passaggio dalla cultura orale a q'!lella basata sulla scrittura.

4. Intermezzo medieval,e

Platone esprime una coscienza nettissima dei processi at­traverso cui con la scrittura il testò si stabilizza e diventa un

3 Sui poemi omerici come montaggio di segmenti orali, vedi la sinte.si critica di Rossi (1978).

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corpo impenetrabile, consegnandosi agli altri e staccandosi dal suo autore. Nondimeno la sua presa di posizione non è stata sufficiente a creare l'idea che il testo sia davvero intan­gibile. Ancora per molto tempo dopo di allora, il testo, ben­ché depositato ormai sotto forma scritta, è stato percepito come un'entità che può essere modificata anche da mani di­verse da quelle del suo autore.

Indicherò alcuni momenti di questa concezione nella sto­ria della nostra cultura,4 a partire dal Medioevo. Bonaventu­ra, in un passo citato spesso, descrive la tipologia della pro­duzione testuale ai suoi tempi. Fare un libro, dice, non indi­ca un'unica operazione, ma una varietà di casi, tra l'uno e l'altro dei quali ci sono profonde differenze:

Fare un libro significa cose diverse. Limitarsi a trascrivere nel li­bro scritti altrui senza nulla aggiungere o mutare è proprio del copista. Opera di compilatore è invece raccogliere in un libro testi altrui, introducendovi un ordine non arbitrario. Il libro del commentatore è altro ancora: riproduce lopera altrui co­me parte essenziale, e di proprio aggiunge quanto serve a in­tenderla. Il vero e proprio autore scrive invece quanto conosce del Sapere per proprio conto, e cita altri solo a conferma. ( Commentarium in I Librum Sententiarum)

I ruoli sono quindi almeno quattro e ognuno comporta operazioni e responsabilità diverse: il copista trascrive testi di altri, il compilatore taglia e incolla testi altrui mettendo di suo solamente un ordine ragionato, il commentatore ripro­duce passi di opere altrui aggiungendovi considerazioni che aiutino a capirle, e l'autore vero e proprio inventa («crea», diremmo oggi) adoperando i testi degli altri solo come do­cumento e riprova. Come si vede, la maggior parte di queste attiVità (e dei tipi di libro che ne derivano come prodotto) si basa sulla possibilità di interpolare i testi di altri, su una vera e propria teoria dellà disarticolazione del testo.

4 In quel che segue, mi baso essenzialmente sull'importante Alessio (1988).

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Nel Medioevo, distinzioni di questo genere si trovano ri­petute spesso. Esse fanno da base teorica a una varietà di ti­pi di libro che sono 1' emblema stesso della disarticolazione del testo, perché implicano la più totale mancanza di perce­zione di un corpo chiuso. Per questo nel Medioevo sono co­sì abbondanti le compilazioni (libri in cui vengono assem­blate parti di testi di diversi autori, a volte con l'accompa­gnamento di un commento), i libri miscellanei (in cui ven­gono montati più testi di autori diversi), i commenti (che per un occhio moderno sono poco più che vasti, noiosissimi riassunti del testo di partenza).

Visto da questo angolo, tutto il cosiddetto «metodo scola­stico», cioè il modo di lavorare dell'intellettuale scolastico medievale,5 si fonda su una gigantesca industria di manipo­lazioni testuali: i testi vengono sezionati in parti, ordinati, glossati, commentati; le loro massime vengono montate in raccolte e in corpora. Questa incredibile, sistematica e teoriz­zata opera di smembramento testuale trova persino un tipi­co luogo fisico: è nelle università che queste pratiche di smontaggio trionfano e trovano un nome. Si chiameranno compilationes. Il testo smembrato e ricomposto serve infatti principalmente allo studio.

Gli storici del libro, della cultura e della filosofia hanno dato una documentazione completa della varietà di queste forme di libro e di produzione testuale. Per questo non ten­terò neppure di andare più nel dettaglio di questi problemi. Dal nostro punto di vista, questi fenomeni sono interessanti perché hanno in comune una cosa fondamentale: negano tutti le presupposizioni che oggi associamo all'idea di testo, e cioè che debba essere unitario, dovuto a un unico autore, e perfectum. Quest'idea dunque non è nativa, non nasce in­sieme ai testi (neppure a quelli scritti), ma scompare e riap­pare nella storia della cultura con un pendolo costante.

Un altro terreno in cui la possibilità di disarticolare il te-

5 La descrizione di questo «metodo» è contenuta nel classico Grab­mann ([1909-1911] 1980).

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sto si osserva con chiarezza è quello delle traduzioni. Dalla storia dei volgarizzamenti e delle traduzioni, che è stata fat­ta in più occasioni, risulta con chiarezza che, per un gran numero di secoli, in Europa e fuori, il fatto di trasportare un testo da una lingua all'altra comportava come un diritto scontato la possibilità di alterare il testo con aggiunte, tagli, modificazioni e simili. L'unica classe di testi che si sottraesse a questa possibilità era quella dei testi sacri, che, essendo dettati (o addirittura scritti, come nel caso del Corano) di­rettamente da Dio, godevano di uno statuto particolare di intangibilità.6 Solo verso la fine dell'Ottocento cominciò a consolidarsi il principio secondo cui il traduttore non ha il diritto di interpolare o modificare il testo che sta traducen­do, perché quel testo è chiuso.

5. Copia e interpolazione

L'idea del testo come entità chiusa, se appare difficile, tar­diva e instabile alla coscienza dei colti, è addirittura irrag­giungibile a quella degli incolti, dei semi-colti e di quanti hanno una scarsa coscienza dei testi. Senza lanciarmi in con­siderazioni di psicologia dei testi (che peraltro sarebbe utile fare, e di cui esistono vari documenti7), basterà ricordare che, quando uno studente si mette a scrivere la sua tesi di laurea, bisogna spesso fargli scoprire e accettare alcuni prin­cipi e regole sulla natura del testo che sta per scrivere, sulla relazione tra esso e altri testi preesistenti e sul suo (dello stu­dente) status di autore del testo stesso. Questi principi e re­gole gli sono per lo più del tutto ignoti, e non per difetto di

6 I diversi gradi di penetrabilità di un testo si possono cogliere anche seguendo la storia del modo di organ~zzarsi della pagina scritta (e stam­pata): i testi sacri sono ovunque trattati come impenetrabili, quelli profa­ni possono essere interpolati, subire intromissioni di note, commenti e glosse. Una magnifica documentazione, anche illustrata, di questi fatti si trova in Zali (l 999).

7 Vedi per esempio i lavori come Ferreiro & Teberosky (1985).

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cultura, ma piuttosto per la nativa concezione del testo come entità «aperta». Menziono i seguenti:

(a) il testo deve avere un autore, e non nasce dal montag­gio di opinioni e dottrine di autori diversi precedenti -quindi non è necessariamente una compilazione;

(b) nel testo, l'autore è tenuto a esprimere idee sue e a di­stinguerle accuratamente da quelle altrui (è qui che nasce il concetto, anch'esso per niente intuitivo, di «citazione»);

(e) il testo deve essere portato a chiusura dall'autore e non da un'altra persona.

Quando si trova a scrivere, infatti, la persona inesperta di testi adotta istintivamente una concezione del testo «dis~rti­colato», e perciò si serve tranquillamente di un paio di pro­cedure tipiche, che derivano da quella concezione. Esse so­no la copia e l'interpolazione eterogenea, cioè compiuta da persone diverse dall'autore. Chi rifiuta l'idea di testo chiuso (o per insufficienza culturale o perché non accetta le pre­supposizioni della classe «colta» occidentale) è convinto che tutto ciò che si può fare dei testi altrui consista nel copiarli, sia pure a tratti, e disporli secondo un ordine «non arbitra­rio» (come avrebbe d,etto Bonaventura).

La copia, che il sostenitore della chiusura del testo consi­dererebbe come una colpa gravissima, è invece del tutto normale per chi non ha alcuna idea del testo protetto. Que­sto fatto non è per nulla privo di una storia, e risale proba­bilmente non al terrore di essere originali, ma piuttosto al desiderio di essere prudenti nei confronti degli altri testi, specialmente se provengono da autori «antichi». «Noi mae­stri siamo commentatori degli antichi, non elucubriamo escogitazioni personali», dice Guglielmo di Conches,8 pro­prio per dar l'idea che un'affermazione copiata da un auto~ re precedente, meglio se illustre, è più solida di un'elabora­zione personale.

8 Citato in Alessio (1988, p. 119).

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Un'evocazione lontana, probabilmente ironica, di questa concezione si trova nella famosissima battuta che Pascal ri­serva a sé stesso nelle Pensées: «Non si dica che non ho detto niente di nuovo: la disposizione delle materie è nuova. Quando si gioca a palla, la palla con cui l'uno e l'altro giocano è la stessa, ma uno dei due la piazza meglio» (22 Brunschvicg; corsivo mio) . 9

In un quadro concettuale come questo, si è più propensi alla conservazione e alla ripetizione di cose già dette e mol­to prudenti verso le innovazioni. Si possono creare innova­zioni teoriche e dottrinali solo per piccoli incrementi (per additamenta, come si diceva nel Medioevo), per addizioni sempre parziali, opportunamente graduali. Se il testo è ori­ginale e dichiara la propria pretesa di originalità, corre il ri­schio di essere insostenibile. L'originalità è pericolosa.10

È un simile meccanismo di produzione testuale che spie­ga, per esempio, come mai nella storia della cultura europea in ogni specie di testo siano state così frequenti, pratica­mente fino alla fine del" secolo scorso, le citazioni da autori classici, e come abbia potuto sopravvivere l'idea stessa di auctores, cioè il ricorso all'opinione di autori antichi dotati di autorità e citati a sostegno di qualche posizione~ La citazio­ne di un passo di autore classico non è una decorazione ele­gante, ma risparmia all'autore la fatica di dimostrare e argo­mentare quel che sta dicendo.

La cultura scritta si basa nella sua storia in misura larghis­sima sulle procedure di copia e interpolazione. E sarebbe del più alto interesse ricostruire la storia della cultura non come una serie di discontinuità originali, di rotture creative, ma come una catena ininterrotta di copiature e di intrusio­ni testuali.

9 Traduco liberamente da Pensées, a cura di Ch.-Marc des Granges, Gar-nier, Paris 1960, p. 79.' .

10 Osservo che su questo atteggiamento la tradizione medievale euro­pea concorda con la tradizione orientale confuciana, dove l'innovazione e l'originalità sono guardate con sospetto.

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L'interpolazione eterogenea è una variante della copia. Siccome il testo non è chiuso ma aperto, chiunque può in­trodurvisi, e immettervi frammenti propri o di altri: il risul­tato sarà comunque un testo. I commenti antichi e medie­vali sono perfetti esempi di questa procedura: sono infatti quasi sempre interpolazioni dichiarate nei testi che sotto­pongono a commento. Un caso illustre durante il Medioevo è costituito dai commenti di Boezio ad Aristotele. La tradi­zione li chiama commenti e noi stessi li chiami.amo così, ma questo termine non aveva affatto il valore di oggi. I com­menti erano, secondo la definizione di Bonaventura che ho ricordato prima, nient'altro che riassunti interpolàti di pa­gine di altri autori. La stessa cosa vale per altre grandi rac­colte di commenti, come quelli sull'Eneide virgiliana o sulla Divina Commedia.

Dalla lettura di testi di questo genere il lettore moderno trae l'effetto di un'invincibile noia. Noi cerchiamo invano, in testi simili, interpretazioni, salti audaci, dissonanze tra il testo e il suo commento; troviamo invece solamente rias­sunti. È proprio da qui che deriva la noia: il lettore moder­no ricava noia dalla ripetizione, perché non accetta l'assun­to fondamentale di quel genere testuale. Non accetta, cioè, che il sapere possa avanzare attraverso l'accumulazione gra­duale e lentissima di riassunti interpolati, dove la divergen­za, l'innovazione rispetto al testo di partenza sono delibe­ratamente ridotte al minimo. Vuole di più, pretende che l'intervallo tra testo commentato e commentatore sia mag­giore, che il nuovo testo sia innovativo rispetto al prece­dente.

Insomma, il lettore moderno vuole che il testo abbia un autore. Forse anche alla radice di quest'idea va ravvisata un'innovazione tecnologica, come l'invenzione della stam­pa. Eisenstein ha suggerito per esempio che «i primi stam­patori furono i principali responsabili dello sviluppo della definizione dei diritti di proprietà letteraria, della formazio­ne di nuovi concetti di paternità, dello sfruttamento dei best

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sellers e del tentativo di conquistare nuovi mercati» (Eisen­stein [1979] 1986, p. 135). Lo stabilizzarsi dell'òpera me­diante la stampa e soprattutto la possibilità di riprodurla il­limitatamente e di venderla in più copie produssero l'idea moderna del titolare del testo.

Del resto, filosofi e scrittori ammettono di frequente di aver attinto ad altri autori, e perfino copiato da loro, e non è nemmeno raro il caso di vere e proprie teorizzazioni di queste pratiche. Michel de Montaigne, per esempio, rico­nosce a più riprese di aver preso da altri:

i libri li sfoglio, non li studio. Quel che me ne resta, è qualcosa che non riconosco più essere di altri; è solo da ciò che il mio giudizio ha tratto profitto, i discorsi e le immagini di cui si è im­bevuto. L'autore, le parole e altre circostanze, li dimentico su­bito. (Essais, II xvii: «De la presomption»)

Faccio dire agli altri quel che io non posso dire ugualmente be­ne, ora per la debolezza del mio linguaggio ora per la debolez­za della mia mente. I miei prestiti non li conto, li peso [ ... ]. E delle ragioni e le considerazioni che trapianto nel mio terreno, a volte ho omesso deliberatamente di indicare l'autore. (Essais, II x: «Des livres»)

Pierre Menard, il personaggio di J.L. Borges (falsario e apocrifo confesso) che senza accorgersene si trova a scrivere per proprio conto un testo identko al Don Chisciotte, 11 non rappresenta infatti una patologia né un incontro casuale di destini testuali. È piuttosto l'emblema paradossale di una ci­viltà che si è costruita sulla base di testi copiati e rifatti, di in­terpolazioni e copie, e che ha seguito questa strada nella piena di convinzione che il sapere potesse avanzare solo in questo modo.

11 Nel racconto Pierre Menard, autor del Quijote (1939, in Ficciones, 1941).

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6. Il testo si dissolve

Nel futuro prossimo del libro (e del sapere testuale che a esso si collega) il pendolo di cui parlavo prima si sposta or­mai verso l'altro estremo: l'idea diffusa che abbiamo del te­sto si sta modificando e sta tornando a privilegiare il testo di­sarticolato. Siamo cioè in una fase di interpolazione: il testo non è più un'entità chiusa e protetta ma è di nuovo un og­getto aperto e penetrabile, liberamente copiabile e interpo­labile senza limiti. In altri termini, la membrana protettiva dei testi si dissolve ed essi ritornano, come nel Medioevo, aperti, modificando il sistema di presupposizioni che colle­ghiamo al termine testo.

Il mezzo che si usa per fissare il testo in scrittura determi­na la concezione intuitiva che si ha del testo stesso. Come al-1' epoca di Platone, le nuove immagini del testo che si stanno creando sono dovute al mezzo tecnico con cui più spesso si scrive oggi, cioè il computer. Come strumento di scrittura, il computer è l'emblema stesso del testo aperto e illustra la vi­sione e i timori di Platone come meglio non si potrebbe. Tra le diverse maniere in cui il calcolatore influisce sulla natura del testo ne metto in evidenza solo una: nel momento in cui dà l'impressione di stabilizzare il testo (di dargli la bebai6tes di cui Platone si preoccupava tanto), e quindi dì chiuderlo in una forma finita e compiuta, il computer in effetti lo la­scia indefinitamente aperto.

Inoltre, il computer esalta fino al parossismo le due pro­prietà che Platone attribuiva al cattivo scrittore di testi, quel­lo che mette «insieme i discorsi», cioè l'operazione di incol­lare (il kollao platonico) e di portar via (l' aphaireo). Tutte queste operazioni possono essere svolte non solamente dal primo autore del testo, ma da chiunque altro (il lettore di un libro elettronico, il falsario che vuole modificare crimi­nosamente il testo). In questo modo, il testo veramente «ro­tola» dappertutto, finisce nelle mani di sconosciuti, perde la paternità; nello stesso momento la percezione che esso sia il

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prodotto di uno specifico autore si indebolisce nella co­scienza generale.

A questo risultato contribuiscono in maniera cruciale i nuovi «ospiti» del testo nati nella mediasfera. Si tratta di una· miriade di oggetti e gadget, alcuni dei quali materiali (come l' e-reader, fatto per contenere e-book), altri immate­riali, come i socia[ forum e siti di chat che pullulano in rete. Questi siti contengono infatti testi, prodotti o dal cibernau­ta del caso o da altri, alfabeti non meno che semialfabeti, colti non meno che incolti. Ciò ha dato luogo a una nuova concezione del testo e del libro e a una rappresentazione del tutto inedita della scrittura. (Sull' e-book dirò qualcosa nel prossimo capitolo.)

È sorprendente che la coscienza della testualità che così si produce sia esattamente identica a quella descritta da Bona­ventura nel brano che ho menzionato prima. Scrivere un li­bro è cosa diversa dal commentarlo, dal copiarlo o dal glos­sarlo. Ma nel prossimo futuro sarà sempre più difficile, e forse diventerà a un certo punto impossibile dire chi è l'au­tore di un testo.

Salvo errore, resta un solo tipo di testo che resista a ogni tentativo di manipolazione, e che, pur non avendo un auto­re specifico e singolo, non si possa modificare. Alludo ai te­sti gi,uridici e normativi (leggi, regolamenti e simili), che da questo punto di vista rappresentano un caso unico nella ti­pologia dei test~ di tutti i tempi. Una volta emessi, essi pos­sono essere modificati solo per intervento dell' «autore col­lettivo» (per esempio, il parlamento) che ha prodotto l'ori­ginale.

Resta da capire, come sempre succede quando si conside­rano le fasi di oscillazione di un pendolo, se ciò che sta ac­cadendo sia bene o male. Platone ha dedicato quasi un in­tero dialogo a esprimere il suo rimpianto per il discorso par­lato, dialettico, ancora legato alla bocca e alla mente di chi lo produce; il Medioevo ha mostrato invece con insistenza che ciò che importa di un testo dottrinale è la sententia, il

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suo senso, non altro: se si è d'accordo con questa, non biso­gna fare altro che appropriarsi del testo che la esprime, sen­za neanche segnalare la citazione.

Oggi che abbiamo dinanzi diverse possibilità di scelta, do­vremmo capire quale preferiamo. Ma può darsi che da que­sto compito verremo sollevati presto. La tecnologia della scrittura indurrà cambiamenti nella coscienza comune, e del testo chiuso e protetto, prima o poi, non si ricorderà più nessuno.

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5. CAMBIAMENTI DEL LEGGERE E DELLO SCRIVERE

1. Ecologi-a ed etologi-a

Tra le attività strumentali del conoscere, lettura e scrittu­ra occupano un posto centrale. Che la scrittura abbia a che fare con la cognizione, la memoria e la mente, si sa almeno dai tempi di Platone e non occorre più discuterne (vedi so­pra); più recente è la scoperta· che anche fa lettura influen­za in modo importante le ·attività della conoscenza e della mente, come mostrano in modo incisivo le ricerche delle neuroscienze.1 In questo capitolo voglio considerare i cam­biamenti che il mondo digitale ha prodotto anche in questi ambiti, concentrandomi però su un livello puramente «su­perficiale» di analisi, cioè su quelle che chiamo l'etologia e l'ecologia del leggere e dello scrivere.

Che lettura e scrittura comportino queste due dimensioni si verifica facilmente: per praticarle occorre tenere dei com­portamenti e accettare regole specifiche (è la loro etologi-a); inoltre, entrambe si svolgono in un ambiente apposito e se­condo una precisa organizzazione (la loro ecologi-a). La mia tesi è che nell'epoca della rete lettura e scrittura sono state colpite in pieno da mutamenti nell'uno e nell'altro campo, che si aggiungono a quelli che hanno interessato alcune lo­ro dimensioni più profonde, come la natura del testo (capp. 3 e 4) e la concezione della storia narrata (cap. 9).2 Questi cambiamenti sono ancora in evoluzione, sicché le mie con-

1 Vedi per es. Dehaene (2010). 2 Il cap. 9 di questo libro contiene riflessioni sui mutamenti indotti dal­

la modernità della concezione della storia narrata.

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siderazioni potranno essere rapidamente superate da nuovi sviluppi.

2. La «concezione classica» della lettura

Nel saggio «Una lettura ben fatta», descrivendo e com­mentando un quadro di Chardin (Le philosophe lisant del 1734), George Steiner3 delinea quella che chiama «la con­cezione classica dell'atto di leggere»: termine indovinato, perché segnala il fatto, spesso trascurato, che atti come il leggere e lo scrivere nascondono e presuppongono, oltre alla maestria tecnica e intellettuale, anche una concezione tacita e un paradigma a cui si uniformano. Ora, i modelli di lettura, non meno di quelli di scrittura,4 cambiano nel tem­po e le diverse forme che prendono hanno affinità eviden­ti con vasti segmenti della storia del conoscere e delle men­talità.

Alcuni tratti della concezione classica dell'atto di leggere si riferiscono all'ambiente in cui l'atto si svolge: la «lettura autentica richiede il silenzio» dice Steiner (2000, p. 15), non meno che solitudine. Questi due tratti sono cruciali, non so­lo perché caratterizzano il lettore, ma anche perché defini­scono il suo rapporto con gli altri: il lettore, avendo bisogno di silenzio e di solitudine, costituisce un fattore di jàstidio per chi gli sta attorno. Ha bisogno di costruirsi uno spazio (sia pur invisibile) in cui il suo leggere si possa svolgere, di delimitarlo con cura rispetto al resto e di proteggerlo da ogni intrusione: insomma rivendica il suo diritto a «esser la­sciato in pace». Ogni gesto altrui che turbi questa condizio­ne minaccia quello spazio.

Il leggere presuppone inoltre, nel lettore, una concezio­ne, perlopiù tacita, di ciò che fa nel momento in cui legge. Il modo classico della lettura - come Steiner segnala acuta-

3 In Steiner ([1996] 2000). 4 Tornerò su questi cambiamenti più sotto.

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mente - incorpora per esempio una peculiare concezione del tempo: la lettura deve prendere «tutto il tempo che oc­corre». Non è possibile «affrettare» la lettura alla stessa ma­niera in cui si affretta il passo in una passeggiata. Inoltre, il testo che si legge si iscrive in una dimensione diversa da quella in cui è il lettore: il testo è permanente e durevole, il lettore occasionale e momentaneo. Insomma, il testo so­pravvive alla lettura. Questa differenza è evocata simbolica­mente nel quadro di Chardin: alle sue spalle il philosophe ha un teschio e una clessidra, che rappresentano per l'appun­to l'eternità del testo contrapposta alla contingenza del let­tore ...

Steiner non menziona, forse perché gli paiono ovvi, alcu­ni aspetti materiali del rapporto tra libro e lettore, che tut­tavia sono cruciali nella concezione classica: il contatto con la carta, l'odore del manufatto, la qualità della legatura e della fabbricazione, il rumore tipico che la carta fa nello sfogliarla, la speciale massa di ogni libro, che lo rende rico­noscibile dagli altri. Il lettore «classico» sente questi fattori come inestricabllmente connessi all'atto di leggere. In altre fasi storiche, per la lettura sono stati essenziali anche ulte­riori fattori ambientali: Chardin stesso mostra il philosophe abbigliato con un abito speciale, una sorta di sontuosa ve­staglia, a cui si accompagna un copricapo elegante, come se stesse svolgendo uria funzione isolata dal flusso corrente de­gli eventi. Esisteva dunque un amto da lettura, come esistono abiti da lavoro, da camera, da giardino ecc.

Quest'evocazione vestimentaria ricorda quel che due se­coli prima Niccolò Machiavelli descriveva nella famosa lette­ra a Francesco Vettori:

in su l'uscio mi spoglio della veste cotidiana, piena di fango e di loto, et mi metto panni reali et curiali; et rivestito con9.ecente­mente entro nelle antique corti degli antiqui uomini, dove, da loro ricevuto amorosamente, mi pasco di quel cibo che solum è mio, et che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro, et domandarli della ragione delle loro actioni; et

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quelli per loro humanità mi rispondono. (A Francesco Vettori, 10 dicembre 1513) 5

Si può aggiungere a questa linea di riflessioni anche il pri­mo capitolo di Se una notte d'inverno un viaggiatore di Calvi­no, 6 dedicato per intero alla condizione fisica che bisogna assumere prima di mettersi a leggere un libro (posizione di ciascun singolo arto studiata nei minimi dettagli, isolamen­to, illuminazione, contatto manuale col libro ... ).

3. La concezione moderna

Raccolti l'uno accanto all'altro, i caratteri che ho descrit­to suggeriscono anche che, nella concezione classica, la let­tura è un processo che sembra non correre pericoli e quasi non aver nemici: si svolge in un ambiente protetto, è segna­lata e quasi onorata da un abbigliamento speciale, si riferi­sce a opere imperiture. Tutto sembra difenderla dal mondo esterno. Inoltre, in quella concezione, al libro che si sta leg­gendo si tributa rispetto. Se però, uscendo dalla lieve fascina­zione che l'analisi di Steiner produce, guardiamo alla con­dizione del leggere di oggi, ci accorgiamo che quella che egli sta descrivendo è un'anticaglia ormai impresentabile: il philosophe che legge incarna un'etologia e un'ecologia oggi completamente impraticabili. Non basta, come fa Steiner, dire che i nostri modi di leggere attuali sono «vaghi e irrive­renti». Il modello di lettura di oggi è ben di più: è totalmente trasformato.

Non solo non si cambia più l'abito prima di mettersi a leggere, ma l'intera cornice ambientale è alterata. La lettura non si fa né in silenzio né in solitudine, non si fa più solo a partire da un supporto come il libro: è diventata multimo-

5 Cito da N. Machiavelli, Lettere, a cura di Franco Gaeta, Feltrinelli, Mi­lano 1961, p. 304.

6 Pubblicato da Einaudi, Torino 1979.

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dale e conviviale. Quindi si può fare in ambienti affollati e rumorosi, perché nessuna intrusione sensoriale esterna può essere davvero un fastidio; si può leggere sullo schermo del computer sotto_ gli occhi di chi sta attorno. Inoltre non è più uni-mediale, cioè non è un'attività a cui si debba dedicare attenzione esclusiva, ma è multimediale: ammette l'uso si­multaneo di altri media, coi quali convive perfettamente.

Quanto al supporto, il libro di carta è ancora il principale, ma il suo primato secolare è minacciato da un concorrente aggressivo. Parlo ovviamente dell' e-reader, il lettore elettroni­co di testi, il quale, pur essendo ancora quasi agli inizi (scri­vo nel 2011),7 trasforma il libro in qualcos'altro. Infatti l'e­readercontiene ancora testi (quindi libri), ma li presenta in forma completamente diversa.8 La concezione classica del leggere è alterata in profondità.

Occorrerà dunque tracciare le linee di una «concezione della lettura ai tempi della rete», in cui siano integrate le no­vità prodotte dalla cultura digitale. Siccome l'icona più elo­quente della lettura à la moderne è l' e-reader, occorre concen­trarsi su questo più che considerare la situazione attuale e futura del libro di carta. Prima di far ciò, però, è bene riflet­tere sulle proprietà etologiche del supporto che sta avvian­dosi al tramonto? il libro di carta, fatto di pagine rilegate in-si eme.

Le proprietà di questo straordinario oggetto sono infatti innumerevoli e si apprezzano maggiormente se le mettia­mo a confronto con quelle del suo temibile successore. Il li­bro di carta ha una massa definita, sta bene in mano, si ma­nipola senza sforzo, si copia e si annota; si possono strappa­re e interfoliare le sue pagine; permette di calcolare a colpo d'occhio quanto manca alla fine, di capire a che punto ci si trova e di spostarsi velocemente da un punto all'altro; ospita

7 Nel 2011, però, Amazon.com, inventore dei primi e-reader, comunica­va che le vendite di libri elettronici erano superiori a quelle di libri con­venzionali.

8 Qualche considerazione su questo punto al cap. precedente.

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tra le sue pliche quel che si vuole (dediche, disegni, ciuffi di capelli, poesie, cartoline, fiori secchi, biglietti, fotografie, soldi. .. ) ; quando si lascia aprire e leggere squaderna tutto il suo contenuto, quando è richiuso non mostra di sé stesso che la copertina o il dorso. Ci sono libri più o meno comodi a usarsi: alcuni si aprono e distendono facilmente, si tengo­no in mano senza sforzo, si possono leggere stando a pancia in su. Il libro si lascia mostrare, prestare, collezionare e af­fiancare ai suoi simili sugli scaffali, formando filze ordinate e decorative.

Anche la sua fisicità, dunque, è fondamentale, tanto che si può amare un libro più per il suo aspetto esteriore che per il testo che contiene. Insomma, il libro di carta come sup­porto ha una vita relativamente indipendente dal libro co­me testo, anche se i due sono intrinsecamente collegati.9

Con esso è possibile praticare quel «maneggio» fisico che Calvino descrive così bene nel primo capitolo di Se una not­te d'inverno un viaggiatore,10 chiamandolo «girare intorno al libro» e accostandolo con un'analogia trasparente ai preli-minari della copula: ·

rigiri il libro tra le mani, scorri le frasi del retrocopertina, del ri­svolto, frasi generiche, che noh dicono molto [ ... ]. Certo, an­che questo girare intorno al libro, leggerci intorno prima di leggerci dentro, fa parte del piacere del libro nuovo, ma come tutti i piaceri preliminari ha una sua durata ottimale se si vuole che serva a spingere verso il piacere più consistente della con­sumazione dell'atto, cioè della lettura del libro.11

9 Si può quindi immaginare che la divorante passione che l'editore e bibliomane settecentesco Gaetano Volpi chiamava «il furore di aver libri» (vedi il suo Del furore di aver lilni. Varie avvertenze utili, e necessarie agli amato­ride' buoni libri, disposte per via d'alfabeto (1756), Sellerio, Palermo 1988), la bramosia di possederne sempre di più, anche se ovviamente leggerli tutti diventa del tutto impossibile, si appaga solo di libri di carta.

10 Vedi I. Calvino, Se una notte d'inverno un viaggiatore, in Id., &manzi e racconti, coll. «I Meridiani», Mondadori, Milano 2004, voi. II, p. 619.

11 I. Calvino, ibid.

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L' e-book invece smaterializza il libro come supporto fino a renderlo irrilevante. Al primo contatto, quel che colpisce nel confronto è l'insieme delle perdite fisiche: nell' e-book mancano l' «effetto carta» e I' «effetto inchiostro», non c'è odore del manufatto, la questione della maneggevolezza dell'oggetto non si pone neanche. La fisicità è scomparsa. Anche la dimensione collettiva è indebolita: l' e-book non si può mostrare, non si può collezionare in alcun senso rile­vante, non si può accumulare e stipare.

Non ci sono però solo restrizioni; alcuni aspetti sono libe­razioni. È soprattutto la leggerezza a fare impressione. Il li­bro comprato in rete si trasferisce silenzioso e veloce sul let­tore (l' e-reader). E, siccome un lettore di e-book può imma­gazzinare migliaia di volumi in un oggetto quasi senza peso, trova pace il lettore inquieto (il viaggiatore, il divoratore di libri, il maniaco), che ha bisogno di saltare senza posa da un libro all'altro. Ma, soprattutto, I' e-book impone un'altra eto­logia a cui non è istintivo assuefarsi. Per esempio, non sa­premo mai, leggendo, a che punto siamo, perché gli e-book non hanno scansione in pagine. Tutto quel che c'è è un in.:. dicatore di avanzamento, che dice che percentuale del libro si è già letta. E siccome le cose vitali si riconoscono quando le si perde, si capisce quanto sia ricca di informazioni !'ap­parentemente banale indicazione di pagina: citare un passo da. un libro elettronico è (finora) impossibile. Un'altra pe­culiarità è che I' e-book non ha equivale.nte dello sfogliare: le sue pagine si mostrano ciascuna per intero. Ciò rende l' e­book curiosamente «lento» e renitente: scorrerlo, dargli un'occhiata è impossibile, come è impossibile sfogliarlo dal­l'inizio alla fine e viceversa.

Infine, siccome gli e-reader possono connettersi alla rete, I' e-book concede un brivido di quella speciale felicità che ap­porta la mediasfera: far sapere al mondo quali brani di un certo libro abbiamo sottolineato o annotato. L' e-book ha in­fatti una funzione che permette, quando si sottolinea un brano (con un sottile filino elettronico) o ci si scrive accan-

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to una nota (con una specie di fumetto grafico), di mettere in rete sia la sottolineatura sia la nota. In questo modo, chiunque compri e legga lo stesso libro vedrà affiorare sulla sua copia l'indicazione del passo annotato o sottolineato e saprà perfino quanti altri lettori hanno sottolineato o anno­tato quello stesso brano.12

In queste trovate si intrawede una singolare deriva: mal­grado tutte le differenze, I' e-book fa sfori:i eroici per emulare la meravigliosa versatilità del libro di carta. Il chat telematico agganciato al libro permette pur sempre di mettersi in con­tatto, parlare del libro, annotare, commentare. A forza di mettere in rete annotazioni e commenti, questa pratica ri­produce una versione immateriale dei circoli e salotti di let­tura di un tempo.

Ma, se l'e-book è pur sempre un libro (sia pure con le enor­mi differenze che ho descritto), gli altri supporti che ho menzionato prima (siti di chat, socia[ forum, blog ecc.) non contengono più libri, bensì oggetti che sono genericamente testi. In realtà, si tratta piuttosto di non-testi: frasi, brevi sto­rie, citazioni, battute, barzellette, motti celebri, volgarità, commenti liberi, e stupidaggini a cascara.13 Si tratta di una versione ammodernata delle compilationes medievali, dedica­te non più a testi dottrinali ma di altro genere. Inoltre, in

12 Nel 2011, una società statunitense chiamata «lnstitute for the Future of the Book» ha fatto un passo in più: ha reso disponibile un software gra­tuito (Commentpress) con cui si annotano testi di ogni tipo (anche blog), che permette ai lettori di vedere l'uno le osservazioni dell'altro, creando una sorta di chat agganciato a singoli brani o all'intero libro. In questo modo (come dice il sito dell'istituto), si «trasforma un documento in una conversazione».

13 È stato notato, ed è facile verificare; che i «commenti» che il lettore può inserire liberamente in molte pagine del web (in relazione ad arti­coli di giornale, bwg, e altro} sono spesso carichi di volgarità, di aggressi­vità e di disprezzo. Questi atteggiamenti sono favoriti, evidentemente, dalla copertura dell'anonimato e dell'invisibilità che la rete garantisce e anche dalla generale disinibizione che essa a quanto pare favorisce. Vedi anche, più su, le considerazioni a proposito della tendenza a mentire nelle e-mail.

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questi testi non c'è più autore: chiunque può inserirsi, mo­dificare il testo, uscirne anche senza lasciare traccia.

Intanto, sia la lettura con libro di carta sia quella con e­book hanno cominciato a svolgersi in mezzo a fattori di di­sturbo che un tempo si sarebbero classificati come «nemici» della lettura. Uno dei principali (anche Steiner lo sottoli­nea) è l'interferenza dell'ascolto, dovuta al fatto che la let­tura è diventata conviviale: leggere non esclude che la per­cezione uditiva sia attiva. Si legge anche con gli auricolari nelle orecchie.

4. Parafernalia e supporti della scrittura

E la scrittura? Ha anche questa un'ecologia e un'etolo­gia? Si può parlare ancora di «una scrittura ben fatta»? Cer­to, anche per la scrittura si danno un'etologia e un'ecologia, e per analizzarle comincerò prendendo in considerazione la dimensione materiale dello scrivere.

"Che l'ambiente della scrittura sia cambiato radicalmente è chiaro a tutti. Ad appellarci anche noi, come Steiner, a te­le illustri, ne troviamo numerose, di antichi e di moderni, che rappresentano personaggi che scrivono. Esse compen­diano quella che possiamo chiamare la «concezione classica della scrittura», nella quale intervengono diversi elementi. Prendiamo il celebre san Girolamo nel suo studio di Anto­nello da Messina (1474-1475; National Gallery di Londra). Il santo è seduto in posizione rigida e solenne, in una sorta di studio costituito da un complicato contenitore di legno in­serito in una cornice architettonica, con pochi libri attorno e qualche attrezzo per scrivere.· Sullo sfondo si intravede lo spazio aperto, la cui luce però non riesce a penetrare nell'a­rea di chi scrive. Quindi: la scrittura richiede uno spazio iso­lato attrezzato con strumenti appropriati e una postura spe­ciale: composta, raccolta, concentrata, immobile. Il san Gi­rolamo in Antonello dà, sia pure in modo esagerato e astrat-

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to, la rappresentazione espressiva di quel che, mutatis mu­tandis, abbiamo fatto per secoli nell'atto di scrivere.

Per vedere il processo dello scrivere più da vicino occorre però analizzarne le componenti materiali. Distinguo alme­no le seguenti: da una parte gli strumenti della scrittura, cioè gli arnesi con cui si traccia il segno; dall'altra i supporti su cui lo si traccia; infine le operazioni che si compiono sul testo scrivendo. Si tratta di fattori puramente materiali, che non rinviano a nulla di più astratto: non è chiamata in cau­sa l'attività mentale che accompagna e governa la scrittura, né la struttura del testo prodotto. Si tratta quindi di pratiche di scrittura. Chi scrive si rende difficilmente conto di star mettendo in moto un sistema così ricco di componenti: che il supporto sia importante, lo awerte solo quando la carta sta per finire; che la penna sia essenziale, lo vede se non funziona bene o se l'inchiostro scarseggia, e così via.

Fattori ecologici

Fattori etologici

Fattori cognitivi e culturali

Fattod linguistici

Calami Parafernali Supporti

Operazioni costitutive: •Ideare •Redigere • Leggere e rileggere •Spostare • Cancellare •Espandere • Restringere • Condizioni d'ambiente: •Tempo •Spazio •Socialità • Relazioni con altri media

Tipi testuali Specifico linguistico

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Quanto alle operazioni costitutive, anche queste sono lar­gamente inavvertite e impercettibili. Per vederle messe trionfalmente in evidenza· è stato necessario l'arrivo del computer e di quella pratica particolare che agli inizi si chia­mava videoscrittura (o word processing). Questa infatti esaltò sin dagli inizi, rendendole finalmente agevoli, le principali operazioni pratiche che si compiono sul testo, come cancel­lare, copiare-e-incollare, aggiungere, numerare, ordinare al­fabeticamente ecc. L'emozione con cui la mia generazione cominciò, negli anni Ottanta, a scrivere al computer fu do­vuta in larga parte proprio all'improvvisa scoperta che quel­le operazioni, che si erano sempre fatte con immensa fati­ca, 14 diventavano improvvisamente facili, naturali e frequen­ti. Quella scoperta rivelò anche le operazioni stesse: nessuno si era reso conto che, per esempio, il cancellare fosse così fondamentale nello.scrivere!

Calami. Consideriamo anzitutto gli strumenti dell<i. scrit­tura, i suoi paraphernalia. Il loro influsso, profondo e radica­le, sul processo della scrittura è stato indagato da paleografi e storici della scrittura, 15 che hanno descritto la varietà tipo­logica di calami e altri oggetti per scrivere. La modernità è caratterizzata da innovazioni anche in questo campo: pen­narelli di vario spessore e stabilità di segno permettono di scrivere sui muri o su supporti non assorbenti come il vetro; gli spray permettono di scrivere su vaste superfici e di me­.scolare il carattere scritto col disegno. I calami elettronici scrivono su uno schermo e così via. Il dito stesso, trasforma­to in calamo, può scrivere su un touch screen.

Supporti. L'estensione della gamma dei calami si associa a quella della gamma dei supporti. Infatti, la disponibilità di nuovi calami permette di riconoscere come supporti alcunè

14 Alcune di queste operazioni sono descritte in Scavetta (1992), in re­lazione ad alcuni grandi scrittori.

15 Vedi per es. Cardona ( 1988).

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superfici che prima non s1 immaginavano neanche. Per esempio, con gli spray la facciata del Colosseo o le fiancate delle vetture della metropolitana sono diventate scrivibili quasi come una pagina di quaderno. Tutto il mondo solido diventa possibile supporto di scrittura.

Altri supporti sono resi disponibili dall'informatica e dal­la rete, a partire dalla varietà dei display. Su questi si scrive sia con una tastiera (che impone il carattere interno del si­stema) sia con una penna a contatto (il touch screen) o una penna ottica. Si può scrivere però anche dettando a voce in un microfono: un'applicazione dedicata interpreta la se­quenza di suoni e la traspone in caratteri sullo schermo con buona approssimazione. Le tastiere dei telefonini sono un'altra forma di supporto: i messaggi possono esser pro­dotti con un solo dito o con due dita. Le dita in questione sono i pollici, il che mostra che le nuove pratiche di scrittu­ra hanno creato nuovi profili motorii: prima d'ora il pollice non aveva nessun ruolo nella scrittura se non quello di par­tecipare nel tener fermo il calamo.

Breve teoria del cancellare. Concentriamoci su una pratica strumentale della scrittura, che, pur avendo un'apparenza insignificante, ne costituisce invece l'essenza stessa: il can­cellare. Si tratta di una funzione basica dello scrivere: corri­sponde a un de-scrivere, a un fare che quel che è scritto non sia scritto, per pentimento o per una valutazione successiva negativa.

Al tempo della pergamena; la cancellazione della scrittu­ra manuale richiedeva abrasioni complicate e rischiose; an­che la carta veniva abrasa o sbarrata con tratti di penna ( can­cellare vuol dire infatti «ricoprire con segni a forma di can­celli»). In quella lunghissima fase, la scrittura era «pesante», cioè mostrava resistenza alla volatilità: una volta tracciato, il segno scritto non poteva essere rimosso che in modo imper­fetto e parziale, a fatica, e sempre col rischio di rovinare ir­reparabilmente il supporto.

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Negli anni Ottanta del secolo scorso una microscopica novità tecnica segnò il tramonto di questa proprietà: com­parvero delle penne a sfera dal segno cancellabile, che per­mettevano di rimuovere tratti di testo con facilità e quasi senza lasciar traccia. La via era aperta. In successione furono creati strumenti di cancellazione chimici (i bianchetti), infi­ne sottilissimi nastrini adesivi per coprire il segno. Dopo se­coli, la scrittura diventava rimovibile, la sua pesantezza era intaccata.

Il computer e l'informatica hanno dato al cancellare uno statuto nuovo. Per annullare le parole scritte non occorre più fare un «cancello» sui caratteri, lasciando comunque traccia della parte condannata del messaggio: le porzioni di testo da cancellare (dalla singola lettera a testi interi) posso­no essere soppresse senza traccia. La cancellazione si stacca dalla scrittura e si rende così autonoma.

Quest'innovazione ha conseguenze immediate sull'etolo­gia dello scrivere. In uno dei suoi Parerga Schopenhauer di­stingue tre tipi di scrittore: chi pensa prima di scrivere, chi pensa durante la scrittura e chi pensa dopo. Questa triparti­zione non è una battuta: è chiaro che chi non può cancella­re, o ha difficoltà nel cancellare, deve pensare prima, accu­ratamente e a fondo, a quel che scriverà, dato che la possi­bilità di correggersi è molto limitata. Quindi, in quella fase il testo era pensato in anticipo e la sua chiusura era in genera­le anticipata. La possibilità di cancellare e correggere senza fatica, invece, cambia l'ordine del processo: chi può cancel­lare con facilità rinvia la fatica dell'elaborazione e della mes­sa a punto al momento in cui il testo sarà già scritto.

Al pari del cancellare, anche il copia-e-incolla può essere elaborato sotto forma di teoria. Esso si presenta sotto tre ti­pi. Il primo è quello in cui l'autore di un testo copia e incol­la una parte di un suo proprio testo. In questo caso l'opera­zione è una pratica di comodo, anche se può configurare anche la fattispecie dell' «auto-plagio». Il secondo caso è quello dell'autore che copia e incolla una parte più o meno

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estesa di un testo di un altro, allo scopo di citarlo. Il terzo è quello in cui un autore copia e incolla una parte di un testo altrui allo scopo di appropriarsene. Questa appropriazione può essere consapevole e fraudolenta (fingendo che il testo incollato sia proprio mentre invece è altrui) oppure inge­nua e senza proposito di furto. Quest'ultimo caso è tipico dello scrittore inesperto (o di Montaigne!), e ha la seguente massima sottostante: «Se qualcuno ha scritto una cosa che mi conviene, oppure meglio di quanto potrei scriverla io stesso, non c'è nulla di male se prendo la sua formulazione invece di darne una io stesso».

Insofferenza verso l'alfabetico. L'adozione della scrittura alfa­betica comporta un tacito pactum. L'alfabeto - è ben noto -richiede e impone una serie di rinunce, specialmente a chi sente la scrittura come il «parlato realizzato con altri mezzi», e non.come un codice che ha col significato una relazione propria e diretta. L'alfabeto per esempio non permette una quantità di forme di messa in rilievo che sono proprie del parlato e restano per così dire attaccate al parlato: in parte le recupera con procedure apposite (specialmente movi­menti e spostamenti di parole e gruppi di parole), in parte le perde. Chi rientra nella «concezione classica della scrittu­ra» accetta queste convenzioni e gradualmente ci si abitua; chi è cresciuto nella mediasfera, invece, non ci si adatta.

In particolare, si cercano tutti i mezzi per (a) recuperare nella scrittura I' espressività modale del parlato; ( b) rendere ben visibile quel che la scrittura costringe a solamente im­maginare. Questi due moventi sono ben noti nella storia dei processi serriiotici, della scrittura e delle arti, quindi dal pun­to di vista tipologico non ci fanno nessun effetto. Il fatto è che oggi non si presentano da soli, ma sono associati ai fat­tori che ho segnalato prima e quindi sono molto più viru­lenti. È così che la conferenza si trasforma in «presentazio­ne», le immagini si associano alle parole, l'espressività grafi-· ca (tabelle, istogrammi, fotografie e animazioni) comincia a

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insinuarsi nei testi, le «faccine» costellano scritti anche se­miformali e si accompagnano a testi che vent'anni fa sareb­bero stati silenziosi ma non muti. Non si accetta più insom­ma che un testo scritto sia una pagina piatta con sopra «ca­ratteruzzi» (il termine con cui Galileo indicava le lettere al­fabetiche): ci si aspetta sempre che quella pagina sia un fo­glio elettronico, sotto il quale, in strati invisibili e simultanei, si nascondano altri livelli.

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IMPARARE, RICORDARE E DIMENTICARE

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6. lA FORMA DEL SAPERE

1. Premessa

Uno dei terreni su cui la cultura digitale ha esercitato più forte influenza è quello della conoscenza, del suo formarsi e del suo con.servarsi. Non mi riferisco alla superconoscenza degli specialisti, che hanno la scienza come professione e ac­cumulano conoscenze complesse, ma a quella comune, alla «conoscenza diffusa». Il conoscere diffuso e la supercono­scenza professionale sono ambiti così distinti che è possibile incontrare persone che posseggono l'uno ma non l'altra; hanno inoltre natura e struttura completamente difformi.

La conoscenza diffusa è il patrimonio (detto anche popo­larmente bagaglio, come per dar l'idea di un insieme di beni e di attrezzi che si porta con sé e il cui trasporto «pesa» co­me quello di una valigia di vestiti o di utensili) che di solito si ottiene come risultato della formazione giovanile e di cui ci si serve in vista delle acquisizioni superiori. È l'insieme di credenze, valori, opinioni (anche di basso livello), nozioni minute, informazioni generiche, che estraiamo dallo studio scolastico, dalla lettura dei giornali e di libri, dalle conversa­zioni e dal sentito dire. Queste conoscenze sono di diversa natura, origine e qualità: acèanto a informazioni precise (sia raffinate che ingenue: «l'acqua bolle a cento gradi», ma an­che «l'acqua bollente produce scottature gravi»), ce ne sono di fantasiose, di inventate per ragioni culturali («la frutta si mangia dopo il dolce», «quando piove il televisore può scop­piare», «il dolore nobilita l'uomo» ecc.), massime ingenue di comportamento («non accettare caramelle dagli scono­sciuti») e perfino leggende metropolitane.

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Questa mistura di conoscenze forma quella che si chiama, con un termine diffuso tra filosofi e psicologi._ (e che ho già usato più su), l'enciclopedia di ognuno di noi. Una parte di queste conoscenze sono «inerti»: dormono silenziose nella nostra mente senza condizionare o guidare il nostro com­portamento, ma restano latenti in attesa di intervenire, per esempio al momento in cui occorra dare una valutazione, esprimere un'opinione o risolvere un problema. Altre inve­ce sono attive o semi-attive: le risvegliamo quando ci occor­rono, e, in base a quel che suggeriscono, seguiamo una li­nea di azione oppure un'altra.

Nella società globalizzata, le conoscenze così intese sono state coinvolte in un cruciale processo di modificazione, che ha prodotto trasformazioni profonde in tutte le loro dimen­sioni: nel modo in cui si formano, nel modo in cui si sedi­mentano e si depositano nel tempo, nel modo in cui si tra­smettono e perfino si dimenticano. In questo capitolo esa­minerò in particolare alcuni aspetti del modo in cui si for­mano e si depositano; nel prossimo discuterò alcuni aspetti del processo di dimenticare.

2. Conoscenze nelle società tradizionali

Per descrivere i cambiamenti che la modernità digitale ha portato nella. formazione e trasmissione di conoscenze, presenterò due scenari, che costituiscono gli estremi di una specie di scala ideale, o anche il punto di inizio e quello (per ora) finale di una storia entro cui stiamo tutti.

Il primo si riferisce alle società tradizionali, intendendo con questo termine le società (ne parlerò ancora più avanti, nel cap. 7) in cui il sapere trasmesso dalla tradizione è pre­ferito all'innovazione ed è protetto dal fatto che alla critica e alle revisioni concettuali si accorda uno spazio limitatissimo, perfino nullo. Possiamo definire le società tradizionali con l'aiuto di Max Weber: sono quelle «basate sull'autorità

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dell"'eterno ieri", vale a dire del costume consacrato da una validità risalente a tempi immemorabili e da una disposizio­ne consuetudinaria alla sua osservanza».1 Società· siffatte so­no state preminenti in passato fino alla rivoluzione scientifi­ca e al propagarsi dei suoi effetti; ma ovviamente ne esistono anche oggi: tanto in ambienti incentrati sul culto della tra­dizione (come le società post-coloniali o quelle islamiche); quanto, come sacche, nel bel mezzo delle società moderne, in cui l'innovazione e lo spirito critico sono del resto valori primari.

Dal punto di vista del formarsi e distribuirsi dell'enciclo­pedia delle conoscenze, una società tradizionale è caratte­rizzata da proprietà come le seguenti:

(a) Le conoscenze evolute e sofisticate si formano in luoghi precisi (centri intellettuali, corti, ceti sacerdotali e colti, ac­cademie, università ecc.); quelle ingenue e pratiche si formano dappertutto, anche se con gradi diversi di finezza: per esem­pio, la conoscenza pratica di un operaio è meno articolata di quella di un pittore. In ogni caso, il luogo in cui le cono­scenze pratiche sono create e messe in circolazione è tipica­mente l'apprendistato o la famiglia.

(b) Le conoscenze evolute d'altronde si diffondono attra­verso il linguaggio (parlato, ma soprattutto scritto) e perciò sono accessibili solo a chi ha pratica verbale: lo specialista, il dotto, il professionista - le categorie che nella storia si indi­cano con termini come scribi e chierici. Esse sono immagazzi­nate nel luogo più impalpabile e precario: la memoria del singolo e quella collettiva.

( c) Le conoscenze pratiche e operative si acquistano di solito «guardando come si fa», senza cioè uso di istruzioni o rego­le esplicite; altrimenti, attraverso la comunicazione orale e la conversazione. Per questo, la società tradizionale è anche una Società dello Scambio Verbale (se non della Conversa­zione): lo scambio di discorsi parlati ha un ruolo enorme-

1 Cito da Weber ([1919] 2006, p. 6).

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mente più importante che oggi, perché talune forme di sa­pere possono diffondersi solo attraverso quel canale.

( d) A causa della volatilità della memoria, la conoscenza è caratterizzata da bassa stabilità, essendo sempre esposta al ri­schio di deteriorarsi, deformarsi nel passaggio tra le genera­zioni e di andare perduta. Oggi non siamo più in grado di cogliere fino in fondo l'immensa gravità di questo proble­:r;na, dato che abbiamo (o crediamo di avere) mezzi stabili per conservare quel che sappiamo. Ma la questione della conservazione del sapere è stata sempre cruciale: per questo nella storia del pensiero è così ricorrente non solo il tema del modo in cui la conoscenza si forma, ma anche quello del modo in cui la si può trasmettere e conservare efficace­mente. (Su questo tornerò nel cap. 7)

(e) La maggior parte delle conoscenze si può acquisire di­rettamente, senza bisogno di troppe ·conoscenze previe. In altri termini, nelle società tradizionali è praticamente sconosciuto il fenomeno (tutto moderno) della mediazione del software.

(f) La conoscenza evoluta è fuori di ogni controllo. L' e­sperto (il santone, il medico, l'intellettuale, e più tardi il no­taio, lo scienziato ecc.) gode di un intangibile privilegio di ipse dixit, ha una specie di delega permanente che gli per­mette di dire (e fare) qualunque cosa senza essere sottopo­sto a ispezione o verifica da parte di nessuno.

3. La charpente: sistema, enciclopedia e ciclo

A quelli che ho -appena indicato occorre aggiungere un altro tratto cruciale, che riguarda in particolare la struttura interna del sapere depositato nell'enciclopedia. Alludo al fat­to che questo si modella secondo una particolare charpente, cioè un'organizzazione architettonica. Le società particolare tradizionali si distinguono allora dalle moderne (in specie quelle del mondo globale) anche per la forma delle rispet­tive enciclopedie.

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La charpente del sapere nelle società tradizionali è infatti sistematica e ciclica. Quanto al primo carattere, un esempio a portata di mano è offerto dalla struttura costruttiva del silla­bo scolastico della maggior parte dei paesi occidentali (con l'eccezione degli USA): esso è costituito da un insieme di di­scipline (in Italia si chiamano materie), la cui lista già da sola costituisce un canone, tenute insieme da relazioni recipro­che. Vi si trovano lingua nazionale, storia; geografia, storia della letteratura nazionale e magari di altri paesi, fisica, chi­mica, matematica, lingue straniere e classiche, in qualche caso storia dell'arte, sdenze, economia ... La lista potrebbe continuare, ma le discipline indicate, oltre alle singole spe­cificità, manifestano una proprietà in comune: sono tra loro correlate, formano cioè un sistema, nel quale ogni campo di sapere può essere riportato su un altro, salvo qualche ecce­zione. I dati letterari sono riportati su quelli storici, quelli storici su quelli geografici, quelli delle scienze sulla mate­matica e tutto l'insieme sulla storia delle scienze, con la filo­sofia che accompagna tutti i saperi precedenti... Le diverse discipline sono dunque contenute e sostenute da una char­pente che sorregge tutto e nella quale i nessi tra un punto e l'altro sono cruciali.

Questa charpente può esser rappresentata anche come un vasto ipertesto: ogni settore rinvia a un altro, su una varietà di nozioni e di parole-chiave si può (metaforicamente) «clic­care», col risultato di saltare dall'una all'altra producendo un gioco di richiami che permettono di esplorare i punti fondamentali del sistema. In questo modo, ciascun ambito può funzionare come «porta» verso gli altri: dalla matemati­ca si passa alla fisica, dalla storia alla scienza, dalla letteratu­ra all'arte, e così via, in una sorta di enorme circuito alla Escher, in cui i sentieri confluiscono impercettibilmente l'u­no nell'altro attraverso sottili torsioni topologiche.

La rete ipertestuale può essere più o meno ben bilanciata. In altri termini, passando da una tradizione all'altra il para­digma adottato può prendere forme ed equilibri diversi,

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perché alcune discipline vi avranno maggiore o minor peso: per esempio, in Italia la matematica è trattata come un sa­pere isolato (senza storia, con pochi collegamenti con la fi­sica), la scienza è presentata senza storia, la letteratura ( co­me la filosofia) è dissociata dalla geografia, la musica è iso­lata da tutto e marginale rispetto al centro del sistema.

È difficile dire da dove provenga questa insistente osses­sione sistematica; ma sta di fatto che in taluni ambiti la si ri~ scontra in modo preminente, quasi imperativo. Basta pensa­re alla preoccupazione sistematica in filosofia (perlomeno nella tradizione occidentale risalente ai greci; la tradizione orientale è ben diversa). I grandi filosofi, a partire dall'anti­chità, hanno puntato a costruire enciclopedie sistematiche totali, nelle quali nessuno degli aspetti principali dell'espe­rienza fosse trascurato e in cui i diversi componenti del si­stema fossero «coerenti», cioè ben legati tra loro. In fondo, la storia della filosofia occidentale non è che una sequela di sistemi in conflitto o in accordo; inoltre, il carattere sistema­tico delle elaborazioni è considerato un cruciale titolo di merito delle diverse posizioni. I filosofi «non sistematici» (come Montaigne, Alain o Gramsci) sono trattati alla stre­gua di minori e marginali. Un indizio esterno ma eloquente di ciò è che il termine sistema (coi suoi equivalenti, quale en­ciclopedia) si impone per tempo nei titoli stessi delle opere fi­losofiche. I volumi che si intitolano così sono innumerevoli e arrivano fino all'epoca moderna.

La propensione per la forma-sistema trova espressione in alcune icone pregnanti. Due sono particolarmente impor­tanti: l'enciclopedia e il curriculum scolastico, apparente­mente senza relazione tra loro ma in effetti strettamente connesse.

Enciclopedia e gerarchia. Nella premessa dell'Encyclopédie, D'Alembert definisce la specificità di una presentazione del sapere in forma «enciclopedica». Il compito dell'opera- in­tesa sia come progetto culturale sia come prodotto editoria-

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le - è quello di descrivere «l'ordre et l'enchainement des con­noissances humaines»:

Mais s'il est souvent difficile de réduire à un petit nombre de regles ou de notions générales, chaque science ou chaque art en particulier, il ne I' est pas moins de renfermer en un système qui soit un, les branches infiniment variées de la scien_ce hu­maine.

La terminologia di D'Alembert non potrebbe essere più chiara. Allude con chiarezza all' «ordine» e alla «concatena­zione» delle conoscenze, e menziona anche le proprietà che il sapere deve avere per essere un sistema: fondarsi su un «piccolo numero di regole o di nozioni generali» e racchiu­dere «in un sistema che sia uno» l'infinita varietà della scien­za umana. L'enciclopedia, nella varietà delle sue forme, non è quindi che una sistemazione, intendendo questo termine in senso attivo: cioç come messa in sistema di nozioni che reste­rebbero altrimenti irrelate e disperse, in cui ogni ambito del sapere (quello teorico non meno di quello pratico, quello astratto non meno di quello artigianale) trova collocazione e ordine e definisce il suo rapporto con le altre aree.

Nella rappresentazione del sapere come enciclopedia, tra una disciplina e l'altra, così come tra una nozione e l'altra, sono disposti dei rinvii, che in realtà sono link tra un nodo e l'altro della rete, sentieri per passare da una sfera all'altra. Il rinvio stabilisce connessioni tra punti che altrimenti rimar­rebbero irrelati e talvolta rimanda a un supplemento dico­noscenza: un'appendice, un corredo, un documento, una testimonianza o un esperimento. Forse proprio come effet­to di questo fatto la cultura occidentale sin dalla tarda anti­chità ha assunto sempre più il libro come metafora del sa­pere, della conoscenza umana e divina e infine anche del mondo in generale.2 L'immagine ricorre per tutto il me­dioevo, come ha ricostruito Ernst Curtius nel suo clàssico

2 Vedi per questo Blumenberg (1979).

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studio sul medioevo latino e la letteratura europea. 3 Succes­sivamente, i diversi componenti del libro hanno cominciato a rappresentare lo status di ciascuna di queste appendici del sapere, così rivelandone la charpente: rinvii, appendici, do­cumentazione e altro sono quindi la raffigurazione materia­le, nel libro, del fitto reticolo che si costruisce attorno a un ramo del sapere. Un volume intero è stato dedicato util-. mente alle «note a piè di pagina» (Grafton 1997), in cui si mostra che quell'apparato grafico fu in realtà escogitato co­me rappresentazione di pensieri gerarchizzati.

Quest'impostazione ha prodotto un solco in cui s'è in­camminata l'intera tradizione occidentale. Mentre Hegel in­titola Enciclapedia delle scienze filosofiche in compendio (1817) una delle sue opere maggiori, il carattere «enciclopedico» del sapere diventa uno dei contrassegni del sapere di qua­lità. Col diffondersi dell'idea di enciclopedia (e delle enci­clopedie come prodotto editoriale da mettere in vendita) e col crescere in prestigio del modello che essa rappresenta, il paradigma del sistema si trasferisce e si diffonde capillar­mente in basso, cioè nella sfera della «Conoscenza diffusa».

D'altro lato, la preoccupazione di mettere in sistema co­noscenze sparse caratterizza la storia della scienza e del pen­siero anche sul piano epistemologico. Nei diversi ambiti, la qualità del risultato può essere migliore o peggiore: la siste­matizzazione in matematica (a partire dalla geometria eu­clidea), per esempio, è riuscita molto meglio di quella di campi come la linguistica, sebbene le due scienze rimontino più o meno allo stesso momento. Il secondo carattere di­pende invece dalla natura intrinseca dei diversi ambiti: si di­rebbe che in generale i saperi più sistematizzabili sono quel­li che possono essere rappresentati con formalizzazioni; quelli che non possono, invece, sono destinati a restare al li­vello di meri «discorsi», non implicanti un'organizzazione gerarchica, una terminologia rigorosa, un'assiomatica. Ciò ha anche effetti vistosi a livello pratico. Che la storia, come

3 Alludo al cap. XVI di Curtius (1948).

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disciplina scolastica, sia più «facile» a impararsi della mate­matica dipende appunto dal rispettivo grado di sistemati­cità, che in questo caso coincide con un fatto epistemologi­camente significativo: fortemente sistematica, la matematica si costruisce per accumulazione di nozioni che si connetto­no via via tra loro. La gerarchia che così si crea deve essere rispettata nel momento della trasmissione di quel sapere: le nozioni organizzate in gerarchia devono esser presentate e imparate secondo quella gerarchia e non altra; se questa vie­ne violata, l'apprendimento è danneggiato.

Ciò illumina un altro tratto importante della charpente del sapere tradizionale: la sua natura gerarchica. Le nozioni si distribuiscono su vari livelli con una rete di implicazioni: il livello più basso è implicato e richiesto da quello più alto, questo dal livello più alto ancora e così via. La gerarchia di ciascuna sfera di sapere determina il modo di insegnarla: è impossibile maneggiare nozioni di livello superiore se non padroneggiando quelle di livello inferiore; più si avanza, più la stratificazione delle nozioni si accresce. Ciò si osserva nel fatto che in ogni proposizione della matematica possono ap­parire termini che evocano nozioni preliminari di livello più basso. In altre parole, in alcune discipline si entra solo dalla porta principale; in altre da qualunque porta.

Per questi motivi, nella tradizione educativa occidentale ci sono alcune parole-chiave che ne formano l'emblema: ca­pire, situare, contestualizzare, collegare ... È facile vedere che tut­te queste parole evocano indirettamente una struttura ordi­nata, gerarchica, sistematica.

Ciclo. Ho detto prima che un esempio della diffusione ge­nerale del paradigma della conoscenza come sistema si ha nei curricula scolastici dei paesi che si richiamano al model­lo «europeo»,4 dove il sapere è presentato sin dai primi anni

4 È ovvio che di questo gruppo non fanno parte gli USA e i paesi cultu­ralmente allineati agli USA, in cui la tradizione accademica ed educativa europea non si è trapiantata.

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secondo una charpente sistematica e gerarchica. Nell'ambito della scuola viene alla luce anche un altro aspetto cruciale della charpente occidentale: la conoscenza è presentata sotto forma di ciclo. A una prima presentazione offerta con un ci­clo breve ne seguono altre (due o tre) in cui le stesse disci­pline, gradualmente arricchite, si presentano seguendo cicli via via più ampi.5 La ciclicità è impostata come un arricch~­. mento graduale: nel ciclo superiore le conoscenze non ri­tornano allo stesso modo in cui si sono presentate nel ciclo inferiore, ma sono arricchite, rese più dense e collegate con altre nozioni, in omaggio al principio enciclopedico che ab­biamo visto. Il modello ciclico comporta certo qualche gra­do di ripetizione, ma al tempo stesso consolida il fissarsi del­le conoscenze e favorisce la loro graduale espansione.

Lo schema ciclico ha alcune proprietà. Anzitutto, siccome sin dai primi livelli di scolarità è proposto tutto il sapere fon­damentale, la scuola esibisce subito un 'enciclopedia, ossia una rete di conoscenze interrelate. Inoltre, l'enciclopedia è ripre­sentata a ogni ciclo con UJ1 raggio via via allargato e con l'ag­giunta di qualche segmento nuovo, che va a integrarsi al resto.

Attraverso la scuola, la concezione enciclopedica è riusci­ta a far entrare l'idea di «sistema del conoscere» nelle case e nella cultura di basso livello. Della diffusione del modello enciclopedico-gerarchico fino ai livelli popolari si trovano numerosi esempi nella tradizione occidentale. Ne prendo uno a caso, da una pagina del durissimo romanzo di Ber­nard Malamud, L'uomo di Kiev.6 In scena, ai primi del Nove­cento, è Yakoy, un ebreo spiantato, che migra dal suo shtetl a Kiev in cerca di fortuna. Preparandosi a partire, ritiene giusto portare con sé dei libri:

Aveva tenuto [ ... ] qualche libro: la grammatica russa di Smir-

5 Già nel suo nome l'enciclopedia evoca l'idea di ciclo, cioè di circuito di conoscenze in c.ui ogni cosa, opportunamente collegata, può portare a un'altra e in cui il sapere non è mai chiuso.

6 Cito dalla tr. it. di Ida Ombroni, Einaudi, Torino 1968.

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novsk, un testo di biologia elementare, i Brani scelti di Spinoza e un atlante malandato, che aveva almeno venticinque anni. ..

Come si vede, Yakov porta con sé opere di tema e di livel­lo diversi (perfino passi scelti di Spinoza!), ma che nell'in­sieme riproducono la gracile intelaiatura di un'enciclope­dia. Più avanti, descrivendo il contenuto della sua istruzio­ne, Yakov aggiunge:

Il poco che so l'ho imparato da me: un po' di storia e geografia, un po' di scienze, d'aritmetica, un paio di libri di Spinoza. Non molto, ma meglio di niente.

Ancora una volta quel che viene evocato è un'enciclope­dia, sia pur ridotta ali' osso («Non molto, ma meglio di nien­te»), un'idea diffusa evidentemente anche nei miserabili vil­laggi ucraini dei primi del Novecento!

4. Nel moderno

La mediasfera ha alterato alla radice questo modello, nel contenuto, nella charpente e negli sbocchi, dando luogo a un paradigma del tutto diverso per quanto riguarda la strut­tura organizzativa della conoscenza.

Indico di seguito, senza pretesa di esser completo, alcuni elementi del nuovo paradigma.

Moltiplicazione delle fonti e dei luoghi. Le fonti di informa­zione e conoscenza si moltiplicano a dismisura; sono nume­rosissime le «banche della conoscenza» immateriali. Secon­do l'opinione popolare, in rete «c'è tutto»! Informazioni e conoscenze sono depositate in siti in modo che possano es­sere reperite in qualunque momento e da qualunque posto del pianeta. Per esempio, il cosiddetto cloud computing (che permette di salvare i propri dati su un computer remoto, ac­cessibile solo telematicamente) esalta questo aspetto. Ma

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l'incremento delle fonti è accompagnato da vaste zone d'ombra: di una quantità di cose che sappiamo, non sa­premmo dire se la fonte è unica o multipla, se è di buona qualità o scadente, se è filtrata da autorità oppure abbando­nata a sé stessa. Quel che conta è che la fonte sia disponibi­le, che il suo utente sappia arrivarci e servirsene.

Insieme al numero delle fonti, cambia anche il principio dell'accessibilità. Non tutte le informazioni si trovano con la stessa facilità; vaste classi di dati possono essere depositate per intero in luoghi inesplorabili. Per esempio, i ricordi per­sonali, sia di fatti individuali sia di fatti collettivi (quella che si chiama solitamente la. memoria storica), una volta deposita­ta in lettere e diari, oggetti che si potevano raccogliere, ar­chiviare e studiare in modo relativamente semplice, ha oggi cambiato sede e si distribuisce in luoghi inaccertabili. In mi­sura notevole infatti essa è depositata in inaccessibili account di posta elettronica, oppure, nel caso dei social forum, nelle «bacheche» degli «amici» e così dispersa in un'incontrolla­bile costellazione di punti.

Disarticolazione. Il sapere diffuso si forma senza tener più conto dell'organizzazione gerarchica delle conoscenze ma procedendo a caso, per collage. L'emblema procedurale di questa proprietà è la navigazione in rete, che ha un segno contrario a quello rappresentato dall'enciclopedia: normal­mente il cibernauta non sa dove va, a un certo punto della sua navigazione non ricorda il percorso che ha seguito per arrivare dove si trova; allo stesso modo, può non ricordare neanche il punto da cui è partito. La navigazione in rete -salvo che non sia guidata da un controllo ferreo degli obiet­tivi - è propriamente una maniera di «perdersi» nello spa­zio telematico, lasciandosi andare alla deriva. 7

Questo schema di esplorazione per deriva si trasferisce d'altronde facilmente su altri ambiti e procedure: la naviga-

7 Ho sviluppato i due sensi di navigare (quello letterale e quello tele­matico) in alcune pagine di un altro lavoro (Simone 2002).

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zione cessa di esser un modo per passare il tempo e si tra­sforma in un'epistemologia e un'euristica nai"ve: navigando si possono scrivere tesi di laurea e di dottorato, articoli di giornale e report, così come si possono creare installazioni vi­sive e montaggi di diversa natura.

Soppressione degli intermediari e dei garanti. Gli intermediari dell'acquisizione della conoscenza sono eliminati o scaval­cati. La mediasfera non permette controlli di autenticità, di qualità, di buono stato di conservazione ecc. Ciò cancella una vasta serie di individui e di figure: autori, revisori, cura­tori, insegnanti, controllori della qualità e «autorità» cultu­rali in generale. Chiunque può accedere alla rete, così come una varietà di siti permettono di introdurre testi, di modifi­carli e uscire senza lasciarè tracèia. Questo fatto indebolisce fino a distruggerli due criteri che hanno tradizionalmente governato l'accesso alle informazioni qualificate: l'autorità che le emana e garantisce e la validità che esse presentano in sé. Secondo una visione alla Popper8 nulla è definitiva­mente garantito e nulla è definitivamente valido: «ogni tipo di argomento può essere pertinente»;9 ma questa veduta si smentisce quando confrontiamo la qualità, per esempio, di un trattato di matematica o di diritto di grande reputazione con quella delle sparse trattazioni che si trovano in rete su quelle discipline_. Nel primo caso, c'è qualcuno che prende su sé la responsabilità di quel che sostiene; nel secondo, le affermazioni si presentano da sole, separate da qualunque responsabilità, e si affidano al puro giudizio dell'utilizzatore, quale che sia la sua competenza. Anche un terzo livello di controllo può essere evocato: il sapere sistemato in forma pubblica è soggetto a recensione (cioè a resoconto analiti­co), quello telematico, relativamente invisibile a dispetto della sua totale accessibilità, no.

8 La distinzione tra autorità e validità, che ho appena proposto, artico­la alcuni concetti presenti in Popper (1960, spec. pp. 27 ss.).

9 Cito e traduco da Popper ( 1960, p. 27).

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Il funzionamento di Wikipedia è una delle illustrazioni più lampanti di questa eliminazione degli intermediari e dei garanti: praticamente senza controllo, chiunque può creare una voce enciclopedica su qualunque tema e depositarla in rete, a disposizione di tutti quelli che vorranno leggerla. Il processo di modificazione anonima della voce è illimitato: chiunque può aggiungere, togliere, modificare, senza la­sciare traccia di sé stesso (neanche il nome). Se la formula­zione della voce enciclopedica sia accurata o generica, in buona fede o maliziosa, nessuno lo saprà mai. . ·

Un altro emblema eloquente di questo trend è offerto dal self publishing, la possibilità (nata attorno al 2005) di pubbli­carsi da soli i propri libri mediante un servizio telematico che dà come prodotto e-book o libri di carta su richiesta. Questa trovata elimina un altro cruciale mediatore storico della conoscenza, cioè l'editore. L'editore, se è di qualità, non è solo il produttore finanziario del libro ma fa anche altre cose fondamentali: progetta, pianifica, consiglia, valu­ta, sceglie e respinge; e, quando ha deciso e scelto, assiste l'autore nella costruzione e nella complicata messa a punto della sua opera. Distinguendo gli scrittori dagli imbratta­carte l'editore esercita una funzione di filtro, di controllo e di garanzia di .qualità che nessun self publishingpotrà mai as­sumersi.

Frammentazione del corpo dei saperi ed erosione dei confini. La preoccupazione del sistema e dell'unità è decaduta: le conoscenze si riducono a frammenti e per frammenti si accumulano, che facendo massa gli uni sugli altri possono dar luogo anche a un patrimonio imponente. Può anche accadere inoltre che tra i frammenti si creino connessioni, ma ciò non è garantito e non è neanche obbligatorio. Il système che stava a cuore a D'Alembert è sostituito dal bri­colage.

Il testo non è più un'unità inscindibile protetta da una membrana che lo tiene insieme e lo protegge al tempo stes-

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so; è una miniera a cielo aperto, alla quale chi vuole può at­tingere quel che vuole, senza chiedere permesso, senza far­si guidare da nessuno e con accesso casuale. Per una pro­prietà tipica della mediasfera, si erodono i contenitori e i confini (Sloterdijk [2006] 2008, p. 218), in senso sia lettera­le sia metaforico: il contenuto di qualunque contenitore può trapassare in qualunque altro, sicché alla fine si può avere un corpo anche cospicuo di informazioni e conoscen­ze di cui nessuno conosce le fonti, i collegamenti interni e la cornice.

Interposizione del software. Per alcuni analisti e per moltissi­mi utilizzatori questa serie di mutamenti è un progresso: tut­ti (o quasi) possono produrre, ricordare, scambiarsi cono­scenze, accedere ad ambiti di sapere un tempo neppure in­dividuabili, e così espandere le proprie conoscenze senza lì­mite. Questo è anche il parere della sfera politica, che con­sidera la rete come un puro progresso e che comincia a in­cludere la disponibilità della rete tra gli indicatori del grado di sviluppo di un paese.

Le cose stanno davvero così? Se ne può dubitare. La co­noscenza è sì più abbondante e infinitamente più distribui­ta, ma non è affatto accessibile come appare. Per potervi ac­cedere è indispensabile superare lo sbarramento di un software sempre più complesso, cioè imparare preliminar­mente regole, istruzioni e procedure che indicano quali passi vanno fatti per arrivare a sapere o a fare una cosa de­terminata.

Una gran varietà di comportamenti, anche connessi a strumenti d'uso quotidiano frequente, sono possibili solo a patto di conoscerne il software, cioè l'insieme di istruzioni che occorre seguire per farli funzionare. Oggetti attualmen­te di impiego universale - la segreteria telefonica, i teleco­mandi di apparecchi elettronici, il telefonino, e finanche gli elettrodomestici - semplicemente non funzionano se non si hanno tali conoscenze preliminari, e richiedono quindi un

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investimento di conoscenza previa che per alcuni può essere di una complessità tale da renderli inaccessibili. 10

Una larghissima varietà di conoscenze non è più accessi­bile in modo diretto. Questo cruciale fenomeno è dovuto a un fatto emergente proprio della modernità, lesplosione del software. Le conoscenze di cui ci serviamo, incluse quelle di molti ambiti della vita quotidiana, chiamano in causa sofisti­cate trafile di passi («fa' prima questo, poi questo, poi que­st'altro ancora»), sicché per molti si tratta di ricchezza appa­rente (perché indisponibile).

Vittime. Come tutte le grandi trasformazioni, questo pro­cesso lascia sul terreno una varietà di vittime, costituite sia da persone sia da entità astratte. Il calcolo delle vittime non può essere ignorato nella valutazione del risultato. La prima vittima, di natura astratta, è il testo, emblema primario del­l'unità; tra le altre vittime stanno l'autore del testo e la fon­te di un'informazione o conoscenza. L'autore si è sfibrato fi­no a sparire (vedi per questo i capp. 3 e 4); l'informazione aleggia ovunque nella mediasfera ma non necessariamente e non sempre è riconducibile a un autore. Se ne ha uno, l'autore può inoltre essere trascurato; se non ce l'ha, non per questo l'informazione diventa inutilizzabile .. La lista completa delle vittime è però lunga e la si può osservare in forma più completa nel mondo del self publishing. eliminato

10 Un esempio imponente di questo fatto è offerto dal telefono cellula­re. Malgrado il suo aspetto innocuo e banale, questo apparecchio contie­ne un software complicato, e diverso per ogni specifico tipo di telefono, che richiede ore di studio per essere capito e applicato. Alcuni utilizzato­ri rinunciano in partenza a impararne i dettagli, limitandosi alle funzioni più ovvie. La cosa sarebbe priva di rilievo se non alludesse a un problema più profondo: una gran varietà di macchine e di apparecchi di oggi (spe­cialmente quelli contenenti risorse informatiche e telematiche) incorpo­rano una filosofia, e sono quindi propriamente «macchine filosofiche». Non è quindi un caso che queste macchine (oggi dette più sfumatamente sistemi) debbano essere accompagnate da imponenti e spesso oscuri ma­nuali di uso: solo il manuale può spiegare il modo di funzionare degli ag­geggi. Senza di esso, questi sono del tutto inutilizzabili.

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leditore (con ;il suo personale), eliminati i librai dopo aver­ne svuotato gli scaffali, cancellati magazzini, magazzinieri e distributori, indebolita via via l'industria della carta e della stampa, quella delle macchine tipografiche e della pubbli­cità, eliminati le riviste di libri, i recensori, i filologi e i bi­bliotecari. ..

Definisco sapere irrelato un sapere che nasca e cresca in una situazione caratterizzata dalle proprietà che ho appena elencato. È ovvio che un sapere irrelato può apparire di bas­sa qualità a confronto con un sapere sistematico come quel­lo della charpente tradizionale. Ma oggi sappiamo che giudi­zi di questo tipo possono sembrare sommari. La modernità ha alterato anche i parametri di giudizio.

5. La scuola, un sito dedicato

In questo quadro, la scuola (e in generale l'educazione) occupa una posizione centrale: è infatti il luogo in cui si ri­produce e si distribuisce la conoscenza nelle sue forme ini­ziali e si trasmettono formalmente certe conoscenze selezio­nate, ma è anche l'agenzia cui spetta il c0mpito di incre­mentare il numero delle persone dotate di conoscenza. Al­meno idealmente, la scuola attinge in modo diretto o indi­retto ai luoghi di produzione delle conoscenze e trasferisce presso le generazioni giovani il frutto di questi prelievi. Ha dunque una posizione essenziale in ogni storia del conosce­re: è il luogo della «riproduzione», secondo la celebre for­mula di Bourdieu & Passeron (1970).

Guardando alle trasformazioni che hanno avuto luogo nella transizione verso la mediasfera, il ruolo della scuola è molto cambiato. Anzitutto per il crescere di una infrenabile concorrenza esterna. I luoghi per la trasmissione e la con­servazione di conoscenze sono talmente aumentati, di nu­mero e di natura, che - come ho notato poco fa - moltissi-

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me conoscenze non possono neppure essere riportate alla lo­ro fonte. In particolare la scuola non può più essere conside­rata come la loro origine. Ciò mostra che la scuola non è più la sola agenzia che abbia il compito di diffondere il sapere iniziale, di accrescere il numero delle persone che sanno e di mettere in movimento quel che si sa. E non è forse nep­pure la principale.

Se volessimo trovarle una specificità valevole anche per il giorno d'oggi, dovremmo dire che la scuola serve soprattut­to a conferire conoscenze iniziali complesse. la matematica o la fisica elementari, per esempio, si imparano ancora meglio a stuola che fuori. Ma le altre aree del sapere? In quale luogo si imparano, se la scuola non è più in condizione di inse­gnarle a dovere? Quanto allo sviluppo della conoscenza e la sua transizione dal livello iniziale a quello evoluto, la scuola perde terreno ogni giorno di più data la sua intrinseca inca­pacità di rispondere alla spettacolare provocazione costitui­ta dalla mediasfera. Troppe difficoltà si oppongono al com­pito: la resistenza di tutti i fattori umani in gioco (a partire dagli insegnanti), l'enorme impegno che sarebbe richiesto dall'obbligo di tenersi al passo con un'evoluzione tecnolo­gica e cognitiva inarrestabile. Queste difficoltà si aggiungo­no al fatto che la scuola, come istituzione primaria (e quin­di con l'iniziale maiuscola), ha come suo destino primor­diale la relativa lentezza, cioè l'incapacità di precedere il cambiamento delle conoscenze, essendo il suo ruolo piutto­sto quello di seguirlo!

Come conseguenza, la scuola risponde alla spettacolare innovazione costituita dalla mediasfera con un'inquietante tranquillità: si limita a trasmettere pochi ben definiti saperi, tenendosi alla larga da due meccanismi che oggi sono inve­ce essenziali:

(a) il veloce processo di accrescimento della conoscenza, a cui risponde con estrema lentezza, trasmettendo soltanto un pacchetto delimitato di conoscenze selezionate: questo

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tratto può essere indicato con la formula «la scuola è cogrii­tivamente lenta»;

( b) la diffusione di metodologie di accesso ai depositi del­la conoscenza, siano essi semplici enciclopedie e vocabolari o banche dati e repertori: in altri termini, la scuola è meto­dologi,camente lenta.

Si direbbe in taluni casi perfino che la scuola, invece di es­sere il luogo dove la conoscenza si trasmette e riceve una sua prima elaborazione, sia il rifugio in cui ci si rinchiude per es-

. sere protetti dalla conoscenza, dal suo fluire, dal suo accre­scersi. Non è il luogo della movimentazione della conoscen­za, ma quello in cui alcune conoscenze vengono trasmesse e classificate, in cui le conoscenze si sedentarizzano, stagiona­no e diventano statiche.

Il luogo in cui la conoscenza circola di più è ormai il mon­do esterno, con il quale la scuola è quasi in opposizione. Ma la massa di cònoscenza offerta dal mondo este.rno non è del­la stessa natura e qualità di quella che potrebbe conferire la scuola: nella scuola il conoscere si presenta in forma struttu­rata e sistematica; nel mondo esterno, con il cruciale aiuto della mediasfera, soprattutto in forma irrelata.

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7. IL FUTURO DEL DIMENTICARE

1. Tre gesti per formare conoscenza

Per formare la massa delle proprie conoscenze (abbia­mo imparato a chiamarla enciclopedia) ogni generazione di­spone di tre operazioni, che si possono compiere in misura e in combinazioni variabili: imparare dalla precedente, ag­giungere qualcosa di proprio e respingere ciò che la gene­razione precedente intende trasmettere. 1 Queste operazio­ni si combinano tra loro più o meno armonicamente: il ri­sultato finale (l'insieme-unione che rappresenta l'enciclo­pedia degli ultimi arrivati) è il sapere della nuova genera­zione. Questo meccanismo vale in generale per l'acquisi­zione della «cultura» (il sapere che è patrimonio di un po­polo), ma anche, seppure con alcune variazioni importanti, per la lingua che si trasmette da una generazione all'altra, anche se in fatto di lingua sembrano operare meccanismi più conservativi.

In particolare, il rapporto (di vicinanza o di distanza) tra una generazione e l'altra si definisce in base al modo in cui la prima e la terza operazione si svolgono: secondo, cioè, quanto si conserva (o si accetta di conservare) dalla prece­dente generazione e quanto invece si respinge. Le genera­zioni che rifiutano, o che si propongono perfino di rifiuta­re tutto, sono contestatarie (come una volta si diceva), sov-

1 «Il progresso della conoscenza consiste, principalmente, nella modifica­zione di conoscenza precedente» (cito e traduco da Popper 1960, p. 28). Ve­di anche Popper (1949), interamente dedicato all'uso «razionalè» della tra­dizione.

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versive o anche eversive.2 Le generazioni che accettano dal­le precedenti più di quanto rifiutino sono invece conserva­trici.

Ai due estremi di questa scala troviamo le società «tradi­zionali» e quelle «innovative». Le società «tradizionali» (dal­le quali ho già ricordato una definizione di Max Weber) si caratterizzano proprio perché la massa di sapere che tra­smettono senza modifiche è maggiore di quella del sapere creato ex novo o di quello che viene rifiutato. La «tradizione» è; in sostanza, il fondo stabile del sapere collettivo, sostenu­to dalla convinzione condivisa che quella massa di cono­scenze non debba, o addirittura non possa, essere accresciu­ta né modificata in alcun modo: come conseguenza, nel pas­saggio da una generazione all'altra, tutti credono alle stesse cose, sanno le stesse cose, parlano la stessa lingua, giudicano alla stessa maniera, hanno opinioni somiglianti. Si tratta di modelli in cui l'idea di «critica», di «anticonformismo» o di «opinione pubblica» è svalutata o inesistente.

Le società «innovative», per contro, sono quelle in cui la massa del sapere che viene aggiunto dalle nuove generazio­ni o di quello che viene negato è (o tende a essere) maggio­re di quella del sapere accettato. In esse, l'idea di critica e di analisi è fondamentale: la critica non viene solo praticata, ma è considerata una risorsa metodica essenziale e costìtui­sce la base dell'insegnamento scolastico, cioè della forma più specializzata di trasmissione culturale. In questo senso, la tradizione occidentale moderna (dal Seicento in poi al­meno) è una tradizione critica e analitica, e proprio in que­sta misura è innovativa.

Il confronto tra le società islamiche (ultratradizionali) e quelle che siamo abituati a chiamare «occidentali» (caratte­rizzate da un intrinseco movente critico e dinamico, mal­grado occasionali riflussi) è fin troppo eloquente a questo

2 Questi termini non vanno intesi per forza in senso politico: possiamo avere eversioni culturali autentiche accompagnate da un tranquillo con­servatorismo politico.

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proposito. Esso mostra che in alcuni paradigmi culturali l'innovazione è incoraggiata e considerata con apprezza­mento; in altri invece è scoraggiata, inibita o addirittura per­seguitata.

Dal punto di vista funzionale, però, se si conserva il sape­re tradizionale non è per pura passività. Al contrario, si assi­curano almeno due vantaggi. Anzitutto, si tende a conserva­re la massa delle conoscenze precedenti per risparmiarsi lo sforzo di ricerca, di sperimentazione e di osservazione di ca-

. si singoli che sarebbe richiesto se si volesse acquisire la co­noscenza corrispondente in modo diretto, cioè di prima ma­no, cominciando da zero. In pratica, assorbendo il sapere che ci viene presentato bell'e pronto si evita il monumenta­le impegno di ripetere sempre daccapo miriadi di esperien­ze. La conservazione ha un formidabile carattere economico. Per questo non c'è cultura che non sia in qualche misura con­servatrice e tradizionalista. «Di gran lunga la più importante fonte della nostra conoscenza - a parte la conoscenza inna­ta - è la tradizione. La maggior parte delle cose che sappia­mo le abbiamo imparate per via di esempi, o perché ci sono state dette, o leggendo libri, imparando a far critiche, ad ac­cettare e ricevere critiche, a rispettare la verità»,3 così dice Popper. Alcuni casi storici in contrario mostrano che l'inno­vazione a ogni costo non paga: la società sovietica, che si propose di rifondare tutto (dall'arte alla morale, dall'eros al diritto, dall'architettura all'economia ... ) costituisce forse il più gigantesco e catastrofico fallimento dello sforzo di rico­struire ogni cosa dall'inizio.

Per questo non sorprende che le più diverse culture si servano di stratagemmi ricorrenti per conservare il sapere precedente. Per esempio, è universale il fatto che le culture condensino esperienze multiple in proverbi, sentenze e for­mule abbreviate: un vero «sapere portatile», che mostra chiaramente quanto sforzo di esplorare e di ricercare si ri­sparmi appoggiandosi massicciamente al passato. «Il motto

3 Cito e traduco da Popper (1960, pp. 27-28).

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degli antichi mai mentì», assicura Padron 'Ntoni nel primo capitolo dei Malavoglia di Giovanni Verga, un romanzo de­dicato in buona parte ai cambiamenti che s'infiltrano in una società ultratradizionale, in cui i proverbi e le moralità rap­presentano una sorta di estremo appiglio per resistere al nuovo, che comunque avanza senza ritegno.

Nella conversazione comune si evocano spesso, proprio per questo motivo, detti di madri e padri, di nonni e nonne, proverbi, segmenti di lessico familiare o di «Storie di fami­glia»: riportano massime, principi, moralità e generalizza­zioni - in apparenza null'altro che «roba vecchia», essenzia­le però per favorire previsioni o valutazioni, sostenere scelte e decisioni, autorizzare o sconsigliare comportamenti, per­fino per acquietarsi la coscienza. Si tratta di formule facil­mente memorizzabili, che permettono un infallibile richia­mo di principi, metodi, regole, e conferiscono a tutte queste proposizioni una vaga alture di «norma giuridica».

Il secondo motivo per cui conviene conservare il sapere tradizionale sta nell'intento, tutto interno alla società consi­derata, di preservare un collaudato canale di comunicazio­ne con la generazione precedente: se si ha in comune coi «vecchi» almeno una parte di universo di discorso, di «Cose di cui si può parlare», l'intesa con loro sarà più agevole, flui­da, meno disturbata da commenti e spiegazioni. In misura minore, chi adopera un sapere comune coi vecchi manifesta rispetto e deferenza nei loro confronti: in questo modo è fa­vorita la pace sociale. Quindi, la conservazione serve a mo­do suo a tenere unita la società.

Non sempre la conoscenza condivisa viaggia attraverso formulazioni verbali. Una quantità di cose (azioni, opera­zioni, procedure) che abbiamo imparato dai nostri «vecchi» (in tesi in senso largo), le sappiamo fare o in generale appli­care, ma non è detto che le sappiamo anche dire, descrivere o analizzare verbalmente; non è detto che sappiamo insom­ma dire come si fanno. In altri termini, il sapere degli «ante­nati» può essere tanto dichiarativo (diciamo come le cose si

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fanno, formulando quindi a parole una descrizione di quei comportamenti), quanto operativo (facciamo certe cose per­ché le abbiamo viste fare o perché ci è stato raccomandato di farle così). Dal primo canale discendono le cose «che sap­piamo», dal secondo quelle «che sappiamo fare». Le une e le altre formano lenciclopedia ricevuta.

D'altra parte, le culture, anche quelle conservative, di­spongono di una varietà di dispositivi per dimenticare: un arsenale di artes oblivionales,4 di «arti deldimenticare», uti­lizzate non meno spesso di quelle «arti della memoria» con cui si fissano nel ricordo individuale e collettivo le cose che meritano di essere conservate. Questo meccanismo ripulisce il ricordo: permette di espellere segmenti dell'enciclopedia e di rinnovarne quindi il contenuto. Alcune forme della cancella.Zione collettiva del ricordo sono· state già studiate, altre sono determinate dai cambiamenti culturali recenti (ne vedremo qualcuna più sotto).5

Basta per ora indicare che in taluni casi la dimenticanza: è intenzionale e pilotata: la damnatio memoriae prende forme diverse nella storia, dalla rimozione a colpi di scalpello pra­ticata in età antica alla riscrittura per scopi politici degli ar­chivi descritta in 1984 di Orwell.6 Ernest Renan sottolineò addirittura che il dimenticare è indispensabile per la costru­zione delle nazioni: «L' oubli, et je dirais meme l' erreur hi­storique, sont un facteur essentiel de la formation d'une na-

4 Ars oblivionalisè il titolo di un saggio di U. Eco (1987), in cui si sugge­riscono in tono paradossale alcune ipotesi per spiegare i meccanismi del dimenticare.

5 Per es. da Rossi (1991). 6 «Tale processo di continua trasformazione era applicato non soltan­

to ai giornali, ma ai libri, ai periodici, agli opuscoli, ai manifesti, alle cir­colari, ai film, alle colonne sonore, alle illustrazioni, alle vignette umori­stiche, alle fotografie ... a qualunque genere di roba stampata e comun­que documentata che potesse avere un significato politico o ideologico. [ ... ] La Storia era un palinsesto grattato fino a non recare nessuna traccia della scrittura antica e quindi riscritto di nuovo tante volte quante si sa­rebbe reso necessario» (G. Orwell, 1984, tr. it. di G. Baldini, Mondadori, Milano 1950, p. 63).

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tion», dato che servono a ripulire la memoria collettiva di passaggi che potrebbero danneggiare la percezione del pas­sato. «C' est ainsi que le progrès des études historiques est souvent, pour la nationaliti:, un danger. [ ... ] Tout citoyen français doit avoir oublié la Saint-Bartélémy, les massacres du Midi au XIIIe siècle ... » (Renan 1882). In altri casi, invece, loblio può essere inconsapevole e accidentale: è sufficiente distogliere l'attenzione delle giovani generazioni da un focus culturale e spostarlo su un altro per far sì che il primo focus sia sottoposto a dimenticanza, a oblivio.

2. Nani e gi,ganti

Il problema del modo in cui le conoscenze si trasmettono non è un'ubbìa da antropologi in vena di teorie e di malin­conie generazionali. Ha costituito per secoli una preoccu­pazione filosofica di primo piano, a cui sono state dedicate complesse analisi e interpretazioni. Nell'antichità, un po­tente emblema di questa preoccupazione è offerto dal so­gno della biblioteca di Alessandria, in cui ci si proponeva di conservare tutti i libri esistenti per salvarli da ogni rischio di distruzione (Canfora 1987). L'incendio che distrusse la bi~ blioteca fu una sorta di istruttivo disastro: servì a ricordare che nessun luogo poteva custodire senza rischi tutto il sape­re accumulato fino a quel momento. Oggi, lo stesso brivido torna a farsi awertire quando si scopre che quasi tutti i libri prodotti nell'ultimo cinquantennio o poco più sono desti­nati a sfarinarsi in una polvere impalpabile, per la fragilità del materiale con cui sono stati fabbricati.

Platone era molto sensibile a questo tema: nel Fedro dedi­ca acutissime considerazioni alla scrittura e ai suoi effetti per la memoria (ne ho parlato più sopra, al cap. 5); quasi venti secoli dopo, alle prime luci dell'età moderna, Bacone (Francis Bacon) e la tradizione inglese sono ancora molto sensibili al problema della trasmissione del sapere. Bacone

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dedicò a questo problema pagine importanti del De dignita­te et augmentis scientiarum («L'incremento del sapere»):

Le arti intellettuali sono quattro, divise secondo gli scopi cui mirano. Infatti le funzioni dell'uomo sono di scoprire quanto si ricerca o propone; o giudicare ciò che si è scoperto; o conserva­re quel che s'è giudicato; o esprimere quel che si è conservato. [De augmentis, V, l]

La custodia o ritenzione del conoscere avviene attraverso la scrittura o attraverso la memoria. [ ... ] Organi della trasmissio­ne sono il discorso o la scrittura. [De augmentis, V, 5] 7

Bacone suggerì a questo proposito una poderosa metafo­ra che ancora appare nelle nostre discussioni. In quel for­midabile trattato per l' «emendazione dell'intelletto» che è il Novum Organum, mette in lista gli «idoli» che minacciano la conoscenza sana (I, 38 ss.) e che vanno rimossi per recupe­rare il contatto col vero. In questa esplorazione, Bacone è critico verso la tradizione, ma alla fin dei conti non contesta affatto la qualità di una parte di quel che è stato ricevuto né la continuità tra passato e presente. Alla stessa maniera, quando costruisce una lista delle «istanze» ingannevoli (II, 22 e ss.), cioè delle forme spurie o fuorvianti in cui i feno­meni naturali si presentano alla conoscenza, non squalifica del tutto le informazioni provenienti dai sensi. Scientia per additamenta fit, sostenevano i filosofi medievali, alludendo a un modello di trasmissione-con-integrazione del sapere, un processo di piccoli accrescimenti continui, in cui «nulla si getta» di quel che l'enciclopedia passata ci trasmette.

Newton, per parte sua, offrì a questo modello l'immagine dei ~<nani sulle spalle dei giganti», che riprendeva da una

7 Cito dalla traduzione di P. Rossi, in F. Bacone, Opere, Utet, Torino 1975. Il tema rimane vivo nella tradizione dell'empirismo inglese. Vedi, per esempio, quel che ne dice John Locke (nell' Essay Concerning Human Understanding, 1690) a proposito del linguaggio, che presenta come «il grande condotto attraverso cui circola la conoscenza umana».

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tradizione medievale: «Se ho visto più lontano, è perché sta­vo sulle spalle dei Giganti», scrive nella famosa lettera a Hooke del 5 febbraio 1675.8 I nani sono gliultimi arrivati, le nuove generazioni; i giganti sono i vecchi, o meglio ancora «gli antichi», gli «antenati». Per acquisire le proprie cono­scenze, i «nani» devono servirsi di quelle dei «giganti», de­vono montare sulle loro spalle. L'allusione era ancora una volta a una prospettiva conservativa: i nani ereditano il sa­pere dei giganti e lo conservano senza contestarlo, rifiutarlo o distruggerlo.

La metafora di un'ininterrotta catena nella trasmissione di conoscenze è frequente nella tradizione occidentale.9

Blaise Pascal scriveva che «tutta la serie degli uomini, nel corso dei secoli, dev'essere considerata come un medesimo uomo che esista sempre e che impari continuamente».10

Certo, Pascal alludeva all'incremento del sapere scientifico, ma anche per il sapere «comune», «generico», «informale», ben più pericoloso e delicato di quello scientifico, sono sta­ti proposti modelli di accrescimento graduale e continuo, basati sull'idea di un «flusso» unitario che scorre da una ge­nerazione all'altra, tenendole tutte fuse. Nella seconda delle Tesi sul concetto della storia (1940), per esempio, Walter Benja­min scrive che «c'è un'intesa segreta tra le generazioni pas­sate e la nostra. Noi siamo stati attesi sulla terra. A noi, come a ogni generazione che ci ha preceduto, è stata data in dote una debole forza messianica, su cui il passato ha un diritto». 11

In questa prospettiva, le generazioni si aspettano l'una con l'altra in solida successione, e la forza messianica (sia pure «debole») della precedente proietta un suo «diritto» sulla generazione seguente. Ne deriva una gigantesca catena, pri­va di interruzioni e di salti.

8 La storia dell'aforisma newtoniano è ricostruita da Merton (1965). 9 Una magnifica ricostruzione dell'idea della trasmissione delle cono­

scenze scientifiche come catena ininterrotta si trova nel saggio La scienza e l'oblio, in Rossi (1991).

10 CitodaRossi (1991,p.124). 11 In italiano in Benjamin (1962, p. 76). Corsivo nel testo.

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Questo modello somiglia molto, mutatis mutandis, a quello a cui Newton alludeva per quanto concerne la trasmissione di sapere scientifico. Entrambe le immagini (i nani sulle spalle dei giganti, la forza messianica che una generazione esercita sulla successiva) alludono a una continuità nel tra­smettere «qualcosa», sia esso un sapere formalizzato o un in­sieme di attese metafisiche.

Oggi queste immagini sono svuotate di senso. Lo schema newtoniano, per parte sua, dev'essere semplicemente rove­sciato: per i nani, montare sulle spalle dei giganti non basta più, per il semplice motivo che le spalle dei giganti (cioè le conoscenze delle generazioni precedenti) hanno perduto in gran parte la solidità e la sicurezza: sono incerte, poco fi~ date, non sempre credibili. Son troppe le cose nuove che i vecchi non sanno, non sanno fare o non capiscono. Le co­noscenze che essi rappresentano non godono più di garan­zia sociale: sono delegi,ttimate. Oggi sono semmai i giganti che devono montare sulle spalle dei nani, sono i vecchi che de­vono avvalersi del sapere dei giovani, per vedere quel che sta accadendo e soprattutto quel che succederà di qui a poco. E la forza messianica evocata da Bertjamin, che eserciterebbe un «diritto» sulla generazione che segue, è spenta.

Le generazioni attuali di genitori non sembrano avere, al­meno nel mondo occidentale, speciali «diritti» nei confron­ti dei loro figli. Le conoscenze di questi non discendono se non in parte da quelle dei genitori. Una faglia si è aperta tra le due generazioni - a mio parere la più grande frattura che si sia mai creata nella catena della trasmissione delle cono­scenze.

Ma che cos'è che ha tolto legittimità all'idea che il sapere si erediti dalle generazioni precedenti? Suggerisco che i mo­tivi siano stati almeno i seguenti: la nascita di «memorie de­legate», il fenomeno che indico come esopaideia e un radica­le mutamento del ritmo nell'acquisizione delle conoscenze.

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3. Memorie delegate e amnesia digitale

La cultura digitale è contrassegnata dalla disponibilità di giganteschi depositi d'informazioni (le memorie magneti­che), che possono essere interrogate velocemente con pro­cedure opportune.

Sul concetto di «memoria» si è accumulata com'è noto una riflessione millenaria. È ormai scontato, per esempio, rinviare a questo proposito alle considerazioni che Platone dedicò nel Fedro alla nascita della scrittura, nella quale vide genialmente proprio un'eccezionale delega di memoria (ne ho parlato nel cap. 3): con il diffondersi del segno scritto, la memoria umana si svuota, dato che non è più necessario ri­tenere le cose a mente.

La scoperta della scrittura avrà l'effetto di produrre la dimenti­canza nelle anime che l'impareranno, perché, fidandosi della scrittura, queste si abitueranno a ricordare dal di fuori [éksothen] mediante segni estranei, e non dal di dentro [éndothen] e da sé medesimi. (Fedro 275a)

Mediante la scrittura quelle informazioni possono essere depositate in forma stabile su un supporto diverso dalla mente: la memoria si fa dunque esterna. La cultura digitale ha enormemente esaltato questo movente di esternalizza­zione: se c'è bisogno di ricordare qualcosa, c'è pur sempre un computer che lo potrà dire. La memoria è delegata in misura continuamente crescente a un supporto esterno ina­nimato: il moltiplicarsi di oggetti con memoria interna o con possibilità di accesso a memorie esterne enfatizza im­mensamente lo scarico della memoria personale.

Questa deriva ha preso una velocità e un'intensità che non aveva mai avuto. Per citare un esempio scontato, la mia generazione ha imparato a fare a mente la divisione o perfi­no la radice quadrata, ma oggi, con la diffusione universale di strumenti da calcolo, queste abilità vengono imparate per essere subito dopo dimenticate. A fare quel lavoro ci pensa

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qualcun altro. Come conseguenza di questa tecnologia, la memoria oggi è solo in piccola parte nativa e residente: la cultura digitale ha accentuato a dismisura questo processo. Il suo imporsi è quindi accompagnato da un gi,gantesco pro­cesso collettivo di oblio.

Dal punto di vista di Platone, questa sarebbe una sorta di malattia, una specie di «amnesia digitale», un' ars oblivionalis dell'epoca presente. Alcuni tipi d'informazione non entra­no neanche nella nostra mente, vengono direttamente tra­sferiti in una memoria esterna; altre informazioni vengono apprese per esser dimenticate subito dopo. L' oblivio procede per gradi. Si comincia dai dati inerti: i numeri di telefono non vanno più memorizzati; la memoria del telefono li regi­stra per noi. Poi sono colpite le procedure algoritmiche: è difficile trovare un ventenne che sappia fare a mente, o con carta e penna, una divisione in cui dividendo e divisore sia­no estranei alla tavola pitagorica. Successivamente sono col­pite altre aree della conoscenza condivisa, per esempio il sa­pere pratico, quello che consiste nel saper fare (come osser­vavo prima) alcune cose anche senza saperle né descrivere né spiegare.

Infine, e più drammaticamente, l'oblio ha colpito l'idea stessa della storia, del passato, dell'antico, che ritornano per lo più in versioni fantastiche, con gli «effetti speciali» del ci­nema e (in minor misura) della letteratura. Quest'ultima forma· di dimenticanza collettiva è di una categoria speciale; ci tornerò tra un istante.

4. Esopaideia ed endopaideia

Fino a una trentina di anni fa all'incirca, l'enciclopedia delle conoscenze veniva acquisita mediante l'azione combi­nata di tre entità (o «agenzie», come si direbbe nel gergo so­ciologico): la famiglia, il gruppo dei compagni e la scuola (coi suoi equivalenti più o meno formalizzati). Fra i tre era

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stabilita una certa divisione di compiti: famiglia e gruppo dei compagni fornivano la conoscenza «valutativa» ( opinio­ni, giudizi e pregiudizi, atteggiamenti emozionali, educazio­ne sentim.entale e in parte politica, linguaggio), la scuola si occupava invece della conoscenza «razionale» e «scientifi­ca» (di quelli che con un calco dal francese si chiamano or­mai «i saperi», che derivano, come precipitati più o meno autentici, dall'evoluzione de.I sapere della scienza e delle scienze). In alcuni casi, a completare questo modello si ag­giungevano le fonti di alcune «emozioni» particolari, con­nesse all'immaginazione, procurate da figure o da equiva­lenti del «sogno»: la musica, la letteratura o più in generale il narrare (nelle sue varie forme), il cinema e la visione.

Si assumeva insomma che la somma di «valutativo» + «ra­zionale» (con l'occasionale rinforzo dell' «emozionale») co­stituisse la totalità del conoscere. Questo modello poteva vantare secoli di validità.

Non dirò nulla di particolare a proposito della famiglia e del gruppo di pari. Insisterò invece sul cambiamento del ruoio della scuola. La scuola era un recinto chiuso, anzi una «istituzione-recinto» in cui si impartiva un sapere legittimo -cioè dotato di senso, accettato da tutti e riconosciuto come «pregiato», «valido», sicuro e indiscutibile. In questa funzio­ne la scuola non aveva alcun rivale nel mondo esterno.

Questo paradigma - acquisizione del· sapere in un am­biente sicuro e protetto - è quel che chiamo endopaideia. L'intera formazione aveva luogo «dentro»: dentro la scuola, dentro il suo recinto, dentro i suoi spazi. Il sapere della scuola era desiderato e ricercato: anche chi non riusciva ad acquisirlo sapeva e riconosceva che «imparare è meglio». Spettava poi al mondo di «fuori» il compito di adattare a sé il sapere proveniente dal «dentro» in modo da renderlo fun­ziorni.nte e adeguato alla realtà.

Attraverso una serie di slittamenti che sarebbe interessan­te ricostruire, verso la fine degli anni Ottanta del XX secolo il paradigma dell'endopaideia ha perduto ogni mordente e

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pregio. Il mondo esterno ha cominciato a generare crescen­ti masse di conoscenza autonoma, anche riguardante i «sa­peri», cioè il conoscere nella sua forma evoluta e avanzata. Nel contempo, l'endopaideia ha cominciato a perdere rilie­vo. Come risultato, un nuovo paradigma di formazione si è venuto affermando.

Che cosa era accaduto? Non è facile dirlo, perché le idee che abbiamo a proposito di quei cambiamenti sono piutto­sto vaghe: nell'intervallo si era avviata una delle maggiori «rivoluzioni cognitive» che il pianeta abbia conosciuto, un gigantesco processo al quale, malgrado la sua vastità, non siamo ancora riusciti a dare un nome. A prima vista parreb­be trattarsi di una nuova versione di quella che si chiamò «Cultura di massa», dato che concerne non singoli ceti o cou­

ches sociali, ma intere generazioni, sparse in tutto il pianeta. Però, quell'espressione non descrive in modo soddisfacente il nuovo paradigma.

In attesa di termini migliori, di quel paradigma possiamo indicare alcuni tratti, che in esso si mescolano in modo con­fuso: la nascita dei media come fonte di divertimento e di sa­pere, la nascita della «cultura giovanile» e dei connessi con­sumi, la graduale mondializzazione dei fenomeni collettivi, la creazione del mito e della cultura del «viaggio» come for­ma primaria di esperienza collettiva e di massa, l'ideologia del tempo libero non più come riposo ma come «carnevale permanente» (la «Carnevalizzazione» del mondo), la sco­perta del «corpo» e del benessere fisico come valore prima­rio, la cura dell'anima e il bisogno di fedi o di esoterismo, il rifiuto delle forme e delle etichette, la ricerca di esperienze estreme ... Questi ingredienti costituiscono una forma di Bildung del tutto nuova, in cui gli attori principali sono «i giovani» (chi giovane non è, è tenuto a mimare comporta­menti giovanili), la natura, il corpo, l'anima, e tanti altri che stentano ancora a trovare una denominazione.12

12 Ho esaminato alcuni di questi fattori in una prospettiva più specifi­camente politica in Simone (2008).

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Uso il termine esopaideia per indicare il nuovo paradig­ma. In esso, l'acquisizione del sapere (quello valutativo non meno di quello razionale) non è più un processo sistemati­co, disciplinato e metodico e non ha più bisogno di svol­gersi nella scuola. Questo tipo di paideia, anzi, non ha più nulla a che fare con la scuola come istituzione-recinto; la considera come il suo contrario, se non come il suo avver­sario. Le cose che si imparano «fuori» sono più divertenti, semplici e ricche di vita di quelle che si imparano «den­tro». L'acquisizione del sapere deve sbarazzarsi del fattore di «pena», di «penitenza» e di «noia» che lo ha contrasse­gnato per secoli: può ora nutrirsi anche di frammenti sle­gati. Da qualunque tipo di esperienza (compresa la droga) si possono trarre «crediti» da sommare al proprio «patri­monio culturale».

Via via che I' esopaideia si espande, I' endopaideia arretra e rivela la propria natura: è un castello separato dal mondo esterno, silenzioso e astratto. La vitalità è altrove, è fuori, e lì bisogna ricercarla. A questo punto, nell'ambito dell'esopai­deia interi settori del sapere sono stati riclassificati e trattati come poco rilevanti o irrilevanti. Alla fine del processo, so­no stati sottoposti a stigma o a dimenticanza.

Tra le prime vittime dell'esopaideia t'è tutto ciò che sem­bra «antico» (nei vari sensi della parola), che sembra aver cessato di esser pregiato. Da qui lo spettacolare fenomeno che caratterizza il mondo giovanile di tutto il mondo occi­dentale a cavallo dei due secoli: la svalutazione del passato e della storia, l'impressionante contrapposizione tra quel che è «nuovo» e quel che è «vecchio». Questa svalutazione è favorita poderosamente da due fattori correlati: la diffu­sione capillare, che raggiunge perfino le frange estreme della società, di una sorta di inesorabile «americanismo» volgare e l'imporsi di modelli di sapere genericamente «tecnici» e «tecnologici», per cui è molto più importante imparare cose che «servono» che cose che «aiutano a capi­re». Il sapere che «serve» fa capo al punto di vista (o al pa-

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radigma epistemologico) che Pop per ha chiamato strumen­talistico.13

A causa del primo fattore, tutto ciò che sta alle nostre spalle conta meno di quel che sta dinanzi, del futuro, del «sogno», salvo che quel passato non venga rivissuto, appun­to, sotto forma di sogno o di immaginazione del futuro. Il culto, o anche solo la coltivazione, del passato è un'attività adatta a gente fuori moda o addirittura out.

A causa del secondo fattore, conta solo ciò che. funziona (non quel che «pone problemi» o «che si guasta») e impor­ta poco chiedersi come le cose sono cominciate; il passato è una serie di «errori» che devono essere accantonati e di­menticati, salvo ripescarli come pretesti di entertainment, per esempio per sfruttarli in un parco tematico o in un film con una quota di effetti speciali. Questo schema è tipico della mentalità tecnica: come nella cultura dei tecnici il passato va cancellato a ogni nuovo progresso,14 così nell'esopaideia quel che conta è l'esperienza nel suo farsi, nella sua flagran­za esplosiva, non nel suo depositarsi storico.

Il diffondersi di simili quadri mentali banalizza, fino a di­struggerla, l'idea di progresso. In questa cornice il progres­so non è il risultato di un percorso pericoloso, costellato di miriadi di tentativi falliti e di errori, ma è un'avanzata natu­rale, inevitabile e quasi automatica, che crea in quanti riten­gono di doverne benefiçiare quasi la percezione di un dirit­to: il progresso «ci tocca», non è possibile privarcene!15 Uno scientismo ingenuo spinge quindi a ritenere che deve esi­stere una cura per qualunque malattia, che ogni catastrofe naturale deve essere controllata (o magari riparata a spese dello stato), che l'inquinamento del pianeta sarà eliminato in qualche modo e in qualche momento, che la salute può essere salvaguardata da qualunque rischio, che la qualità

13 Vedi Popper ( 1956). 14 Cfr. Rossi (1991, pp. 160-161). 15 Del carattere «ineluttabile» del progresso e delle sue conseguenze

discuto in Simone (2011).

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della vita non può che migliorare ... In questo quadro, lana­tura è amica (e serve per le vacanze), il futuro è garantito e il mondo è solo un gigantesco catalogo di destinazioni di va­canze.

Sono screditati il fattore rischioso della vita, l'idea del pro­gresso come costruzione pericolosa e artificiale, sempre esposta al rischio di decadere. Hannah Arendt ha dato espressione, in tutt'altro contesto, a questo pensiero:

L'alto concetto del progresso umano è stato privato del suo senso storico e degradato a mero fatto naturale, sicché il figlio è sempre migliore e più saggio del padre e il nipote più libero di pregiudizi del nonno. [ ... ] Alla luce di simili sviluppi, dimen­ticare è diventato un dovere sacro, la mancanza di esperiénza un privi­legio e l'ignoranza una garanzia di successo. 16

A endopaideia ed esopaideia si collegano due paradigmi di trasmissione delle conoscenz.e. Nel primo caso, il sapere è garantito, impartito e controllato dai «Vecchi»: sono loro che lo creano, lo somministrano, correggono possibili de­viazioni. In ogni caso la fonte di questa o quella conoscenza è perfettamente identificabile e certificabile: con un termi­ne merceologico, potremmo dire che nell'endopaideia le conoscenze sono più o meno chiaramente «tracciabili». Nel-1' esopaideia le cose sono diverse: le fonti del sapere non so­no più costituite dai «Vecchi», sono spontanee, incontrolla­bili e spesso a diffusione planetaria. Le «centrali» in cui si formano le nuove fonti del sapere si sono moltiplicate a di­smisura e nessuno saprebbe localizzarle. Nessuno sa da dove vengano le conoscenze, a che cosa si possano ricondurre, chi le ha inventate, di che valore siano dotate. Non se ne dà alcuna certificazione, la loro tracciabilità è bassissima o nul­la. (Ho discusso di questi temi nel cap. 6.)

16 H. Arendt, La morale della storia (1946) in Arendt (1993, p. 119), cor­sivo mio.

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5. Il ritmo

Un altro parametro cruciale della trasmissione del sapere è il ritmo. Prima della Terza Fase l'acquisizione delle cono­scenze, di qualsivoglia tipo, si svolgeva (come ho accennato sopra) all'insegna della lentezza, della ripetizione e, perfi­no, della pena e della noia. In alcune culture tradizionali il fattore di lentezza e ripetizione è perfino esaltato: nelle scuole coraniche e, in minor misura, in quelle talmudiche, l'apprendimento dei testi sacri si ottiene con innumerevoli letture e ripetizioni accompagnate da oscillazioni del corpo che ripetono la ritmica delle parole corrispondenti. Movi­menti ritmici del corpo accompagnano del resto la preghie­ra pubblica in svariate religioni: essi riproducono la ripeti­zione con cui il testo religioso è stato imparato. Il risultato è la memorizzazione meccanica di testi, di cui non è sempre indispensabile sapere che cosa vogliano dire.

Non c'è bisogno, però, di spingersi fino alle scuole reli­giose per trovare applicazioni di questo modello. Già lo ave­va identificato Platone (Lettera vii, 340d-e) parlando in tono sprezzante di quelli (a lui stavano a cuore gli esperti di filo­sofia) che hanno solo un'infarinatura di sapere:

si comportano come chi è rimasto scottato dal sole: vedendo quante sono le cose da imparare e quanta la fatica, e come sia necessaria una condotta di vita severa e regolata, giudicano l'impegno difficile, anzi impossibile, e non si sentono in grado di affrontarlo.

In realtà, l'acquisizione del sapere richiedeva fatica, fre­quenti ripetizioni, consultazione di fonti (tra queste, prima­rie quelle offerte da libri), ascolto degli anziani, consulta­zione degli esperti. Del resto, in una varietà di autobiografie e memorie, quando si arriva a descrivere la propria forma­zione, si riscontra che la conoscenza evoluta si acquisiva con procedure che chiamavano in causa la lentezza, l'indugio, l'attenzione, la ripetizione, la pazienza.

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Come campione di questo metodo, offro qui due veloci autodescrizioni di processi di formazione. La prima si riferi­sce a una famigli<l:. ebraica dei primi del Novecento, poliglot­ta e cosmopolita. E la famiglia di Elias Canetti: padre e madre di cultura plurilingue, molto attenti a seguire lo sviluppo del figlio.17 Dato questo sfondo culturale, prende spicco la va­rietà delle lingue:

Delle lingue si discuteva spesso, solo nella nostra città si parla­vano sette o otto lingue diverse e tutti capivano qualcosa di cia­scuna. [ ... ] Ognuno enumerava le lingue che conosceva: era importante padroneggiarne parecchie, con la conoscenza delle lingue si poteva salvare la propria esistenza e anche quella al­trui. (p. 45)

Le lingue si applicavano a un ventaglio di letture:

Quando [la mamma] si avvide che i libri di viaggio mi allonta­navano da ogni altro interesse, tornò alla lettera.tura e, sia per rendermela più appetibile, sia perché non leggessi semplice­mente cose che non capivo, cominciò lei stessa a leggere con me Schiller in tedesco e Shakespeare in inglese. (p. 114)

Leggere non è una mera pratica scolastica; ma è uno stru­mento per accendere l'interesse per le passioni e l'anima:

quanto più reagivo con intelligenza, quante più cose trovavo da dire, tanto più vive si risvegliavano in lei le emozioni di un tem­po. Non appena cominciava a parlare di una delle grandi pas­sioni ch'erano diventate il contenuto più profondo della sua esistenza, sapevo che saremmo andati avanti ancora a lungo. (ibidem)

Troviamo nuovi indizi in un'altra autobiografia di qual­che decennio più tardi: George Steiner, al quale già ho fatto

17 Canetti descrive la sua formazione nel primo volume della sua auto­biografia (Canetti (1977] 1988).

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riferiment~ sopra, si descrive in Errata. 18 Anche qui la corni­ce è la società colta ebraica cosmopolita: più lingue a dispo­sizione, più tradizioni culturali come humus, e sullo sfondo le voci del padre e della madre che leggono insieme al figlio e articolano con lui - ancora una volta - il linguaggio delle emozioni:

Anche se non mi accorgevo di una pianificazione, le mie lettu­re venivano accuratamente equilibrate tra il francese, l'inglese e il tedesco. La mia educazione fu interamente trilingue, su uno sfondo sempre poliglotta. La mia raggiante mamma soleva cominciare una parola in una lingua e finirla in un'altra. [ ... ] Un profugo filologo mi insegnava il greco e il latino. Emanava un odore di sapone concentrato e di tristezza. (p. 18)

Nel caso di Steiner, la voce che accompagna la sua cresci­ta è quella del padre, che aveva disegnato un progetto per lo sviluppo della cultura del figlio.

Non potevo ancora concepire, meno ancora enunciare, il cre­do sottostante allo scopo di mio padre. Accettavo con entusia­smo incondizionato l'idea che lo studio e la fame di compren­sione fossero gli ideali più naturali e decisivi. Consapevolmente o meno, l'ironista scettico [cioè il padre] aveva stabilito per il fi­glio un Talmud secolare. Dovevo imparare come leggere, come interiorizzare la parola e il commento, nella speranza, sia pure arrischiata, di vedermi un giorno aggiungere a quel commen­to, cioè alla sopravvivenza del testo, una nuova intuizione illu­minante. (pp. 18-19)

Il «Talmud secolare» che il padre di Steiner aveva silen­ziosamente disegnato per lui non contiene solo testi. Con­tiene anche commenti: il testo va capito con l'aiuto di «an­notazioni mentali», quasi si trattasse di una scrittura religio­sa. Il lavoro è completato da un «profugo filologo» che inse­gna latino e greco e odora di tristezza ...

18 Cito dalla trad. italiana pubblicata da Garzanti, Milano 2000.

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Bastano i campioni di questa brevissima galleria per dare il senso dell'immensa distanza di paradigma globale tra noi e quelle figure: ripetizioni di letture, testi classici, Shake­speare accostato in inglese, conoscenza precoce del Talmud secolare, genitori che leggono insieme ai figli nel silenzio della casa! Sullo sfondo, non menzionati espressamente, al­tri fattori: molto tempo a disposizione, pazienza, attenzione, precisione, il continuo rinvio dalla conoscenza alle emozio­ni. .. Certo, si tratta di famiglie ebraiche, dunque cultural­mente speciali, con le quali è difficile paragonarsi. Ma cia­scuno di quelli che sono nati e si sono formati in piena Se­conda Fase, può riconoscere in quelle descrizioni qualche frammento della propria vita.

Queste descrizioni evocano tratti che oggi, a meno di un secolo di distanza, sono del tutto impensabili. Tratti di puris­sima archeologia, e non tanto per il contenuto di quel che si imparava, quanto per il ritmo dell'imparare, gli oggetti a cui si applicava, l'ambiente in cui aveva luogo. Tutti i processi di formazione descritti fanno appello infatti a un contesto che oggi è sempre più delegittimato: il silenzio, la solitudine, la lentezza, l'indugio. Come il paradigma tradizionale si basava sulla continuità del tempo e la pazienza, quella attuale si ba­sa infatti sull'interruzione e l'impazienza.19

La ritmica della cultura digitale è rappresentata alla per­fezione dal computer e in generale dagli apparati e gadget della mediasfera: macchin-e la cui intelligenza consiste nel conservare, classificare, elaborare e ritrovare.- in modo ve­loce. La friendliness di un qualsivoglia sistema digitale dipen­de infatti in larga misura dalla sua rapidità: l'attesa di minu­ti, o peggio di ore o giorni, che è stata indispensabile per se­coli per acquisire qualsivoglia informazione, sarebbe oggi insopportabile. Il fattore impazienza si è trasferito dal rappor­to con il computer all'intero sistema dei rapporti delle per­sone. Si è creato insomma, nel sistema di aspettazione più

19 Prendo queste espressioni da Ferreiro (2001, p. 54). Aliti cenni a questi due caratteri nel «Prologo in treno», all'inizio di questo libro.

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comune, un gradiente universale di velocità, che ha portato un effetto di accelerazione in un'enorme varietà di funzioni e di attività, anche al di fuori del mondo digitale.

In particolare, è diventato insopportabile il fatto di dover aspettare per imparare, di qualsivoglia cosa si tratti. Questo fenomeno ha avuto vistosi riflessi anche sulla formazione dell'enciclopedia. Tutto quel che, nell'imparare, si associa alla lentezza (la richiede, la evoca, la pretende, la impone) ha perso m?rdente e appare estenuato, poco interessante, senza vita. E per questo che interi settori del sapere tradi­zionale di colpo sono diventati irrilevanti. Per capire davve­ro qualcosa del passato è indispensabile padroneggiare com­plicate catene di conoscenze previé, quindi occorre tempo. So­no più interessanti le conoscenze che non hanno radici profonde, che non comportano conoscenze previe, tanto meno sistematiche. In ogni caso, se conoscenze siffatte do­vessero mai installarsi nella mente, l' ars oblivionalis dell'eso­paideia ha la soluzione: «dimenticare immediatamente!».

Quest'atteggiamento ha effetti sulla paideia ingenua che si è diffusa sul versante avanzato del mondo e ha cre~to una serie di opposizioni che intervengono volentieri nelle valu­tazioni e nella creazione delle conoscenze: lento contro ve­loce, complicato contro semplificato, articolato contro ele­mentare, noioso contro divertente, profondo contro bril­lante. La lentezza e la pena che sono state associate per mil­lenni all'apprendimento complesso sono sostituite dalla ra­pidità e dal fun.

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VERO, FALSO E FASULLO

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8. IL FALSO CHE AVANZA

1. La pantera

«Un giorno del I secolo a.C., corse per Roma la notizia che Pasitele, il grande scultore [ ... ], era stato divorato da una pantera che gli serviva da modello.» Chi racconta que­sta storia1 è ]osé Ortega y Gasset in una pagina delle Medita­ciones del Qui.Jote2 in cui discute del rapporto fra sensazione e arte. Pasitele, spiega Ortega y Gasset, «fu il primo martire» del «sensualismo» nella storia della rappresentazione. Oggi non esistono più martiri di questo tipo: nessun artista po­trebbe morire divorato dal suo modello. E tuttavia, la possi­bilità di essere divorati dal proprio modello si è presentata (anche se come possibilità estrema) agli artisti di ogni tem­po. Durante i secoli, a partire dall'epoca dei pittori delle ca­verne di Altamira, che dipingevano bisonti osservandoli (presumibilmente) a distanza, fino all'arte degli inizi del se­colo XX, la pantera - cioè la realtà - è stata lì, di fronte al­l'artista che si adopera per cercare di plasmarla, rappresen-tarla e insieme tenerla a freno. ·

Il carattere fondamentale di questa linea di rappresenta­zione visiva è stata effettivamente la presenza, preliminare e fi­sica, di un oggetto. Pertanto, per la rappresentazione visiva, vale la massima in principio fu l'oggetto. E per «oggetto» si de­ve intendere qualcosa di ben specifico: non il contenuto del­la coscienza o dell'immaginazione, non la rappresentazione

1 Che ha fonti classiche. 2 Cito da Meditaciones del Quijote (1914), in Ortega y Gasset (2000, p. 50

ss.).

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di cose illusorie o visionarie, bensì l'oggetto duro, tangibile, solido, concreto; la «cosa» alla quale possiamo trovarci di fronte e contro la quale possiamo andare a urtare.

Oggi nessuna pantera mette in pericolo la vita di chi pro­duce rappresentazioni. Forse solo nel cinema o nel teatro può accadere che l'attore divori il suo regista. Nelle altre forme di rappresentazione visiva il rischio di morire per ma­no (o per bocca) del modello è assolutamente nullo. Infatti, di fronte all'artista non c'è più nessun oggetto da rappre­sentare, non ci sono oggetti neppure a distanza (come nel caso dei bisonti di Altamira); l'oggetto si è progressivamen­te smaterializzato fino a dissolversi.

2. Codici «autografi» e «allogra.fi»

Per argomentare quest'idea mi servirò di una distinzione concettuale: quella fra arti «allografe» e arti «autografe», proposta da Nelson Goodman.3 Per comodità, tradurrò que­sta distinzione in termini semiotici, opponendo codici «au­tografi» e codici .«allografi». Così, dunque, un codice è allo­grafo quando i suoi segni rappresentano qualcosa di diverso da sé stessi; è autografo quando i suoi segni rappresentano solamente (o principalmente) sé stessi.

Su questa base si potrebbe costruire una nuova classifica­zione dei codici (e delle arti), una specie di nuovo Lao­coonte, sulla scia di quello di Lessing, che ho già rkordato nel cap. 1. Invece, potrò solo fare qualche nota essenzial­mente classificatoria. La letteratura, per esempio, essendo costituita essenzialmente da scrittura, è allografa: ciò che ci interessa quando leggiamo un testo non è la grafia .fisica del­lo scrittore, il modo in cui la sua biro o la sua penna o la sua stampante hanno prodotto il segno grafico, ma è quello che lo scrittore racconta, cioè, il senso (immateriale, invisibile) del suo discorso. Viceversa, la pittura è intrinsecamente au-

3 In Goodman (1976).

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tografa: ciò che cerchiamo è il tratto concreto del colore e la Gestalt che è rimasta su quello specifico supporto di quel de­terminato artista. Certamente, di fronte a certi tipi di arte ci interessa anche ciò che quel tratto di colore rappresenta (il «tema» della pittura), ma quel tema lo vogliamo associato indissolubilmente a quel tratto.

Tra le due categorie di codici c'è una differenza cruciale dal punto di vista materiale. I codici allografi esigono la ri­produzione, anzi di più: le opere create con questi codici possono esser diffuse e conosciute solo se sono riprodotte, altrimenti non esistono. Per questo, nel leggere un romanzo non pretendiamo di avère sott'occhio il manoscritto origi­nale ma ci accontentiamo di una sua messa a stampa. Sevo­glio leggere un racconto di Balzac, per esempio, non mi sforzerò di ottenere il manoscritto autografo dell'autore (l' «originale»), ma prenderò una qualsiasi copia stampata o, anche, fotocopiata(= riprodotta) di quel testo. Per il lettore comune (ma non per il filologo o il collezionista) l'opera letteraria non ha un originale fisico, ha solo riproduzioni di un originale che, come quello del Corano, forse si conserva nel cielo.

I codici autografi, al contrario, escludono la riproduzione e, in ogni caso, impongono di trattare le riproduzioni come prodotti derivati e secondari, impoveriti e degradati: se vo­gliamo vedere la Dama dall'ermellino di Leonardo non ciac­contentiamo di una riproduzione, ma vogliamo l'unicum co­stituito dall'opera stessa. Se vogliamo comprare una tela di Caravaggio o di Velazquez (supponendo che possiamo per­metterci una cosa simile), non ci accontenteremo di una fo­tografia o di un facsimile (cioè, di una riproduzione), ma pretenderemo l' origi,nal,e, cioè, la tela che porta il colore che l'artista ci ha messo, la stessa tela che è uscita dalle sue mani. L'opera di pittura, infatti, ha un origi,nal,e (e uno solo), ri­spetto al quale si misurano tutte le copie.

In altri termini, alcuni prodotti vivono solo negli origina­li, altri solo nelle riproduzioni (o magari nelle copie). Wal-

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ter Benjamin aveva ragione quando osservò genialmente che nell'epoca moderna il proprio dell'opera d'arte è la sua riproducibilità.4 I grandi collezionisti del passato spendeva­no fortune per procurarsi un catalogo illustrato della loro pinacoteca, che servisse per averne un ricordo preciso. L'in­carico si dava a buoni incisori e non era affatto insignifican­te: un simile lavoro fu richiesto persino a Rubens! Oggi, al contrario, basta un fotografo per ottenere lo stesso risultato. Ma il catalogo delle opere non è la pinacoteca. Possiamo usare le riproduzioni per ricordare (rimemorare, commemorare) l'opera originale o per prepararci a riconoscerla quando la vedremo faccia a faccia; ma non possiamo sostituire la visio­ne del catalogo del museo alla visione del museo. Le due co­se non si somigliano in nulla.

Questo tipo di esigenza non concerne solo il compratore dell'opera, ma anche l'osservatore: nessun visitatore di mu­sei si accontenterebbe di veder ricomposta in una collezione una serie di fotografie delle opere di pittura che lo interes­sano. Il visitatore sa che, in condizioni normali, l'opera d'ar­te.deve essere presente e non rappresentata; di più, e~ige quella presenza, e proprio quella vera presenza (secondo la bella espressione di George Steiner) .5 La riproducibilità tecnica crea insomma tutt'al più cataloghi (o loro equivalenti) ma non crea originali. Non è casuale che la fotografia6 sia consi­derata come l'emblema stesso della riproducibilità tecnica.

L'allografia e l'autografia hanno, ovviamente, diversi gra­di. Il cinema, per esempio, è sicuramente allografico: non pretendiamo di vedere proprio la copia della pellicola uscita dalle mani del montatore; ci accontentiamo di uµa qualsiasi copia della pellicola. ·Quella copia non è una riproduzione

4 Alludo ovviamente al suo saggio sull'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica (Benjamin 1936).

5 Alludo al titolo di Steiner (1989). 6 Della fotografia non si può neppure dire che produca originali, visto

che il suo vero originale è stato. per un secolo il negativo. La fotografia di­gitale cambia le carte in tavola anche in questo campo: il negativo manca, sicché propriamente l'originale non esiste semplicemente più.

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della pellicola stessa, ma è proprio una sua copia (cioè, una riproduzione con lo stesso supporto fisico). Però ciò che pretendiamo è che la pellicola contenga suoni e immagini esattamente identici a quelli dell'originale.

Anche la scrittura è allografa, ma qui le cose non stanno nello stesso modo: non ci interessa, infatti, che El Quijote sia stampato in caratteri grandi o piccoli, in Garamond o in Century, in un volume in 16° o in 32°. Quel che vogliamo è che il testo sia completo e che sia esattamente identico a quello che scrisse Cervantes; ma non fisicamente identico, bensì identico nella realtà linguistica delle parole che lo compongono. Pertanto, la referenza fisica deve essere ri­spettata nel cinema, può essere ignorata nella scrittura. Il ci~ nema è, infatti, meno allografico della scrittura.

Un altro caso interessante è quello della scultura. Se la scultura è fatta di un materiale irripetibile (marmo, legno, avorio, gesso ecc.), pretendiamo di vedere l'originale così come è uscito dalle mani dell'artista. Solo in casi estremi, e specialmente in alcune tradizioni (come quella greco-roma­na), si accetta una copia (o anche una molteplicità di copie) dell'originale. Ma ciò succede solo quando l'originale si è perso; se così non è, vogliamo loriginale. Con la scultura in bronzo, riproducibile illimitatamente per sua natura, la di­stinzione tra originale e copia sparisce del tutto: la statua di bronzo è allografa per un verso (rappresenta l'originale) e autografa per un altro (rappresenta sé stessa).

La musica offre un caso ancora più complesso. Quel che il compositore (cioè il creatore del te'sto musicale) produce non sono suoni ma scritture e notazioni grafiche. Però all'a­scoltatore (salvo non si tratti di un musicologo o di Un filo­logo) quelle notazioni non interessano. E non gli interessa­no, semplicemente, perché in realtà quelle notazioni musi­cali ... non suonano! Perché ci sia suono, infatti, è necessario che un interprete, leggendo ed eseguendo quelle notazioni, generalmente riprodotte a stampa, emetta sequenze di suo­ni udibili e che questi suoni abbiano una determinata rela-

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zione con la notazione stessa. Nella musica si ha quindi una doppia trasposizione allograficà: l'interprete non legge la notazione autografa dell'autore, ma -.,ma sua riproduzione; le proprietà fisiche della riproduzione sono per lui irrile­vanti: nella pratica l'interprete è un lettore di simboli (così come il lettore di testi scritti), da quei simboli deve ricavare suoni. Inoltre, i suoni che estrae da quella notazione posso­no essere prodotti (da lui o da altri) e riprodotti infinite vol­te e in infinite versioni. In senso proprio, la musica si basa su un originale (il testo musicale scritto) che non interessa che a pochissime persone. La sua allografia è quindi completa e totale.

Nello stesso modo, le arti visive hanno vari gradi di auto­grafia. È vero che la pittura e la scultura sono autografe, ma per secoli hanno rappresentato due cose distinte: (a) sé stes­se, (b) un'altra cosa, qualcosa di esterno all'opera, che, pur avendo varie denominazioni («soggetto», «modello», «te­ma» dell'opera), possiede una proprietà fondamentale: non sta nell'opera ma sta nel mondo esterno. Per questo secondo aspetto, pittura e scultura si avvicinano al cinema: tutti e tre rappresentano oggetti, sebbene il cinema sia allografo e la pittura e la scultura siano autografe.

3. Gradi di «realtà»

In ogni caso, alcuni dei codici allografi (come ii cinema e tutti i codici video e audio), come di quelli autografi (la pit­tura e la scultura e, in generale, quelle che tradizionalmen- ' te sono chiamate «le arti visive», con l'esclusione ovvia del­l'architettura), hanno la specifica proprietà di rappresentare. Cercano di «imitare» (nel senso della mimesis degli antichi) e di mostrare ali' osservatore oggetti esterni, cioè cercano di formare analoghi della pantera di Pasitele. Non importa se questi oggetti sono lì davvero o sono solo rappresentazioni prese dalla mente dell'autore. La musica, per esempio, non

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rappresenta oggetti visivi, bensì evoca emozioni e associa­zioni partendo da rappresentazioni interne dell'autore. Per­tanto anche la musica si basa su «oggetti».

Naturalmente anche qui c'è una differenza importante. Per rappresentare una pantera, il pittore non ha bisogno di avere davanti a sé una pantera in carne e ossa, che ruggisca, graffi e salti; può avere anche solo la fotografia di una pan­tera o, semplicemente, un'immagine mentale. Nessuno pen­sa, per esempio, che il Doganiere Rousseau (gran pittore di pantere e leoni) abbia davvero visto da qualche parte le fie­re che ha dipinto: sebbene a noi sembrino davvero pantere, non pensiamo di fatto che siano pantere vere. Al contrario, un regista che voglia rappresentare una pantera ha bisogno di una pantera vera, ha bisogno di una «cosa» che si chiama pantera da rappresentare filmandola.

Possiamo dunque distinguere i seguenti «gradi di realtà» in ciò che le arti mostrano allo spettatore: (a) l'oggetto rea­le (la pantera); ( b) la riproduzione dell'oggetto (la statua di una pantera); (e) la copia della riproduzione (la copia di quella statua); (d) l'immagine mentale dell'oggetto o della sua riproduzione (la rappresentazione interna); e infine (e) la rappresentazione dell'oggetto. In questa lista, l'elemento che precede ha sempre un grado più alto di «realtà» di quel­lo che segue. In altri termini, e per riprendere di nuovo la storia di Pasitele, la pantera (oggetto reale) può divorare lo scultore, ma la statua della pantera non può, così come (se­condo la famosa osservazione dei logici) la parola «cane» non può mordere. In altri termini, il grado di «realtà» si ri­duce via via che ci spostiamo dalla parte superiore verso la parte inferiore della scala.

Nonostante il suo aspetto naif, la scala nasconde una gran complessità, tanto che non abbiamo neppure termin.i vera­mente precisi per indicare ognuno dei suoi scalini. Propon­go per esempio di distinguere terminologicamente ( ordi­nandoli per grado di realtà) l'oggetto, la sua riproduzione, la copia della riproduzione, l'immagine mentale e la rap-

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presentazione. Ma nel linguaggio comune, e anche nel lin­guaggio tecnico della semiotica e della linguistica, non si fa alcuna distinzione concreta tra quelle entità.

Si pensi, inoltre, all'ambiguità intrinseca della parola rea­le. Nell'uso comune, questo termine si può riferire indiffe­rentemente all'oggetto vero (la pantera di Pasitele, primo gradino della scala) quanto alla sua riproduzione (alla co­pia). In effetti, se fossimo appena rigorosi, dovremmo chia­mare reale solo la pantera, quella che è pericolosa e viva, non la sua rappresentazione né la sua riproduzione.

Non- mi sento in grado di sviluppare in dettaglio la di­scussione su questi temi nell'ambito della storia dell'arte. Ma mi pare evidente che in buona parte della sua storia l'arte occidentale ha preteso di offrire rappresentazioni di og­getti reali. Con ciò non voglio dire che la rappresentazione artistica sia necessariamente tutta realistica: cioè, non deve rappresentare l'oggetto reale in modo necessariamente ico­nico. L'oggetto reale può anche esser rappresentato in mo­do evocativo, visionario, illusorio, simbolico o allegorico, e può succedere che vedendo una pantera di Rousseau (o un leone di Rubens o di Tiziano) non riusciamo a capire cosa fa o cosa significa (cioè, a capire il suo «senso»); ma si trat­ta pur sempre di pantere e leoni. Insomma, l'oggetto reale è sempre presente come punto di partenza della rappre­sentazione.

Ora, in un determinato momento della storia della rap­presentazione in Occidente, l'importanza della pantera co­me oggetto reale si è indebolita. A ciò ha contribuito una lunga serie di innovazioni, stilistiche ed espressive, di inven­zioni tecnologiche e mediatiche e di trasformazioni del gu­sto. Fra queste includo, senza alcuna pretesa di ordine: la nascita dell'arte astratta nelle sue diverse manifestazioni; l'e­splosione della pubblicità e della communication nell'enor­me varietà delle sue forme; la nascita dei cartoni animati e degli effetti speciali nel cinema e nel video; la diffusione dei fumetti; e, finalmente, la mediasf~ra che, per ora, conclude

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il gigantesco processo di smaterializzazione della pantera aprendo una nuova fase.

Il tratto specifico di questi fenomeni consiste in ciò: essi non servono solo per simulare la forma di oggetti che non ci sono, ma anche per mostrare come reali oggetti inesistenti, anzi og­getti che propriamente non possono esistere. In altri termini, per prendere le distanze dal reale. In un certo senso, quindi, l'ar­te occidentale ha percorso, a partire dal xx secolo, un cam­mino di graduale ma inarrestabile oblio della pantera di Pa­sitele. Dopo la crisi della figurazione, in effetti, nessun pit­tore può essere divorato dalle sue macchie di colore e nes­suno scultore può essere schiacciato dall'oggetto di un mo­bile di Calder (tutt'al più possono entrambi essere schiaccia­ti dalla tela o dal mobile stesso). Michelangelo, per esempio, si rovinò la vista per la pittura che gli cadeva negli occhi mentre dipingeva supino la volta della Sistina. Ma qui, or­mai, a divorare l'artista non è il modello, ma il materiale della rappresentazione; tuttavia, evidentemente questo fatto non è di interesse semiotico. Il motivo è semplice: queste opere ormai non rappresentano un oggetto reale, si limita­no invece a simularlo.

Risulta sorprendente che la scienza abbia percorso un cammino opposto rispetto a quello delle arti. Alle origini si occupò di rappresentazioni immaginarie o perfino visiona­rie dell'oggetto reale, e solo gradualmente, nel corso della sua evoluzione, si è venuta spostando verso l'osservazione dell'oggetto reale. In questo processo, che è durato non meno di duemilacinquecento anni, la scienza ha dovuto an­zitutto accettare il principio stesso che potesse esistere un oggetto reale, con sue proprietà indipendenti dall'osserva­tore e indifferenti alla sua presenza. Di fatto, la rivoluziona­ria trasformazione che ebbe luogo nella storia della scienza all'altezza di Bacon e di Galileo consiste proprio in questo: la scienza comincia a occuparsi di oggetti reali, di «espe­rienze ·sensate» (così diceva Galileo) e non di rappresenta­zioni o visioni.

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Le traiettorie della scienza e dell'arte si sono sviluppate dunque in direzioni opposte: le arti sono partite dall'ogget­to reale per poi abbandonarlo gradualmente; la conoscenza scientifica è partita dalla rappresentazione di un-oggetto im­maginario (cioè una entità con un basso grado di realtà) per avvicinarsi all'oggetto reale. Se ci riferiamo alla scala che ho proposto prima, l'arte è andata dall'alto in basso; la scienza dal basso in alto.

Ora, quanto alle rappresentazioni visive e uditive, la fase digitale è la fase culminante di un processo di dissoluzione dell'oggetto reale che chiamo derealizzazione.

4. Il digi,tale

Dal punto di vista di un osservatore naif, il computer ( co­me tutti gli oggetti che ne sono derivati, dal telefonino fino al tablet) è capace di due cose: far vedere tutto ciò che si può vedere (finora solo su una superficie piana) e far udire tut­to ciò che si può udire. Infatti, è per il momento ùn appara­to bisensoriale, dato che si dirige solo alla vista e all'udito.

In questa sua capacità, può essere visto come uno straor­dinario potenziamento dell'esperienza, dato che permette l'accesso a percezioni (visive e auditive) e conoscenze che non saremmo mai in condizioni di raggiungere in altro mo­do. Con un computer possiamo effettivamente vedere e ascoltare (e anche manipolare) un'enorme quantità di cose che non sono alla nostra portata, o che non potremmo per­fino mai trovarci davanti veramente, e che quindi non po­tremmo, senza di esso, né vedere né ascoltare.

Ma - e questa è la cosa più importante - le cose che il computer fa vedere e ascoltare non sono rappresentazioni di cose reali: non sono la pantera e non hanno necessità di esserlo. E tantomeno sono la rappr~sentazione di una pan­tera reale. Se dawero vediamo una pantera sullo schermo di un computer, non è detto (anzi, è improbabile) che essa de-

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rivi dalla fotografia di una vera pantera. Inoltre, i movimen­ti che la pantera fa sullo schermo, i suoni che emette, l'am­biente in cui si muove possono essere perfettamente - e ge­neralmente sono - elaborazioni elettroniche artificiali. In definitiva, la pantera elettronica può essere del tutto inesi­stente e può fare sullo schermo cose che la pantera reale non potrebbe assolutamente fare.

Ciò significa che il c_omputer non si limita a rappresenta­re oggetti reali (il primo gradino della scala che ho propo­sto sopra), bensì crea oggetti (visivi e auditivi) sia manipolan­do rappresentazioni di oggetti reali sia creando rappresen~ tazioni (che sembrano vere) di oggetti inesistenti, cioè rap­presentazioni propriamente false. È evidente che uso qui il termine falso in senso stretto: però non c'è dubbio che an­che in questo senso il termine conserva una certa parente­la con la sua accezione normale, per la quale il falso costi­tuisce il punto di partenza dell'inganno. Di ciò parlerò più avanti.

Dunque il computer offre un succedaneo (un Ersatz, di­cono i filosofi) di cose che si vedono e si odono. Con il suo affinarsi, la tecnologia informatica ha ampliato oltre misura la gamma degli oggetti reali che riesce a emulare. Ne indico alcuni: le immagini visuali dei videogiochi (una categoria di risorse che, non per caso, non è nata in una fabbrica di gio­cattoli ma nei laboratori del MIT), le immagini di "Oggetti inosservabili ricostruiti (l'antica Pompei, la città etrusca, la struttura dell'atomo), i suoni degli strumenti musicali più diversi, quali sono simulati dalle tastiere elettroniche, la sin­tesi della voce umana, e così via. Nessuno può dire quante e quali altre novità produrranno gli sviluppi del digitale. Ma rimane un punto essenziale: all'inizio, il digitale ci ha offer­to integrazione, arricchimento e potenziamento del reale; più di recente, con l'esplosione del computer imagi,nge delle tecnologie della simulazione, ha scatenato un processo di deriva che ha cambiato parecchio le carte in tavola.

Questa deriva consta di due passaggi fondamentali, che

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abbiamo già visto compiersi sotto i nostri occhi: (a) la fase della sostituzione (o dell' Ersatz): le cose che il computer fa ve­dere e udire sembrano reali ma non lo sono. Pertanto il di­gitale prende gradualmente il posto del reale, e lo sostituisce. ( b) La fase dello sbarramento: le cose che il digitale mostra for­mano una barriera insuperabile verso il reale, impediscono l'accesso, dando all'utente una fortissima impressione di realtà surrogata. Questa realtà surrogata rende insignifican-te il contatto con la realtà vera. ·

Alla prima meta ci hanno portato i videogiochi, che han­no contribuito a indebolire la percezione comune della di­stinzione realtà/rappresentazione:7 siccome coinvolgono e modellano la vita fisica e mentale di milioni di giovani e bambini in tutto il mondò, essi sono un tema molto più de­licato di quanto sembri a prima vista. 8 La seconda meta è sta­ta raggiunta con la diffusione delle simulazioni digitali, che permettono di esplorare mondi inesistenti, inaccessibili o frammentari. Anche qui sono numerosi coloro che sosten­gono l'immensa ricchezza potenziale delle simulazioni digi­tali e della correlativa insufficienza della «realtà.reale».9

Una poderosa rappresentazione dell'agire combinato di quelle che ho chiamato «fase della sostituzione» e «fase del­lo sbarramento» si trova in The Truman Show, magnifico film di Peter Weir, che mette profeticamente in scena (è del 1999) un processo di trasformazione della realtà (anche la realtà delle relazioni tra le persone) in iperrealtà digitale. La genialità di Weir sta nell'aver percepito un fenomeno

7 Alla perdita di questa cruciale distinzione ho dedìcato più estese ri-flessioni in Simone (2008). ·

8 Non mancò chi cercò di argomentare (come Antinucci 1999) che i videogiochi sono una formidabile occasione per ampliare le proprie co­noscenze. Tendo a parteggiare per l'opinione opposta, secondo la quale i giochi elettronici, a differenza di quelli reali, allontanano dal contatto con le cose invece di favorirlo e portano a un' «estasi inqt;Jietante» (Finkielkraut & Soriano 2001). Vedi anche S~oll (2000).

9 Così Parisi (2000 e 2001) e naturalmente Negroponte (1996), che aprì la strada a questo genere di opinioni.

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che a quell'altezza del tempo pochi erano in grado dico­gliere e nell'averlo messo in scena in modo straordinaria­mente efficace ed emozionante. È la storia di un uomo che sin dalla nascita è seguito senza saperlo da una rete televisi­va, che trasmette in continuo tutti i momenti della sua vita. La trasmissione dura dunque da decenni, ha milioni di fan che la seguono commossi ed è carica di pubblicità. Alcuni ·indizi, per la verità, danno sin dall'inizio segnali inquietanti: per esempio, l'illuminazione delle scene è sempre eccessiva, come quella di un set, ma noi tardiamo a capire che cosa ciò voglia dire. A un certo. punto alcune crepe si aprono nell'i­perrealtà della vita di Truman, che alla fine scopre che tutto nella sua vita era falso, cioè simulato: moglie, amici, lavoro, tutto era còstruito per essere ripreso in ogni momento. Dal­la delusione bruciante della scoperta, Truman cerca di sal­varsi fuggendo dal suo mondo di cartapesta e di finzione.

In un certo senso, l'atteggiamento di Truman è somi­gliante a quello degli analisti del mondo digitale che ho menzionato prima:. Essi descrivono il reale - l'insieme «du­ro» delle persone, degli oggetti e delle cose, quello in rap­porto al quale parliamo di «Senso del reale» e di «contatto con la realtà» - come meno ricco, pregiato e interessante della realtà simulata. Negroponte ha osservato perfino che diventando interamente digitali riusciremo a liberarci del peso della realtà fisica (che è lenta, materiale, rumorosa) per concentrarci, invece, nella realtà virtuale (che è veloce, immateriale e silenziosa) .10

Credo che solo nella tradizione mistica si possano trovare affermazioni di questo tenore. Le posizioni teoriche alla Ne­groponte trovano una corrispondenza precisa nella produ­zione digitale. Infatti, un aspetto essenziale del prodotto di­gitale (video e audio) sta nel fatto che esso offre uno specia­le effetto di intensificazione della realtà. Le cose che si vedono e si ascoltano non solo sembrano vere, ma sembrano più

10 Per parte sua, Parisi (2000) è arrivato a dfre che «le immagini digita­li sono diventate competitive rispetto al linguaggio».

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che reali, più vere che nella realtà. Tutto è troppo sullo schermo del computer: il colore è troppo colorato, il suono troppo sonoro, le forme spiccano oltre misura ... Questi effetti sono ulteriormente esaltati nei videogiochi: le prospettive sono drogate, i movimenti del punto di vista non hanno la flui­dità e non seguono i tragitti del movimento di un osservato­re vero, ma seguono curiose piste topologiche. In definitiva, ciò che lo schermo del computer offre è più reale del reale: è una realtà troppo rea/,e.11

Per questi motivi, alcuni (fra i quali io stesso) ritengono che la simulazione digitale sia sì indispensabile in campi in cui si deve stabilire un contatto con realtà irraggiungibili o non rappresentabili in altro modo, ma costituisce un formi­dabile movente di de-realizzazione e di distacco dalla realtà per chi lo utilizza per simulare (cioè sostituire) oggetti reali che sarebbero perfettamente accessibili per proprio conto. La digitalizzazione del mondo non costituisce di fatto una crescita dell'esperienza e della vita, ma al contrario è desti­nata a essere, e in parte già è, la sostituzione di un mondo reale con un mondo tecnicamente falso. Nessuna pantera potrà divorarci, ma ci convertiremo gradualmente in una moltitu­dine di Truman, incapace di distinguere il reale dall'irreale, e forse anche desiderosa (a differenza di Truman) di rima­nere nel mondo irreale.

Oggi la pantera (digitale) ruggisce ancora, ma non mor­de più.

11 Si chiama non a caso realtà aumentata ( augrrumted reality), con una metafora molto acuta, la tecnologia che permette, aggiungendo o sot­traendo elettronicamente informazioni a una determinata raffigurazio­ne, di conferire all'immagine risultante un effetto di «arricchimento» di realtà.

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9. «L'ARTE DEL NARRARE»

1. Gradini

Tra le molte cose a cui ha dato nuova forma, la mediasfe­ra ha intaccato anche l'idea diffusa della narrazione, della «storia» e delle «storie». Che cos'è «l'idea della narrazio­ne»? È.un insieme di aspettative e di concezioni, che ciascu­no di noi assorbe con la cultura, che definiscono una va­rietà di aspetti fondamentali della narrazione stessa: deci­dono cosa merita di esser narrato e cosa no, a quale ambito dell'esperienza e della vita dev'essere attinto il tema della narrazione, quale lunghezza e complessità la narrazione de­ve avere, e così via. In altre parole, dinanzi a qualunque nar­razione (sia quelle che si incontrano nella letteratura sia quelle colloquiali) ognuno si dispone con un suo codice ta­cito e tende ad accettare o a scartare quel che riceve secon­do la natura di questo codice. Lo stesso fenomeno accade, come ho mostrato più su ( cap. 4), per altre istituzioni cultu­rali diffuse, come l'idea di «testo».

Nella storia della cultura non sono molte le figure che hanno esaminato l'idea di narrazione. Tra le poche va se­gnalato Walter Benjamin, che nella prefazione al Viaggfotore incantato (1936) di Nikolaj Lesk6v, dissemina penetranti os­servazioni sul passato e il futuro del narrare, costruendo una sorta di scala di ragionamenti lungo la quale il suo let­tore è costretto a scendere.

L'arte del narrare - dice - si avvia al tramonto. Capita sempre più di rado di incontrare persone che sappiano raccontare

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qualcosa come si deve: e l'imbarazzo si diffonde sempre più spesso quando, in una compagnia, c'è chi esprime il desiderio di sentir raccontare una storia. 1

È chiaro che qui il «narrare» è identificato con il raccon­to orale che si applica soprattutto al raccontare storie. Il cambiamento che Benjamin descrive non è diindole super­ficiale, tuttavia, perché è dovuto alla scomparsa di uria risor­sa che sta alla radice del narrare. «È come se fossimo privati di una facoltà che sembrava inalienabile, la più certa e sicu-

. ra di tutte: la capacità di scambiare esperienze.» A questo punto il discorso h<! già disceso un gradino. Ma non basta:

Con la [prima] guerra mondiale cominciò a manifestarsi un processo che da allora non si è più arrestato. Non s'era visto, al­la fine della guerra, che la gente tornava dal fronte ammutoli­ta, non più ricca ma più povera di esperienza comunicabile?

In altre parole, un cambiamento nel contesto esterno, drammatico come quello prodotto dalla guerra, ha fatto crollare il valore delle «azioni dell'esperienza». La fonte a cui «hanno attinto tutti i narratori» è infatti l' «esperienza che passa di bocca in bocca». Per questo, se si vogliono tro­vare archetipi della narrazione basata sull'esperienza che passa di bocca in bocca, dobbiamo pensare all' «agricoltore sedentario» («è rimasto nella sua terra, ne conosce le storie e le tradizioni») e al «mercante navigatore» («il narratore [ ... ] che viene da lontano»).

Un gradino ancora:

Il primo segno di un processo che porterà al declino dèlla nar­razione è la nascita del romanzo alle soglie dell'età moderna. Ciò che separa il romanzo dalla narrazione (e dall'epico in sen­so stretto) è il suo strettissimo riferimento al libro. La diffusio­ne del romanzo diventa possibile solo con l'invenzione della

1 Cito da W. Benjamin, «Il narratore. Considerazioni sull'opera di Ni­cola LeskoV», in Benjamin (1959, p. 247).

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stampa. Ciò che si lascia tramandare oralmente, il patrimonio dell'epica, è d'altra natura rispetto a ciò che costituisce il fondo del romanzo. Il romanzo si distingue da tutte le altre forme di narrazione [ ... ] per il fatto che non esce dalla tradizione orale e non torna a confluire in essa. Ma soprattutto dal narrare. Il narratore prende quel che narra dall'esperienza - la propria o quella che gli è stata riferita - e lo trasforma in esperienza di quelli che ascoltano la sua storia. Il romanziere si è tirato in di­sparte. Il luogo di nascita del romanzo è l'individuo nel suo iso­lamento, che non è più in grado di esprimersi in forma esem­plare sulle questioni di maggior peso e che lo riguardano più davvicino, è egli stesso senza consiglio e non può darne ad altri. Scrivere un romanzo significa esasperare l'incommensurabilità nella rappresentazione della vita umana.2

Qui scopriamo che il romanzo, che sembrerebbe l'emble­ma più ricco del narrare, è invece il contrario: scritto da un autore in stato di solitudine, è ricevuto da un lettore ugual­mente solitario. La rete collettiva entro cui il narrare (come racconto orale) si iscrive è negata dal romanzo.

Un altro gradino: non è solo il romanzo a esser nemico della narrazione. Ce n'è un altro, più minaccioso perché ap­parentemente amico:

col dominio sviluppato della borghesia, tra i principali stru­menti del quale nel capitalismo avanzato è la stampa, appare una forma di comunicazione che, per quanto remota possa es­sere la sua origine, non aveva mai esercitato un influsso decisi­vo sulla forma epica - ciò che comincia a fare ora. [ ... ] essa si oppone alla narrazione in forma non meno aliena, ma assai più pericolosa del romanzo (che essa, d'altra parte, avvia ugual­mente a una crisi. Questa nuova forma di comunicazione è l'informazione. 3

L'informazione - spiega Benjamin - «ha il suo compenso nell'attimo in cui è nuova. Vive solo in quell'attimo, deve

2 Benjamin, «Il narratore», cit., p. 251. 3 Ivi, p. 252.

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darsi interamente a esso e spiegarglisi senza perder tempo. Diversamente la narrazione: che non si consuma, ma con­serva la sua forza concentrata e può svilupparsi ancora dopo molto tempo».4

Ultimo passo: la solitudine o la compagnia del ricevente. «Chi ascolta una storia è in compagnia del narratore. An­che chi legge pa~tecipa a questa società. Ma il lettore di un romanzo è solo. E più solo di ogni altro lettore.»5 Benjamin non dice in quale condizione (di solitudine? e di che gra­do?) si trovi il lettore dell'informazione, ma il quadro è or­mai chiaro.

2. Tre cambiamenti

L'idea di Benjamin è che il narrare - la sua natura, la sua forma, il modo di riceverlo - risente della curvatura com­plessiva dell'ambiente in cui fiorisce. Risente quindi .del gra­do di pregio che si attribuisce all'esperienza, delle forme narrative disponibili e awersarie, dell'atteggiamento del pubblico, del grado di pathos che le diverse forme narrative riescono a stimolare nel lettore, della compagnia di cui il let­tore gode nel momento in cui il narrare gli arriva e anche -possiamo aggiungere continuando il suo ragionamento -dall'ambiente di media che si ha attorno. Ha insomma non meno un'etologia che un'ecologia - due nozioni che questo libro menziona con insistenza. Del narrare, l'etologia defini­sce l'ambiente mentale e fisico in cui si svolge e viene ricevu­to; l'ecologia definisce invece il modo di usarlo, di «fruirne», di immagazzinarlo nella propria esperienza e ricordarlo.

Non posso discutere tutti questi aspetti, ma vorrei estrar­ne qualcuno per suggerire qualche ingrandimento ravvici­nato. Ma prima di procedere devo cambiare il punto di par­tenza. Vari segnali indicano che le giovani generazioni (le

4 Ivi, p. 254. 5 Ivi, p. 265.

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generazioni della cultura digitale) hanno un'idea di narra­zione e di «storia» (ovviamente intesa come story, non come history) del tutto diversa dalla nostra, cioè da quella dei com­ponenti delle generazioni del dopoguerra.6 Questo cambia­mento non è dovuto solamente alla diversa composizione dell'esperienza di un giovane moderno rispetto a quella di un giovane del dopoguerra. Ora, è evidente, di un'evidenza addirittura palmare, che questi giovani producono e consu­mano storie diverse, strutturate diversamente, e diversa­mente raccontate da quelle a cui ha attinto la generazione precedente la mediasfera. Qualcosa è cambiato nel frattem­po e dovremmo domandarci, alla maniera di Benjamin, di che cosa si tratta.

Certo, la differenza di composizione dell'esperienza è fondamentale; ma a essa se ne aggiunge un'altra: l'ambien­te mediatico della narrazione di oggi è pesantemente in­fluenzato dalla mediasfera. Inoltre, queste generazioni siste­mano il narrare in una cornice totalmente nuova, nella qua­le è diventata fondamentale la mediasfera con tutte le sue articolazioni e forme.

Abbiamo qualche cenno di interpretazione. Salmon (2004), con tono in apparenza catastrofico, ha chiamato «verbicidio» l'atteggiamento tipico della modernità nei con­fronti della storia. Il termine non è molto felice, ma il feno­meno a cui allude è serio: si tratta di una cospirazione di eventi, propria della modernità, che ha per effetto la distru­zione della «Storia narrata»: «L'era dell'informazione aveva sostituito l'attualità all'esperienza e l'eterno presente alla temporalità narrativa. Il "tempo reale" ha ucciso la spiega­zione», dice Salmon.

6 So perfettamente che parlare di «giovani» senza aggiungere lunghi elenchi di precisazioni e di dettagli è avventuroso: di quali giovani si sta parlando? In quali paesi vivono? Che grado di istruzione e di cultura han­no? Non ho risposta a queste osservazioni, e mi limiterò a dire che parlo delle generazioni presumibilmente istruite con le quali uno si incontra per esempio nelle aule universitarie, che sono poi, salvo errore, i giovani che decideranno del loro e anche del nostro residuo futuro.

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Voglio provare ad avanzare di qualche passo in questa li­nea, aiutandomi con il ragionamento che Benjamin accen­nava più di settant'anni fa. Per seguire qùel ragionamento, bisogna anzitutto capire che cosa è cambiato alla radice del­la narrazione, cioè sul piano dei suoi presupposti; e in se­condo luogo quali nuovi «nemici della storia» sono affiorati alla superficie della modernità. Identificherò due o tre ele­menti che mi paiono fondamentali.

Il ritmo. Sul ritmo della conoscenza e di talune, operazioni connesse (come la lettura) ho insistito già più volte in que­sto libro, e non occorre ritornarci. Mi basta ricordare sche­maticamente presupposti e conclusioni: nelle società tradi­zionali il ritmo è lento, in quelle della modernità è veloce; prima della cultura digitale, l'acquisizione delle conoscenze, di qualsivoglia tipo, si svolgeva all'insegna della lentezza, della ripetizione e, perfino, della pena e della noia. Alcuni teorici ritenevano addirittura, all'epoca loro, che lentezza, ripetizione e noia fossero intrinsecamente connesse alla ve­ra acquisizione di conoscenza. Tra di loro erano non solo fi­gure pre-moderne come Giacomo Leopardi, ma anche ana­listi della prima modernità come Antonio Gramsci. Lo stes­so Benjamin sottolineava che l'informazione si appaga nel-1' attimo in cui è nuova, mentre la narrazione «non si consu­ma, ma conserva la sua forza concentrata e può svilupparsi ancora dopo molto tempo». In una cultura caratterizzata dall'accelerazione, è difficile trovare storie che conservino una «forza concentrata» capace di durare a distanza di anni dal momento in cui sono state enunciate.

Uno degli aspetti addizionali dell'accelerazione del ritmo è costituito dalla tolleranza multimediale della modernità. Con questo termine alludo al fatto che i media digitali sono tol­lerati anche in combinazioni multiple: si può leggere e sen­tire musica, parlare al telefono e maneggiare un computer, collegarsi in rete e telefonare. Le storie hanno cambiato na­tura e organizzazione testuale in relazione a questo fattore.

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Il best seller di produzione industriale tipico della modernità è un enorme testo (sei o settecento pagine) che contiene storie intricate fino all'inverosimile. Ma la lunghezza esterio­re non deve far pensare che si tratti di testi da leggere con ritmo lento. Al contrario: questi libri son fatti perché il letto­re vi si abbandoni e si lasci portare dall'inizio alla fine, senza concedersi soste per anaiisi. All'opposto, la mediasfera sem­bra privilegiare micro-storie di vario tipo, ma anzitutto con forti restrizioni di misura: nelle schermate di Twitter non entrano più di 140 caratteri, altri limiti tipici vengono stabi­liti dagli sms; negli anni Dieci di questo secolo sono stati pro­dotti perfino romanzi composti da sms in successione.

I media e gli oggetti. Un altro terreno dove possiamo impa­rare da Benjamin è l'attenzione verso gli oggetti che carat­terizzano un'epoca. Molte note e qualche pagina definitiva del Passagenwerk sono dedicate agli oggetti propri degli al­bori della modernità: mezzi di trasporto, oggetti di arreda­mento, oggetti d'uso comune (le tazzine, i sigari, le cose del­la moda). Ciò è dovuto alla sua convinzione che le forze più significative si manifestano in ciò che è piccolo e insignifi­cante: ciascuno di quegli oggetti ha effetto sulla struttura­zione del mondo interiore degli uomini, sul loro modo di conoscere e di stabilire relazioni. Quest'intuizione di Benja­min è molto acuta, dato che è raro trovar riconosciuto il ruolo degli oggetti nella formazione dei quadri del pensiero e della memoria, soprattutto quando si tratti di oggetti che non sono palesemente associati a pensiero e memoria ma, apparentemente, oggetti di uso pratico quotidiano.

Tra le analisi attuali della modernità non ce ne sono mol­te che si spingano a questo grado di dettaglio, ma se ce ne fossero potrebbero dirci cose sorprendenti. Anzitutto, che una varietà di oggetti tipici del moderno sono nemici della narrazione e della «Storia» in generale: penso non solo alle mille forme di video di cui il mondo è disseminato, ma an­che a quei gadget che incorporano - senza che ce ne awe-

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diamo - una metafisica complicata e de-realizzante, come il telefonino, tutte le risorse per ricevere musica e immagini, lo schermo di internet nelle sue infinite manifestazioni e utilizzazioni. Questi oggetti determinano il tempo e il modo della storia: a chi legge, presentano storie che devono essere seguite con poco tempo, in modo rapsodico e contratto, e soprattutto con interruzioni; a chi scrive, impongono forti restrizioni di spazio e di codice.

L'esperienza comunicabile. È singolare il cenno che Benja­min dedica al crollo delle «azioni dell'esperienza», come di­ce alludendo a un mercato di borsa. Che cos'è l'esperienza dei giovani d'oggi? A che punto sono i suoi «corsi azionari»? Direi che nella parte avanzata (cioè dissipativa e affluente) del mondo essa si basa sul consumo e la perdita di distinzio­ne tra reale e immaginato.7 A questa seconda proprietà con­tribuiscono potentemente le risorse della cultura digitale. Il prodotto digitale in larga misura esibisce cose non vere ma virtuali, elaborazioni fittizie di oggetti veri (gli <<effetti spe­ciali») e cose dalla «realtà aumentata» ( augmented reality), che sembrano quindi «più vere del vero».8

In questo modo, la finzione ha trovato diritto pieno di cit­tadinanza nella mediasfera. La finzione va distinta in due strati di natura diversa: il finto e il fasullo (in inglese, Jake) .9

Verso il primo abbiamo di solito un atteggiamento neutro o perfino di desiderio: benché le narrazioni fantastiche (let­teratura, cinema, sogno) siano pure finzioni, nondimeno di quelle finzioni l'essere umano ha bisogno, le cerca, vi si im­merge con piacere. Ciò significa che esse appagano un biso­gno connaturato alla mente umana: il bisogno di narrazio­ne.10 Verso il fasullo, invece, abbiamo un atteggiamento di

7 Vedi più sopra il cap. 8 («Il falso che avanza»); considerazioni più estese su questo tema si trovano in Simone (2008).

8 Ho sviluppato estesamente questo tema in Simone (2008). 9 Vedi anche Ginzburg (2006). 10 Vedi per questo Simone (2009a)

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diffidenza e di rifiuto: le cose fasulle rientrano nella sfèra della contraffazione, dell'inganno, dello scambio abusivo. In taluni casi (le merci contraffatte, le imitazioni a buon mercato) le cerchiamo per risparmiare denaro, ma non sop­porteremmo che qualcuno volesse rifilarcele né accetterem­mo una storia fasulla (una bugia) come sostanza di una nar­razione.

Nell'indistinzione attuale tra realtà e finzione (in partico­lare attraverso il digitale e le cose-da-vedere che offre senza posa), invece, finto e fasullo si fondono in un miscuglio ine­stricabile dinanzi al quale siamo globalmente indifferenti o perlomeno neutrali: nessuno ci fa più caso, perché abbiamo perduto la percezione della differenza. Non sappiamo più se quel che stiamo sperimentando è il reale (duro, rugoso, pesante) o una sua simulazione o rappresentazione.

Negli anni Sessanta, in un libro che fece epoca, Guy De­bord11 indicò dei responsabili di questo processo, allora agli albori: propose l'idea che l'ubiquità delle immagini altera il rapporto tra vero e falso e trasforma ogni cosa in «spettaco­lo», in cosa vista, in cosa-da-guardare come si guarda un film o uno spettacolo. Tra «cosa vista» e «cosa vissuta» non c'è differenza, l'una si rovescia nell'altra e l'atteggiamento di­nanzi all'una e all'altra è esattamente lo stesso: «la realtà sorge nello spettacolo, e lo spettacolo è reale. [ ... ] Nel mon­do veramente rovesciato, il vero è un momento del falso». 12 Il digitale ha completato l'opera. Il computer non si limita a rappresentare oggetti reali, ma crea oggetti (visivi e uditivi): ma con queste raffigurazioni abbiamo ormai una tale fami­liarità che le trattiamo come vere, come reali (dure, rugose, pesanti). Si è insomma avverata la profezia di Debord:

Laddove il mondo reale si cambia in semplici immagini, le sem­plici immagini diventano esseri reali, e le motivazioni efficienti di un comportamento ipnotico. Lo spettacolo [è la] tendenza a

11 Debord (1992); vedi anche Simone (2009b). 12 Debord (1992, p. 19).

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far vedere attraverso varie mediazioni specializzate il mondo che non è più direttamente afferrabile.

In questo modo, il falso invade il vero, lo avviluppa e lo di­vora. Si moltiplicano gli emblemi di ciò. Agli inizi del XXI se­colo ebbe successo una piattaforma web che si chiamava Se­cond Life. una volta entrati, si dava il proprio nome a un pu­pazzo che si prendeva come proprio avatare a cui si facevà fa­re, in un ambiente somigliante alle nostre città, quel che si vo­leva, perfino comprare e vendere.beni mediante dollari fittizi (ma pagati con dollari veri). Con una spesa ulteriore, il pu­pazzo poteva prendere le nostre sembianze: si aveva così un avatar con la nostra faccia, che poteva circolare in una città che sembrava vera e farvi cose che sembravano quelle vere ...

Quella piattaforma ebbe vita relativamente breve, ma il paradigma che lanciò non è scomparso, anzi: la nostra espe­rienza è ormai affollata di avatar di entità inesistenti, che noi trattiamo tranquillamente come vere.

3. «Tornano dal fronte ammutoliti»

Il mondo globalizzato è avviluppato nella percezione di finzione, anzi dalla perdita di distinzione tra il vero e il falso.

La mediasfera costituisce la fase per ora finale e culmi­nante del processo di dissoluzione dell'oggetto, il processo di de-realizzazione. La vita ha perso interesse narrativo, le cir­costanze in cui si può narrare (o qualcuno chiede che si nar­ri) sono diventate rare, e quel che si narra è mediato dall'ir­reale. L'esperienza di cui dovrebbero farsi narratori i giovani è quindi mediata dalla de-realtà della cultura digitale: forse proprio quella è la «guerra» da cui oggi, senza accorgersene (anzi illudendosi a tratti di essere felici) «tornano dal fronte ammutoliti» come i reduci di cui parlava Benjamin: «non più ricchi ma più poveri di esperienza comunicabile». In fondo anche la guerra è un'immersione nel non-reale, in ciò che è talmente estremo che «non sembra vero».

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EPILOGO IN PIAZZA

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DEMOCRAZIE DIGITALI?

1. Adunanze autoconvocate

È stato necessario arrivare all'età moderna per capire che la vita politica è influenzata in modo cruciale dalla me­diasfera. I media infatti non soltanto creano il consenso de­gli elettori verso chi ha il potere o ambisce a ottenerlo, ma, visti dal lato dei cittadini, definiscono anche i modi della lo­ro partecipazione. Esempi storici eloquenti di ciò sono il fa­scismo e il nazismo, che per procurarsi consenso si serviro­no con lucida preveggenza dei media del momento: della radio appena nata e del cinema, che fin allora era stato trat­tato solo come mezzo di divertimento. Lo stalinismo ado­però la radio allo stesso scopo, ma in aggiunta ne sfruttò la specifica capacità di diffondere all'istante messaggi su ter­ritori sterminati. Del peso della televisione nella vita politi­ca sappiamo tutto per esperienza diretta.: crea consenso, diffonde paradigmi di comportamento e di pensiero, inva­de spazi privati e tempo libero, manipola e trasforma la concezione ingenua di legalità e di moralità, crea e con la stessa facilità distrugge personaggi, reputazioni, fortune. 1

Perciò, nell'epoca della globalizzazione mediatizzata, chi controlla le reti televisive controlla direttamente o indiret­tamente la politica.

Ora, siccome l'awento della mediasfera è dovuto proprio alla creazione di inediti media, che si sono fulmineamente moltiplicati in una miriade di forme, tipi, modelli e di corri-

1 Vedi ancora per questo Sartori ( 1998).

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spondenti funzioni, non sorprende che a un certo punto del suo sviluppo essa abbia cominciato a produrre anche ef­fetti politici pesanti. Rispetto ai media usati dal fascismo e dal nazismo, però, c'è una differenza cruciale: ora il me­dium non è unidirezionale ma è interattivo, istantaneo e so­prattutto «sociale»; non è vincolato a un luogo ma è mobile e portatile; non è collettivo ma individuale; non è limitato ad alcuni luoghi specifici (la casa, i luoghi collettivi, le stan­ze d'albergo, le aule) ma è ubiquo.

Il primo di questi effetti politici si produsse all'inizio degli anni Dieci del XXI secolo, quando in varie parti del mondo si manifestarono le prime forme di un fenomeno collettivo del tutto nuovo. Essendo nuovo non trovò subito un nome, ma potremmo chiamarlo Democrazia Digitale (con le riser­ve che farò sotto). In che consistette questa Democrazia Di­gitale? In più paesi, occidentali e orientali, in un crescendo eccezionale, scoppiarono grandi manifestazioni di piazza, con fini di protesta anche violenta, caratterizzate da una proprietà che tocca da vicino il tema di questo libro: erano organizzate, convocate e pilotate attraverso media telemati­ci (telefonini, social forum ecc.). Era la prima volta che un fe­nomeno politico di massa era imperniato sulla mediasfera. Dapprima furono interessati i paesi arabi del Mediterraneo (Algeria, Egitto, Siria, Libia), dove l'obiettivo era soprattutto politico. In alcuni casi si raggiunsero risultati drastièi: il ro­vesciamento e la cacciata di Ben Ali in Tunisia e di Mubarak in Egitto (201 O e 2011), il rovesciamento e l'eliminazione di Gheddafi in Libia (2011 e 2012), poi i violenti scrolloni in­flitti alla dittatura di Assad in Siria (2011 e 2012), giù giù fi­no alla fitta serie di aggregazioni che si sviluppò in mezzo mondo, di taglia minore ma non meno interessanti come forme del nuovo fenomeno.

Questa sequenza raggiunse l'apice nei moti di Londra nell'agosto 2011, dove una protesta politica occasionale de­generò di colpo in una violenta sequela di rivolte autocon­vocate, a cui partecipavano ragazzi, ragazze e perfino bam-

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bini. Non era un gioco, però: i London riots, durati diversi giorni, produsserò incendi, devastazioni e danni gravissimi in diversi quartieri della città. Anche i moti inglesi, che si estesero subito ad altre città del paese, sempre con danni gravi, erano organizzati e pilotati per via digitale, e non per caso una delle risposte del governo consistette nel sospen­dere provvisoriamente la copertura di rete sul paese.

Altre forme di manifestazione si ebbero in Spagna, in lta­lia e negli Stati Uniti, tra l'agosto e la fine del 2011, cam­biando bersaglio e modalità: ora i manifestanti protestavano contro la crisi economico-finanziaria planetaria iniziata nel 2008 e contro il capitalismo di rapina che l'aveva prodotta. In Spagna nacque un movimento spontaneo che si battezzò Indignados, con allusidne a un pamphlet polemico che l'an-. no prima aveva avuto uno straordinario successo europeo:2

per settimane gente di tutte le età e le opinioni si riunì nel­le piazze principali di Madrid e di altre città spagnole per manifestare contro la politica del governo socialista. Il mo­vimento diventò planetario: tra ottobre e novembre 2011 si organizzarono, con insegne e titoli vari, manifestazioni si­multanee in molte città del mondo. In aggiunta si accennò un fenomeno affine ma diverso: la nascita. di partiti politici antagonisti ma senza struttura, il cui supporto di comunica­zione era solamente il web.

Il fenomeno si estese tra 2011 e 2012 in Russia, dove cen­tinaia di migliaia di persone, per la prima volta nella storia, convocandosi per posta elettronica o telefonino, comincia­rono a manifestare contro i risultati delle recenti elezioni politiche anche a rischio di tremende repressioni.

In tutte le fasi di queste manifestazioni, i media digitali, portatili e fissi, svolsero un ruolo decisivo: le manifestazioni erano convocate attraverso socia! forum come Facebook e app come Messenger; una volta riunite, venivano pilotate con sms diffusi durante il loro stesso svolgimento. Anche rintuzzati, i manifestanti potevano riconvocarsi alla svelta e

2Alludo a Hessel (2010).

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ripresentarsi in piazza, dato il carattere istantaneo e la rela­tiva «invisibilità» dei loro messaggi.3

La rapida successione di queste manifestazioni e l'appog­gio che trovarono presso le popolazioni dei diversi paesi la­sciano capire che non si trattava di puri eventi occasionali. Era invece la scoperta di una nuova forma di espressione politica collettiva, ciò di cui i partecipanti avevano piena consapevolezza. In tutti i paesi interessati, il mondo della politica convenzionale (uomini politici, partiti, istituzioni) fu colto di sorpresa, impreparato com'era all'idea che il po­polo potesse mettersi a protestare senza disporre di alcuna struttura organizzativa, senza capi, senza intermediari, arri­vando da tutti gli orientamenti politici e presentandosi di faccia, dal vero, dal vivo. Ma ciò che più importa è che que­sto movimentismo reticolare aveva creato un pattern inusuale: era nata una nuova forma di espressione dell'opinione po­litica, diversa dalle precedenti, con la quale i cittadini, le istituzioni e le parti politiche avrebbero dovuto abituarsi a fare i conti.

Nel momento in cui scrivo, molto a ridosso di quegli eventi, non mi pare che siano state offerte analisi di questo fenomeno. Non si tratta di certo di continuazioni delle far­ine di «democrazia elettronica» di cui la scienza politica sta­va cominciando ad accorgersi.4 Quanto quelle forme di par­tecipazione erano pacifiche, regolate e silenziose, tanto que­ste sono animose, vibranti e rumorose: non a caso, a esse ri­sponde a volte la polizia armata, non un qualunque espo­nente politico. Si tratta quindi di qualcosa di nuovo.

Si può supporre che le forme di manifestazione a cui si as­sisté nel 2011 e nel 2012 non abbiano esaurito il catalogo e che nel futuro se ne vedranno altre, anche stimolate da nuo­vi media che avranno visto la luce via via. Ma siccome anche il comportamento politico è l'espressione di una forma di

3 Sulle prime forme di questi fenomeni, molte utili indicazioni in Pittè­ri (2007).

4 Vedi per es. il più volte citato Pittèri (2007).

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sapere, e siccome il movimentismo reticolare è sostenuto in modo decisivo dalla mediasfera, conviene che questo libro si concluda con qualche riflessione su questo tema.

2. In superficie

Dal punto di vista politico, l'onda del movimentismo reti­colare è trasversale. Nei movimenti si aggregano persone che hanno idee diverse sui grandi temi, dato che quel che le tiene insieme è una preoccupazione specifica, sia pure di ampia portata: la dignità delle donne, la difesa della Costi­tuzione, la salvaguardia dell'ambiente, il contrasto degli ec­cessi del capitalismo finanziario e delle multinazionali.

Trasversali come sono, queste entità sono l'espressione risentita di una radicale insofferenza verso la forma-partito: quanto i partiti sono hard, lenti e lontani dai bisogni della gente, tanto i movimenti vogliono essere soft, veloci e con­creti. Da qui l'esigenza di auto-organizzarsi, senza gerarchie né troppe regole. L'estraneità ai partiti è dovuta anche al fatto che i movimenti hanno l'illusione di riuscire a prati­care una sorta di democrazia diretta: una specie di «Co-pro­duzione della cittadinanza» (co-production citoyenne, come la chiama Berjon 2010) che duri al di là delle pure elezioni e che permetta di tenere d'occhio le persone a cui è stata conferita la delega a governare, e anche di metter loro pau­ra. Agisce in questo, ancora una volta, il mito della «demo­crazia della rete», che abbiamo già visto in azione. Anche qui, si può supporre che la stanchezza verso la forma-parti­to sia (al pari della compulsione a spedire sms) un bisogno indotto dalla disponibilità dei media giusti, secondo il prin­cipio dell'esattamento che menzionavo all'inizio di questo libro.

Le forme di democrazia digitale non sono solo light, spe­cialmente se le confrontiamo con la pesantezza delle strut­ture convenzionali di espressione della volontà politica (par-

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titi, sindacati e associazioni). Sono anche acefale e adespote, per lo meno in apparenza: non hanno un capo riconoscibi­le; se questo capo c'è non ha nome; non hanno struttura or­ganizzativa. Non hanno statuti, regolamenti, norme. Posso­no dare a prima vista l'impressione di essere una forma di pura democrazia diretta, da contrapporre ai supposti limiti della democrazia rappresentativa (com~ in Europa) o del­l'autocrazia (come in Medio Oriente e in Russia). Lasciano pensare che sia possibile esprimere opinioni politiche anche contundenti senza ricorrere alla mediazione di un partito o un'organizzazione materiale. Chiunque può lanciare una manifestazione, creare un movimento o un soggetto: l'unica condizione materiale è disporre di una mailing list abbastan­za ricca; l'unica condizione concettuale è insistere su un te­ma che stia a cuore a un gruppo significativo di persone .. Fatto questo, la trasmissione dell'informazione è istantanea, praticamente gratuita, immateriale (niente tipografie, nien­te magazzini, niente copie, niente francobolli, niente spedi­zioni, niente consegna a domicilio, niente personale con­nesso alle diverse fasi...) quale che sia il numero dei destina­tari. Non ci.sono tempi morti, esitazioni, incertezze. L'unico rischio è che la rete si ingorghi o si interrompa; altrimenti, la comunicazione viaggia in tempo reale.

Inoltre la democrazia digitale fa forte presa sulla massa perché è psicologicamente suggestiva. Chi riceve un mes­saggio che lo convoca o lo interpella capisce solo più tardi (se pure lo capisce) che si tratta di una circolare telematica spedita identica a migliaia di persone. Al primo impulso, im­magina che si tratti di un messaggio personale: pensa in­somma che qualcuno sta scrivendo proprio a lui (o a lei)! Questo semplice fatto è portatore di un appeal a cui è diffi­cile resistere, perché risponde all'illusione narcisistica tipica della mediasfera, che abbiamo già visto all'opera: siccome chiunque può lanciare messaggi a chiunque (posto che poi questi li raccolga), la rete dà a chi la frequenta l'impressione di poter «prendere la parola», «far sentire la propria voce»,

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«aver voce in capitolo», insomma di esistere o addirittura di contare ... Naturalmente non tutti questi passaggi sono veri, ma l'illusione non è meno trascinante della realtà.

Secondo lo stereotipo che ho menzionato nel «Prologo in treno», si tende primariamente a pensare che proprietà come quelle che ho appena descritto siano incondiziona­tamente positive, cioè lavorino a vantaggio della democra­zia. Può sembrare che in questo modo tutti siano final­mente ammessi a far sentire la loro voce, così di approva­zione come di protesta, liberandosi delle entità intermedie tipiche della politica e della vita associata: partiti, lobby, sindacati e organizzazioni consimili. È per questo che il successo delle manifestazioni del 2011 venne interpretato anzitutto come espressione di sfiducia nei partiti e di sa­zietà verso la vita democratica così come s;era definita sto­ricamente. Il componente di un movimento reticolare è convinto di non aver bisogno di entità mediatrici: tutto quel che gli occorre può farlo da solo.

3. Che seg;no ha il nuovo?

Non si può ignorare che i fenomeni che ho descritto all'i­nizio si svolsero nel 2010-2012, cioè nel momento di massi­ma virulenza della crisi finanziaria che sconvolse il mondo, che fu anche una delle fasi più drammatiche della storia del­la globalizzazione. I gruppi più diversi, da un punto all'altro del pianeta, per via del carattere globale della gravissima cri­si, diventavano consapevoli di avere un destino comune. S'e­ra così creata una politicizzazione involontaria di vaste mas­se; questa, manifestandosi subito sotto forma di protesta, trovava il miglior canale per esprimersi proprio nella me­diasfera, cioè nel più lampante emblema della globalizza­zione. Attraverso la mediasfera, la Grande Crisi spingeva fol­le di tutto il mondo a fare «una specie di corso accelerato sulle èontraddizioni del capitalismo finanziario nella società

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mondiale del rischio»,5 mostrando loro che esisteva una frat­tura incolmabile tra la gente che produce i rischi e quella che deve pagarne i danni.

Insomma, la globalizzazione aveva prodotto nello stesso istante il peggior veleno e un preannuncio di antidoto. Co­me osservò Ulrich Beck, «nella consapevolezza globale del rischio, nell'anticipazione della catastrofe che occorre im­pedire ad ogni costo, si apre un nuovo spazio politico».6 Ora, questo spazio è prodotto proprio dal fatto che viviamo nella mediasfera. Ma che cosa accadrà in questo spazio politico? Si può parlare davvero di «democrazie digitali», come alcuni fanno, oppure il segno di questo spazio è ancora difficile a decifrarsi? I dubbi non mancano. Il movimentismo reticola­re, perlomeno nelle forme in cui si è presentato finora, ma­nifesta infatti una straordinaria ambiguità: può dar corpo a nuove forme di democrazia «dal basso» ma può anche, sen­za sforzo, creare nuovi tipi di «riserva di caccia» personale o in genere strutture di difficile controllo.

Una delle sue intrinseche debolezze è la volatilità. Non avendo struttura né articolazioni, il movimento digitale può dissolversi all'istante, proprio come si è costituito. Per tener viva una collettività dispersa occorrono infatti un'attività di collegamento tra i componenti, un'elaborazione di propo­ste e un calendario di appuntamenti che un movimento di­gitale difficilmente riesce a sviluppare. Per questo, alla vola­tilità di questi movimenti si associa la schematicità delle pro­poste politiche: una raccolta di slogan, anche acuti, non è un programma di azione. L'agitazione, in fondo, è l'illusio­ne dell'azione.

D'altro canto, l'invisibilità del capo non significa che un capo non esista. Il capo può preferire restar nell'ombra per qualche motivo personale: l'invisibilità norì è sempre un in­dizio di democrazia. Sono già noti alcuni casi di movimenti

5 Cito dall'articolo di U. Beck, «Il 99 per cento può cambiare il mon­do», in «la Repubblica» del I 0 novembre 2011.

6 lbid.

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. eversivi creati e sostenuti dal web, in cui era interesse del ca­po, così come dei componenti, restare coperti. Ma, come non è visibile il capo, così non sono visibili i componenti: non si conoscono l'uno con l'altro e possono incontrarsi so­lo in occasione di adunanze e manifestazioni o (in modo molto limitato) attraverso i social forum. I componenti non s'incontrano se non nella piazza, cioè al momento della ma-

, nifestazione: ma una volta che questa ha avuto luogo, il gruppo si dissolve fino alla prossima occasione.

Bisogna aggiungere che nei socia[ forum le identità dei partecipanti possono essere falsificate o inventate. Il princi­pio del fasullo (che ho discusso nei capp. 8 e 9) vale anche qui, e ho già segnalato che la rete pullula di fakes. Insomma, se l'appartenenza di qualcuno a un movimento sia leale e franca oppure no, nessuno può stabilirlo o controllarlo. Co­me i componenti non «vedono» il capo e il capo non «vede» loro, così non si «vedono» tra di loro. Come altre forme di socialità mediate dal computer (quali la posta elettronica e il social forum), anche il movimentismo digitale crea l'illusio­ne di esser vicini quando invece si è infinitamente lontani. Quest'aspetto è paradossale: benché basato su media di co­municazione, il movimentismo digitale alla fin dei conti è una forma di «democrazia» che implica il silenzio!

Vale anche, qui la distinzione tra validità e autorità che Popper aveva suggerito a proposito delle fonti della cono­scenza.7 Nessuno sa se i messaggi «politici», le chiamate a raccolta e le convocazioni sostengono tesi valide, e meno ancora se la fonte che le emette ha l'autorità per emetterle. La potenza di chiamata del medium espone anche al rischio di dare una risposta irriflessa e istintiva.

Inoltre, il movimentismo digitale riduce fino a estinguer­la la discussione interna. Su una scala, starebbe all'opposto dell'agorà, dove ognuno poteva prendere la parola e contri­buire alla decisione finale. Il carattere delle convocazioni di­gitali, istantanee e in absentia, l'invisibilità dei componenti,

7 Vedi sopra, cap. 7.

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la plasticità delle adunanze, tutto impedisce che i membri prendano la parola. Per questi motivi, almeno per ora il mo­vimentismo digitale non può esercitare una vigilanza reale sulla sostanza della proposta politica (sia essa positiva o cri­tica) di cui è portatore.

Ciò non significa che sia per intero un fenomeno di se­gno dubbio. Ha anche incredibili aspetti di dinamismo, che potrebbero produrre cambiamenti importanti nel modo convenzionale di far politica. Tanto per cominciare, non in­terpella solo i cittadini, che da un momento all'altro hanno l'impressione (o, come ho detto, più spesso l'illusione) di farsi finalmente sentire. Interessa ancora di più i partiti po­litici e le istituzioni in generale: i movimenti sono infatti for­temente anti-partito e contengono un'ambigua esigenza di «uguaglianza estrema». Questa formula è nientemeno che di Montesquieu (1749), che dell' «uguaglianza estrema» in­trawedeva con nettezza anche gli esiti:«[ ... ] l'esprit d'éga­lité extreme, qui la [la democrazia] conduit au despotisme d'un seul, comme le despotisme d'un seul finit par la con­quete».8 Anche se incorporano ovvi impulsi di leadership personale, per lo più aggregano folle che hanno il dente av­velenato verso i metodi tipici del partito: nomenklature, cor­renti, privilegi, tatticismi, rituali, prudenze ecc.

Per questo, il movimentismo digitale può certamente da­re una scossa ai partiti in affanno, spingendoli a esplorare nuovi orizzonti, ma il suo rapporto coi partiti è insieme di attraiione e repulsione. Se un movimento di democrazia di­gitale riesce a non estinguersi, prima o poi tenderà a tra­sformarsi in partito (coìne accadde coi Verdi in Germania) o in lobby (come è accaduto con Legambiente in Italia). Al­trimenti, se è colto da «impazienza verso i limiti» (l'espres­sione è di Dominique Schnapper9), il movimento può di­ventare un fattore di «regresso democratico», insomma un

8 Cito da L'esprit des lois (1749; 2 voli., a c. di Robert Derathé, Garnier, Paris 1987) VIII ii.

9 Vedi Schnapper (2010).

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pericolo. Dall'altro lato, i partiti, pesanti e ormai sordi per­ché hanno perduto le antenne per percepire le vibrazioni dello Zeitgeist, non possono ignorare il nuovo fenomeno, che ha forti probabilità di far presa sulla gente. I movimenti infatti, operando a livello di terra, percepiscono umori, emozioni e bisogni molto più dei partiti.

Il movimentismo reticolare non è solo awerso alla forma­partito, ma incorpora anche un movente di reazione anti­democratica. Come regime politico, la democrazia rappre­sentativa s'impernia in modo cruciale sull'esistenza di orga­ni di mediazione: le decisioni sono prese da rappresentanti del popolo e non dal popolo stesso; la giustizia è ammini­strata da esperti appositamente selezionati e non diretta­mente dalle parti lese; la forza fisica è delegata a corpi e or­gani dello stato specializzati a questo scopo e non alle parti in causa; e così via. Il compito di queste entità intermedie è, per l'appunto, quello di mediare, di interporsi tra le parti in causa evitando il conflitto diretto. Ma il primo effetto della mediazione è la lentezza del procedere e il graduale allon­tanarsi dai problemi reali della gente. L'una e l'altro posso­no essere troppo grandi e pesanti perché si possa soppor~ tarli. Il movimentismo reticolare esprime stanchezza verso questo meccanismo in nome di una maggiore rapidità e prossimità alle necessità del livello di terra; al tempo stesso reclama un più incisivo effetto della gente sulle decisioni che la riguardano.

Tutte queste sono premonizioni che si disegnano all'oriz­zonte del secondo decennio del secolo. Nessuno sa che svi­luppi potranno avere queste manifestazioni di «democrazia digitale». In questo decennio il movimentismo reticolare della mediasfera potrà forse arrivare a chiarire la sua vera natura - o ad assumerne una che ancora gli sfugge.

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QUESTO LIBRO

All'origine di questo libro sta il volume La TerzaFase. For­me di sapere che stiamo perdendo, che apparve nel 2000 presso un altro editore. Non è iattanza, ma pura descrizione dei fat­ti, dire che La Terza Fase, a cui rispose uno straordinario suc­cesso in Italia e altrove, ebbe un effetto premonitore e per­fino profetico, come osservarono a suo tempo un certo nu­mero di commentatori e lettori. La modernità digitale vi era analizzata nelle sue conseguenze cognitive e culturali forse per la prima volta.

La mia valutazione di quei fenomeni era, nel 2000, so­stanzialmente di allarme, come rispecchiava il sottotitolo, in cu si alludeva alle forme di sapere che si perdevano piuttosto che a quelle che forse si guadagnavano. Quell'atteggiamen­to non piacque a diversi corifei della modernità digitale ( c' e­rano sin d'allora, a volte già insopportabili per ovvietà e ir­ruenza di argomenti), alcuni dei quali mi accusarono di es­sere un «passatista» e, peggio ancora, un «umanista» e, per questo motivo, di essere cieco ai vantaggi della modernità mediatica. Benché sia rimasto un «umanista» (il tempo non guarisce i difetti), in questa edizione ho in parte riveduto la mia valutazione di quella che chiamai «la Terza Fase». Non perché le cose che mi convincono siano più numerose di quelle che mi preoccupano: anzi, lesplosione della telema­tica, del web, della incontrollabile quantità e natura dei gad­get digitali mi pare per molti versi una delle più straordinarie manifestazioni di follia (a volte anche di idiozia) collettiva che si siano mai avute. Ma non tutto il male vien per nuoce-

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re e inoltre il «progresso» tecnico non si corregge certo per le critiche di un signore nato prima della metà del secolo scorso._

Quindi il focus di questo libro è necessariamente cambia­to: non più puramente negativo ma critico, punta a capire, ad analizzare e a offrire agli utilizzatori (e a chi li guida e li orienta) argomenti di comprensione al di là delle apparen­ze e delle feste che si fanno per questa o quella innovazione tecnica. Malgrado questa sua apertura, il libro non prende in considerazione tutte le facce della mediasfera. Non ne avrei avuto lo spazio né ho competenza per tutti i campi. Per esempio, non si parla qui delle forme digitali e telematiche della musica, del cinema, dell'informazione giornalistica, né di tante altre forme importanti della mediasfera.

Nel comporre questo, la più gran parte del vecchio libro è stata buttata via e sostituita da pagine pensate e redatte ex novo per tener conto delle innovazioni che la mediasfera ha prodotto in questi anni. In ogni caso anche il poco materia­le che ho ripreso dal libro precedente è stato riscritto da ci­ma a fondo e aggiornato nelle prospettive e nei riferimenti bibliografici.

Lund & Roma, settembre-dicembre 2011

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INDICE DEI NOMI

Agosti~o,31,32n,33 Alain (Emile-Auguste Chartier), 140 Alessio, Franco, 107n, llOn Amicone, Agnese Paola, 35n Antinucci, Francesco, l 90n Antonello da Messina, 125 Arendt, Hannah, 30n, 170 e n Aristotele, 30, 112 Asor Rosa, Alberto, 56 Assad, Hafiz al-, 206

Bacon, Francis (Bacone), 22, 23, 160, 161 e n, 187

Baldini, Gabriele, 159n Balzac, Honoré de, 90, 181 Barthes, Roland, 101, 102n Beck, Ulrich, 212 e n Ben Ali, Zine El Abidine, 206 Benjamin, Walter, 162 e n, 163,

182 e n, 193, 194 e n, 195 e n, 196-200, 202

Bentivoglio, Leonetta, 49n Berjon, Robin, 209 Blumenberg, Hans, 14ln Boezio, Severino, 112 Bonaventura da Bagnoregio (Gio-

vanni Fidanza), 107, 110, 112, 115

Borges,Jorge L., 113 Bourdieu, Pierre, 151 Brunschvicg, Léon, 111

Calder, Alexander, 187 Calvino, Italo, 47, 120, 122 e n Carretti, Elias, 172 e n

225

Canfora, Luciano, 160 Caravaggio (Michelangelo Merisi),

181 Cardona, Giorgio R., 75n, 127n Carr, Nicholas, 9n Cervantes, Miguel de, 183 Chardin, Jean-Baptiste-Siméon,

118, 119 Condillac, Étienne Bonnot de, 34,

35, 38 e n, 41 e n Curtius, Ernst W., 141, 142n

D'Alembert,Jean-Baptiste Le Rond, 140, 141, 148

Debord, Guy, 201 e n de Chardin, Teilhard, 15 Dehaene, Stanislas, 40n, 117n De Mauro, Tullio, 80n Derathé, Robert, 214n Diano, Carlo, 30n Diderot, Denis, 38n, 43 Dumas, Alexandre, 54

Eco, Umberto, 159n Eisenstein, Elizabeth, 22, 45, 46n,

112, 113 Eraclito, 30 e n

Feldman, Robert S., 17n Ferrarotti, Franco, 12n, 56 Ferreiro, Emilia, l 7n, 109n, l 74n Filoramo, Giovanni, 3ln Finkielkraut, Alain, 9n, 190n Flaubert, Gustave, 90 Freguglia, Gian Franco, 6ln

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Gadda, Carlo E., 102 Galilei, Galileo, 131, 187 Gheddafi, Muammar, 206 Ginzburg, Carlo, 200n Goodman, Nelson, 180 e n Goody,Jack, 41, 8ln Gould, StephenJay, 13n Grabmann, Martin, 108n Gramsci, Antonio, 140, 198 Guglielmo di Conches, 11 O

Halliday, Michael A.K, 80n, 83n, 84n

Havelock, Eric, 40n Hegel, Georg Wilhelm Friedrich,

142 Herder,Johann G., 35-38, 41, 42 Hessel, Stéphane, 207n Hooke, Robert, 162

Jonas, Hans, 30n, 39n

Kafka, Franz, 102 Kant, Immanuel, 37

La Ceda, Franco, 16n Leonardo da Vinci, 181 Leopardi, Giacomo, 42n, 198 Lesk6v, Nikolaj, 193, 194n Lessing, Gotthold E., 37, 38 e n,

43, 180 Levi, Primo, 96n Lled6, Emilio, 79n Locke,John, 16ln

Machiavelli, Niccolò, 119, 120n Malamud, Bernard, 144 Manuzio, Aldo, 105 Manzoni, Alessandro, 90 Mastropaolo, Alfio, l 9n McLuhan, Marshall, 22n, 52 Merton, Robert K, 162n Michelangelo Buonarroti, 187 Montaigne,Michelde,113,130,140 Montesquieu, Charles-Louis de

Secondat, barone di La Brède e di, 214

·Mortara Garavelli, Bice, 105 Mubarak, Muhammad Hosni El

Sayed, 206

226

Napolitano Valditara, Linda M., 30n,31

Negroponte, Nicholas, 190n, 191 Newton, Isaac, 161, 163 Nietzsche, Friedrich, lOn Nunberg, Geoffrey, 96n

Olson, David R., 40n, 8ln Omero, 106 Ong, Walter J., 40n Ortega y Gasset, José, 179 e n Orwell, George, 104, 159 e n

Pacella, Giuseppe, 42n padri della Chiesa, 31 · Paleotti, Gabriele, 60 Parisi, Domenico, 190n, 19ln Pascal, Blaise, 111, 162 Pasitele, 179, 184, 185-187 Passeron,Jean-Claude, 151 Pessoa, Fernando, 103 Pirandello, Luigi,102 Pittèri, Daniele, l 7n, 18n, l 9n, 208n Platone, 22, 24, 31 e n, 40n, 52n,

76-79, 80n, 83, 85, 88-89, 92, · 106, 114-115, 117, 160, 164-165, 171

Popper, Karl R., 23n, 25, 53, 147 e n, 155n, 157 e n, 169 e n, 213

Propp, Vladimir Ja., 68 Proust, Marce!, 54, 90

Ramonet, Ignacio, 12n Reale, Giovanni, 30n, 3ln, 77n Regge, Tullio, 96n Renan, Ernest, 159, 160 Rossi, Luigi E., 106n Rossi, Paolo, 34, 159n, 16ln, 162n,

169n

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Rousseau,Jean:Jacques, 185-186 Rubens, Pieter Paul, 182, 186

Salmon, Christian, 197 Sartori, Giovanni, 25, 45n, 49-50,

61,205n Scavetta, Domenico, 90n, 127n Schank, Roger C., 70, 87n Schnapper, Dominique, 214 e n Serra, Giuseppe, 30n Simone, Raffaele, 15n, 30n, 32n,

39n, 41 e n, 45n, 57, 146n, 167n, 169n, 190n,200n,20ln

Simonetti, Manlio, 32n Sloterdijk, Peter, 149 Soriano, Paul, 9n, l 90n SteiÌ:ler, George, 49, 118 e n, 119,

120, 125, 172-173, 182 e n Stoll, Clifford, l 90n

Tani, Ilaria, 37n Teberosky, Ana, 109n

Tiziano Vecellio, 186

Velazquez, Diego Rodri'.guez de Silva y, 181

Verga, Giovanni, 158 Vettori, Francesco, 119, 120 Viano, Carlo Augusto, 34n Virgilio, 102 Virilio, Paul, 12ri Volpi, Gaetano, 122n Vrba, Elisabeth S., 13n

227

Weber, Max, 136, 137n, 156 Weir, Peter, 190 Wittgenstein, Ludwig, 102 Wunenburger, Jean:Jacques, 38n,

44n,58n

Zali, Annie, 90n, 105n, 109n Zemella, Teresina, 37n Zimbler, Mattitiyahu, l 7n

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INDICE

PROLOGO IN TRENO

L'ubiquità dei media 1. La «mediasfera» 2. Mediasfera e noosfera 3. La Terza Fase

I SENSI E L'INTELLIGENZA

1. L'ordine dei sensi 1. Sordo o cieco? 2. I sensi e l'anima 3. Una ripresa illuministica 4. Due modelli a confronto 5. Un cambiamento nei modelli d'intelligenza

2. Perché guardare è più facile che leggere 1. «Homo videns»? 2. Due tipi di intelligenza 3. Sette tratti · Appendice. Strutture testuali a confronto

IL TESTO E IL SUO AUTORE

3. Testo scritto, testo parlato, testo digitale 1. La scrittura e la memoria 2. Concezioni recenti

9 9

11 21

29 29 31 33 39 44

49 49 50 52 61

75 75 80

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3. Specificità del testo scritto 4. L'effetto stabilizzante della stampa 5. Il testo digi.tale: tecnologi,a a ondate 6. Effetti sulle pratiche di scrittura 7. Fine dell'autore?

4. Il testo si dissolve 1. Il libro e il suo ospite 2. Presupposizioni del termine «testo» 3. L'idea di testo chiuso non è intuitiva 4. Intermezzo medievale 5. Copia e interpolazione 6. Il testo si dissolve

5. Cambiamenti del leggere e dello scrivere 1. Ecologi,a ed etologi,a . 2. La «concezione classica» della lettura 3. La concezione moderna 4. Parafernalià e supporti della scrittura

IMPARARE, RICORDARE E DIMENTICARE

6. La forma del sapere 1. Premessa 2. Conoscenze nelle società tradizionali 3. La charpente: sistema, enciclopedia e ciclo 4. Nel moderno 5. La scuola, un sito dedicato

7. Il futuro del dimenticare 1. Tre gesti per formare conoscenza 2. Nani e gi,ganti 3. Memorie delegate e amnesia digi,tale 4. Esopaideia ed endopaideia 5. Il ritmo

81 89 90 94 94

99 99

101 105 106 109 114

117 117 118 120 125

135 135 136 138 145 151

155 155 160 164 165 171

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VERO, FALSO E FASULLO

8. Il falso che avanza 1. La pantera 2. Codici «autografi» e «allografi» 3. Gradi di «realtà» 4. Il digi,tale

9. «L'arte del narrare» 1. Gradini 2. Tre cambiamenti 3. «Tornano dal fronte ammutoliti»

EPILOGO IN PIAZZA

Democrazie digitali? 1. Adunanze autoconvocate 2. In superficie 3. Che segno ha il nuovo?

Questo libro

Riferimenti bibliografici Indice dei nomi

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