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Squarci di Settima Arte (prima parte)

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La Storia del Cinema raccontata da Taxi Drivers Magazine. Questa è la prima parte, con "squarci" che vanno dal Cinema muto all'arte di Stanley Kubrick

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DIRETToRE

Vincenzo Patanè Garsia

VIcE DIRETTRIcE

Giorgiana Sabatini

cAPoREDATTRIcE MAGAZINE

Lucilla colonna

coNcEPT DESIGNER

Gianna caratelli

HA coLLABoRATo A QUESTo NUMERo:

Stefano oddi

cAPoREDATToRE SITo WEB

Luca Biscontini

UFFIcIo STAMPA

Valentina calabrese

WEB MASTER

Daniele Imperiali

coNTATTI

e mail:  [email protected]

Facebook: Taxidrivers Mag II

Arretrati Magazine:

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TAXI DRIVERS MAGAZINE Storia del cinema(prima parte)

TAXI DRIVERS è dedicata a Delian Hristev (R.I.P.)

In copertina: Janet Leigh in Psycho di Alfred Hitchcock, 1960

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Lucilla Colonna

Dopo l'enorme successo dei dossier dedicati a un certoCinema indimenticabile (in cima ai numeri più cliccati dailettori ci sono “Django vive, viva Django” e “La rivoluzioneonirica di Jean Vigo”), Taxi Drivers Magazine si rituffaalacremente nel passato per incontrare volti e menti chehanno fatto la Storia della Settima Arte. A sollevare con noi e per noi il velo della polvere di stelleè Stefano Oddi, che si è formato in Letteratura e Cinemaall'Università La Sapienza, scegliendo di specializzarsi nelCinema Digitale, e di approfondire le tecniche di Ripresae Fotografia presso la scuola Sentieri Selvaggi.Ecco la prima parte della Storia, che attraversa un secoloin un centinaio di pagine da sfogliare (eventualmenteanche da stampare e rilegare), con “squarci” che vannodal Cinema muto all'arte di Stanley Kubrick.

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Le orIGInI deL cInemA muto

IL cInemA totALe dI stAnLeY kuBrIck

IL GrAnde cInemA ItALIAno doPo IL neoreALIsmo

LA rIVoLuZIone neoreALIstA

ALfred HItcHcock, Autore dI confIne

IL cInemA cLAssIco HoLLIwoodIAno

faccione invecchiato del Noo-dles di Robert De Niro che siavvicina lento al piccolo pertu-

gio del cesso di Fat Moe per guardareancora una volta le danze sinuose diDeborah in C’era una volta in America,il carosello liberatorio in cui il Guido diMarcello Mastroianni ricataloga tutti itasselli della sua vita in Otto e mezzo,l’enigmatico monolito nero attorno a cuisi muove impazzito il gruppo di primati in2001: Odissea nello spazio. E poi iMacGuffin di Hitchcock, la DeLoreanvolante di Doc Emmet Brown, i perso-naggi allucinati, nevrastenici e su di giridi Tarantino, i gesti ingenui e infantili delpiccolo alieno ET…Tutti questi squarci di cinema, e in realtàtutte le immagini che ogni spettatore delmondo ha strappato ai fotogrammi dellesue pellicole preferite per rinchiuderle nelcuore pulsante della propria memoria,devono la vita a un treno. Sì, proprio a untreno! Senza di esso niente sarebbe statocom’è. Da quello tutto nasce. E da lì tuttoevolve. Dal genio ribelle e dalla vogliasfrenata di sperimentazione di duegiovani fratelli francesi, al secolo Louis eAuguste Lumière.Figli di un fotografo, con una formazionescientifica alle spalle, i due perfeziona-rono in modo decisivo l’impressione diimmagini della realtà esterna sulla pelli-cola di celluloide alla fine del XIX secoloe, mettendo in pratica per primi l’ideatanto semplice quanto geniale di bucarlaai lati, giunsero alla possibilità di farlamuovere sia durante l’impressione che almomento della proiezione. In questomodo diedero vita al cinematografo,un’invenzione che giudicarono “senza

futuro” ma che avrebbe cambiato il mododi guardare e concepire la realtà nel XXsecolo. In realtà, un simile sistema discorrimento di immagini fisse messo inatto per dare un’illusione di movimentoaveva trovato applicazione già pochi anniprima nel cosiddetto “kinetoscopio” del-l’americano Thomas Edison che peròconsentiva una visione monoculare,impedendo dunque quella fruizionecollettiva in cui la nuova invenzione deiLumière trovava la sua ragion d’essere.I primi documenti cinematografici prodottidai due fratelli furono più che altro regi-strazioni di fatti quotidiani, prototipi cioèdei moderni documentari.Il 28 Dicembre1895 nel Salon Indien del Grand Café sulBoulevard des Capucines di Parigi sitenne la prima proiezione cinematogra-fica a pagamento della storia. Gli spetta-tori increduli videro prender vita immaginiin bianco e nero che riproducevanol’uscita degli operai dalle Officine Lumiere.I primi film duravano per lo più pochisecondi, a volte qualche minuto, e si pre-figgevano scopi prettamente illustrativi econoscitivi. I Lumière vedevano il cinemacome uno strumento capace di amplifi-care il potere sensoriale della vista edunque di analizzare in modo piùprofondo la realtà. Proprio per questonella filmografia di questi pionieri man-cano -quasi sempre- intenti narrativi.Louis e Auguste documentavano il realee il mondano, ponevano la loro cinepresadi fronte al mondo perché essa potesseepifanizzarlo e solo di rado predispone-vano cose e persone in modo da creareun effetto che esulasse dalla mera regi-strazione dell’ordinaria trama del vissuto(successe con L’arroseur arrosé, prima

LE ORIGINIDEL CINEMA MUTO

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L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat (L’Arrivée d’un train en gare de La

Ciotat), Louis e Auguste Lumière, 1896

Viaggio nella Luna (Voyage dans la Lune), Georges Melies, 1902

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farsa cinematografica che mostra loscherzo messo in atto da un ragazzinonei confronti di un innaffiatore). Eppure,nonostante questa totale aderenza allarealtà -colta con tutti i suoi momenti diimpasse e noia- i loro film ebbero comun-que modo di sorprendere ed emozionareil pubblico inesperto, colmandolo dimeraviglia e sorpresa. Come leggendavuole, alla proiezione de L’Arrivée d’un

train à La Ciotat gli spettatori fuggironoimpauriti, lasciando la sala vuota perpaura che il treno mostrato sullo schermoli travolgesse. Proprio questa proiezionediede all’invenzione senza futuro dei duefratelli francesi un’immediata e potentis-sima risonanza, travalicando gli angusticonfini del laboratorio fotografico Lumieree diffondendosi in tutto il mondo.Ad accogliere la macchina cinema nellesue grazie fu allora una personalitàdiametralmente opposta alla coppia deifratelli fotografi: Georges Méliès, illusio-nista, prestidigitatore, oltre che direttoredi uno dei più celebri teatri parigini, ilRobert-Houdin, già sede di spettacoli dimagia, intervallati spesso e volentieri daproiezioni sorprendenti condotte attra-verso strumenti pre-cinematografici comeil kinetoscopio o la lanterna magica. L’illusionista, presente alla prima proie-zione cinematografica al Grand Cafè,riconobbe subito nel dispositivo dei fratelliLumiere un’incredibile strumento magicoe affabulatorio, capace di manipolare ilmondo, deformarlo in modo ironico,surreale, grottesco e onirico; di trasfor-mare la naturale quotidianità del reale inuna materia poetica e carica di sugge-stioni; di colpire l’immaginazione e leemozioni dello spettatore in modo deci-samente più profondo di qualsiasi altracanonica forma di spettacolo.Così Méliès orientò verso tutt’altra dire-zione gli scopi della macchina cinemainventata dai Lumière: se questi aspira-vano attraverso l’obbiettivo a riprodurrefedelmente il mondo per indagare scien-tificamente la sua complessità, egli puntò

a decostruire il reale per ricomporlo in unordine diverso, non più basato sui principidella verosimiglianza o della coerenzama su quelli della poetica evasione versoun universo fiabesco, poetico e magico.Sin dagli albori dunque, il cinema si pro-pose al pubblico in una dialettica co-stante tra realismo e fantasia, due canalidi comunicazione che lo animano ancoraoggi in quell’opposizione basilare chesepara il documentarismo dal cinema dinarrazione. I film di Méliès si caratteriz-zavano per le invenzioni strambe, glieffetti magici e illusivi come se il maestrovolesse trasportare su celluloide tuttol’enorme patrimonio di numeri e trucchiche come prestidigitatore conosceva allaperfezione. Bloccando per pochi secondila macchina da presa durante la registra-zione e spostando gli oggetti che vi sitrovavano di fronte, Méliès ricreava sulsupporto di pellicola la magia di spari-zione; sovrapponendo immagini girate inprecedenza su sfondi di vario tiporiusciva a moltiplicare esponenzialmenteil numero di oggetti, di persone, di partidel corpo presenti nell’inquadratura;dipingendo a mano i fotogrammi dei suoifilm conferiva alle immagini una forzastraordinaria, trasformando la succes-sione degli episodi ripresi in veri e propriquadri in movimento. Il pubblico restavaestasiato da quei lavori che parevanotrascinarlo in un mondo diverso, altro,lontano da quello reale intriso di bolletteda pagare, debiti e preoccupazioni. E inquel Voyage dans la lune che resta ilsuo capolavoro più noto, Méliès inserìuna serie di allusioni meta-cinematogra-fiche che si riferivano proprio alla condi-zione del pubblico e alla sua persona-lissima poetica cinematografica, distanteanni luce da quella dei Lumiere, inventoridi un mezzo del quale non si servironomai per diventare pienamente degliautori. Mettendo in scena la storia di al-cuni scienziati che teorizzano e poiattuano un allunaggio, il mago illusionistaprogettò la celebre scena in cui il razzo

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lanciato a velocità supersonica colpiscel’occhio della Luna. Una sequenza che,nonostante l’apparente semplicità fiabe-sca e infantile, cullava una profonditàmetaforica essenziale. In quello schiantoc’era in realtà tutta la volontà del primovero autore della storia del cinema dicolpire l’occhio dello spettatore, la suaattenzione e la sua immaginazione,rivendicando la sua natura di arte per lemasse e sancendo l’esplosione definitivadel fenomeno che da allora andò semprepiù affinando i suoi dettami fino a giun-gere a una canonizzazione linguisticavera e propria.Per tutto il primo decennio del ’900 ilcinematografo assunse una configura-zione ben distante da quella con cui tuttinoi lo conosciamo. Nelle sempre piùnumerose sale di proiezione -o piùspesso in luoghi improvvisati- il pubblicoassisteva a una successione di immaginimute, accompagnate da un imbonitorein carne ed ossa che le commentava,spiegando i passaggi più complessi,mentre un’orchestra ravvivava l’atmo-sfera con un sottofondo musicale. Per dipiù -e forse proprio in questo sta ladiscrasia tra quell’affascinante e trapas-sato modo di far cinema e le nostre abi-tudini- le scene proiettate sullo schermoesulavano da una logica narrativa.Il cinema, ultimo arrivato nel vastissimocampo delle arti figurative, era associatopiù alle componenti ludiche e spettacolaridel circo, del teatro popolare, degli spet-tacoli di varietà che non alla tradizionealta del teatro o del grande romanzo, fon-dati su un dominio pressoché totale dellacomponente narrativa su tutti gli altri ele-menti del discorso. Il cinema era più chealtro sogno ad occhi aperti, sorpresa sba-lorditiva, fantasmagoria. Anche quando lasuccessione delle immagini si concatena-vano in una storia, l’assenza di preciseregole di costruzione del discorso, ren-deva la narrazione anarchica, disegualee discontinua, praticamente impossibileda seguire senza l’aiuto di un imbonitore

sempre pronto a correre in soccorso di unpubblico impreparato. Fu intorno al 1906che il cinematografo modificò la suanatura in seguito alla prima crisi della suabreve esistenza. Come i fratelli Lumièreavevano previsto, i quadri animati e glieffetti magici alla Méliès stancaronopresto anche coloro che inizialmenteavevano gridato al miracolo tecnico-artistico. Per fronteggiare il crollo di pub-blico e di resa che ne derivò, il nuovomezzo cominciò a modificare il suostatuto: da attrazione magica e anarcoidesi trasformò in una macchina narrativa.Sparì l’imbonitore -anche perché le limi-tate entrate economiche non permette-vano di pagare una persona chefisicamente presenziasse e spiegasse laproiezione- e al suo posto comparveroall’interno del film delle didascalie piùastratte e meno corporee, ma comunquein grado di assolvere al compito di espli-care l’evolversi di una narrazione.Parafrasando una celebre frase delcritico Edgar Morin, la fine del primodecennio del ’900 vide “la trasformazionedel Cinematografo in Cinema”, ovvero ilpassaggio da una concezione attrazio-nale della settima arte a una pienamentenarrativa. Il dispositivo senza futuro deiLumière garantì la sua sopravvivenza,reinventandosi cantastorie. Iniziò così unflorido periodo di sperimentazione in cui icineasti di tutto il mondo tentarono diimporre un ordine sempre più rigorosoalla narrazione filmica. In Francia nac-quero delle vere e proprie serie cinema-tografiche che recuperavano il principiosequenziale dei romanzi a puntate; negliStati Uniti Edwin Porter realizzò brevifilm molto moderni, caratterizzati da unmontaggio ordinato e un ritmo serrato(The great train robbery e Life of an

american fireman); in Inghilterra i primipioneri del cinema si riunirono intorno allacosiddetta Scuola di Brighton, con loscopo di elaborare una grammatica e unasintassi della nuova forma artistica.Personalità come James Williamson e

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Assalto al treno (The great train robbery), Edwin Porter, 1903

Cabiria (Cabiria), Giovanni Pastrone, 1914

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George Albert Smith misero a puntonumerose soluzioni innovative cheinfluenzarono prepotentemente il lavorodei cineasti successivi. Innanzitutto sosti-tuirono alla mera giustapposizione diinquadrature slegate, il principio delnesso, di un raccordo cioè capace di ren-dere più continuo e meno riconoscibile lostacco tra un’immagine e la successiva.Lavorarono inoltre alla tecnica dellasovrimpressione, usata finalmente inmodo nuovo non più come trucco magicocapace di amplificare la concezione delcinema come reverie ma come strumentoindispensabile per perfezionare i mecca-nismi narrativi e renderli più serrati. Fu-rono inoltre i primi cineasti ad avvalersidell’uso del primo piano, riconoscendoneil valore di straordinario veicolo di identi-ficazione tra attore, spettatore eregista. In un universo di cartapesta, incui la macchina da presa non era maiposta a meno di 5 o 6 metri dall’attoreprincipale, i membri della Scuola di Bri-ghton contribuirono a deteatralizzare ilcinema, spianando la strada a quella ca-nonizzazione dei modi di fare film e -at-traverso essi- raccontare storie chegiungerà a pieno compimento con il la-voro capitale e imprescindibile di DavidWark Griffith.Proprio in questo prodigioso e geniale re-gista statunitense la storiografia cinema-tografica riconosce uno dei padrifondatori della settima arte, come oggi lasi intende. Griffith fece tesoro di tutte lecomplesse esperienze messe in atto dailavori della Scuola di Brighton e da uncerto cinema italiano del tempo (in parti-colare fu suggestionato da Cabiria diGiovanni Pastrone, mega-produzione didue ore in cui si tracciava in modo linearee altamente codificato la storia delle pe-ripezie di una bambina romana al tempodella prima guerra punica, uno dei primikolossal della storia) e definì una voltaper tutte le convenzioni di base del ci-nema narrativo, istituendo quei caratterifondanti della grammatica e sintassi fil-

mica che, innalzati a criterio di organizza-zione industriale dalla Hollywood del-l’epoca d’oro, concorsero a fondare unalingua ufficiale del cinema, che domina -con le volute trasgressioni e le dovutemetamorfosi- ancora oggi. Griffith speri-mentò per più di dieci anni su un numerosterminato di corti prodotti per la Biogra-phes, prima di giungere alla più compiutaforma del lungometraggio. Fu il primo acomprendere la necessità del principio divariazione -fondamentale per infondereritmo al film- e non esitò a lavorare sul-l’inquadratura, concentrandosi sulla pos-sibilità di passare dai lunghissimi campiin cui la presenza umana si disperdevanell’immensità paesaggistica ai più minutidettagli su corpi e volti. Le figure intere oi primi piani cominciarono così a spopo-lare, alternandosi alle ampie panorami-che capaci di descrivere il territorio.Proprio questa sterminata molteplicità dicampi e piani spinse il regista ad appro-fondire il lavoro sulla sintassi, ovvero ilmodo di legare e tenere unita unagamma tanto eterogenea di immagini,azioni e movimenti, conducendolo a va-lorizzare la fase del montaggio, fino ad al-lora vista come un mero strumentotecnico utile soltanto per giustapporrequadri conseguenti. Griffith diede valorenarrativo alla fase di editing e imposedelle regole che permettevano di mettereordine nel caos indistinto degli intrecci fil-mici, rendendo invisibile la transizione traun’inquadratura e l’altra e permettendoallo spettatore un’immersione pressochétotale nella storia narrata. In parole po-vere, Griffith inventò i raccordi e diedevita alla lingua del cinema. Se ancoraoggi, guardando un film, troviamo natu-rale che al movimento di un personaggioche apre una porta, segua l’immaginedello stesso personaggio che entra den-tro una casa, il merito è proprio di Grif-fith. E se non ci sorprendiamo quando lamacchina da presa si stacca dal volto diun personaggio per mostrarci cosa staguardando nel fuori campo, lo dobbiamo

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Giglio infranto (Broken blossoms), David Wark Griffith, 1919

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all’intelligenza e alla sagacia di questopioniere dell’arte filmica. La pratica delmontaggio divenne per Griffith così in-fluente che tutti i suoi film più importantivennero costruiti sull’intreccio articolatodi storie parallele, a cui lo spettatore po-teva assistere simultaneamente attra-verso quella pratica filmica oggiconosciuta come “montaggio alternato”o appunto “montaggio alla Griffith”, unadenominazione che costituisce un omag-gio al suo creatore. Il suo primo capola-voro, Birth of a nation, raccontavaattraverso 190 minuti di girato (una du-rata impensabile per l’epoca) la storia deimembri di due famiglie americane du-rante la Guerra di Secessione tra nordistie sudisti. Griffith passò in rassegna i de-stini di padri e figli, donne e bambini, rim-balzando continuamente tra le atrocitàdel fronte e la vita domestica, tra i tumultidi un mondo razzista in cui il Ku Klux Klanla faceva da padrone (e alla sua uscita ilfilm fu duramente contestato per questasua matrice intollerante e xenofoba) e lasperanza in un futuro migliore. Ciò checolpì oltre al rigore di un linguaggio cine-matografico finalmente in grado di dareordine al magma di immagini, campi lun-ghi e primi piani di cui la narrazioni sicomponeva, fu il grande lavoro che il re-gista mise in atto sugli interpreti: consi-gliando alle sue dive -da Mary Pickforda Lilian Gish- di evitare movimenti ec-cessivi e troppo concitati, di “parlare” colvolto e con gli occhi, esaltando la micro-fisionomia e i gesti semplici e quotidiani,Griffith impose quel criterio di natura-lezza che contribuì in modo determinantea liberare il cinema dal peso ingombrantedella recitazione teatrale, troppo artifi-ciosa e manierata. Nei lavori successivi,il regista proseguì e amplificò il suolavoro sul montaggio alternato. Nacqueappena un anno dopo il celebre Intole-

rance, kolossal epico attraverso cui il ci-neasta statunitense tentò di confutare leaccuse di razzismo che gli erano piovuteaddosso in seguito all’uscita di Birth of a

nation. Se con il film precedente infattiaveva mostrato l’itinerario di odio, umilia-zione e dolore attraverso cui si era svilup-pata la genesi della nazione più potentedel pianeta, con questo metteva in scenauna cruda denuncia dell’intolleranzaumana attraverso le epoche storiche,esaltando -per converso- quella solida-rietà fraterna per mezzo della quale erapossibile far nascere degli ideali “StatiUniti del mondo”. Griffith divise il film inquattro episodi, corrispondenti ad altret-tanti momenti storici: il primo narravadella presa di Babilonia da parte dei Per-siani, il secondo raccontava la Passionedi Cristo, il terzo riproduceva la Strage diSan Bartolomeo nel ’500 francese e ilquarto giungeva alla contemporaneità, il-lustrando la vicenda di un uomo condan-nato a morte per un omicidio di cui nonaveva colpa e quella della moglie che sibatteva per provare la sua innocenza. Griffith decise di montare tutte le storiein modo parallelo, producendo una sug-gestiva mescolanza tra tempi, luoghi e at-mosfere e realizzando una vera e propriacelebrazione del montaggio, eretto a ful-cro portante dell’intera struttura filmica.Come fu d’altronde per il successivosplendido Broken blossoms, decisa-mente lontano dall’afflato epico dei primidue kolossal e costruito invece attorno auna vicenda intima e dolorosa, quella diuna tredicenne picchiata e seviziata daun padre alcolista e violento, perenne-mente diviso tra il suo lavoro da pugile ei pomeriggi passati in una bettola traboc-cante di ubriachi. La ragazza -interpre-tata da una Lilian Gish mai così intensae toccante- riuscirà a fuggire, trovandol’ospitalità di un commerciante cinese,senza però liberarsi dall’ombra violenta etemibile del padre padrone che si metteràsulle sue tracce. Con questo piccolo gio-iello, Griffith denunciò lo squallore dellarealtà americana, facendo finalmentedello straniero un personaggio meritevoledi sentimenti positivi. Svanì così la xeno-fobia che pareva impregnare Birth of a

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nation, per lasciare spazio a una narra-zione serrata, commovente, intimista elacerante, in cui l’indagine psicologica elo scandaglio interiore dei personaggiraggiunsero vertici mai toccati in prece-denza.Il grande lavoro compiuto da Griffith sulmontaggio fece scuola in tutto il mondo eaprì di fatto la strada a tentativi di speri-mentazione sempre più significativi nellapratica di editing. Furono in particolare isovietici a rielaborare in forme moltepliciil patrimonio del cineasta americano, po-nendo verso il montaggio un’attenzionetale che tutta la successiva storiografiadel cinema prese a considerare il cinemasovietico dell’epoca del muto come “artedel montaggio sovrano”. Alla fine deglianni ’10, Lev Kulešov, futuro direttoredel primo istituto nazionale di cinemato-grafia di Mosca (e in realtà del mondo in-tero), mise in atto un esperimento colquale volle dimostrare il valore signifi-cante del montaggio all’interno del pro-cesso cinematografico. Ritagliò da unvecchio film d’epoca zarista un piano chemostrava il volto -piuttosto inespressivo-di un famoso attore dell’epoca e lo acco-stò -senza mai apporvi la minima modi-fica- a tre immagini differenti: unascodella di minestra fumante, il cadaveredi una bambina disteso in una bara e unabella donna sdraiata su un divano. Montòil filmato e lo propose al pubblico che,contro tutti i pronostici, acclamò la po-tenza espressiva dell’attore di cui erastata mostrata sempre la stessa inqua-dratura. Nel primo caso il volto dell’attore-legato al piatto di minestra- sembravaquello di una creatura affamata, nel se-condo si caricava di desolazione e do-lore, nel terzo tradiva una certaeccitazione. Attraverso l’esperimento, inseguito ribattezzato Effetto Kulešov, ilsuo creatore dimostrò che il senso di unprodotto cinematografico non deriva daisingoli piani in cui esso è spezzato madalle infinite possibilità di combinazionedi quei fotogrammi permesse dal mon-

taggio. Diventato direttore del VGIK (Isti-tuto statale pan-russo di cinematografia),Kulešov continuò la sua sperimenta-zione, diffondendo tra i suoi allievi il suoprepotente interesse nei confronti dellafase di editing, considerata a tutti gli ef-fetti l’unico veicolo capace di produrresenso all’interno dell’apparato filmico.La personalità più eminente di questa flo-rida stagione fu Sergej MichajlovičĖjzenštejn, teorico del cinema prima cheregista, autore innovativo, geniale, a piùriprese glorificato ed inscritto nel noverodei più grandi cineasti della storia. ComeKulešov -di cui fu anche allievo per unbreve periodo- e anzi più di lui,Ėjzenštejn fondò la sua ricerca cinema-tografica sul potere del montaggio, sullasperimentazione delle complesse e infi-nite possibilità semantiche e significantiproducibili attraverso la concatenazionedi quei frammenti sconnessi di realtà cheerano i piani e i campi. Ma il lavoro diĖjzenštejn -documentato, catalogato espesso spiegato nei numerosi volumi chelo stesso regista decise di redigere- rag-giunse picchi di genialità e perfezioneche gli esperimenti pionieristici di Ku-lešov non poterono che rimirare dalbasso. Il regista, discepolo di quel grandeinnovatore teatrale che fu Vsevolod Me-jerchol’d, rigettò la linearità del montag-gio tradizionale e ne elaborò concezionivia via diverse e innovative, basate sulladiscontinuità narrativa, sull’associazionedi materiali filmici eterogenei, sull’attiva-zione dell’intelligenza spettatoriale, appli-candole concretamente nelle varie fasidella sua carriera. Una delle sue prime epiù geniali invenzioni fu il cosiddetto mon-taggio delle attrazioni, in cui la concate-nazione delle immagini procedeva inmodo disordinato e anarchico. Il registaconnetteva inquadrature che risponde-vano a ordini differenti di realtà, nel ten-tativo di violentare visivamente lospettatore, di attivare la sua immagina-zione perché saturasse le lacune del filme cercasse un senso e un nesso in grado

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La corazzata Potëmkin (Bronenosec Potëmkin), Sergej Michajlovič Ejzenstein,1925

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di spiegare il legame tra un’immagine ela successiva. In Sciopero, suo primolungometraggio, Ėjzenštejn mise inscena la storia della ribellione di ungruppo di operai alle avverse e insoste-nibili condizioni dettate dai padroni di unafabbrica e della successiva terribile re-pressione attuata dalle forze armate. Pro-prio nella terribile sequenza finaleincentrata sul massacro dei dimostranti,era possibile ravvisare nella sua applica-zione più pura l’idea di montaggio delleattrazioni: mentre sullo schermo passa-vano le immagini delle milizie armateche, a cavallo, sterminavano gli operai apiedi, Ėjzenštejn inserì immagini slegatedalla diegesi che descrivevano il macellodei buoi. L’operazione mirava ovvia-mente a risvegliare la coscienza deglispettatori, a far sì che il loro cervellosmettesse di essere passivamente im-merso in una storia lineare e potesse in-vece interrogarsi attivamente sulleimmagini che passavano sullo schermo,su quella metafora visiva che intendevamettere in rapporto la repressione armatacon la mattanza dei buoi, dichiarando cheil destino dei proletari non era poi cosìdissimile da quello delle bestie da soma.Più complessa era invece l’idea di mon-taggio intellettuale, che Ėjzenštejn definìcome una fase più avanzata del montag-gio delle attrazioni. Se questo infatti siproponeva di solleticare l’immaginazionedel pubblico per portarlo a interrogarsi at-tivamente sulle insolite connessioni di im-magini mostrate, il montaggio intellettualemirava a creare delle idee, dei concettiastratti. Più semplicemente -scrisseĖjzenštejn- due inquadrature non do-vrebbero essere legate da continuità earmonia -come pretendeva la teoria tra-dizionale del montaggio- ma piuttosto daun principio di conflitto. Un conflitto chepuò risolversi anche banalmente nelsemplice scontro tra luce e ombra,masse e volumi di dimensioni diverse (neLa corazzata Potëmkin ad esempio lacelebre sequenza della scalinata è gio-

cata sull’opposizione tra le linee orizzon-tali dei gradini e i movimenti verticali deisoldati che scendono e dei rivoltosi chefuggono). Dunque, due piani successivisecondo Ėjzenštejn, devono esseremontati in modo che sembrino collidere ourtarsi l’uno contro l’altro poiché “lo scon-tro di due elementi figurabili porta allacreazione di qualcosa che figurabile nonè”, e dunque la giustapposizione di dueinquadrature dal contenuto non continuoporterebbe inevitabilmente alla nascita diun elemento non visivo ma mentale,un’idea, un concetto astratto. I film impre-gnati da tale logica del montaggio intel-lettuale erano costellati di momenti“difficili”, particolarmente oscuri, in cuil’accumulo di materiale e la successionedi immagini totalmente sconnesse miravaa produrre un senso superiore che lostesso regista molto spesso chiariva neisuoi scritti. In Ottobre, film commissio-nato dal Governo Sovietico per la com-memorazione del primo decennale dellaRivoluzione d’ottobre del 1917,Ėjzenštejn illustrava il ritorno di Lenin,l’assedio al Palazzo d’Inverno e la vittoriafinale, intervallando però la narrazionecon episodi slegati dal flusso diegetico. Inun’occasione, in particolare, il regista de-cise di mettere in immagini l’idea dell’in-consistenza del concetto di religione.Raccolse allora una serie di fotogrammiche ritraevano idoli primitivi, per poi ac-costarli all’immagine barocca di un croci-fisso cristiano. Mettendo sullo stessolivello i feticci primitivi -a volte mostratisolo a velocità subliminali per confondereulteriormente la visione- e l’emblemadella religione più diffusa al mondo, riuscìa fare del crocifisso un simulacro tra i si-mulacri, un oggetto tra gli oggetti, ren-dendo visivamente il suo ateismo. Iprocedimenti costruttivi del montaggiodelle attrazioni e di quello intellettuale fu-rono applicati da Ėjzenštejn alternativa-mente in tutti i suoi capolavori, semprefondati su una dialettica tra sperimenta-zione formale che mira al futuro e conte-

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La corazzata Potëmkin (Bronenosec Potëmkin), Sergej Michajlovič Ejzenstein,1925

La passione di Giovanna d’Arco (La Passion de Jeanne d’Arc), Carl TheodorDreyer, 1928

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nuto narrativo fortemente improntato alpresente, al sociale o alla celebrazione diun passato glorioso. Così La corazzata

Potëmkin, suo film più noto, metteva inscena l’avventuroso ammutinamento deimarinai della corazzata del titolo, unodegli avvenimenti che diede vita alla Ri-voluzione del 1905, mentre con Il vec-

chio e il nuovo (o La linea generale)descriveva in modo dettagliato le vessa-zioni a cui i proletari dei piccoli villaggirussi erano sottomessi, per poi raccon-tare il tentativo di una contadina di mo-dernizzare le tecniche agricole emeccanizzare la produzione per modifi-care lo stile di vita collettivo.E mentre ad Oriente, Ėjzenštejn davavita alla sua opera sperimentale, innova-tiva e propagandistica, l’Europa cinema-tografica si trasformava in una fucina ditendenze, correnti, scuole e indirizzi in-credibilmente produttiva. Nel freddoNord, il cinema rifletteva i caratteri di unacultura dedita all’introspezione, alla psi-cologia del profondo, alla dialettica tragrandi spazi innevati e individui soli. Sitrattava di un cinema intenso, appassio-nato, affascinante, in grado di penetrarenell’uomo e di interrogarsi sull’esistenzadi una realtà superiore e trascendente.Un cinema che, insieme, sfociava nel-l’analisi sociale e nella rêverie, mesco-lando realismo e senso del fantastico.Nel Carretto fantasma di Victor Sjö-ström, il regista sembra inizialmentepuntare su un realismo antropologico: unproletario alcolizzato e bestemmiatorevive di espedienti e trascina la sua fami-glia nel baratro, poi muore. Ma immedia-tamente subentra il fantastico: la sorellaprende il suo posto negli Inferi e lui tornain vita, raddrizzando la sua vita e quelladei suoi cari. Il miglior cineasta del ci-nema muto scandinavo resta però CarlTheodor Dreyer, magnifico interpretedella cultura nordica, autore di un’operacomplessa, scissa tra reale e trascen-dente, perennemente alla ricerca ditracce ultraterrene in un mondo gretto e

malvagio. Tra i suoi migliori lavori ricor-diamo Pagine dal libro di Satana,un’analisi della presenza del male nelmondo attraverso quattro differenti epo-che storiche e La passione di Giovanna

d’Arco, entrato nella storia del cinemacome capolavoro della microfisionomia.Attraverso l’uso frequente del primopiano, Dreyer realizzò uno scandagliopressoché totale delle emozioni della pro-tagonista, accedendo alla sua vita inte-riore, mostrando quel profondoinconoscibile nascosto negli anfratti del-l’anima. Intanto, in Francia gli autori insi-stevano sul concetto di photogenie, per ilquale la realtà posta di fronte alla mac-china da presa si trasformerebbe, acqui-sendo una nuova espressività. Registicome Marcel L’Herbier, Jean Epstein eAbel Gance furono i primi a considerareil cinema alla stregua di una forma d’arteindipendente e tentarono a tal propositodi ricreare la realtà fattuale attraverso leproprie macchine da presa, ricercandoeffetti ottici di distorsione attraverso lentiparticolari, impostando un’illuminazioneche si facesse voce dell’anima più cheespressione di verità. Questo cinemasoggettivo e intimista, fatto di allusioni esimboli ed etichettato come Impressio-nismo Francese costituiva il perfetto ri-baltamento di quel che in Germania ful’Espressionismo cinematografico, ca-ratterizzato da una visuale imposta dal-l’alto, dalla sottomissione dell’individuo aun potere superiore e schiacciante.Espressione calzante di un’epoca,l’Espressionismo incanalò le violenze, isoprusi e la sofferenza di una nazionestremata dalla Prima Guerra Mondiale esull’orlo del baratro economico e li pro-iettò nelle trame e nelle tessiture formalidei film. Le paure, i timori e le ferite an-cora aperte di una nazione seviziata estuprata portarono i loro segni nel truccoaggressivo che deformava le fisionomiedei volti degli attori, rendendoli ideal-mente indistinguibili in una massa dischiavi sottomessi a un potere sover-

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Aurora (Sunrise), Friederich Wilhem Murnau, 1927

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chiante; nelle scenografie oblique, stra-volte, fatte di porte così basse da costrin-gere gli attori ad inchinarsi e di vicoli cheprocedevano a zig zag immersi in un’illu-minazione debole e tenebrosa; nelletrame dominate da sussulti onirici e psi-cotici, fatte di personaggi deboli pronti asottomettersi ad abili manipolatori di co-scienza. Basti pensare al Gabinetto del

dottor Caligari, primo cult-movie dellastoria, capolavoro in bilico tra sonno e ve-glia, sanità e follia, realtà e allucinazione,in cui un mago da fiera sveglia ogni notteuna mummia dal suo sonno eterno e lacostringe agli efferati omicidi su cui il pro-tagonista prende ad indagare.Eppure autori eccezionali come FritzLang e Friederich Wilhem Murnau, ledue maggiori personalità del cinemamuto tedesco, non si barricarono ermeti-camente negli stilemi dell’Espressioni-smo, piuttosto lo attraversaronotangenzialmente per approdare a orien-tamenti nuovi. Il primo attraversò tuttol’ampio e variegato panorama dei generi,muovendosi tra il mito tedesco con il flu-viale I Nibelunghi e la fantascienza conMetropolis, cronaca di un mondo chevede la definitiva separazione tra borghe-sia industriale -che vive in altissimi grat-tacieli- e proletariato operaio -relegato nelsottosuolo, fino a giungere al crime moviecon quel perfetto primo film sonoro chefu M, tetro affresco di una città messa insubbuglio da un killer di bambini. Il se-condo, dopo Nosferatu, affascinante ca-polavoro espressionista che recuperòsotto falso nome il Dracula di Bram Sto-ker, divenne l’interprete più moderno einfluente di una linea cinematograficatutta tedesca nota come Kammerspiel,concentrata su storie piccolo-boghesi svi-luppate prevalentemente in interni. Il ri-sultato più alto raggiunto da Murnauall’interno di questa tendenza fu senz’al-tro la coproduzione tedesco-statunitenseL’ultimo uomo (o L’ultima risata), storiadella caduta professionale (ed esisten-ziale) di un vecchio portiere d’albergo, re-

trocesso alla custodia dei gabinetti. Al fi-nale cupo e pessimista per cui optò Mur-nau, gli americani vollero applicareun’appendice positiva, realizzando unhappy ending tipicamente hollywoodianoe portando all’obbligo del doppiotitolo. Proprio in quell’America ottimista edemocratizzante, Murnau migrò nel1927 e proprio in quell’anno diede vita alsuo capolavoro, Aurora, l’itinerario dicrollo e redenzione di un pescatore se-dotto da una ragazza di città e da questaconvinto ad uccidere sua moglie: una sto-ria d’amore feroce e commovente, toc-cante e vera, magnificamente sospesatra le nebbie notturne di un lago campe-stre, dove l’uomo vacilla e lascia fuggirela consorte, e le luci accecanti della cittàin festa, tra le quali la coppia si ritrova.Con Aurora, Murnau mostrò ad Holly-wood le sue incredibili capacità dietro lamacchina da presa, dando vita ai primipiani-sequenza della storia del cinema,elaborando complessi movimenti di mac-china che riflettevano metaforicamente leoscillazioni di desiderio dei protagonisti efacendo scuola a quegli americani chepochi anni prima avevano imposto sulsuo Ultimo uomo il proprio inconfondi-bile marchio di fabbrica.Eppure, i nomi ai quali è storicamente le-gata la mitologia popolare del cinemamuto sono senz’altro quelli di CharlieChaplin e Buster Keaton, i due grandiprotagonisti del comico statunitense, au-tori vicini nello spirito e diversissimi neimodi di praticarlo attraverso l’immaginedi celluloide, per certi versi accostabili inuna comune visione del mondo, per altririvali antitetici nel modo di intendere vitae cinema. Entrambi, però, artisti a tuttotondo: (quasi sempre) autori, registi, at-tori delle proprie opere. Chaplin, inglesedi nascita, costruì la sua fama attorno al-l’immagine tenera e malinconica del va-gabondo -il famoso Charlot- dall’andaturadistinta ed elegante, a tratti simile aquella di una marionetta, vestito di unagiacca logora, una bombetta in testa e un

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Il monello (The kid), Charlie Chaplin, 1921

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paio di scarpe più grandi di qualche nu-mero ai piedi. Un alter-ego che dominòtutte le sue prime produzioni, fungendoda punto di vista grottesco da cui osser-vare e stigmatizzare le brutture del reale,attraverso una prospettiva semplice e po-polare, ironica e commovente, tenera,dolcemente improntata ai buoni senti-menti, aperta al grande pubblico perchélontana da intellettualismi di ogni sorta.Proprio interpretando quell’omino inge-nuo, sbadato e dal cuore d’oro, Chaplinanalizzò tutto l’immenso spettro di senti-menti umani, problematiche sociali e con-getture storiche che a suo avviso ilcinema era in dovere di rappresentare.Così, immerso nell’immensa ricchezza ditrovate comiche che lo rese celebre,Charlot divenne padre putativo di un pic-colo orfano nel meraviglioso Il monello,struggente requisitoria sul dramma del-l’infanzia abbandonata e salace criticanei confronti dei barbari metodi usati daifunzionari degli orfanotrofi; percorse isentieri innevati dell’America di fine ’800in cerca di fortuna ne La febbre dell’oro,rintracciando nella sete mai paga di po-tere e ricchezza la genesi della nazioneche l’aveva consacrato; fu una malpa-gata star comica ne Il circo, melo-dramma triste e malinconico tra gabbie dileoni addormentati e incredibili sketch diequilibrismo; descrisse lo stato di graziadell’amore nell’indimenticabile Luci della

città, rimbalzando continuamente tra unaragazza cieca capace di conquistare ilsuo cuore e un miliardario lunatico prontoad essergli amico soltanto da ubriaco; cri-ticò in modo irriverente la contemporaneasocietà meccanizzata, consumistica ealienante in Tempi moderni. Nel 1940col Grande dittatore, in un attacco sfron-tato e diretto al Nazismo di Hitler, passòdefinitivamente al sonoro, abbandonandola sua maschera comica, bonaria e otti-mista per lasciar spazio ai ruoli più tragicie rassegnati degli ultimi capolavori cre-puscolari: Monsieur Verdoux e soprat-tutto Luci della ribalta, vero e propriotestamento artistico e spirituale in cui in-

terpreta un vecchio clown alcolizzato so-speso tra i ricordi di un passato glo-rioso. Proprio in una scena di questocommovente congedo dal grandeschermo il vecchio Charlot duettò conl’amico-rivale Buster Keaton, in unasorta di sfida ad alto tasso di comicità odi definitiva dichiarazione di pace firmatadalle due più grandi personalità del mutostatunitense.Keaton, a differenza di Chaplin, tentò diimmergere la sua irresistibile comicità inun’opera dai caratteri più complessi, innarrazioni serrate e aggrovigliate (comequell’adrenalinica avventura on the roadche è Come vinsi la guerra) in cui ilsenso di personaggi e oggetti è sottopo-sto a una continua manipolazione, in cuiciò che a prima vista può apparire banalefinisce per assolvere a una funzione pri-maria nello scioglimento dell’intreccio.Un’opera lontana da quella semplicità po-polare e ingenua che caratterizza i mi-gliori lavori di Chaplin e carica invece dinote autoriflessive e metacinematografi-che, pronte a svelare più che nasconderel’illusione del cinema. Si pensi a filmcome La palla n° 13 o Il cameraman.Nel primo Keaton è un proiezionista in-sonnolito che non resiste alla tentazionedi schiacciare un pisolino durante la pro-iezione di un film giallo e in sogno si tra-sforma nell’infallibile Sherlock jr. che havisto recitare sullo schermo, giungendo -nei suoi panni- a risolvere un terribile mi-stero. La struttura narrativa si amplifica esi sdoppia: nel film principale s’innesta unsecondo film, che coincide col sogno delprotagonista, che oltre a catturare unospettatore poco avvezzo a tali innova-zioni, riesce a rendere per immagini il po-tere di suggestione della macchinacinema, capace di influenzare in profon-dità -fino al mondo onirico- la coscienzaspettatoriale, e a riprodurre attraverso loschermo il drastico e rivoluzionario cam-biamento nel modo di concepire e -so-prattutto- guardare la realtà che il XXsecolo ha ereditato dall’invenzione senzafuturo dei fratelli Lumière. La stessa

1822

complessità di implicazioni è ravvisabilene Il cameraman, capitolo imprescindi-bile del cinema comico -e non solo- cheracconta i tentativi di un goffo operatorealla cinepresa di ottenere un postopresso la prestigiosa casa di produzioneMetro Goldwin Mayer per stare vicinoalla ragazza amata, che lì lavora comesegretaria. Ne nascono fraintendimenti,disguidi, ritardi, inseguimenti, scene al li-mite del surreale, guerre tra clan mafiosia Chinatown, gite in barca e scimmie sal-vatrici in grado di girare le manovelledella macchina da presa. Ma al di là del-l’irresistibile apparato comico, il film di-venne uno dei pilastri della cine-matografia statunitense per la grande ca-pacità di analizzare -ancora una volta- lagrande trasformazione delle coscienzeche il cinema aveva causato con la suacomparsa, la sua capacità di epifanizzareil reale, di ampliare a dismisura le nostrepossibilità conoscitive e mostrare la veritàdel mondo fenomenico meglio dell’occhioumano. Tutte riflessioni su cui s’immer-geranno in futuro autori del calibro di Mi-chelangelo Antonioni e Francis FordCoppola, riconoscendo ovviamente il va-lore sommo e insostituibile dei film di que-sto magnifico e indimenticabile artista.Nel momento in cui il cinema mutogiunse alla sua perfezione tecnico-stili-stica, concorrendo finalmente con la pro-fondità di metafore, simboli, linguaggi esuggestioni acquisita da secoli dalle altre

arti, il pubblico -complice anche la crisieconomica che di lì a poco avrebbemesso in ginocchio il mondo intero- si di-chiarò stufo dell’intrattenimento filmico erichiese ai produttori novità che potes-sero rimettere in sesto quella macchinadelle meraviglie. Detto fatto, nel 1927 ilcinema prese voce. Nuove tecnologie -inrealtà già esistenti da anni ma fino ad al-lora mai richieste- permisero di legarealla colonna visiva in bianco e nero, pa-role, suoni e rumori. Fu la fine diun’epoca: molti attori, legati a un modo direcitare plastico e mimetico, furono rim-piazzati da nuove leve che facevanodella voce il proprio punto di forza. Alcuniregisti -come Chaplin- inizialmente rinun-ciarono all’innovazione, continuando aseguire la strada del muto, altri cambia-rono mestiere, molti cedettero al nuovo esi reinventarono autori di film sonori,spesso con risultati di incredibile livello (ilgià citato M di Lang). Fu insieme uncrollo e una rinascita di proporzioni gigan-tesche. Una rivoluzione epocale che con-dusse sul lastrico, alla morte o alla folliamolte gloriose stelle del muto. Comequella immortale Norma Desmond chesul Viale del tramonto di Billy Wilder, sicrogiola sospesa nella sua solitudineamara tra lettere di fan inesistenti e foto-grafie sbiadite di un passato scomparso,affermando con riottosa dignità di essererimasta “sempre grande” mentre “il ci-nema [...] è diventato piccolo”.

Come vinsi la guerra (The General), Buster Keaton e Clyde Bruckman, 1927

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FILMOGRAFIA PARZIALE

- L’uscita dalle officine Lumière (La Sor-

tie de l’usine Lumière à Lyon), Louis e

Auguste Lumière, 1895 - L’innaffiatore

annaffiato (L’arroseur arrosè), Louis e

Auguste Lumière, 1895 - La colazione

del bambino (Le rapas du bebe), Louis

e Auguste Lumière, 1895 - L’arrivo di un

treno alla stazione di La Ciotat (L’Arri-

vée d’un train en gare de La Ciotat),

Louis e Auguste Lumière, 1896 - Viag-

gio nella Luna (Voyage dans la Lune),

Georges Méliès, 1902 - Assalto al treno

(The great train robbery), Edwin Porter,

1903 - Life of an american fireman (id.),

Edwin Porter, 1903 - Viaggio attraverso

l’impossibile (Voyage à travers l’impos-

sible), Georges Méliès, 1904 - Quo

Vadis?, Enrico Guazzoni, 1912 - Cabi-

ria, Giovanni Pastrone, 1914 - La na-

scita di una nazione (The birth of a

nation), David Wark Griffith, 1915 - Into-

lerance (id.), David Wark Griffith, 1916 -

Giglio infranto (Broken Blossoms o The

Yellow Man and the Girl), David Wark

Griffith, 1919 - Il gabinetto del dottor Ca-

ligari (Das Cabinetdes Dr. Caligari), Ro-

bert Wiene, 1920 - Pagine dal libro di

Satana (Blade af Satans bog), Carl

Theodor Dreyer, 1920 - Il carretto fanta-

sma (Körkarlen), Victor Sjostrom, 1921 -

Il monello (The kid), Charlie Chaplin,

1921 - Nosferatu (id.), Friederich Wil-

hem Murnau, 1922 - Il fu Mattia Pascal

(Feu Mathias Pascal), Marcel L’Herbier,

1924 - I Nibelunghi (Die Nibelungen),

Fritz Lang, 1924 - L’ultimo uomo ( Der

letzte mann ), Friederich Wilhem Mur-

nau, 1924 - La palla n° 13 (Sherlock jr.),

Buster Keaton , 1924 - Il navigatore (

The navigator ), Buster Keaton e Do-

nald Crisp, 1924 - Sciopero (Stačka),

Sergej Michajlovič Ejzenstein, 1925 - La

corazzata Potëmkin (Bronenosec Po-

tëmkin), Sergej Michajlovič Ejzenstein,

1925 - La febbre dell’oro ( The gold

rush), Charlie Chaplin, 1925 - Ottobre

(Oktjabr’), Sergej Michajlovič Ejzen-

stein, 1927 - Napoleon (id.), Abel

Gance, 1927 - Metropolis (id.), Fritz

Lang, 1927 - Aurora ( Sunrise ), Friede-

rich Wilhem Murnau, 1927 - Come vinsi

la guerra (The General ), Buster Keaton

e Clyde Bruckman, 1927 - La passione

di Giovanna d’Arco (La Passion de Je-

anne d’Arc), Carl Theodor Dreyer,

1928 - La caduta della Casa Husher (La

chute de la maison Husher), Jean Ep-

stein, 1928 - Il circo ( The circus ), Char-

lie Chaplin, 1928 - Il cameraman ( The

cameraman ), Buster Keaton e Edward

Sedgwick, 1928 - Il vento (The Wind )

Victor Sjostrom, 1928 - Il vecchio e il

nuovo (Staroye i novoye), Sergej Micha-

jlovič Ejzenstein, 1929 - La terra (Zem-

lya), Aleksandr Dovzenko, 1930 - M

(id.), Fritz Lang, 1931 - Tabù ( id. ), Frie-

derich Wilhem Murnau, 1931 - Luci

della città ( City Lights ), Charlie Cha-

plin, 1931 - Vampyr (Vampyr – Der

Traum des Allan Grey), Carl Theodor

Dreyer, 1932 - Furia (Fury), Fritz Lang,

1936 - Tempi moderni (Modern Times) ,

Charlie Chaplin, 1936 - Il grande ditta-

tore ( The great dictator ), Charlie Cha-

plin, 1940 - Monsieur Verdoux ( id. ),

Charlie Chaplin, 1947 - Luci della ribalta

( Limelight ), Charlie Chaplin, 1952 -

Ordet – La parola (Ordet), Carl Theodor

Dreyer, 1955

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uando si dice cinema classico sipensa al bianco e nero, alla bel-lezza spiazzante dei primi piani

di divi entrati in un immaginario miticoche ci accompagna sin dalla nascita.Vengono in mente le diligenze legnoseche corrono impazzite tra le dune dellaMonumental Valley, inseguite da indianiapache; i tramonti sudisti in cui RossellaO’Hara consuma la sua giovinezza; l’an-datura timida e impacciata di Jimmy Ste-wart che corre per un paese innevatogridando a tutti buon natale.Quando si parla di cinema classico si na-viga verso un oceano quasi mitico diforme, parole, musiche ed emozioni, ci siconfronta con un suggestivo universo ar-tistico verso il quale è impossibile nonprovare un senso di riverenza e fascina-zione. Un mondo capace di stregare ecommuovere, di inghiottire chi guarda inuna sorta di incantesimo affabulatorio, distregare attraverso le smorfie ombrose diHumphrey Bogart e di far brillare gliocchi del pubblico semplicemente con ipassi di una danza sgangherata e felicesotto la pioggia.E a ben guardare, quando si discute di ci-nema classico si apre un ventaglio di ri-flessioni, teorie, ipotesi e congetture cheinvestono il campo artistico come quellofilosofico, la prospettiva tecnica comequella sociale, il passato, il presente, il fu-turo.Quando comincia il classico? E quandofinisce (o meglio – alla luce dell’opera diautori contemporanei come Clint Ea-stwood sarebbe il caso di chiedersi – èdavvero finito)? Come inizia e perchéprende vita? E, alla base di qualsiasi altraconsiderazione, cos’è il classico? Quali

attributi di quella serie magistrale di opereche dominarono circa trent’anni di ci-nema statunitense hanno contribuito aconiare quella denominazione?Semplicemente, il termine rievoca quellasecolare concezione delle forme artisti-che nate nel territorio lussureggiantedell’antica Grecia e in seguito destinate afama imperitura.Classico indicava allora come oggi queicriteri di equilibrio, proporzione, ordine, li-nearità e armonia su cui un tempo i grecie (molto…ma molto) dopo le case di pro-duzione statunitensi impostarono le pro-prie opere, i loro percorsi di senso e imodi per trasporli.Attraverso la macchina da presa, il mon-taggio e tutto il complesso armamentariodi dispositivi tecnici di cui poteva di-sporre, la Hollywood dell’età d’oro diedeforma compiuta a un’arte per le masse incui tutto era subordinato alla narrazione.Un’arte capace di traslare sullo schermoun’illusione perfetta di realtà, celando agliocchi del pubblico la presenza del registae dei suoi virtuosismi, garantendo all’in-treccio un ritmo serrato, tale da strapparelo spettatore dalla condizione di voyeur inuna sala buia per immergerlo in una sortadi allucinazione fantastica, occultando almassimo le tracce della manipolazionecinematografica per trasportare quellemasse sedute in poltrona con il capo ap-pena alzato in un mondo diverso e pergarantirgli un’immedesimazione com-pleta nelle storie scritte dalla luce nel-l’oscurità delle sale di proiezione.Al disordine quasi anarchico del primo ci-nema muto, definito “delle attrazioni” perla sua capacità di ammaliare e stregareattraverso un flusso continuo di immagini,

Humphrey Bogart

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IL CINEMA CLASSICOHOLLYWOODIANO

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spesso svincolate da un ordine logico egerarchico, il cinema che ebbe genesi aHollywood nel 1930, per poi esaurirsi in-torno ai primi del ’60, oppose una rigidacanonizzazione delle forme e dei conte-nuti del racconto cinematografico.Il classico si fondava sull’ordine analiticoe temporale della narrazione, sul princi-pio causale per cui ogni inquadratura mo-tivava la precedente e chiamava in causainesorabilmente la successiva, su unagrammatica a misura d’uomo per la qualei personaggi – caratterizzati da psicologiepiene e determinate, prive di zone oscure– andavano ad occupare il centro delquadro, riempendo le zone calde delloschermo, ovvero quelle verso cui l’atten-zione dello spettatore era canalizzata inmodo più intenso.Ma il classico fu soprattutto il trionfo delcosiddetto decoupage o montaggio invi-sibile, incaricato cioè di legare i singoliquadri in modo da occultare le traccedella messa in scena, governato da unaserie di regole imprescindibili, ideali perporre ordine nel caos indistinto delle im-magini strappate alla realtà dalla mac-china da presa. Regole rigorose in gradodi sovrintendere ogni momento del rac-conto filmico: dalle “norme” dei 30° e180°, per cui due inquadrature succes-sive dovevano presentare una differenzadi angolazione compresa tra quei dueestremi di un ipotetico arco di circonfe-renza in modo da consentire allo spetta-tore una facile lettura degli eventi discena, senza che questa lo spiazzassecon un cambiamento radicale di prospet-tiva (ciò che accadeva superando i 180°)o lo disorientasse con uno scarto minimosul medesimo soggetto (il rischio in cui siincorreva montando due inquadrature ri-prese con una differenza angolare mi-nore di 30°).Perfino l’ordine di successione delle in-quadrature all’interno del tessuto filmicoera perfettamente organizzato e scan-dito, attraverso il sagace e lungimiranteutilizzo della cosiddetta “scala dei campi

e dei piani”, ovvero il vasto catalogo delleproporzioni in cui la macchina da presa èin grado di segmentare lo spazio circo-stante (il repertorio di “tagli” dell’imma-gine che ci permette di classificare uncampo lungo e distinguerlo da un primis-simo piano).Il tipico film classico si apriva con il notoestablishing shot, la ripresa totale – soli-tamente in esterni – del luogo in cuil’azione avrebbe preso avvio. Attraversoun graduale e progressivo avvicinamentoalla figura umana, poi, il film passavadall’immensità sterminata di ambienti incui le tracce antropomorfiche erano irri-sorie o indistinguibili agli spazi dominatidall’uomo, giungendo nei momenti dimassima intensità alla sublimazione delprimo piano (PP), figura fondamentaleper la Hollywood classica, data la sua in-credibile capacità di esaltare i lineamentidel divo ed alimentare la fascinazionequasi mitica che questo destava nelmondo degli spettatori.A questi obblighi tecnici, inoltre, il cinemaclassico aggiunse quello dei raccordi,procedure sintattiche destinate a legaree connettere inquadrature successive,sistemi che oggi possono apparire asso-lutamente ovvi (tanto sono acquisiti nelbagaglio culturale visivo occidentale), mache al tempo assunsero una rilevanzapraticamente incalcolabile nella genesi diuna vera e propria estetica del film narra-tivo.Così il raccordo di sguardo presuppo-neva che a un personaggio intento aguardare qualcosa seguisse sempre l’im-magine dell’oggetto della visione, quellodi movimento realizzava finalmente unaperfetta continuità nella ripresa del motodi un soggetto, il raccordo sonoro stabilìche l’emergere di un suono fosse moti-vato dalla successiva ripresa della suafonte.Il cinema classico elaborò, a poco apoco, strategie decisamente convenzio-nali anche per rendere visivamente con-cetti complessi come lo scorrere del

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tempo. Il pubblico, ad esempio, imparòpresto che la dissolvenza incrociata(ossia il lento svanire di un’immaginenell’altra) realizzava visivamente un’ideadi simultaneità o continuità a breve ter-mine, come comprese senza problemiche la dissolvenza in nero materializzavaun senso di fine, rappresentava la con-clusione di un episodio, di una sequenza,di un frammento e, dunque, rendeval’idea dello scorrere di un tempo piùlungo.Spesso a questi segni di interpunzione ci-nematografici, alcuni registi preferivanosoluzioni visive più concrete come il ra-pido susseguirsi dei fogli di un calendarioo il ticchettio delle lancette di un orologio.Tutto era progettato per garantire la per-fetta comprensione di uno spettatore gui-dato per mano nel flusso del racconto,per molti critici ingabbiato in una visionepredeterminata che alcuni cineasti ame-ricani e, soprattutto, le Nouvelles Vaguesdegli anni ’60 contribuirono a minare e di-struggere per restituire al pubblico la li-bertà di muoversi a proprio piacimentonel tessuto filmico.Questa pretesa di ordine e rigore èspesso associata unicamente all’idea diun cinema industriale, una fabbrica dispeculazioni fatte di luce e celluloide, at-traverso cui le grandi case di produzione(le cosiddette major) riuscirono a creareun nuovo prodotto di massa, caratteriz-zato da un fascino di cui tutti potevanousufruire e a cui in pochi riuscivano a re-sistere. Il che in parte è vero.Ma almeno all’inizio, il cinema classico fusoprattutto la vibrante risposta a quellacrisi del sociale che colpì l’America – econ lei tutto il mondo – dopo la GrandeDepressione del ’29.L’ansia di coordinare e organizzare leforme caotiche della nuova arte nataappena trent’anni prima canalizzò quel-l’esigenza di controllo della realtà che gliStati Uniti sembravano aver perso dopola crisi economica che li aveva messi inginocchio.

Il cinema classico nacque come tentativo– americano – di rivendicare un potereforte sulla realtà quotidiana. A fronte di fa-miglie bisognose che non sapevano diche vivere e milionari ridotti al lastrico dalrovinoso crollo del ’29, Hollywood imposea quel reale che il cinema riusciva astrappare dalla contingenza del tempo at-traverso la cinepresa un controllo impe-rante e rigoroso.Questo portò inevitabilmente a una pia-nificazione organizzata dei contenuti nar-rativi: il cinema, strabiliante mediumcapace di parlare a un numero stermi-nato di persone, diventava un fondamen-tale cantore dell’ottimismo, dellasperanza di rigenerazione materiale e so-ciale di popoli e nazioni. Il che compor-tava alcuni corollari limitanti mainsostituibili: la sopraffazione del male daparte del bene (e di conseguenza il cano-nico happy ending), l’esclusione o la stig-matizzazione dei comportamentiimmorali, criminali, smodati o comunqueestranei a un protocollo canonico di giu-stizia e ordine sociale.Questa tendenza si radicalizzò nel 1934con l’approvazione del “Codice Hays”,definitiva normativa di regolamentazionedei criteri a cui le sceneggiature holly-woodiane dovevano sottostare per es-sere trasformate in film. Furono proibitidallo schermo il turpiloquio, le scene dinudo, la violenza eccessiva, l’offesa e laridicolizzazione della religione e dellabandiera americana. L’omicidio e il sessofurono spinti al di fuori dell’inquadratura:era possibile evocarli ma non mostrarli di-rettamente.La censura, così, insieme all’avvenutacanonizzazione della grammatica e dellasintassi filmica, contribuì alla creazione diveri e propri schemi di riferimento all’in-terno dei quali la narrazione – di volta involta differente – poteva muoversi se-condo strategie simili. Raggiunsero cosìla loro perfezione i generi, giganteschicalderoni di forme, situazioni, perso-naggi, contenuti e ideali ricorrenti, all’in-

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terno dei quali i registi innestarono i pro-pri film, dando vita a quella che ancoraoggi è considerata la stagione di mas-sima fioritura del cinema hollywoodiano,quella in cui l’equilibrio tra il rigore indu-striale che plasmava le forme e il brio in-ventivo degli autori che di volta in voltaimpediva che diventassero stantie e ripe-titive toccò il suo vertice più luminoso einsuperato.Generi oggi in voga come il fantasy, lafantascienza e l’horror erano allora pocopraticati per l’eccessivo dispendio di ef-fetti speciali e risorse visive che richiede-vano e perché spesso dominati daelementi che mal si adeguavano alla ca-nonizzazione dei contenuti prevista dalCodice Hays. I risultati di maggior inte-resse, in questo senso, furono Il Mago di

Oz di Victor Fleming, viaggio fantasticodi una bambina in un regno abitato daspaventapasseri senza cervello, uominidi latta senza cuore e leoni senza corag-gio, il celebre King Kong di Merian C.Cooper e Ernest B. Schoedsack, i mi-sconosciuti Ultimatum alla terra di Ro-bert Wise e La cosa da un altro mondo

di Howard Hawks, entrambi incentratisulla figura dell’extraterrestre e sull’incon-tro-scontro di una civiltà aliena con quellaumana. Molti presero a leggere da subitoi film di fantascienza made in USA comeuna metafora dei velenosi terrori che do-minavano gli Stati Uniti del dopoguerra,una rappresentazione mascherata delladiffusa paura della minaccia atomica inun mondo bipolare.Ben più praticato era il war movie, che ra-dicava al suo interno due tendenze di-stinte, due modi lontani, forse paralleli, diintendere l’abominio del conflitto armato.Da un lato il film di guerra era realizzatoper celebrare un patriottismo propagan-distico, dall’altro scavava in profondità neiterribili retroscena dello scontro a fuocoe nell’interiorità devastata degli uominicostretti a prendervi parte, individuandol’orrore e il disagio di un’umanità alla de-riva. Il primo gruppo di film bellici era ca-

ratterizzato da una linearità narrativa acui veniva sottomesso lo scandagliodell’anima dei protagonisti, il secondoprocedeva invece rovesciando l’equilibriodei film patriottici, dedicandosi più all’in-dividuo che non all’accurata rappresen-tazione delle battaglie.La distanza tra questi due filoni non èmolto netta, ma può essere ravvisatanell’analisi dei protagonisti. In ogni filmbellico hollywoodiano il personaggio prin-cipale andava incontro a una sorta dibeau gest, un atto eroico capace di rove-sciare la situazione e salvare di conse-guenza un ampio numero di soldati –rappresentazione ristretta dell’Americaintera.Nei film patriottici più convenzionali(quelli del primo gruppo, per intenderci)questo gesto eroico era compiuto inmodo lineare, quasi spontaneo, come sefosse l’inevitabile conseguenza dell’es-sere americani. È quello che accade inopere come Iwo Jima, deserto di fuoco

di Allan Dwan o All’inferno e ritorno diJesse Hibbs, in cui i rispettivi protagoni-sti John Wayne e Audie Murphy (veroeroe americano della seconda guerramondiale che interpretò le vicende cheaveva vissuto in prima persona sulcampo di battaglia) assumevano un at-teggiamento patriottardo, carico di trion-falismo interpretativo, a tratti retorico.Wayne interpretava un sergente male-detto ma affezionato ai suoi soldati, tesoverso una morte affrontata con onore ecoraggio; Murphy una marionetta sfo-cata e auto-celebrativa, impegnato in unosforzo eroico che troppo sapeva di pro-paganda.Nulla in questi film prendeva una dire-zione inaspettata o incoerente con il co-dice d’onore che permea la gratificanteapparenza del mondo militare.Ben diversa è la struttura dei film bellicidel secondo gruppo, in cui il gesto eroicodei protagonisti si allontana da un’ideatradizionalista e retorica di amor patrio edè legato invece alla rivalsa, a un’anoma-

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Il mago di Oz (The wizard of Oz), Victor Fleming, 1939

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lia interiore del personaggio, a un’ecce-zionalità morbosa dovuta a una proble-matica intima di solitudine, dolore,negatività. All’obbligo patriottico questotipo di film bellico sostituisce la nevrosicomportamentale.Nell’orrore generalizzato della guerra, nelclima di paura che rendeva gli uomini au-tomi, il gesto eroico non era altro che unautomatismo dell’uccidere, una reazioneincontrollata di una mente impaurita, con-fusa e annebbiata. Così ne I sacrificati

di Bataan di John Ford la solitudine chedomina i protagonisti al comando (Ro-bert Montgomery e John Wayne) è il di-scrimine che dà vita al loro spirito disacrificio, e ne Il sergente York di Ho-ward Hawks l’eroismo del personaggiointerpretato da Gary Cooper non derivada un nazionalismo patriottico, ma dauna nevrosi psicotica e introspettiva.York, eroe statunitense della PrimaGuerra Mondiale, viene dipinto come unfanatico religioso e un accanito lettoredella Bibbia, tanto che sul campo di bat-taglia falcia i corpi dei nemici calandosinel ruolo di un soldato ebraico dell’AnticoTestamento. Esemplare di questo se-condo gruppo di opere è poi il poco notoThe red badge of courage (stupida-mente tradotto in italiano come La prova

del fuoco) di John Huston, la storia diun soldato scapestrato che prima – terro-rizzato – molla il suo reggimento per riti-rarsi nei boschi solitari, poi – pentito –torna sui suoi passi e travolge con la suafuria il campo di battaglia: un film cheanalizza la paura, la codardia e tutta lavasta gamma di sentimenti negativi chela guerra produce nell’uomo.Dai conflitti armati a quelli del cuore: unaltro dei generi più diffusi nella Hollywooddell’epoca d’oro fu il romance, il melo-dramma, animato da contrasti forti e ro-manzati, colpi di scena eccessivi espesso inverosimili, risvolti romantici eorientati alla commozione generalizzata.Il cantore privilegiato di questo genere fusenza dubbio Douglas Sirk, tedesco

emigrato negli USA dopo l’ascesa al po-tere di Hitler, autore di film strappalacrimemolto noti come Magnifica ossessione,Come le foglie al vento, Lo specchio

della vita, sempre giocati su amori lace-ranti e squassanti, ostacolati da conflittisociali o economici, da manovre oscuredel destino impossibili da comprendere esuperare, in cui la dinamica amore-morteè una costante imprescindibile. Il melò fututtavia un genere particolarmente versa-tile ed alcuni suoi elementi, privati dellacarica eccessiva e stereotipata che ren-deva i romance spesso indigesti, trova-rono collocazione in altri generi,all’interno di impianti narrativi più ampi ecomplessi.Basti pensare al film epico, il racconto digesta, avventure, vite famose, episodi bi-blici, miti celebri o semplicemente periodipassati, più o meno recenti, ritratti conscrupolo rigoroso (con un dispiegamentodi mezzi assolutamente spropositato),spesso nel tentativo di produrre una ri-flessione distaccata sulla contempora-neità. In questi kolossal il ricorso aglielementi del romance fungeva da chiavedi volta per ravvivare un’azione altrimentitroppo legata a tematiche sociali, se nonpolitiche.Impossibile non pensare a capolavori im-prescindibili come Ben Hur di WilliamWyler, Spartacus di Stanley Kubrick oVia col vento di Victor Fleming. Que-st’ultimo in particolare fa dell’amore con-trastato della giovane Rossella O’Hara ilperno dell’azione stessa. La giovane,forte e orgogliosa sudista partecipa atti-vamente alle tappe della Grande Storia(dall’invasione di Atlanta da parte dei nor-disti alle nuove dinamiche sociali post-Guerra di Secessione che modificaronoper sempre il tessuto della popolazionestatunitense) proprio rincorrendo il suosogno d’amore, non scoraggiandosi difronte alla distanza – fisica ed emotiva –di un sentimento impossibile e attraver-sato continuamente da vaghi sentori dimorte e perdizione.

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Lontanissimo dall’apparato dell’epica, manon meno maestoso e suggestivo, appa-riva poi uno dei generi più noti e celebratidell’industria cinematografica hollywoo-diana: il musical.Esso conservava una sorta di statuto aparte all’interno del sistema canonico deigeneri che contribuiva a renderlo un (piùo meno) libero territorio di sperimenta-zione. Nel musical la linearità narrativa eil principio causale, per cui ogni inquadra-tura doveva inevitabilmente giustificare laprecedente e chiamare in causa la suc-cessiva, potevano essere temporanea-mente aboliti per dar spazio e rilevanzaalle coreografie danzate dei protagonisti.La continuità narrativa poteva essere in-terrotta, gli attori erano giustificati a guar-dare verso la macchina da presa,rivolgendosi direttamente al pubblico cheassisteva nella sala buia (pratica assolu-tamente proibita nella restante parte dellaproduzione classica perché colpevole diminare le certezze dello spettatore, inter-rompendo l’immedesimazione e ricordan-dogli di essere al cinema), la cinepresaaveva il diritto di liberarsi dell’ingombrantepeso di movimenti predeterminati e rigo-rosi della classicità per lasciarsi andare acarrelli arditi, lunghi, originali e spiazzanti.Ne nacquero capolavori frizzanti, immersiin scenografie esplosive e multicromati-che, carichi di innovazione, senso dellameraviglia, brio stilistico, farciti senzasosta dalle voci e le danze di indimenti-cabili interpreti come Gene Kelly, FredAstaire e Ginger Rogers.Proprio di fronte ai balletti eleganti e si-nuosi del duo Astaire-Rogers, tra cap-pelli a cilindro e passi di tip-tap, almenodue generazioni di americani dichiara-rono amore eterno alla macchina dellemeraviglie che aveva permesso loro diassistere a tali spettacoli. E milioni di per-sone in tutto il mondo tornarono bambini– e continuano a farlo – con occhi carichidi gioia ammirando il mitico Gene Kellyballare circondato da un nugolo di pargoliin Un americano a Parigi, improvvisare

il più bel “buongiorno” cinematografico ditutti i tempi in Singin’ in the rain, o duet-tare con il piccolo topino animato Jerry(della celebre coppia Tom & Jerry) in Due

marinai e una ragazza.Affine al musical per contenuto – noncerto per forma compositiva – fu la com-media, universo tematico più che sem-plice genere, gigantesco schema diriferimento all’interno del quale l’immagi-nazione sfrenata di produttori, sceneggia-tori e registi poteva trovare ampi marginidi manovra.Tradizionalmente la commedia classicagiocava su un “incidente amoroso”: lacotta di un uomo per una donna irrag-giungibile o viceversa, la forzata convi-venza temporanea di due persone e illoro progressivo innamoramento, l’incon-tro-scontro di due personalità opposte.La commedia fu probabilmente il generepiù in voga nella Hollywood classica emolti registi si specializzarono in esso,contribuendo di volta in volta a rinno-varne le forme, evitando di farlo scaderenello stereotipo o nel già detto. In alcuneoccasioni, ad esempio, nella commediafurono inseriti spunti sociali o di attualità,producendo una satira accesa e scot-tante; in altre si preferì spostare l’azionein una sfera aristocratica, in un tentativocomico ma prepotente di denunciare unostile di vita sterile e parassitario.

Uno dei migliori interpreti della commediahollywoodiana fu Ernst Lubitsch, spe-cializzato in una commedia sofisticatache sotto l’apparato fine, distinto e perfet-tamente calcolato di giochi di parole e al-lusioni costruì impietosi ritratti dellasocietà americana, del vizio nascostosotto un’ipocrita identità di facciata (Man-

cia competente, Partita a quattro), maanche satire politiche, feroci e innovativecome quella diretta contro Hitler e ilregime nazista in Vogliamo vivere!

Prossima a quella di Lubitsch, ma piùtarda cronologicamente, fu l’opera co-mica del geniale Billy Wilder, animata da

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Cantando sotto la pioggia (Singin’ in the rain),Stanley Donen & Gene Kelly, 1952

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note fortemente critiche e amare nei con-fronti della società che pretendeva dirappresentare. Basti pensare al diverten-tissimo A qualcuno piace caldo, in cuidue musicisti disoccupati e inseguiti dallamafia sono costretti a travestirsi dadonne per guadagnare qualche dollarocon un’orchestra diretta in Florida; al sot-tile e sottovalutato Quando la moglie è

in vacanza, che racconta di un marito ri-masto solo nel caldo della metropoli, at-tratto irresistibilmente dalla suaprovocante vicina (Marylin Monroe), trapasseggiate notturne e viaggi di fantasia,o ad Arianna, sprezzante ritratto del mi-liardario dongiovanni che collezionadonne come figurine.L’altro grande esponente della commediahollywoodiana fu Howard Hawks, meto-dico e leggendario regista “dalla mano in-visibile”, talmente esperto di quell’esteticacanonizzata del classico da scomparirenelle immagini filmate, trasformate inspecchi di realtà all’apparenza privi di filtricinematografici (come poteva essere lasegmentazione delle inquadrature attra-verso la pratica di montaggio). Hawksportò al suo livello più alto la screwballcomedy, letteralmente ‘commedia svi-tata’, frizzante, in cui la tematica princi-pale dello scontro tra sessi e classi socialiopposti veniva animata attraverso unritmo incredibilmente dinamico, sketchcomici, dialoghi brillanti. Con la sua fre-schezza e l’incredibile capacità di narrareil quotidiano senza intellettualismi disorta, Hawks diede vita a capolavori as-soluti come Susanna, storia d’amorestrampalata tra una ragazza capricciosae dinamica e un paleontologo sbadato esulla soglia di un matrimonio che si pro-spetta infelice, e La ragazza del venerdì,film scoppiettante e divertentissimo, do-tato dei dialoghi più veloci della storia delcinema, organizzato quasi tutto nello spa-zio angusto ma incredibilmente espres-sivo di una redazione in cui ne capitanodi tutti i colori.Capace di attraversare tutti i registri della

commedia, fino a spingersi fin sulla sogliadei suoi limiti fu, infine, Frank Capra, au-tore di vere e proprie pietre miliari, crea-tore di personaggi sempre in bilico tratradizione e modernità, perdizione e ri-conquista di sé; narratore eccezionale distorie dominate da un anelito disperato epessimista, solitamente risolto nel finaleda un colpo di scena risolutore e miraco-loso, quasi irrealistico.Capra scrisse alcune delle pagine piùbelle della screwball comedy, mettendoin scena le peripezie di un arguto giorna-lista sulle tracce di una giovane ereditierascappata da uno yacht in Accadde una

notte, primo film della storia a vincere intutte le categorie più importanti dei PremiOscar (film, regia, sceneggiatura, attore,attrice); tracciò il vertice insuperato dellacommedia nera con Arsenico e vecchi

merletti, tra due dolci ziette assassineche avvelenano e seppelliscono gli ospitiin cantina, ladri impacciati che somiglianoa Boris Karloff e un buffo Cary Grantche vuole solo partire tranquillo per il suoviaggio di nozze; realizzò il miglior filmsentimentale di tutti i tempi nella fiaba na-talizia La vita è meravigliosa, itinerariodi caduta e redenzione di un uomo disil-luso, aiutato da un angelo senza ali a re-cuperare fede nella vita; e giunse allaperfetta fusione di dramma e commedianei capolavori della cosiddetta “trilogiasociale” (E’ arrivata la felicità, Mr. Smith

va a Washington, Arriva John Doe),imperniata su personaggi semplici e in-genui (interpretati con intensità straordi-naria da Gary Cooper e JamesStewart), cresciuti nella grazia spensie-rata di un mondo rurale e improvvisa-mente catapultati nelle incombenzecaotiche e alienanti di una città fatta di in-teressi perversi e corruzione, ostacoli durima non insormontabili in quell’universalepercorso di ascesa chiamato “americandream”.Dopo aver passato al setaccio alcuni ge-neri di riferimento che costituirono la based’ancoraggio privilegiata per il consolida-

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mento dei canoni linguistici del cinemaclassico, andiamo ad analizzare altri duegeneri estremamente significativi per laHollywood dell’epoca d’oro, isolabili daglialtri per la loro capacità di attivare dina-miche più complesse all’interno deglischemi rigidamente prefissati dello studiosystem: il noir e il western, due macro-strutture a prima vista lontanissime, ep-pure accostabili per la celata pretesa dilibertà compositiva che entrambi riusci-rono ad attivare in tempi e modi differenti.Il noir vide la luce come genere altamentecodificato, racchiuso nelle tinte fosche diquartieri malfamati o negli interni polve-rosi dei distretti di polizia e imperniato suun assortito gruppo di personaggi ricor-renti che spaziavano dalla provocantedark lady – quasi sempre causa scate-nante del crollo di moralità a cui si assi-steva in scena – alle cerchie ristrette dipoliziotti corrotti e detective sagaci –spesso e volentieri incarnati dall’ombrosoHumphrey Bogart. Notevoli erano gli in-flussi del cinema espressionista tedescodi cui i cineasti più brillanti colsero il fittosenso di mistero, la riflessione sull’abo-minio in cui si barcamenava la razzaumana, la potenza del chiaroscuro, i netticontrasti tra buio e luce, con valorespesso simbolico.Proprio un genere tanto rigorosamentepianificato giunse a forzare fino ai suoi li-miti gli schemi rigorosi dello studio sy-stem, attraverso uno stile eccessivofarcito da una debordante profusione dielementi che mal si adattavano ai costrit-tivi modelli di costruzione dei personaggie delle trame classiche.Alle psicologie piene e prive di crisi, il noirsostituì soggetti dall’inconscio ingom-brante, protagonisti carichi di nodi irrisolti,perturbanti, capaci di minare la persona-lità e logorare l’intimo dell’essere umano,riducendolo all’incapacità di agire o dicomprendere il mondo.Gli eroi senza macchia dell’epica cede-vano sotto i colpi dell’irrazionalità delreale, i loro percorsi narrativi diventavano

slabbrati, sconnessi.Le trame si adeguavano dal canto loro aquesta perdita di linearità attraverso mo-delli testuali innovativi. Basti pensare alladisordinata mescolanza di piani temporaliche domina Casablanca - a torto consi-derato il più classico dei drammi senti-mentali e analizzabile invece alla streguadi un sottile racconto poliziesco capacedi mescolare senso del mistero, lovestory e attualità socio-politica; alla com-plessificazione della diegesi attraversol’innesto di sottotrame multiple all’internodi quella principale de Il grande sonno

di Hawks; all’incerta sovrapposizionedelle dinamiche del reale con quelle delsogno e dell’allucinazione attuata da OttoPreminger in Vertigine, la cui secondaparte potrebbe esser letta come unsogno del detective di turno, che sublimanel mondo onirico ciò che in quello realegli è negato.Il noir apriva così crepe insanabili nel tes-suto della classicità, restituendo libertàagli autori finalmente liberi di narrare iltremendo abisso di meschinità e orroreracchiuso nel cuore degli uomini. Il cata-logo è lungo e suggestivo: si passa dal-l’ossessione per un passato glorioso eormai scomparso, che porta alla follia ladiva del muto Norma Desmond in Viale

del tramonto, ai perfidi e orrendamentecalcolati tentativi di una giovane fan distrappare a un’acclamata diva teatralevita e carriera in Eva contro Eva di Jo-seph Leo Mankiewicz; dai temibili doppigiochi di una folgorante dark lady capacedi pianificare in modo perfetto la morte disuo marito per intascare un’assicura-zione redditizia de La fiamma del pec-

cato di Billy Wilder ai contesti mafiosi,perversi e senza scrupoli di film comeScarface di Hawks, Fronte del porto diElia Kazan, o i capolavori di Huston Il

mistero del falco e Giungla d’asfalto,senza dimenticare il cinismo anti-ameri-cano di Lang nel suo primo capolavorostatunitense, Furia, racconto della ven-detta disperata di un uomo scampato a

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un linciaggio collettivo e creduto morto, oil definitivo crollo nell’abisso insondabiledi corruzione, perversione e iniquità chedomina il magistrale Touch of evil diOrson Welles.E proprio quest’ultimo immenso autore,incapace di piegarsi agli schemi precosti-tuiti dello studio system e teso versol’esplorazione globale delle potenzialitàdel cinema, anticipò di vent’anni con ilsuo primo lavoro la fine del classico, spin-gendosi con un solo film verso la moder-nità cinematografica messa in pratica inEuropa a partire dagli anni ’60. Si trattaovviamente di Quarto potere, noir – maanche potente affresco epico – che nelgià 1941 aveva tutto per far esploderealla radice i canoni precostituiti del ci-nema classico.Il film è, come noto, il racconto della vitadel magnate Charles Forster Kane che -e già in questo c’è una trasgressione in-credibilmente provocatoria – muore nellaprima scena del film, pronunciando unaparola misteriosa a cui un giornalista cer-cherà di attribuire senso, interrogando –uno dopo l’altro – coloro che avevano co-nosciuto il defunto più da vicino. Neescono ritratti differenti e la sola, inap-puntabile certezza che “non basta unaparola per capire la vita di un uomo”:essa – e per estensione la verità stessa,nel suo statuto ontologico – resta segretainaccessibile, impossibile da decifrare.Con Quarto potere, la linearità classica,la sua tendenza alla narrazione piena,cronologicamente organizzata in un ini-zio, uno sviluppo e soprattutto un finalerisolutore, viene spazzata via. E cosìpure il rigore della composizione che almontaggio invisibile preferisce i piani lun-ghi, le soluzioni ardite, i virtuosismi cheamplificano -invece di occultare – la po-tenza della macchina cinematografica.Lontano dagli orizzonti tetri e claustrofo-bici del noir si situava invece il western,nato come genere eminentemente ame-ricano e inizialmente capace di rifletteremeglio di qualunque altro la volontà clas-

sica di organizzare e pianificare struttureche indirizzassero il gusto del pubblico.I film riconducibili a questa categoriaerano ambientati solitamente nel XIX se-colo, quando l’America era una terra difrontiera, un immenso spazio selvaggioin cui i pionieri avevano il dovere di im-piantare quella presunta civiltà cheavrebbe dato vita ai moderni Stati Uniti.Il film western aveva quindi il caratteresacrale di descrivere la palingenesi diuna nazione, anzi della più potente na-zione che il mondo avesse mai visto na-scere. Doveva dunque mostrare il trionfodella ragione dei colonizzatori sul barbaroistinto degli indiani oppure la vittoria dellalegge sociale (quasi sempre incarnatadalla figura dello sceriffo) sulla criminalitàfuriosa tesa a minare l’ordine costituito.Inizialmente i western classici furonoiper-caratterizzati attraverso elementifissi, rigorosi, sempre uguali a se stessi:dagli spazi immensi e desertici (la Monu-mental Valley su tutti) ai costumi stereo-tipati (tra stellette di acciaio, cinturoni ecappelli che fecero un’epoca), dagli ele-menti civilizzatori ricorrenti (il cavallo, lafrontiera, il saloon, la diligenza) al con-flitto – spesso banalizzato- tra bene emale, rappresentati come entità piene eassolutamente distinte, prive di tensioniinterne, di crepe.Sin dai primi lavori di Ford che, insiemead Hawks e più tardi ad Anthony Mann,costituì il cantore privilegiato del generenegli Stati Uniti, il western si caratterizzòcome tipologia filmica dell’estroversione,del dinamismo impellente, del movi-mento.In Ombre rosse di Ford, consideratoquasi all’unanimità l’assoluto del genere,una diligenza diretta a Lordsburg incorrenella minaccia indiana e accoglie conqualche riserva l’evaso Ringo (JohnWayne). Al di là dell’intenso affresco an-tropologico sulla diseguaglianza sociale(la diligenza diventa un microcosmo ingrado di accogliere tutte le classi sociali:due borghesi, un medico alcolizzato, una

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prostituta, un reietto ex-galeotto), cheFord realizza tra le righe della narrazionegrazie alla sua inarrivabile maestria, il filmsi concentra sull’itinerario travagliato deiviandanti, sullo scontro metaforico tra ilbene – il gruppo di cittadini civilizzati cheviaggiano sulla stagecoach del titolo ori-ginale – e il male incarnato dai selvaggiindiani.Allo stesso modo, Hawks nel suo Fiume

rosso racconta con il solito stile perfetta-mente invisibile l’insediamento nel Texasdi un allevatore (ancora John Wayne) incompagnia di un vecchio amico e di ungiovane trovatello (Montgomery Clift), laseguente creazione di una fortuna e ilsuccessivo esodo verso una città di-stante 8000 miglia, con tanto di guado delfiume rosso del titolo. Il film mette inscena il ritratto raggiante del self-mademan americano, tracciando temi tipici delwestern come l’amicizia virile e il transfertdi responsabilità tra anziani e giovani.Eppure proprio a causa di questo statutodi specchio glorificante di una nazione edella sua genesi, il western fu il primo ge-nere a vedere incrinate le sue imprescin-dibili regole costituitive nel momento incui quell’America di cui voleva illustrarela nascita si avviava verso la perdita dellapropria purezza, fagocitata dal terroredella Guerra Fredda e dagli orrori delleguerre sporche di Corea e Vietnam. Pro-prio nel genere più altamente codificato,i registi sfogarono le proprie frustrazionidi americani delusi, lasciando esplodereuna sopita pretesa di libertà creativa. Dal-l’inizio degli anni ’50 le forme canonichedel western presero a sfaldarsi, dandoavvio a quel processo che avrebbe con-dotto alla fine del cinema classico e al-l’inizio della New Hollywood che, guardacaso, diede avvio a un’intensissimaopera di revisione dei generi iniziata pro-prio col western.Quegli stessi Ford e Hawks che ne ave-vano scritto le pagine migliori, presero ascavare nei propri eroi senza macchia, inquelle strutture granitiche e movimentate

prive di tempi morti, creando voragini efacendo salire in superficie le tensioniseppellite per almeno vent’anni.Nel celebratissimo Sentieri selvaggi, siracconta la strenua ricerca di una bam-bina rapita dagli indiani da parte di unosparuto gruppo di uomini guidati dallo ziodella piccola (neanche a dirlo: JohnWayne). Ford mise da parte l’epica glo-riosa e dilatò a dismisura i tempi, concen-trandosi più sulla caratterizzazionepsicologica delle anime devastate deipersonaggi che non sull’azione potenzial-mente avventurosa, ridotta a un viaggiocircolare teso a una meta sempre più di-stante e irraggiungibile, un pretesto peraccogliere un itinerario ben diverso:quello dei protagonisti alla ricerca di sestessi.E sempre Ford in Furore, che non è unwestern ma racconta – come i western –dell’esodo verso Occidente di alcunisfrattati speranzosi di trovare in Californiafortuna e lavoro, rompe i dettami positivi-stici, ottimisti e chiaramente indirizzatialla ricostruzione di una coscienza nazio-nale messa in crisi dalla Grande Depres-sione del cinema classico, penetrandonel cuore di tenebra della sua nazione,scavando nel dolore, nel rancore, nei ve-leni di odio, razzismo e misantropia chesi celano alle sue radici.In Un dollaro d’onore, invece, Hawksdistrugge l’estroversione tipica del we-stern classico, costellando la narrazionedi attese, sfocature, momenti morti, no-stalgici e riflessivi. Il film, infatti, si aprecon l’arresto di un bandito da parte delsolito John Wayne nei panni di uno sce-riffo, aiutato da un ubriacone e un vec-chio sciancato. Di lì in poi si lavorasull’attesa: quella della polizia federale,che entro sei giorni arriverà in paese percondurre il detenuto in un carcere vero eproprio, e quella dei compari dell’omicida,pronti a liberarlo. Nel frattempo i protago-nisti si lasciano cullare dall’ozio, dal bere,dal ricordo di un passato che non c’è più,da una quotidianità stantia e ripetitiva.

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Quando la moglie è in vacanza (The seven year itch),Billy Wilder, 1955

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In modo simile Fred Zinneman costrui-sce il suo capolavoro Mezzogiorno di

fuoco. Mettendo in atto una coincidenzaquasi perfetta tra tempo del racconto etempo della storia, il regista descrive l’orae mezza che precede l’arrivo in città di al-cuni banditi, affidandosi all’insofferenzaansiosa di uno sceriffo neo-sposo chetenta di reclutare gli amici di una vita percombattere il nemico comune, ma chenon riceve altro che rifiuti. La grandezzadi questo western, in cui il primo sparo sisente a cinque minuti dalla fine – se nonè revisionismo questo! –, è la sua po-tenza introspettiva, tutta racchiusa nei ticnervosi e antieroici di un Gary Coopereccezionale, la sua capacità di introiet-tare il senso della narrazione nell’uomo enon nelle sue azioni, come lo studio sy-stem imponeva.A dare l’estremo contributo a questa in-quieta ondata di svecchiamento fu peròJohn Huston, autore di pellicole come Iltesoro della Sierra Madre e, soprattutto,Gli spostati, ultimo baluardo della clas-sicità e insieme – forse – primo vero de-finitivo scavalcamento di quelladimensione.Nel primo il regista mina la rigida dialet-tica tra bene e male su cui reggeva il we-stern classico, analizzando la profondaambiguità della natura umana e l’indistri-cabile legame che unisce i due opposti.Nel raccontare il viaggio alla ricerca del-l’oro di tre disadattati, Huston evidenziacome il potere e il denaro con cui la so-cietà civile pretende di seppellire l’anar-chico mondo della natura portino alla lucela brutalità selvaggia, l’aberrazione e gliorrori dell’animo umano nascosti da unalabile maschera di socialità.

Ma è con Gli spostati che il mito delWest giunge al suo ultimo crocevia. Lastoria è quella di un gruppo di sbandati inun’America crepuscolare di metà ’900che ha perso le proprie certezze, di unvecchio cowboy (Clark Gable) che in-treccia una relazione con una giovane

donna appena divorziata (Marilyn Mon-roe), di una comitiva di antieroi che pertirare avanti decidono di cacciare cavalliselvaggi per macellarne la carne e riven-derla ai grandi distributori. Ma, nel finale,sotto gli occhi attoniti e disperati della ra-gazza, atterrita da tale violenza, il cowboysi dimostra capace di un ultimo attod’amore e ripone il lazo, lasciando liberauna bestia catturata. Poi accasciato con-tro un rottame finisce per affermare ama-ramente: “Accidenti a tutto. È tuttocambiato, tutto quanto distorto, hannosporcato tutto di sangue. Io la faccio fi-nita, è come prendere al laccio un sognoormai!”Un sogno che coincide con quell’ameri-can dream naufragato nell’oceano di ipo-crisie di un mondo bipolare, con l’idea diun possibile dominio dell’uomo sulla re-altà e di riflesso sul cinema. La frasesuona come il definitivo epitaffio del ci-nema classico, specie se si considerache a pronunciarla fu uno dei suoi più po-polarmente noti modelli, quel ClarkGable che morì subito dopo la fine delleriprese, destino che toccò in sorte anchea Marilyn Monroe.A questo punto sarebbe forse doverosoaprire una parentesi sul drastico cambia-mento che questo lavoro di scavo e revi-sione sui generi, riflesso di una precisainquietudine americana canalizzata nellavoro dei registi, ebbe sulla generazionedi interpreti esplosa intorno alla fine deglianni ’40. Mi sembra opportuno però ri-mandare questa riflessione al capitolodedicato alla New Hollywood. Basti ricor-dare per ora che il guado tra la prima e laseconda metà del secolo ebbe una rile-vanza enorme sul mondo degli interpretinella fabbrica dei sogni hollywoodiana,complice anche la fondazione – da partedi Elia Kazan - dell’Actor Studio e delconseguente approdo a una dimensionepiù stanislavskiana e naturalistica dellarecitazione.Si passò in pratica da una concezione didivo sofisticato, astratto, carico di ritualità

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e simbolismo, con implicazioni riferibiliaddirittura al metafisico (incarnato daClark Gable, John Wayne, GretaGarbo, Marlene Dietrich…) a una moltopiù concreta, materiale, sofferta e spessosegnata da caratteri ludici e infantili (rav-visabile in James Stewart, MarlonBrando, Paul Newman, ma soprattuttoin Marilyn Monroe, Montgomery Clift eJames Dean). Un passo in avanti checelava in realtà una ben precisa involu-zione. Quella dell’America del dopo-guerra che aveva smesso i panni dicontraltare positivo di un’Europa nazistae appariva al mondo in tutte le sue con-traddizioni, della sua purezza stupratadalle guerre di speculazione, dei divi de-putati ad incarnarla.Un passo in avanti che si sostanziava difatto in un ritorno all’infanzia, una discesain picchiata dalla dimensione astratta delmito a quella tangibile della natura.

FILMOGRAFIA PARZIALE

- L’angelo azzurro (Der Blaue Engel),Josef von Sternberg (1930) - Marocco(Morocco), Josef von Sternberg (1930) -Scarface – Lo sfregiato (Scarface,Shame of the Nation), Howard Hawks(1932) - Mancia competente (Trouble inParadise), Ernst Lubitsch (1932) - Shan-ghai Express (id.), Josef von Sternberg(1932) - Partita a quattro (Design for Li-ving), Ernst Lubitsch (1933) - King Kong(id.), Merian C. Cooper & Ernest B. Scho-edsack (1933) - La danza di Venere(Dancing Lady), Robert Z. Leonard(1933) - Accadde una notte (It HappenedOne Night), Frank Capra (1934) - L’impe-ratrice Caterina (The Scarlet Empress),Josef von Sternberg (1934) - Cappello acilindro (Top Hat), Mark Sandrich (1935) -Follie d’inverno (Swing Time), GeorgeStevens (1936) - È arrivata la felicità (Mr.Deeds Goes to Town), Frank Capra(1936) - Furia (Fury), Fritz Lang (1936) -Una magnifica avventura (A Damsel in

Distress), George Stevens (1937) - Oriz-zonte perduto (Lost Horizon), FrankCapra (1937) - La figlia del vento (Jeze-bel), William Wyler (1938) - L’eterna illu-sione (You Can’t Take It with You), FrankCapra (1938) - Susanna! (Bringing UpBaby), Howard Hawks (1938)- Ombre rosse (Stagecoach), John Ford(1939) - Mr. Smith va a Washington (Mr.Smith Goes to Washington), Frank Capra(1939) - Via col vento (Gone with thewind), Victor Fleming (1939) - Il mago diOz (The wizard of Oz), Victor Fleming(1939) - Ombre malesi (The Letter), Wil-liam Wyler (1940) - Furore (The Grapesof Wrath), John Ford (1940) - La signoradel venerdì (His Girl Friday), HowardHawks (1940) - Scandalo a Filadelfia(The Philadelphia Story), George Cukor(1940) - Com’era verde la mia valle (HowGreen Was My Valley), John Ford(1941) - Il sergente York (Sergeant York),Howard Hawks (1941)- Il mistero del falco (The Maltese Fal-con), John Huston (1941) - Quarto potere(Citizen Kane), Orson Welles (1941) - Idimenticati (Sullivan’s Travels), PrestonSturges (1941) - Lady Eva(The LadyEve), Preston Sturges (1941) - ArrivaJohn Doe (Meet John Doe), Frank Capra(1941)- Piccole volpi (The Little Foxes), WilliamWyler (1941) - La signora Miniver (Mrs.Miniver), William Wyler (1942) - Vogliamovivere! (To Be or Not to Be), Ernst Lu-bitsch (1942) - Casablanca (id.), MichaelCurtiz (1942) - Arcipelago in fiamme (AirForce), Howard Hawks (1943) - Il cielopuò attendere (Heaven Can Wait), ErnstLubitsch (1943) - La fiamma del peccato(Double Indemnity), Billy Wilder (1944) -Arsenico e vecchi merletti (Arsenic andOld Lace), Frank Capra (1944) - Vertigine(Laura), Otto Preminger (1944) - I sacri-ficati di Bataan (They Were Expendable),John Ford (1945) - Due marinai e una ra-gazza (Anchors Aweigh), George Sidney(1945) - Sfida infernale (My Darling Cle-mentine), John Ford (1946) - Il

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grande sonno (The Big Sleep), HowardHawks (1946) - Duello al sole (Duel in thesun), King Vidor (1946) - La vita è mera-vigliosa (It’s a Wonderful Life), FrankCapra (1946) - I migliori anni della nostravita (The Best Years of Our Lives), Wil-liam Wyler (1946) - Il tesoro della SierraMadre (The Treasure of the SierraMadre), John Huston (1947) - Il massa-cro di Fort Apache (Fort Apache), JohnFord (1948) - Il fiume rosso (Red River),Howard Hawks (1948) - Scandalo inter-nazionale (A Foreign Affair), Billy Wilder(1948) - Il pirata (The Pirate), VincenteMinnelli (1948) - La costola di Adamo(Adam’s Rib), George Cukor (1949) - Ungiorno a New York (On the Town), GeneKelly e Stanley Donen (1949)- Rio Bravo (Rio Grande), John Ford(1950) - Giungla d’asfalto (The AsphaltJungle), John Huston (1950) - Viale deltramonto (Sunset Boulevard), Billy Wilder(1950) - Eva contro Eva (All about Eve),Joseph Leo Mankiewicz (1950) - La cosada un al mondo (The Thing From AnotherWorld), Howard Hawks & Christian Niby(1951) - La prova del fuoco (The RedBadge of Courage), John Huston (1951) -Ultimatum alla Terra (The Day the EarthStood Still), Robert Wise (1951) - Unamericano a Parigi (An American inParis), Vincente Minnelli (1951) - Unuomo tranquillo (The Quiet Man), JohnFord (1952) - Il grande cielo (The BigSky), Howard Hawks (1952) - Il magnificoscherzo (Monkey Business), HowardHawks (1952) - Mezzogiorno di fuoco(High noon), Fred Zinneman (1952) -Cantando sotto la pioggia (Singin’ in theRain), Gene Kelly e Stanley Donen(1952) - Mogambo (id.), John Ford(1953) - Gli uomini preferiscono le bionde(Gentlemen Prefer Blondes), HowardHawks (1953)- Vacanze romane (Roman Holiday), Wil-liam Wyler (1953) - Magnifica ossessione(Magnificent Obsession), Douglas Sirk(1954) - Sabrina (id.), Billy Wilder(1954) - Fronte del porto (On the water-

front), Elia Kazan (1954) - Quando la mo-glie è in vacanza (The Seven Year Itch),Billy Wilder (1955) - Secondo amore (AllThat Heaven Allows), Douglas Sirk(1955) - Sentieri selvaggi (The Sear-chers), John Ford (1956) - Come le foglieal vento (Written on the Wind), DouglasSirk (1956) - La legge del Signore (Frien-dly Persuasion), William Wyler (1956) -Brama di vivere (Lust for Life), VincenteMinnelli (1956) - Arianna (Love in the Af-ternoon), Billy Wilder (1957) - Testimoned’accusa (Witness for the Prosecution),Billy Wilder (1957) - Tempo di vivere (ATime to Love and a Time to Die), DouglasSirk (1958) - Il grande paese (The BigCountry), William Wyler (1958) - L’infer-nale Quinlan (Touch of evil), Orson Wel-les (1958) - A qualcuno piace caldo(Some Like It Hot), Billy Wilder (1959) -Lo specchio della vita (Imitation of Life),Douglas Sirk (1959) - Ben-Hur (id.), Wil-liam Wyler (1959) - Gli spostati (The Mi-sfits), John Huston (1960)- L’appartamento (The Apartment), BillyWilder (1960) - Angeli con la pistola (Poc-ketful of Miracles), Frank Capra (1961)- L’uomo che uccise Liberty Valance (TheMan Who Shot Liberty Valance), JohnFord (1962) - Irma la dolce (Irma LaDouce), Billy Wilder (1963) - Baciami,stupido (Kiss Me, Stupid), Billy Wilder(1964) - Il grande sentiero (CheyenneAutumn), John Ford (1964)

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Mezogiorno di fuoco (Hight noon),Fred Zinnemann, 1952

ire del cinema di Alfred Hit-chcock significa addentrarsi inuno spazio liminale, penetrare un

territorio di frontiera che destabilizza lecategorie costituite e si apre al nuovo. Si-gnifica correre il rischio di perdersi in ununiverso variegato e sterminato per nonritrovare più la strada di casa. Significasoprattutto decostruire la restrittiva e ce-lebre etichetta di “Maestro del brivido” peranalizzare i ben più vasti orizzonti inter-testuali attivati dai suoi capolavori, capacidi mettere in primo piano (e insieme dinascondere) il cinema stesso e il suo fun-zionamento, la psicanalisi e le espres-sioni dell’inconscio, di far esplodere tuttele sclerosi del cinema classico all’internodi strutture narrative rigidamente codifi-cate e pienamente in linea con quell’os-sessione per l’ordine, l’armonia e il rigoreche come abbiamo visto caratterizzavanolo studio system e, infine, di proiettarel’arte del XX secolo verso una modernitàscopertamente messa in atto in Europa acavallo tra ’50 e ’60.All’interno di una filmografia vasta comequella del regista inglese (quasi cin-quanta film in più di cinquant’anni di ono-rata carriera) sarò però costretto aselezionare. A tagliuzzare pezzi, sacrifi-care momenti decisivi, rinunciare a molto,forse moltissimo, consapevole del fattoche i fantasmi dei personaggi lasciati atacere e dei titoli messi al bando verrannoa tempestare i miei sogni. Cercherò di di-mostrare come il cinema di Hitchcockdebordi costantemente da quell’asfis-siante concetto di “puro cinema del bri-vido” in cui troppa critica l’hainconsapevolmente imprigionato e illumi-nare, invece, quella complessità intrin-

seca e imprescindibile che rende i suoifilm vere e proprie opere di confine, oscil-lanti tra il rigore del cinema classico e lapotenza intellettuale e interpretativa diquello moderno. Per ovvie ragioni di spa-zio lo farò attraverso cinque titoli – solocinque ahimè; a mio avviso quelli mag-giormente pregnanti nell’illustrare la vul-canica potenza della poeticahitchcockiana, tutti portatori delle osses-sioni tipiche del regista inglese, troppospesso svilite da analisi affettate, concen-trate sulle strutture della suspence o i ce-lebri virtuosismi registici che hanno resola sua opera così rinomata anche a livellopopolare.

Iniziamo dal cinema, allora. Come già ab-biamo avuto modo di notare l’esteticaclassica si fondava su un voluto occulta-mento del mezzo cinematografico, attra-verso quella pratica di montaggioinvisibile che nascondeva le tracce dellamacchina da presa per proporre le imma-gini filmiche in una logica di “qui e ora”,garantendo un’immersione totale delpubblico nel flusso del narrato. Hitchcocksembra mantenere questo assunto attra-verso quelle rinomate “sceneggiature diferro” che fanno della narrazione il pernodei suoi capolavori. Eppure indagandooltre la superficie di quelle opere, non èdifficile scorgere una riflessione sofisti-cata e quanto mai intensa sulle strutturedel cinema, in un processo metalingui-stico di rara potenza. A questo proposito,non posso che citare La finestra sul cor-

tile che come forse è noto è la storia diun reporter immobilizzato su una sedia arotelle che, mentre si adopera a spiare isuoi vicini per sconfiggere la noia, pare

Alfred Hitchcock

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ALFRED HITCHCOCK,AUTORE DI CONFINE

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scovare le tracce di un misterioso omici-dio. A prima vista, il film si dispiega comeuno degli assoluti vertici della spy storyhitchcockiana, animata da un esemplarecrescendo di tensione, unito al tema ro-mantico, all’ironia salace e spesso friz-zante. Un meccanismo a orologeriaperfettamente congegnato, aderente eforse esemplarmente significativo dellenarrazioni del Maestro del brivido. Ep-pure è sotto questa – magistrale e accat-tivante – scorza diegetica che il filmmostra il suo nucleo più interessante, fa-cendosi portatore di una messa in abissoche mette in primo piano il cinema, le suecomponenti e i suoi corollari.Il Jeffrey di James Stewart rimane pertutto il film ancorato alla sua sedia a ro-telle, immobile di fronte alla finestra dellasua camera, da cui spia i vicini, sempreattraverso le finestre che – colpa della ca-lura estiva – restano inevitabilmenteaperte, senza alcuna possibilità di intera-gire con essi. Il suo statuto è quello di unvoyeur o per essere più precisi di unospettatore cinematografico che, nellasala buia, segue con attenzione le vi-cende che vede scorrere sullo schermosenza poter tangibilmente entrarvi in con-tatto. Le stesse finestre, ovviamente, as-sumono il carattere allegorico di inqua-drature cinematografiche, tagliandoi bordi dell’immagine visualizzabile, impli-cando un fuori campo coperto dalle muradel palazzo. La successione delle finestredi uno stesso appartamento di conse-guenza implica in modo immediato il pro-cedimento del montaggio. Non è raro cheil protagonista trascini il suo sguardo in-dagatore da una stanza all’altra dei do-micili di fronte, in uno scorrimento visivoche rinvia inevitabilmente alla succes-sione delle immagini sulla pellicola di cel-luloide, che -secondo il principio dellacroce di malta – implica l’alternanza di unfotogramma luminoso e di uno nero. Ilmeccanismo metacinematografico sirompe solo nel convulso e indimentica-bile finale: dopo che Lisa (Grace Kelly)s’introduce nell’appartamento di Thor-

wald, l’uomo capisce di essere spiato evolge gli occhi verso la finestra di Jeffrey,gesto che ha tutta la rilevanza eversiva diuno sguardo in macchina, procedura as-solutamente proibita nel cinema classico.Da quel momento inizia il corto circuitodella messa in abisso che crolla definiti-vamente quando il presunto assassinoentra nell’appartamento di Jeffrey. Lospiato s’introduce nello spazio del voyeur.Il cinema invade la sala, distruggendoproprio quella separazione tra pubblico espettacolo su cui si basa il potere incan-tatorio della settima arte.

Ora, Hitchcock inserisce questa redupli-cazione visiva dell’artificio filmico in unariflessione ben più ampia sul potere dellavisione, sulla drastica modificazione deisuoi connotati attuatasi nel corso del XXsecolo e, soprattutto, sulle potenzialitàdel cinema, identificato come quell’occhio

del Novecento di cui parlò FrancescoCasetti. Nella sua attività investigativa, in-fatti, Jeffrey trova il suo solo strumento diindagine nello sguardo e quando nem-meno quello basta sopperisce alle suecarenze attraverso il complesso arma-mentario di grandangoli e binocoli con iquali normalmente svolge il suo lavoro direporter, uniche strutture tecniche capacidi sostituirsi all’occhio e amplificarne laportata. Prima del Blow up di Michelan-gelo Antonioni, allora, Hitchcock pa-lesa la superiorità della visionetecnologica su quella fisica, imponendola fotografia – e per estensione il cinema– come mezzo privilegiato per scanda-gliare le ambigue profondità del reale.Il Maestro continua questa riflessionemetalinguistica sulle strutture del cinemain Vertigo (distribuito stolidamente in Ita-lia come La donna che visse due

volte), universalmente acclamato comeil più maturo lavoro di Hitchcock e recen-temente eletto dalla celebre rivista Sight& Sound come “miglior film di tutti itempi”, prima di quel Quarto potere diWelles che per decenni aveva guidato laclassifica. Con Vertigo il regista inglese

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incorpora nella compostezza classica, ti-pica dei suoi lavori, elementi incongrui,tratti dal cinema d’avanguardia o ispiratiad atmosfere surrealiste. E come nellaFinestra sul cortile si prodiga nel deli-neare, sotto la soglia della narrazione, untesto alternativo che apertamente esponei meccanismi propri del mezzo cinemato-grafico, interrogandosi sulla naturastessa del mezzo e proponendo una sug-gestiva interpretazione che si scontra conle canoniche teorie del linguaggio filmico.Insomma, una vasta complessità di sug-gestioni e intenti che per esser delineatarichiede di svelare alcuni tratti fondamen-tali della trama, compreso quello sciogli-mento dell’intreccio che rende il film tantoaffascinante quanto memorabile (per cuiconsiglio calorosamente a chi non havisto Vertigo di riprendere questo passosolo a seguito della visione).La storia è nota: un detective – Scottie,interpretato ancora da James Stewart –entra in crisi dopo la morte di un suo col-lega – caduto da un tetto – e decide di la-sciare la polizia, ossessionato dall’eventoe da una nuova fobia per l’altezza (la ver-tigine del titolo originale). Rimette in giocose stesso quando Elster, un suo vecchiocompagno di università, lo assolda per-ché segua sua moglie, la bellissima Ma-delaine, colta da continue crisi di identità,di cui egli s’innamora. La morte delladonna lo fa crollare in un baratro autodi-struttivo da cui pare sollevarsi solo dopol’incontro con Judy, una giovane che so-miglia in modo impressionante all’amatadefunta e che l’ex-poliziotto prende a pla-smare -nell’abbigliamento, nel trucco,nell’acconciatura – nel tentativo di trasfor-marla in Madelaine stessa. Ora, sap-piamo benissimo che Madelaineeffettivamente non esiste. Il pedinamentoè un trucco escogitato da Elster perchéScottie si faccia testimone di una mortegià avvenuta. La Madelaine che il prota-gonista segue e di cui s’innamora è ilfrutto di una messinscena di Elster. Sitratta di quella stessa Judy che Scottie in-contrerà nella seconda parte del film e

che tenterà di trasformare in Madelaine.

Ora, secondo Paolo Bertetto – profes-sore universitario e studioso – con Ver-

tigo Hitchcock non farebbe altro cheribadire il carattere simulacrale dell’imma-gine filmica che, lungi dall’essere quellarealtà ontologica di cui parlava Bazin, sicaratterizzerebbe prima di tutto come unfalso, una sembianza fittizia, “la copia dif-ferenziale di una copia differenzialesenza originale”. In effetti l’immagine chevediamo sullo schermo è sempre unacopia differente rispetto alla realtà messain scena sul set al momento delle riprese(profilmico). La macchina da presa taglia,seleziona e quindi trasforma quel mondo,a sua volta ricreato artificialmente dal re-gista. E’ dunque a sua volta copia diffe-rente del mondo vero, sua messinscena,sua riproduzione diversificante. Il feno-meno di riferimento – potremmo definirloispirazione – da cui tutto inizia non esisteconcretamente, al massimo consiste inuno sfocato residuo memoriale situatonella mente del regista. Vertigo mette inquadro questa riflessione. La concre-tizza. La rende parte integrante dei 120minuti di girato, facendola scorrere na-scosta sotto la superficie narrativa. Lafalsa Madelaine che Scottie tenta di pla-smare attraverso il corpo di Judy è solouna copia differenziale della Madelaine dicui si era innamorato che – come sap-piamo – è a sua volta copia differenzialedi un soggetto che – per quanto ci ri-guarda – non esiste: la vera Madelaineinfatti non viene mai mostrata. In questosenso, Hitchcock esalta le potenzialitàcreatrici del linguaggio filmico, interpre-tando il cinema non come macchina dellarealtà ma come strumento della visione(falsa ma) amplificata, elevando pratica-mente all’infinito le sue possibilità di sug-gestione, interpretazione e incantamento.Un altro carattere che svincola il cinemadi Hitchcock dall’opprimente conformi-smo del cinema classico è il ruolo as-sunto in esso dalle figure femminili. Già nella Finestra sul cortile a un pro-

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tagonista fisicamente impossibilitato almovimento e quindi all’azione facevafronte una donna particolarmente valoriz-zata: quella Grace Kelly sublimata inprimi o primissimi piani di chiara improntahollywoodiana-classica, tesi a eviden-ziare la sua folgorante presenza scenicae rafforzarne l’icona divistica e nellostesso tempo caratterizzata come perso-naggio attivo, votato a un’azione impeditaal maschio inerte e immobilizzato incar-nato da Stewart. Hitchcock problema-tizzò in sostanza i caratteri di quel cinemahollywoodiano fallocentrico che facevadella donna un mero oggetto di visioneper l’uomo, unico personaggio attivo de-positario di sguardo e potere, e diede allafigura femminile una pregnanza diegeticaprima sperimentata – in tutt’altra maniera– solo da Von Sternberg nel ciclo di filmgirati con Marlene Dietrich. In molti filmdel regista inglese, la donna compie unasorta di percorso iniziatico che la con-duce allo sguardo e all’azione. Un itine-rario che di fatto la porta a costituirsicome fulcro narrativo, a minare alle fon-damenta quel sistema rigidamente pa-triarcale su cui lo studio system fondavala sua ragion d’essere e a guadagnarsi,proprio per questa sua effrazione, unapunizione che la riconduce – nel finale –sotto l’egida del maschio dominante, inun rifondato equilibrio classico tra sessi.È probabilmente Notorious il film chemeglio illustra questo ambiguo, sadico einnovante percorso su cui Hitchcock in-stalla le sue eroine. La protagonista Alicia(Elena nella versione italiana) intrecciauna relazione con l’agente segreto Devline diventa il fulcro di una missione in Bra-sile volta a smascherare un complotto fi-lonazista di cui sposa l’artefice. Già daquesta sinossi scarnificata emerge il va-lore fondante che la donna riveste perl’evoluzione diegetica: Hitchcock tra-sforma il soggetto femminile – relegatonel cinema classico al degradante ruolodi feticcio erotico – in un agente attivo erende questa evoluzione di ruolo attra-

verso un’accorta strutturazione delleforme di sguardo. Se è vero – come am-mette Laura Mulvey, fondamentale teo-rica femminista del cinema – che la figurafemminile nel cinema classico hollywoo-diano esisteva soltanto in quanto oggettodello sguardo maschile e spettacolo im-possibilitato all’azione, Hitchcock oltre-passa il canone e inserisce la suaprotagonista in un percorso d’evoluzioneche la conduce ad appropriarsi dellosguardo (reso attraverso lo strumento ci-nematografico della soggettiva, ovverol’inquadratura realizzata a partire dalpunto di vista del personaggio) e insiemedell’azione. Il film si caratterizza, da que-sto punto di vista, come l’iniziazione diAlicia alle funzioni tipicamente maschilidel cinema, come una parabola chesegna il suo passaggio da una posizionepassiva a una attiva, per poi concludersicon un ritorno alla passività.In una delle prime scene del film – quelladella festa tenuta da Alicia a casa sua –Hitchcock indugia con la macchina dapresa su una figura maschile che, sedutasul divano, guarda la protagonista. Il re-gista non mostra solo la donna come og-getto di sguardo ma anche unprotagonista maschile, voltato di spalle ri-spetto al pubblico, che guarda. In questaprima fase dunque il soggetto femminilenon ha diritto d’accesso alla visione masi costituisce – come cinema classicovuole – solo come spettacolo erotico. Losguardo è prerogativa dell’uomo. Dopo lafesta, Alicia e Devlin – l’uomo che pocoprima la fissava – fanno un giro in mac-china. A guidare è la donna, in una pa-lese contrapposizione al canonehollywoodiano – e forse anche sociale,come in un tentativo di rivendicare la pro-pria posizione attiva. Ed è proprio conquesto tentativo che Alicia approda allavisione. Emergono le sue prime sogget-tive ma – causa l’ubriachezza – si trattadi immagini sfocate, distorte (poco dopo,a letto, vedrà Devlin in una prospettivarovesciata). L’accesso della donna allo

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Notorious, Alfred Hitchcock, 1946

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sguardo è ostacolato dalle secolari sovra-strutture patriarcali del cinema hollywoo-diano. Ma il processo si completa quandoAlicia, dopo le sequenze che illustranol’innamoramento con Devlin, diventa atutti gli effetti spia, e dunque agente at-tivo, in casa di Alex, il principale fautoredel complotto filonazista in Brasile. Inquelle quattro mura nemiche, Alicia puòfinalmente attivare il suo sguardo indaga-tore. A questo punto, però, la parabola dimaturazione inizia il suo percorso discen-dente (e invito chi non ha visto il film a in-terrompere la lettura perché svelerò ilfinale). Non appena Alex – coadiuvatodalla sua madre oppressiva – scopre l’in-ganno di Alicia (che l’ha sposato esclusi-vamente per avere pieno controllo suisuoi sporchi affari), decide di frenare ilsuo potere investigativo, somministran-dole ogni giorno una piccola dose di ve-leno (disciolto in quelle tazzine da cafféche costituiscono alcuni dei più paradig-matici MacGuffin hitchcockiani, oggetti didubbio o inesistente valore diegetico che– a posteriori – dimostrano di possedereun peso narrativo essenziale nell’evolu-zione dell’intreccio). Di nuovo le sogget-tive di Alicia si fanno sfocate, imprecise,imperfette. Questo crollo dello sguardo èaccompagnato da uno sgretolamentodella possibilità di agire della donna, ri-dotta a letto. Solo l’intervento finale di De-vlin condurrà alla finale salvezza dellaprotagonista: la donna che tenta di assu-mere una posizione attiva viene così sa-dicamente punita e l’equilibrio può essereripristinato solo dalla figura maschile.Tutt’altra valenza assume il percorso ini-ziatico seguito dall’anonima protagonistadi Rebecca: più che enfatizzare il valoredello sguardo e dell’azione, Hitchcocksmentisce qui la tesi del celebre teoricoRaymond Bellour per cui “ogni film holly-woodiano si caratterizza come un per-corso edipico maschile” e – comedimostra Tania Modleski - delinea unatraiettoria edipica propriamente femmi-nile. L’ingenua e sperduta protagonista

viene presentata sin da subito comeun’innocente bambina che nel corso delfilm entra in contatto con vari sostitutidella figura della Madre (freudianamenteintesa): la sua tutrice, la governante dicasa de Winter, e la stessa Rebecca, fan-tasma inquietante che non si palesa maiin forma concreta, raro caso di personag-gio che senza mai materializzarsi riescead assumere un ruolo pressoché fon-dante all’interno della narrazione.La giovane sposa si ritrova nella gigante-sca dimora di un marito prudente ma an-cora (a quanto pare) ossessionato dalricordo della prima moglie defunta. Tuttoin casa è troppo grande (le porte sono unesempio eclatante), troppo dispersivo,troppo enigmatico. La ragazza è una fan-ciulla indifesa in un labirinto animato dapresenze inquietanti, è una bimbetta im-pacciata che non sa conformarsi all’or-dine perfetto lasciato in ereditàdall’impeccabile Rebecca. Per sublimarequesta imperfezione, questo atroce di-stacco che la separa dalla Madre, la ra-gazza tenta di distaccarsene ed entrarenel Simbolico (che a grandi linee Freudfa coincidere con il sociale), conforman-dosi al desiderio del marito. Questo peròè ambiguo ed enigmatico e nel tentativodi adeguarvisi, la protagonista non faaltro che trasformarsi in una speculare esbiadita controfigura di Rebecca, laMadre freudiana. Questo processo diidentificazione giunge al culmine durantela scena del ballo quando la protagonistasi abbiglia inconsapevolmente come lei,sotto il beffardo consiglio della gover-nante. Il seguente rifiuto del marito –scosso da quella visione così simile al-l’immagine della prima moglie defunta –conduce la protagonista a una crisi: l’ap-prodo al Simbolico sembra negato el’unica via per accedervi rimane la mortedella Madre. Che in effetti – sempre ra-gionando in termini freudiani – avvienesubito dopo: il corpo di Rebecca viene ri-trovato – e questo darà il via alla secondaparte del film, fondata sulla scoperta delle

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aberranti verità che caratterizzano la fi-gura della defunta e su un processo giu-diziario che coinvolge suo marito in primapersona – e questo secondo “decessosimbolico” porta la protagonista alla defi-nitiva e piena maturazione.La scelta dell’ultimo film è stata quellache mi ha fatto sudare di più. Ma avendodeciso di analizzare il valore nascosta-mente anticonformista e “di confine” delcinema hitchcockiano ho scelto – tramolti capolavori – un’opera che più pale-semente di altre esplicita la sotterraneatendenza del regista inglese a distaccarsidalle clausure asfissianti del cinema clas-sico, per insinuarsi nell’orizzonte dellamodernità filmica, circa dieci anni primache essa venisse teorizzata e messa inpratica dalla Nouvelle Vague francese esulla base degli stessi parametri cheBazin e Godard posero a fondamento diquel nuovo cinema a cui diedero la ge-nesi, confermando quanto Alfred Hit-chcock abbia significato per l’evoluzionedel linguaggio cinematografico e – perconverso – quanto sia limitante quell’eti-chetta di Maestro del brivido a cui già hofatto riferimento.Per chi non l’avesse ancora capito par-lerò di Rope (lo scrivo con il titolo origi-nale perché il doppiaggio italiano – nonsolo del titolo – ha falsato e stuprato ilsenso e la potenza di un’opera di valoreinestimabile), piccolo grande capolavorodel ’48, lungo meno di un’ora e venti. Ilfilm rimane noto per la peculiare sceltadel regista di girarlo come un lungopiano-sequenza. Ambientando l’interascena – ripresa da un testo teatrale – inun appartamento, Hitchcock riuscì infattia girare tutto il film attraverso otto longtake (lunghe inquadrature in movimentorealizzate senza mai staccare) montaticon grande perizia per rendere gli stacchiinvisibili e dare la sensazione di assisterea un solo piano-sequenza che coinci-desse con il film intero. Il cineasta sop-perì l’impossibilità tecnica dell’epoca (lebobine della macchina da presa contene-

vano pellicola sufficiente solo per dieciminuti di riprese) e diede l’illusione diun’opera girata in totale continuità spa-zio-temporale (precedendo di 50 anniAleksandr Sokurov che nel 2002 –senza più impedimenti tecnici – girò Arca

russa attraverso un unico piano-se-quenza di 96 minuti). Ma non è sulla stra-ordinaria perizia tecnica di Hitchcockche voglio soffermarmi quanto sulle im-plicazioni estetologiche che un atto cosìradicale porta in seno. Girando Rope

come un unico piano-sequenza, infatti, ilregista inglese andava a minare unadelle strutture più storicamente consoli-date del cinema classico: quel montaggioinvisibile che garantiva alla narrazionequei saldi principi di causalità e traspa-renza su cui il cinema doveva necessa-riamente fondarsi. Eliminare il montaggiosignificava rivendicare l’indipendenzadell’autore, della sua creatività. Volevadire celebrare quella rinnovata libertà delcineasta che André Bazin - verso la finedegli anni ’50 – riconosceva come fun-zione del piano-sequenza e che i film diGodard, a partire dal ’59, esposero almassimo grado.Ma non è solo la tecnica a fare del film uncocente manifesto di modernità: la stessatrama si distacca dall’orientamento cano-nico del cinema classico e mostra sor-prendenti somiglianze con i cosiddettifilm-saggio di Godard, spesso definiti allastregua di “filosofia per immagini” più cheveri e propri prodotti narrativi.Rope, sotto il noto rigore della struttura-zione narrativa, nasconde lo stesso af-flato speculativo e ideologico dei –successivi – film godardiani. La storia siapre con lo strangolamento di un indivi-duo perpetrato da due giovani – che aun’analisi appena più sottile appaionochiaramente come una coppia omoses-suale – all’interno del loro domicilio.Il cadavere viene nascosto in una cassa-panca e poco dopo la casa si riempie diinvitati per un party. Nonostante il perfettomeccanismo di suspence e l’azione vi-

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brante e concitata che dominano il ritmodiegetico, il vero centro d’interesse delfilm consiste nel flusso ricorrente dei dia-loghi, che finiscono sempre per adagiarsisui temi della morte, dell’assassinio per-fetto, della legittimità dell’omicidio, fil-trando una riflessione sul fanatismo, lavanagloria, l’ingordigia della specieumana che accenna alla figura di Hitler(appena tre anni dopo la fine dellaguerra) e si prodiga in un riferimento – inrealtà poco ragionato e semplicistico – almodello dell’Übermensch di FriederichNietzsche. Cinema e filosofia dunque. Inuna cornice tecnico-estetica che riven-dica l’indipendenza del cineasta dalle op-primenti norme produttive del canoneclassico. La stessa irriverente carica libe-ratoria di un cinema scopertamentemesso in mostra nel suo funzionamentosotto il più perfetto conformismo narra-tivo. E la medesima libertà che permea lesue magnifiche protagoniste, capaci final-mente di crescere e maturare in unmondo fallocentrico che ne azzera la per-sonalità, come di muoversi autonoma-mente, guardando finalmente il mondocon occhi nuovi. Che forse coincidonoproprio con quelli di Hitchcock.

FILMOGRAFIA COMPLETA

Number 13 (1922) – incompleto e andatoperduto Always Tell Your Wife (1922) –non accreditato Il giardino del piacere (The Pleasure Gar-den) (1925) L’aquila della montagna (The MountainEagle) (1926)Il pensionante (The Lodger: A Story OfThe London Fog) (1927) Il declino (Downhill) (1927) Virtù facile (Easy Virtue) (1927) Vinci per me! (The Ring) (1927) La moglie del fattore (The Farmer’s Wife)(1928) Tabarin di lusso (Champagne) (1928)

L’isola del peccato (The Manxman)(1929) Ricatto (Blackmail) (1929) Elstree Calling (1930) – co-regia di AndréCharlot, Jack Hulbert e Paul Murray Giunone e il Pavone (Juno and the Pay-cock) (1930) Omicidio! (Murder!) (1930)Fiamma d’amore (The Skin Game)(1931) Ricco e strano (Rich and Strange) (1932) Numero diciassette (Number Seventeen)(1932) Vienna di Strauss (Waltzes from Vienna)(1933) L’uomo che sapeva troppo (The ManWho Knew Too Much) (1934) Il club dei trentanove (The 39 Steps)(1935) L’agente segreto (Secret Agent) (1936) Sabotaggio (Sabotage) (1936) Giovane e innocente (Young and Inno-cent) (1937) La signora scompare (The Lady Vani-shes) (1938) La taverna della Giamaica (Jamaica Inn)(1939) Rebecca, la prima moglie (Rebecca)(1940) Il prigioniero di Amsterdam (Foreign Cor-respondent) (1940) Il signore e la signora Smith (Mr. & Mrs.Smith) (1941) Il sospetto (Suspicion) (1941) Sabotatori o Danger (Saboteur) (1943) L’ombra del dubbio (Shadow of a Doubt)(1943) Prigionieri dell’oceano (Lifeboat) (1944) Bon Voyage – cortometraggio (1944) Aventure Malgache – cortometraggio(1944) Io ti salverò (Spellbound) (1945) Notorious, l’amante perduta (Notorious)(1946) Il caso Paradine (The Paradine Case)(1947) Nodo alla gola, riedito come Cocktail perun cadavere (Rope) (1948) Il peccato di Lady Considine o Sotto il ca-

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pricorno (Under Capricorn) (1949) Paura in palcoscenico (Stage Fright)(1950) L’altro uomo, riedito come Delitto per de-litto (Strangers on a Train) (1951) Io confesso (I Confess) (1953) Il delitto perfetto (Dial M for Murder)(1954) La finestra sul cortile (Rear Window)(1954) Caccia al ladro (To Catch a Thief) (1955) La congiura degli innocenti (The Troublewith Harry) (1955) L’uomo che sapeva troppo (The Man

Who Knew Too Much) (1956) – remakedell’originale del 1934 Il ladro (The Wrong Man) (1956) La donna che visse due volte (Vertigo)(1958) Intrigo internazionale (North by Nor-thwest) (1959) Psyco (Psycho) (1960) Gli uccelli (The Birds) (1963) Marnie (Marnie) (1964) Il sipario strappato (Torn Curtain) (1966) Topaz (Topaz) (1969) Frenzy (Frenzy) (1972) Complotto di famiglia (Family Plot) (1976)

ederico Fellini sosteneva chefosse esistito un solo neorealista:Roberto Rossellini. Il che gli attirò

l’antipatia di Vittorio De Sica. La celebredichiarazione del regista riminese nontendeva in realtà a sminuire l’opera del ci-neasta romano, escludendolo dall’eti-chetta neorealista. Fellini lo svincolavasoltanto da quella epifanizzazione delreale privo di ricostruzioni secondarie cheattribuiva esclusivamente al primo ci-nema rosselliniano. Da questo punto divista, con un’affermazione ancor piùestrema -e forse provocatoria- di quelladi Federico Fellini, azzardo a dire che ilneorealismo puristicamente inteso non èmai esistito. Nemmeno Roma città

aperta e Paisà, che di quella nuova poe-tica sono considerate le quintessenze,sono esuli da una ricostruzione del reale-che invece dai neorealisti pretende diessere rappresentato in modo specularee fenomenologico- ma anzi contengonoquegli elementi di artificio, abbellimentoe ricreazione a posteriori del mondo che-come abbiamo già notato nei precedentiepisodi di questa rubrica- sono parte ine-liminabile e imprescindibile della settimaarte. Ciò che di rivoluzionario la serie diopere comunemente riunite sotto l’eti-chetta di neorealismo propose davvero fuuno sguardo nuovo, un’indomabile setedi realtà, una tensione calorosa e sentitadiretta al vero, al sociale, ai caratteri diuna situazione storica d’emergenzacome era quella del dopoguerra italiano.Il che fa del neorealismo una corrente -non solo cinematografica- profonda-mente legata alle radici della nostranazione, tanto da costituirne uno dei prin-cipali vanti a livello internazionale e da in-

fluenzare in modo radicale e profondoquell’esperienza di rinnovamento filmicoincarnata negli anni ’60 dalla NouvelleVague francese. Una fragorosa esplo-sione che attraversò come un lampo ilpanorama cinematografico nazionale(e successivamente internazionale) cam-biandolo per sempre attraverso unnumero di opere e autori incredibilmenteesiguo (molto più di quanto le tradizionalistoriografie del cinema vogliano farcredere, ammassando sterilmente nomie titoli che poco o nulla ebbero a che farecon il neorealismo) eppure così impo-nente nel fondare nuove suggestioninel sistema estetico del narrare perimmagini.Il contesto in cui il neorealismo pone lesue prime radici, dunque, è l’Italia di fineanni ’30 e successivamente quella deva-stata e con il capo chino della SecondaGuerra Mondiale. L’Italia regimentata delFascismo, cinematograficamente domi-nata da un vasto repertorio di opere dipropaganda, da un’attenzione sterile allabella forma che esalta il Regime e an-nulla lo scandaglio critico sul reale. E’ ilcinema pieno di formalismo di Alessan-dro Blasetti o quello dei “telefoni bian-chi”, fatto di eroi onnipotenti e invincibiliche parlano in modo impostato, prodi-gandosi in pose retoriche e pompose.Una tradizione scalfita inizialmente soloda Mario Camerini che sceglie un magroe ossuto Vittorio De Sica come protago-nista di cinque film che smascherano inchiave comica virtù, vizi e paure della pic-cola borghesia italica, tentando un ap-proccio più immediato e diretto alreale. Un lieve ma efficace deragliamentoche prelude a una rivoluzione epocale,

Vittorio De Sica, Roberto Rossellini e Federico Fellini

LA RIVOLUZIONENEOREALISTA

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annunciata in modo prepotente negli annipiù infuocati del conflitto armato da unaserie di film di enorme interesse. Nel1942, Gianni Franciolini realizza Fari

nella nebbia mentre Alessandro Bla-setti sfocia in un cinema fresco e noncontaminato da malsana retorica conQuattro passi fra le nuvole. In entrambii casi, la macchina da presa si ritrova adepifanizzare la vita e le azioni di strati po-polari bassi, sottendendo alla narrazionelo scottante tema del tradimento coniu-gale, la volontà (femminile nel primo, ma-schile nel secondo) di rinnegare l’asfissiadolorosa dell’ambiente familiare; rifles-sioni che inevitabilmente si ritrovano acozzare con quell’immagine sacra dellafamiglia pretesa dal Fascismo e che -al-trettanto inevitabilmente- costituiscono unpreludio a quell’ansia di realtà, unita auna critica feroce, scottante e scevra dipreconcetti della stessa, tipicamente neo-realista. L’anno successivo, il cambia-mento di rotta emerge in tutta la suapotenza nei due capolavori senza tempodi due dei più grandi cineasti italiani: Ibambini ci guardano di Vittorio DeSica e Ossessione di Luchino Vi-sconti. Il primo si discosta dagli ambientipopolari dei primi due film citati e illustrail disfacimento di una famiglia alto-bor-ghese attraverso gli occhi grandi e inno-centi di un bambino, testimone muto diuna madre che ama un altro uomo e diun padre disperato che prima si rinchiudein un dolore privo di parole, poi tenta diriconquistarla. Ancora il tradimento, an-cora un colpo durissimo alla famiglia,zoccolo duro del regime fascista, ancorauna critica sofferta e velenosa, quantomai lacerante, alle apparenze di una re-altà ipocritamente idilliaca. A tutto questoDe Sica aggiunge la figura del piccoloBricò, che indugia alla realtà con occhispensierati, la filtra senza comprenderelo sfacelo che lo circonda. Il film si com-pone allora come un giallo condotto conlo sguardo di un bambino, che intravedel’adulterio solo per frammenti senza es-

sere in grado di capirlo, interpretarlo, in-teriorizzarlo, privo della capacità e dellaforza di riconoscere nella madre “l’assas-sino”, come in una sorta di puzzle noncomponibile. Da questo momento, ilbambino sarà -come vedremo- una sortadi costante dell’opera di De Sica e, in findei conti, del neorealismo tout court; in-sieme simbolo di innocenza perduta,schiacciata e frantumata sotto il peso diuna realtà ostile ed emblema più signifi-cativo della necessità di uno sguardonuovo, libero e privo di sovrastrutture, ca-pace di scandagliare il mondo con occhisinceri. Di uguale -se non maggiore- rile-vanza è l’esordio cinematografico di Lu-chino Visconti, che s’ispira a Il postino

suona sempre due volte, romanzo diJames Cain, e ambienta tra Ferrara eRavenna la sordida storia dell’illecita pas-sione che lega un vagabondo alla mogliedi un ristoratore. All’ennesimo tradimentoe alla distruzione del nucleo familiare chene deriva, Visconti connette un tentativoprogrammatico di abbassamento e dise-roicizzazione dell’attore, del maschio, de-purato finalmente dai vezzi dei vecchiruoli di cartapesta. Il cineasta milanesebutta giù l’eroe dal suo piedistallo di per-fezione plastica e retorica, lo problema-tizza, scava nelle sue passioni lacerantie recondite, fino a piegarlo a un atteggia-mento masochistico, passivo, quasi ser-vile nei confronti dell’inebriante femmefatale interpretata da Clara Calamai. Adaccentuare questa corruzione della figuramaschile, assume una rilevanza emble-matica il rapporto ambiguo -leggibile inchiave omoerotica- che proprio il prota-gonista intreccia con un altro bohemien -dopo la fuga che per qualche tempo lolibera dall’oppressione della sensualedark lady- che sembra esprimere nei suoiconfronti una tenerezza protettiva e ge-losa, con il quale condivide una stanza eun letto e verso il quale nutre una sortadi malcelata fascinazione. Con una simileoperazione di degradazione, Viscontimira a far decadere tutti i residui stantii e

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sclerotizzati di un cinema impostato, fa-scista, congelato in una becera istanza diesaltazione patriottarda e sessista. E in-sieme, il regista lombardo tenta di supe-rare quella ricerca estetica fondatasull’immagine flou, aggraziata, plastica eretorica, icona di un periodo ormai tra-passato (e propria di un Blasetti) e riba-disce il suo interesse verso un cinemaantropologico, animato dalla fisicità bar-barica dei corpi, dal loro contatto, dallaloro lotta. E non a caso Ossessione pro-mana ancora oggi -a distanza di quasi 70anni- una carica erotica fortissima, raffor-zata da annotazioni torbide e note fisio-logiche, da un pathos sensuale, disar-monico e ansioso che traspare dalleazioni, dai gesti e dai silenzi dei protago-nisti, scandagliati a fondo in quell’animoturbato e violento che dà senso e pie-nezza al titolo.Ma la vera svolta arriva nel 1945. Aguerra finita, in una capitale semi-di-strutta e ridotta a una condizione spaven-tosa di penuria di mezzi tecnici, RobertoRossellini gira Roma città aperta. Persopperire alla distruzione quasi totale diCinecittà, il cineasta trasforma un piccoloteatrino in Via degli Avignonesi in un tea-tro di posa e si barcamena tra questospazio, alcuni interni reali e l’aria apertadi una Roma irriconoscibile, per girare ilfilm che avrebbe cambiato drasticamenteil modo di fare e pensare il cinema. Lanecessità materiale diventa così unacomponente estetica preminente nellafondazione della poetica neorealista. Alposto delle costosissime luci di scena,Rossellini utilizza lampadine domestichecapaci di illuminare il set in modo più veroe vivo. E allo stesso modo, essendo diffi-cile reperire grosse quantità di pellicola,il cineasta romano decide di acquistarneun po’ alla volta, impegnandosi in unascuola di volontaria auto-restrizione chelo obbliga a realizzare sequenze brevi,quasi frammentate, immerse in un mon-taggio convulso e veloce. L’altra novità ri-voluzionaria introdotta da Rossellini, per

quanto in realtà già suggerita dai film dicui sopra, riguarda l’attore, ben distanteda quella concezione eroicistica, retorica,falsa e distaccata tipica del cinema fasci-sta di propaganda e anzi scelto per la suacomponente di “verità”, per la sua capa-cità di dialettizzare con un pubblico. Perqueste ragioni, Rossellini scelse AnnaMagnani e Aldo Fabrizi, attori nati nelteatro comico e nel varietà, dotati di unaspigliatezza energica assolutamente as-sente nell’attore di regime, capaci di uncontatto reale e potente con lo spetta-tore. Ciò che derivò dalla fusione di que-sti elementi -voluti o resi necessari dallecircostanze storiche non particolarmentefavorevoli- fu principalmente il sorgere diuno sguardo nuovo, di una capacità maisperimentata prima di cogliere ed epifa-nizzare il reale con occhi diversi, di fis-sare su pellicola la fluidità serpeggiantedi un mondo in ginocchio, la vitalità maidoma dell’essere umano schiacciata dal-l’inferno generalizzato della guerra, delladistruzione di popoli e nazioni. Il valoreuniversale che il cinema neorealista diRossellini tenta di veicolare con maggiorforza è quello della solidarietà, il concettodi indomita unione tesa a sconfiggere leforze negatrici della vita, l’ideale di lottacomunitaria del bene contro le atroci etorbide aberrazioni del vecchio mondo(dalla droga alla pedofilia) da eliminareper fondare una nuova civiltà che sappiaimparare dai propri errori. Se tale rifles-sione impregna in modo evidente la strut-tura narrativa di Roma città aperta, chesotto un titolo ironico racconta i sotterra-nei movimenti della resistenza romana,celebra la spinta solidale che uniscemondo religioso e mondo partigiano epromette un avvenire carico di speranzacon quel poetico e indimenticabile finaleche mostra un gruppo sparuto di ragaz-zini marciare verso l’orizzonte, è conPaisà -realizzato l’anno successivo- cheessa viene espressa al grado più alto.Già il titolo rievoca l’espressione che i sol-dati alleati utilizzavano per farsi ricono-

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Ladri di biciclette, Vittorio De Sica, 1948

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scere dagli italiani come amici, dopo losbarco in Sicilia e la risalita verso il norddella penisola che il film pretende di rac-contare attraverso sei episodi. Al di là delsuo significato letterale, comunque,Paisà si erge a paradigma assoluto diuna società nuova, democratica, basatasulla solidarietà interrazziale e diametral-mente opposta all’ideologia nazifascistadel capo unico. Prodigandosi in un mon-taggio rapido, che procede per tagli bru-schi e repentini, Rossellini si fa strada inun universo fatto di lingue, usi e costumidiversi, descrivendo di regione in regionee attraverso situazioni alternative la lottadi liberazione italiana, alternando al tonoetico-sociale, un sottotesto nostalgico,carico di sentimento e passione. Si pensialla commovente parentesi dell’episodioromano, in cui un soldato ubriaco rac-conta a una puttana del suo amore peruna ragazza perduta che in realtà è leistessa, o all’amicizia carica di dolore chenasce a Napoli tra un soldato di colore euno scugnizzo costretto a un esistenzadisperata. L’ultimo capitolo della trilogianeorealista rosselliniana (Germania

anno zero), infine, giunge nel 1948 esposta l’orizzonte di analisi dall’Italia allaGermania del dopoguerra, ancorandosi auna Berlino desolante e semi-distrutta ealla vita di una famiglia composta da unpadre ammalato, una figlia che si cura dilui, un ex-soldato nazista che non esce dicasa nel timore di essere processato, eun bambino costretto a mandare avantila famiglia, tra furti, baratti e lavoretti oc-casionali. Torna qui in modo prepotente iltema dell’infanzia e quello della corru-zione dell’innocenza che l’inferno post-bellico produce senza riserve, connessoa quella rifondazione della civiltà che fada leitmotiv ai capolavori di Rossellini. Ilpiccolo Edmund -ispirato da un suo vec-chio professore, invischiato nel giro dellapedofilia- uccide il padre, somministran-dogli una dose eccessiva di medicinali.Immediatamente scappa per le strade diuna Berlino lacerata, come in una ricerca

di sé stesso, del bambino che in lui è de-finitivamente morto. Tenta di aggregarsia un gruppo di ragazzini che giocano apalla e lo respingono, poi prende a darcalci a una lattina e infine sceglie di gio-care da solo tra le rovine di un palazzodeserto. Quando prende coscienza del-l’orrore che ha commesso, si dà la morte,lasciandosi cadere a terra, distruggendosimbolicamente la propria parte malata,il germe nazista che gli contaminal’anima. In quest’ultimo magnifico tassellodella sua trilogia, il cineasta romano fa diun bambino che è archetipo della razzagermanica (biondissimo, slanciato, congli occhi chiari) l’ultimo capro espiatorioattraverso cui procedere nella ricostru-zione di un mondo migliore. Il suo soffertosacrificio è la presa di coscienza di unanazione intera che ha riconosciuto i pro-pri errori e ha deciso di ricominciare dazero (questo il senso del titolo). Ma per-ché questo sia possibile, il sangue ver-sato va lavato a prezzo della propriavita. Dopo aver realizzato questi tre inso-stituibili tasselli per la storia del cinemamoderno (il mitico regista statunitenseOtto Preminger sosterrà che “La storiadel cinema si divide in due ere: una primae una dopo Roma città aperta”), Ros-sellini dà vita a un ciclo di film imperniatisulle figure femminili incarnate da IngridBergman -che sposa nel 1950- traslandolo spettro della sua analisi dall’esternoall’interno, da una dimensione epico-co-rale a una intima e profondamente indivi-duale, dai problemi etici e sociali di unmondo annientato da anni di abominio eterrore che tenta disperatamente di risol-levarsi, alle inquietudini e i lacerantiabissi dell’animo femminile, colto in situa-zioni-limite di crisi esistenziale: dalla sof-ferta elaborazione del lutto di un figlio diEuropa ’51, in cui la Bergman tenta disuperare il dolore oscillando tra l’impegnosociale e quello spirituale, optando infineper il primo, ai laceranti scontri di civiltàche dominano Stromboli, terra di dio esoprattutto il capolavoro di stampo forste-

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riano Viaggio in Italia, in cui l’equilibriosentimentale di una rigida e formalistacoppia inglese esplode a contatto conl’elemento selvaggio e profondamentesensuale che permea gli ambienti italici,trascinandola in una dolorosa ma neces-saria riscoperta del sé e dell’altro.

Negli stessi anni, Vittorio De Sica fondela spontaneità affettiva del suo cinema, ilcalore amoroso che lo spinge ad abbrac-ciare i propri personaggi con movimentiavvolgenti e mai formalisticamente com-piaciuti, con quella sete poderosa di re-altà che caratterizza il cinemarosselliniano. Come lui, il cineasta ro-mano adotta uno stile rapido, cronachi-stico e attraverso esso fotografa un realeprivato di abbellimenti colto in tutta la cru-dezza dell’esistere. Eppure, se l’analisi diRossellini è condotta a partire da unsenso di solidarietà universale che maiviene meno, De Sica costruisce i suoi ca-polavori attorno a un ideale di unione piùintima. Quella che in Rossellini era unprogetto -politico- generalizzato di rifon-dazione del civile, in De Sica si trasformain solidarietà interpersonale, slancio af-fettivo non destinato a un sistema globalema al sostegno amoroso che ogni essereumano merita in quanto tale. Non è uncaso che i protagonisti di tutti i suoi film -storicamente- definiti “neorealisti” sianomembri di categorie ai margini, più dialtre passibili di maldicenza, rancore, pre-giudizio, discredito e per converso di so-stegno, amore, devozione. I due piccolilustrascapre che in Sciuscià (il film a cuideve la genesi l’onorificenza dell’Oscar alfilm straniero) coronano il sogno di com-prare un cavallo bianco -simbolo di pu-rezza e innocenza pienamentericonducibile alla penna di Zavattini, sce-neggiatore e collaboratore fisso di DeSica- prima di finire in carcere, reclusi inun universo eterogeneo e multilingue dicreature perdute e alla deriva, portano almassimo grado il leitmotiv neorealista delbambino, inteso come portatore di uno

sguardo nuovo e scevro da sovrastrut-ture limitanti e insieme come capro espia-torio di tutti i mali di una società cherotola. In questo stupendo affresco dianime dannate, il concetto desichiano disolidarietà interpersonale finisce per per-meare l’intera pellicola, costruita per trequarti sulle piccole e -spesso irrilevanti-vicende del carcere, sulla forza trainantecostituita dall’innocente unione dei ra-gazzi (parola chiave che del film è il sot-totitolo), senza riuscire però a costituirela chiave di volta per la redenzione finale.Con Ladri di biciclette -di due anni suc-cessivo- il regista trasla questo senso disolidarietà corale, verso una dimensionepiù familiare e ristretta. Portando a com-pimento l’ideale zavattiniano di “pedina-mento esistenziale”, il cineasta romanoracconta la giornata di un attacchino e delsuo figlioletto, alla ricerca di un ladro chegli ha sottratto la bicicletta -fondamentaleper il suo lavoro- attraverso i rioni romani.Quando nel finale, l’uomo si lancia nel di-sperato gesto di diventare a sua volta unladro e, acciuffato da una folla inviperita,rischia di essere arrestato, il bambino glicinge la mano e si perde con lui nellafolla. Un gesto d’amore semplice e para-digmatico, in uno dei più alti momenti dicinema di tutti i tempi.La parabola neorealista di De Sica sichiude -fuori tempo massimo- nel 1952con un altro titolo imprescindibile: Um-

berto D, il film a cui il cineasta si dichia-rava più legato, forse perché realizzato inmemoria del padre (Umberto De Sica).In questo rassegnato saggio sul dolore ela solitudine, il cineasta affronta l’età ter-minale della vita, descrivendo in meno di90 minuti i giorni lenti e annoiati di un vec-chietto senza quattrini né domicilio chescorge nel suicidio l’unica soluzione allafine del senso dell’esistere. E’ l’abbaiarescattoso e amorevole del cagnolino do-mestico a riportarlo alla vita nel finale, inuna chiusa di potenza memorabile cheforse sta a segnalare un rinnovato idilliodell’uomo col mondo, con la natura

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madre che lo circonda e lo racchiude.Precedente a Umberto D ma idealmenteslegato dalla dimensione prettamenteetica e sociale che fa da filo rosso alla tri-logia neorealista desichiana è infine Mi-

racolo a Milano, tratto da Totò il buono,romanzo di Zavattini e in effetti permeatoprofondamente dalla vena surreale, oni-rica e fantasiosa propria dello sceneggia-tore italiano più internazionalmentenoto. La vicenda si impernia su un gio-vane orfano che, uscito dall’istituto in cuiera stato recluso a seguito della mortedell’anziana signora che l’aveva trovatoneonato tra le primizie del suo orto, si ag-grega a un piccolo gruppo di senzatettostanziato fuori Milano, con il quale riescea costruire una comunità armonica e benstrutturata. Tutto fila per il meglio finchéla scoperta del petrolio in quella stessazona attira le mire di un magnate della fi-nanza, contro il quale gli sfollati organiz-zano una sorta di battaglia. Questosottotesto etico-sociale tipicamente neo-realista connesso alle figure desichianedegli outsider, si mescola con gli espe-dienti sognanti e magici di Zavattini e dàvita a un intreccio incredibilmente sugge-stivo di forme e situazioni narrative chemolti critici dell’epoca etichettarono come“neorealismo rosa”, inteso come “annac-quamento” -in toni surreali e fantastici-del “neorealismo rosso” marxisteggiantee politicamente impegnato. Scene comequella della festa di piazza, in cui una sta-tua dalle fattezze femminili prende vita ecomincia a ballare tra la gente o quelladella guerra tra senzatetto e capitalistialle cui armi rispondono i miracoli di unacolomba bianca, si sedimentarono conpotenza nell’immaginario collettivo, con-tribuendo a quell’internazionalizzazionedel cinema italiano che in primis lo stessoDe Sica favorì grazie a film successivicome La ciociara e soprattutto Ieri, oggi

e domani, primissimo antisegnano diquella fortunata e gloriosa tendenza cine-matografica tutta italica ribattezzata piùtardi “commedia all’italiana”. Basti pen-

sare, ad esempio, che la scena finale diMiracolo a Milano, con il celebre volosulle scope dei senzatetto verso unmondo egualitario e anticlassista “dovebuongiorno vuol dire veramente buon-giorno” (Zavattini in realtà voleva unachiusa più “impegnata” in cui ogni tenta-tivo di atterraggio e stanziamento deglisfollati fosse impedito dagli onnipresenticartelli di proprietà privata) è stata proba-bilmente la maggiore ispirazione per ilvolo delle biciclette dell’E.T. spielber-ghiano.L’altro grande nome storicamente legatoalla stagione neorealista italiana è quellodi Luchino Visconti che, come abbiamoaccennato, anticipa quella rivoluzionariaistanza di rinnovamento nel ’43 con Os-

sessione, suo esordio, per poi dedicarsialla regia teatrale per cinque anni e tor-nare successivamente al cinema nel ’48animato da un progetto monumentale espropositato: narrare le vicende di uominie donne sconfitti e distrutti dal progresso(lo stesso obbiettivo che si poneva Vergacon il suo ciclo dei vinti), descrivendo at-traverso tre film idealmente connessi leparabole di redenzione discendenti e ca-tastrofiche di pescatori, minatori e -infine-agricoltori, che in un ostinato tentativo diemancipazione socio-economica veni-vano sconfitti dalle forze costrittive e in-naturali del capitalismo. Le tre pellicole,nell’ideale viscontiano, avrebbero condi-viso il titolo La terra trema in riferimentoall’epica marcia finale delle varie catego-rie di oppressi -riunite in un’estrema edefinitiva coalizione contro il nemicocomune - capace di far vibrare paurosa-mente il suolo sotto i loro piedi. Il pro-getto, incredibilmente ambizioso, non fumai concluso. Visconti realizzò solo ilprimo dei tre film, denominato La terra

trema – Episodio del mare, rifacendosia I Malavoglia capolavoro letterario diGiovanni Verga, sostituendo però altema dell’oscurità di un fato maligno chedominava il romanzo, il motivo forte-mente critico del capitalismo come

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Anna Magnani

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matrice di tutti i mali sociali. Questo pre-potente riferimento alla contemporaneità,unito alla scelta di far recitare i veri pe-scatori di Aci Trezza -ovviamente in dia-letto, parzialmente ammorbidito in sededi doppiaggio ma comunque ostico a chinon ha familiarità con il siciliano- e all’uti-lizzo di ambienti reali, tra i vicoli angolosidi un paese svincolato dallo scorrere deltempo e l’enorme distesa marina, magni-ficamente trasposti dalla fotografia diAldò (il mitico Aldo Graziati), riconduceil film all’orizzonte stilistico e tematico delneorealismo per quanto in molti hannoprotestato contro una simile attribuzione.Fellini per primo sostenne che a diffe-renza di quella di Rossellini, l’opera vi-scontiana si allontanava dal neorealismopropriamente detto, per accostarsi di piùalle esperienze del realismo e naturali-smo ottocentesche. Personalmente miassocio al maestro riminese e ritengo cheLa terra trema si costituisca più come unparadigma emblematico ed esemplaredella poetica viscontiana fondata sull’al-ternanza, la dialettica e la compenetra-zione tra una fisicità erotica, selvaggia ebarbarica e una visuale marxista chetenta di analizzare il reale nei termini diuna costante lotta di classe, che noncome un saggio di neorealismo.Da questo punto di vista appare ancor piùdistante da quell’etichetta -nella quale ètuttavia costantemente recluso- il succes-sivo Bellissima, requisitoria struggente edolorosa sulle illusioni create dal cinema,macchina creatrice di sogni e incubi e so-prattutto storia di amore materno, conun’indimenticabile Anna Magnani nellevesti di una grintosa e vitale infermieraromana che dà anima e corpo per far sìche la figlioletta balbuziente possa diven-tare una piccola stella del cinema diAlessandro Blasetti, davvero presentenei panni di sé stesso. Il mondo mostratoda Visconti in questo caso è lontano daquella neorealista ansia di rinascita cheanimava i film di Rossellini, come quellidi De Sica. Manca l’afflato epico-corale

come la disperata ma necessaria spintaa ricostruire e ricostruirsi. Si parla di unmondo che è già ricominciato, in cui l’or-rore e lo sfacelo non sono che dolorosecicatrici. Si tratta, in fondo, di un capola-voro fatto di piccoli uomini e soprattuttopiccole donne che non lottano più per so-pravvivere ma già tentano di vivere (me-glio). Va da sé che anche alcune opere diautori successivi come Fellini e Pasolini(penso a I vitelloni, La strada, Il bidone

e Le notti di Cabiria per il primo, ad Ac-

cattone e Mamma Roma per il secondo)siano da considerare, a dispetto di unaconsolidata tradizione critica e interpreta-tiva, rigorosamente al di fuori dell’esteticaneorealista, dalla quale magari colgonosuggestioni e orientamenti diversi, e allastregua invece di film pienamente perso-nali, radicati in poetiche fatte estranee acategorizzazione esteriori e non passibilidi essere rinchiuse in troppo strette griglieinterpretative. Universi autoriali affasci-nanti e ricchi di evocazioni quelli di Lu-chino Visconti, Federico Fellini e PierPaolo Pasolini su cui al momento nonposso spendere altre parole. Li lascio insospeso con la promessa di tornare a ce-lebrarli nei prossimi episodi di questoviaggio che abbiamo iniziato insieme.

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FILMOGRAFIA DI RIFERIMENTO

- Quattro passi fra le nuvole, AlessandroBlasetti (1942) - Fari nella nebbia,Gianni Franciolini (1942) - I bambini ciguardano, Vittorio De Sica (1943) -Gente del Po, Michelangelo Antonioni(1943) - Ossessione, Luchino Visconti(1943) - Roma, città aperta, RobertoRossellini (1945) - Paisà, Roberto Ros-sellini (1946) - Sciuscià, Vittorio De Sica(1946) - Germania anno zero, RobertoRossellini (1948) - La terra trema, Lu-chino Visconti (1948) - Ladri di biciclette,Vittorio De Sica (1948) - Stromboli terradi Dio, Roberto Rossellini (1949) - Mira-colo a Milano, Vittorio De Sica (1951) -Bellissima, Luchino Visconti (1951) -Umberto D., Vittorio De Sica (1952) -Europa ’51, Roberto Rossellini (1951) -Viaggio in Italia, Roberto Rossellini(1953)

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Accattone, Pier Paolo Pasolini, 1961

1960 costituisce un anno disvolta per la storia della nostranazione, un momento topico

che segnò simultaneamente l’inizio e lafine di un mondo, di una cultura, diun’epoca, uno spartiacque storico che si-gnificò insieme crisi e rinascita, vita emorte. Dieci anni dopo il giro di boa delsecolo, l’Italia perse definitivamentequella caratterizzazione contadina e ru-rale che l’aveva resa -secoli prima- illuogo del cuore ctonio e selvaggio deigrandi romantici per affermarsi come unadelle sette maggiori potenze industrialidel mondo, in seguito a un decennio dicrescita economica convulsa, folgorantee vertiginosa. Una rivoluzione irripetibileed epocale che allargò drasticamente lafrattura mai sanata tra Mezzogiorno eNord, lanciando questo in un febbrile eglorioso ingresso all’interno di quella mo-dernità nemmeno auspicabile dopo i ter-ribili contraccolpi della Seconda GuerraMondiale. E proprio nel 1960, l’acume ela lungimiranza di tre grandi autori italianipermise di scandagliare su celluloide ilprofondo coacervo di ambiguità, contrad-dizioni e zone d’ombra che quel decan-tato progresso portava con sé, dietrol’immagine florida e televisiva di unmondo finalmente capace di ricominciarea crescere. Quell’anno a Cannes Fede-rico Fellini vinse la Palma d’oro con La

dolce vita e Michelangelo Antonioni ot-tenne il Gran Prix per L’avventura. Pochimesi dopo sulle rive dell’Adriatico un pub-blico furibondo gridò allo scandalo -inquella che è rimasta la più contestata edi-zione della Mostra del cinema di Venezia-

in seguito alla stupida decisione della giu-ria di premiare con il Leone d’oro Il pas-

saggio del Reno di André Cayatte,relegando a Luchino Visconti e al suograndioso Rocco e i suoi fratelli unLeone d’argento che seppe più che maidi amaro e stolido contentino. Quel heconta, al di là dei palmares, è che le trevoci più internazionalmente acclamatedel nostro cinema produssero duranteuna così rilevante congiuntura storica treincredibili capolavori capaci di analizzare- in modi drasticamente diversi ma conuna lucidità senza pari - la rinnovata“situazione italiana”, scavando sotto ladorata superficie dello stupefacente cam-bio di rotta economico per captare igravidi segnali di un disagio più profon-damente intimo.Visconti affrontò con il suo Rocco l’infuo-cata questione della sperequazione se-colare che divideva (e ahimé divide) norde sud raccontando la storia di una fami-glia lucana che, dopo la morte del capo-famiglia, tenta la fortuna emigrando aMilano ma vive sulla propria pelle unacrisi alienante che conduce i propositi diriscatto al fallimento. Se i protagonisti deLa terra trema (in relazione al qualeRocco e i suoi fratelli vive un’idealecontinuità) finivano schiacciati dall’inevi-tabile pressione della miseria, la disgre-gazione della famiglia Parondi (quella diRocco, per intenderci) è causata dall’op-posto ma complementare peso della ric-chezza, quello dell’industrializzazione,dei modelli di vita borghesi nei confrontidei quali gli ex-contadini si sentono di-stanti e alienati. Ciò che Visconti mise in

Rocco e i suoi fratelli, Luchino Visconti, 1960

IL GRANDE CINEMAITALIANO DOPOIL NEOREALISMO

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IL GRANDE CINEMAITALIANO DOPOIL NEOREALISMO

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luce con il suo capolavoro fu in realtà unadelle contraddizioni più dirette del rapidoboom economico che trasformò l’Italiettacontadina in una delle più grandi potenzedel mondo: il grande e tragico scarto chesi produsse tra la forma di una societàeconomicamente all’avanguardia e unamentalità popolare ancora ingenua e ar-retrata, cullata su valori arcaici e nonadeguati al ritmo di una nazione mecca-nizzata. Visconti intendeva evidenziarecome la frenesia calcolatrice e gelida diuna realtà nuova non potesse che stri-dere con i vecchi valori di una società altramonto: il caldo focolare, l’amorevolecandore familiare, i naturali ritmi dellaterra, delle colture, il lento incedere dellestagioni lasciavano inevitabilmente ilpasso ai monolocali freddi, alle strade in-nevate e nebbiose, ai ritmi industrialidella catena di montaggio o dei turni dinotte, al peso ingombrante di una televi-sione che proponeva modelli falsi e ipo-criti. Il risultato di questa discrasiainsanabile era una sofferta rincorsa al-l’adeguamento massificante (quella delSimone di Renato Salvatori con apice inuna follia rancorosa e omicida) o tutt’alpiù l’alienazione, connessa alla dolorosaconvinzione dell’impossibilità di compren-dere il mondo e alla necessità di accet-tarne le regole. Contemporaneamentene La dolce vita, quello che è il film-spar-tiacque della sua carriera (il perché lo ve-dremo in seguito), Federico Fellinifotografò quella stessa Italia in bilico tramodernità e una comune coscienza an-corata al passato, penetrando l’universodi quegli stessi modelli borghesi a cui iprotagonisti di Visconti soccombevano,seguendo passo passo il percorso di de-cadimento morale di Marcello Rubini, cro-nista mondano in una Roma luccicante enotturna che ha perso la propria identitàfondendo sacro e profano: insieme ma-donna e puttana, madre e amante, para-diso e inferno. Il tutto all’interno di unarivoluzionaria scansione narrativa cheprocedeva per blocchi diegetici, simboli e

nuclei tematici. Già l’ironico titolo eviden-zia la volontà del cineasta riminese di dis-sacrare -a tutti i livelli- quel mondomoderno che ha perso la sua innocenza,fagocitata dal luccichio dello spettacolo,dall’edonismo frivolo e superficiale in cuiil protagonista si muove, dimenticando lesue profonde aspirazioni. Si passa senzasosta di marciume in marciume: daun’apertura dominata da un jet privatoche trasporta per i cieli di Roma una sta-tua del Cristo (in una volontà mai cosìscopertamente radicale di desacralizzarela santità cattolica su cui la nostra na-zione si fonda) alla sequenza del finto mi-racolo, in cui un gruppo di bambiniannunciano di aver visto la Madonna soloper attirare le curiose televisioni in cercadi scoop, dalla sognante e celeberrimascena della Fontana di Trevi in cui la Ek-berg fonde in sé -come una Roma in mi-niatura- il divino e il carnale, il santo e ildepravato, il bello e il viscido, al paradig-matico blocco diegetico dell’amico intel-lettuale, una sorta di grillo parlante che,di fronte al decadimento inarrestabile diun mondo che ipocritamente si dichiara“nuovo” e “migliore”, sceglie la via del sui-cidio, fino alla finale, memorabile equanto mai significativa immagine di unMastroianni inginocchiato sulla sabbiache all’ultimo bivio di redenzione possi-bile, fa cenno a un’innocente ragazzinasimbolo di purezza di non riuscire a com-prendere le sue parole e, voltandosispaesato, si dirige verso i membri di unasocietà che si configura sempre più comequell’inquietante carcassa di mostro ma-rino che domina la riva. E infine L’avven-

tura: svolta, summa e paradigmafondamentale dell’opera di MichelangeloAntonioni, cantore insuperato delle pro-fondità insondabili dell’animo umano,dello sconvolgimento operato in questodall’ambiente e dalla sua brutale modifi-cazione, imprescindibile esponente diquel cinema moderno a cui già ho accen-nato nei precedenti episodi di questa ru-brica, caratterizzato in primis da una crisi

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della narrazione tradizionale. Che neisuoi film si traduce in indagine profondadelle psicologie umane, autoriflessività,proliferazione di tempi morti e crollo dellacausalità forte. La pellicola in questionesi situa in quella riflessione urgente sullacontemporaneità che già permeava i filmdi Visconti e Fellini appena analizzatima lo scandaglio operato dall’autore fer-rarese è più che altro legato all’analisi diuna crisi intima, di una lacerazione in-terna, di una frattura soggettiva che con-duce all’isolamento, alla diffidenza eall’incomunicabilità, il tutto in una strutturache gioca sulla metafora e il simbolomentre tenta di sovvertire i canoni di quelcinema tradizionale rigorosamente fon-dato sulla successione di eventi forti, latrama, l’azione, l’evento. La storia si ri-duce infatti a poche briciole: durante unagita in yacht, la protagonista Anna (LeaMassari) scompare tra i sassi delle IsoleEolie e nel tentativo di ritrovarla Claudia,la sua migliore amica (Monica Vitti) eSandro, il suo fidanzato architetto (Ga-briele Ferzetti), si mettono in viaggio trale angolose vie della Sicilia. A poco apoco i due si innamorano e il misterodella sparizione viene dimenticato senzaessere risolto (quanto sia rivoluzionario ilfatto che un protagonista scompaia dallascena senza più riapparirvi dopo unquarto del film lo si comprende dal fattoche nel cinema classico il personaggioera il depositario primo e ultimo del sensodell’opera e un’infrazione come quella diAntonioni era assolutamente impensa-bile). Una volta approdato in Sicilia co-munque il film prende a concentrarsi sullarelazione che nasce tra Sandro e Clau-dia, attraversa i suoi contorni frastagliati,le ascensioni passionali come le discesenell’abisso dello spleen, gli sguardi rotti,le incomprensioni, i silenzi. In pratica senei film sopracitati di Fellini e Visconti lecontraddizioni della “nuova era” eranopalesate nella diegesi delle storie raccon-tate, Antonioni rende la trasformazionedella nazione in modo più criptico, au-

stero, allegorico. Il passaggio di conse-gna tra la donna che sparisce e quellache resta e prende il suo posto altro nonè che il riflesso della metamorfosi chel’Italia compie a cavallo tra anni ‘50 e ‘60.La Anna di Lea Massari è la tipica bel-lezza italica, contadina, mediterranea:mora, prosperosa, legata a una famigliaopprimente e una fede potente nelle isti-tuzioni (una Bibbia è l’unica traccia di séche lascia in cabina prima di sparire). LaClaudia di Monica Vitti è invece espo-nente di una bellezza nuova: bionda, li-neare, nervosa, disillusa, i cui trattisembrano incarnare la freddezza e il ri-gore del design industriale. L’avventuradel titolo è allora quella di un nuovoamore, vissuto in un nuovo mondo e inun diverso contesto storico-sociale masoprattutto quella di una nazione. Di unpaese pronto a tuffarsi nell’insidioso maattraente abisso della modernità indu-striale (e consumistica). Dunque, tre filmper un crocevia storico-sociale. E tre au-tori diversissimi, capaci di scrivere le pa-gine più intense e monumentali delnostro cinema dopo l’esperienza del neo-realismo. Tre universi eterogenei che ten-terò di delineare in questo quintoepisodio, tornando indietro prima di quelfatidico 1960 e superandolo di nuovo,cercando di far sfumare nel lampo di unacarrellata la -ahimé- non riassumibilegrandezza delle loro opere. (Ri)comin-ciamo allora con Visconti, di cui già hoavuto modo di parlare nell’episodio pre-cedente, riferendomi all’apporto sostan-ziale dato da Ossessione alla genesi delneorealismo e -per converso- al distan-ziamento (spesso poco analizzato) ope-rato dai successivi La terra trema eBellissima nei confronti della rivoluzio-naria operazione di rinnovamento inau-gurata da Rossellini, al loro legame conun substrato più intimo, a quell’universodi temi, modelli e archetipi profonda-mente personale che Visconti elabora inmodo estremamente rigoroso propriodopo il film con la Magnani, a partire da

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Marcello Mastroianni

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metà anni ‘50. Una poetica fondata sul-l’imperfetta dicotomia tra corpo e ideolo-gia, carne e pensiero politico, due polaritàche attraversano tutto il cinema di Vi-sconti attivando una relazione continuadi attrazione e respingimento, fusione eurto drammatico. L’attenzione appassio-nata e sublimante verso la fisicità umanaè sempre accompagnata da un occhiopiù critico e lucido che tenta di leggere larealtà nei termini di una lotta di classe,secondo la lezione marxista ereditata dalmitico Jean Renoir, per cui Viscontifece da aiuto-regista nei primi anni di ap-prendistato cinematografico. Corpo, san-gue, erotismo e sudore vivono dunque insimbiosi o cozzano drasticamente conideali di progresso, indipendenza e li-bertà, all’interno di un’opera permeatadell’eterogenea e sconfinata cultura delcineasta milanese, imbevuta delle piùgrandi fonti letterarie italiane, francesi,russe, tedesche e mitteleuropee, con ipunti di riferimento principali rintracciabilinella lezione del realismo e soprattuttodel decadentismo, arricchita dall’amoreper la tragedia greca, la pittura, l’opera li-rica e la gloriosa tradizione concertisticatedesca. Paradigmatico da questo puntodi vista Senso, trasposizione del ro-manzo omonimo di Camillo Boito, esem-plare messa in scena della poeticaviscontiana, del vivo reagire di corpo eideologia all’interno di un apparato este-tico che fonde e celebra i molti tassellidell’immenso bagaglio culturale del regi-sta. Nel trasporre l’urto lacerante traideale politico libertario e sordida pas-sione erotica vissuto da una contessa ve-neziana che in piena (terza) guerrad’indipendenza tradisce i propri ideali in-dipendentisti per amore di un giovane uf-ficiale austriaco, Visconti ripercorrealcune tappe nodali del proprio percorsoculturale. Apre ad esempio il film conl’opera lirica, in quella celeberrima Fenicedi Venezia che ospita l’ennesima ripresadel Rigoletto di Verdi, sceglie AntonBruckner come commento musicale e

omaggia perfino i dipinti a tema bellicodel macchiaiolo Giovanni Fattori -caratte-rizzati dall’esclusione del climax dellabattaglia e dalla volontà di privilegiare imomenti di stanca, la preparazione ol’esito- eliminando dalle scene deputate imomenti eroicistici per esaltare al con-trario momenti preparatori dominati da or-dine e lentezza, in uno stile che rimandaa King Vidor e che sarà proprio di alcunicapolavori di Stanley Kubrick. Ad assi-stere il regista milanese in questo filmcome aiuto-registi troviamo inoltreFranco Zeffirelli e Francesco Rosi, idue nomi più noti del cosiddetto “viscon-tismo” (la ripresa, l’evoluzione e l’adegua-mento ai tempi dei caratteri del cinema diVisconti) e insieme le due facce oppostedi quella tendenza: fautore di un edoni-smo superficiale e luccicante incapace discendere in profondità il primo e cantoredell’impegno politico attraverso una po-tente ricognizione critica dell’Italia post-fascista il secondo, che dal viscontismopropriamente detto si distaccò per darvita a un’opera di grande livello, daglispunti propriamente personali. Nel 1957,tre anni dopo Senso, Visconti giraLe notti bianche, film stupidamentesottovalutato che trasla le vicendedell’omonimo romanzo breve di FedorDostoevskij, in una Livorno notturna e in-vernale e affida a un meraviglioso Mar-cello Mastroianni il ruolo di “sognatore”distaccato dalla realtà, perso in una bollaatemporale e come risvegliato dall’incon-tro con una ragazza sola forse in gradodi ricondurlo alla vita. Una straordinaria parentesi poetica, in-tima e dolorosissima, che prelude a duecapolavori magistrali con cui Visconti sifa interprete d’eccezione del presente:ovviamente il già analizzato Rocco e i

suoi fratelli e (tre anni dopo) Il gatto-

pardo, mal compreso alla sua uscita, eti-chettato negli USA come un filmdecorativo, caratterizzato da un delirioestetizzante, riscoperto successivamentecome pungente e memorabile saggio

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sulla contemporaneità attraverso il filtrodel passato. Il film tratto dal best-seller diTomasi di Lampedusa infatti racconta lastoria dell’approdo dei garibaldini in Sici-lia a cui il Principe Don Fabrizio Salina(un indimenticabile Burt Lancaster) as-siste passivamente, ormai consapevoledella fine dell’aristocrazia e con essa diun vecchio mondo, pronto ad essere fa-gocitato dal nuovo sistema politico di unNord già orientato verso la modernità in-dustriale e capitalista. A questo scacco diuna classe sociale come di un universopreordinato di leggi e ideali fa eco il de-clino fisico del protagonista che sente sulproprio corpo la discesa inarrestabiledalla floridità della giovinezza alla deca-denza della vecchiaia e della morte. Inquesto doppio passaggio, insieme collet-tivo e individuale, i due elementi chiavedella poetica viscontiana -corpo e ideolo-gia- trovano una fusione finalmente per-fetta e priva di scorie, all’interno di unacronaca amara e nostalgica del decadi-mento, dello stallo che perennemente do-mina le istituzioni umane, del tramonto diun mondo in cui “bisogna che tutto cambiperché tutto resti com’è”, pur immersa inun apparato caratterizzato da un eccezio-nale senso estetico sempre permeato daipiù eterogenei elementi della cultura delcineasta (che scovò un pezzo inedito diVerdi e dopo averlo velocizzato ne fece iltema della famosa e lunghissima scenadel ballo che del film costituisce uno deimomenti topici). Da questo momento (disvolta) il cinema di Visconti subisce unasferzata potente che lo orienta in modopiù netto verso un pessimismo radicale.Il suo cinema diventa ancor più drastica-mente racconto del male, della deprava-zione, del crollo epocale che colpisce altempo stesso la carne e l’ideologia, labellezza e la giustizia, l’uomo el’ideale. Così in Vaghe stelle dell’orsa lericordanze peccaminose di un rapportoincestuoso tra due fratelli (Claudia Car-dinale e Jean Sorel) si legano alle pre-tese grette e deplorevoli di una classe

borghese che vuole arraffare le proprietàdel loro padre, morto ad Auschwitz men-tre ne Lo straniero (tratto dal romanzoomonimo di Albert Camus) un Mastro-ianni dal piglio esistenzialista vive inmodo distaccato un omicidio e una con-danna capitale, facendosi testimone edesempio di un mondo ormai indifferentealla vita e alla morte. E’ forse nel poco ri-cordato La caduta degli dei però che Vi-sconti esprime in modo più limpidoquell’ideale di deperimento che colpisceidea e corpo, descrivendo il terribile per-corso di caduta nel vortice del male as-soluto del protagonista Helmut Berger,prima membro delle SA poi fautore del-l’eccidio progettato da Himler e fatto aloro danno da parte delle SS, in un per-corso di evoluzione che metaforicamentetrasla una Germania arcaica e legata allaterra (l’ideale incarnato dalle SA e dalleloro divise color ocra) in una nazione tra-gicamente moderna, in cui l’industrializ-zazione e i suoi metodi rigorosi siprestassero alla distruzione del diverso ealla guerra di sterminio. Qui Helmut Ber-ger incarna in modo perfetto il rovescia-mento dell’ideale viscontiano di idolatriadella carne che si tramuta in disfacimentodella stessa (e della morale) attraversoscene come quella del travestimento, incui il corpo di bellezza classica dell’uomogiunge a una metamorfosi di gender,prendendo le sembianze della Lola Lolasternberghiana, o quella atroce dell’ince-sto nel quale il protagonista si unisce allamadre, in una volontà di reinfetazionenella quale tenta di “rinascere” come “fi-glio nuovo”, non più della sua genitricema del nazismo. Dopo Morte a Venezia,in cui la distruzione del corpo di un pro-tagonista ossessionato omoeroticamenteda un giovane fanciullo avviene per manodella peste, Visconti torna a fare di Hel-mut Berger il suo feticcio costruendo sudi lui il ruolo del monarca musicofilo, fra-gile e ingenuo Ludwig sfruttato da un Wa-gner arrivista e disumano e incapace diadattarsi a una realtà gretta e gelida, ai

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prodromi del capitalismo, in cui i suoisogni si sciolgono come neve al sole. EBerger è presente, nelle vesti di un ex-intellettuale degradato ad amante mante-nuto, anche nel magnifico e pococonsiderato Gruppo di famiglia in un in-

terno, un Gattopardo dei tempi nostri, incui Burt Lancaster interpreta un lumi-nare vedovo che sente marciare dentrodi sé i passi della vecchiaia e della morte,insieme attratto e disgustato dai modi diuna famiglia di coinquilini, esponente digioiosa vitalità e volgare consumismo, diuna giovinezza che non gli appartiene piùe di un mondo che gli è estraneo e bea-tamente si deterge nel fango. Qui più chemai Burt Lancaster si fa alter-ego del re-gista milanese, colpito da un ictus cele-brale e rimasto bloccato alla parte sinistradel corpo. Da questo territorio liminale travita e morte, Visconti gira il suo ultimofilm, il necessario incontro diretto conquel decadentismo dannunziano che giàaveva permeato la totalità della suaopera precedente come un fantasma sot-terraneo (ma neanche troppo). Si trattade L’innocente, trasposizione dell’omo-nimo romanzo di Gabriele D’Annunzio,imperniato su un nobile dongiovanni chegiura nuova fedeltà alla moglie quandocrede di perderla per mano di un giovaneintellettuale, prima di scoprire che proprioda quello aspetta un figlio, una nuova vitache diventa un insostenibile ossessioneper entrambi i coniugi. E per Viscontistesso che, consapevole di aver esauritoil proprio tempo, muore poco dopo la finedelle riprese.Su ben altri binari estetici si muove il ci-nema visionario e multiforme di FedericoFellini, l’italiano più famoso al mondo,l’autore nostrano più unanimamente ac-clamato all’estero, nato come assistentedi Roberto Rossellini (girò la primascena della sua carriera sul set di Paisà)e successivamente approdato a una con-cezione di cinema diametralmente oppo-sta a quella del cineasta romano. Insiemeall’opera di Antonioni, infatti, il cinema

del regista riminese costituisce il più fortesegnale di scarto dalla tradizione neorea-lista italiana. All’impegno puro e graffianteche caratterizzava quest’ultima, a quel-l’occhio autoptico (rosselliniano) teso ascandagliare le tracce di un mondo deva-stato e quell’ineliminabile solidarietà in-terpersonale sempre operativa al fine direnderlo un posto migliore, Fellini sostituìuna visuale simbolica ed evocativa, per-meata da una vena di critica sociale vi-brante ma nel contempo affettuosa: uncinema debordante di elementi soggettivie autobiografici, di ossessioni personali,di amori viscerali. Si pensi ad esempioalla passione di Fellini per l’avanspetta-colo già immessa nel primissimo Luci del

varietà co-diretto con Alberto Lattuadae assolutamente fondativa dell’esordio insolitaria del cineasta riminese Lo

sceicco bianco, in cui una neo-sposa inviaggio di nozze a Roma perde di vista ilmarito per correr dietro al suo amato divoda fotoromanzo, scovato a Ostia durantele riprese, come dell’indimenticabile La

strada, malinconico e commovente onthe road circense incentrato sulla piccolae ingenua clownesse Gelsomina, divisatra la furia aggressiva del marito Zam-panò e il candore sognante del Matto, trala sottomissione cupa e rassegnata di unpadre padrone e l’allegria festosa di chisa prendere la vita con un sorriso. Pas-sione per il piccolo spettacolo cheemerge anche nel successivo Le notti di

Cabiria, nella celebre scena in cui la pro-tagonista, puttana piena di aspettatived’amore e redenzione, partecipa a unospettacolo di ipnosi e si lascia andare allesue più intime confessioni, per poi sco-vare -all’uscita del teatrino- un uomo chepare la materializzazione dei suoi sognie si dimostra invece un losco cialtrone incerca di soldi. E d’altronde la prima fasedella carriera di Fellini è letteralmenteimperniata sulle figure di questi piccoli im-broglioni -raccourci microscopique diquell’imbroglio artificiale e sognante cheè la macchina cinema- in un catalogo

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Le notti di Cabiria ,Federico Fellini, 1957

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triste ed esilarante, malinconico e grotte-sco di figure in bilico tra vita e sogno,reale e immaginario: dal sceicco tronfiodi Alberto Sordi che adesca una fragilemogliettina con languide e ovattate pa-role per poi lasciarla sola e disillusa inuna città sconosciuta, ai protagonisti deIl bidone, specializzati in truffe a conta-dini creduloni, passando per i cinqueamici nullafacenti del meraviglioso I vitel-

loni, beatamente sospesi nelle loro futiliillusioni di un futuro irrealizzabile in quelloche è uno dei più intensi saggi sulla man-canza di prospettive della piccola provin-cia italiana, insieme luogo del cuore ebersaglio di denuncia, spazio autobiogra-fico e oggetto di una satira dolce e sof-fusa. Come quella che, sempre neiVitelloni, Fellini rivolge ai disvalori “tuttiitaliani” di mammismo, cialtroneria e co-dardia attraverso il faccione rotondo e di-voratore di Alberto Sordi (simbolo puropiù che personaggio) vestito da donna eabbracciato a un pupazzo alla fine di unafesta di carnevale che -per contrasto- sapiù che mai di dolore, abbandono e ne-gatività; o quella che nel finale delloSceicco bianco (come nelle Notti di Ca-

biria) il cineasta riminese rivolge allaChiesa Cattolica, con i due sposini riuni-ficati dopo i tradimenti (cercati o trovati),circondati da una famiglia calorosa, direttiverso la cupola di San Pietro che chiudeil film come un sorta di coperchio capacedi sanare e coprire gli impulsi, le ipocrisie,le perversioni e le contraddizioni di unmondo senza più punti di riferimento si-curi. Eppure dopo l’apocalittica e infera ri-flessione portata avanti con La dolce

vita, in cui la satira amorevole si tra-sforma in condanna definitiva di una ci-viltà depravata, Fellini mette in atto unostacco nettissimo con la -appena illu-strata- prima fase della sua carriera. Siassiste a un’evoluzione potente, a unguado travagliato attraverso cui il Mae-stro trasforma e mette a punto la propriaopera. In primis, Fellini traduce il simbo-lismo ruspante e primitivo dei film d’esor-

dio in un simbolismo più “nobile”, colto(per alcuni perfino rarefatto) legato adelementi dedotti dalla psicanalisi e so-prattutto dalla rielaborazione fattane daJung, di cui approfondisce la conoscenzain seguito a una serie di incontri con lopsicanalista tedesco Ernst Bernhard (chegli consiglia peraltro di scrivere il notolibro in cui elencherà i propri sogni). Fel-lini parte dal presupposto che l’arte èpura e diretta espressione dell’inconscioe che far arte significa prima di tutto darvoce a questo flusso interiore, far parlarequello che Jung definiva “inconscio col-lettivo”, una sorta di catalogo eterno delleossessioni umane capace di comunicareper mezzo di archetipi universali. Questoprimo “passaggio” (da un simbolismogrezzo a uno junghiano) dà vita indiretta-mente a un secondo movimento estetico:nel momento in cui Fellini decide di in-troiettare il narrato nel flusso inconscioche scorre dentro di sé, passa inevitabil-mente da un racconto delle storie aquello del loro narratore, dai piccoli im-broglioni e mistificatori che avevano affol-lato il suo cinema fino a quel momento asé stesso, il Grande Mistificatore (comelo definì Pasolini). Il passaggio che Fel-lini mette in atto all’inizio degli anni ‘60 èin fin dei conti un tentativo di “girare lamacchina da presa” verso sé stesso, unbalzo “dal fuori al dentro” che amplifica adismisura la componente autobiograficadel suo cinema e -nel contempo, quasiparadossalmente- la sua gittata universa-lizzante. Il cineasta riminese diventa in-fatti un medium privilegiato di immaginiinteriori e simboli archetipici, di residuimemoriali propri e caratteri ancestrali del-l’uomo tout court. Nel 1963 nasce così8½, uno dei film più rivoluzionari dellastoria del cinema, lo sterminato e mag-matico compendio del cinema felliniano,una delle vette supreme toccate dallacreazione artistica tout court, che già daltitolo indica la svolta verso la ricognizionedel Sé operata dal cineasta che doposette film e mezzo (ricordiamo che girò il

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primo insieme a Lattuada) vira coscien-temente in direzione di un cinema chesappia “cucire insieme i brandelli dellasua vita, i suoi vaghi ricordi” e insiemeche possa “essere utile un po’ a tutti” cheaiuti “a seppellire per sempre tutto quelloche di morto ci portiamo dentro”. Ne esceun poetico e straordinario gioco di spec-chi e rifrazioni che racconta e scandagliavita e anima di un regista in crisi esisten-ziale (un Marcello Mastroianni qui piùche mai alter-ego del cineasta riminese)alle prese con un film da fare ma privo diun’idea che possa davvero attecchire,sospeso tra moglie e amante, presente epassato, sogno e veglia, fantasia e realtà,produttori fedeli e critici starnazzanti, vo-glia di ricominciare e incapacità di disan-corarsi dalla routine. Come disse DinoBuzzati “la masturbazione di un genio”,un elogio appassionato alla confusionedell’esistere, all’imprescindibile necessitàdi accettare l’incompletezza della vita eaccettarsi nella propria dolorosa imperfe-zione. Perché questo -ammette il prota-gonista nel liberatorio finale- “è l’unicomodo per tentare di trovarci”. Da questomomento, Fellini passa dunque al setac-cio sé stesso e prende ad analizzare iluoghi del mondo e il proprio passato at-traverso il filtro dell’inconscio e dei suoiarchetipi. La sua opera si riempie alloradi animali che assumono le sembianze dimostri mitici, di donne ubertose, grasse ecariche di carne che fondono la GrandeMadre con i tratti puri dell’Eros, di moto-ciclisti riletti alla stregua di Centauri, di fi-gure asessuate o androgine, simbolodell’unità perfetta e utopica dei contrastidi Platone, di clown bianchi e augusti chedi quell’idealizzata fusione rappresentanoinvece l’esplosione e la fine. Il tutto in unflusso perennemente mobile tra presentee passato, vita e morte. Si passa così daGiulietta degli spiriti, ricognizione esi-stenziale di una donna in crisi che moltietichettarono come transfert femminile di8½ attraverso la figura dell’amata Giu-lietta Masina, ad Amarcord (letteral-

mente in romagnolo “io mi ricordo”) in cuiFellini rievoca la propria adolescenza ri-minese attraverso un’atmosfera so-gnante e una galleria di personaggiindimenticabili e impossibili da citare inquesta sede; dalle memorie di GiacomoCasanova (Il Casanova di Federico Fel-

lini) su cui il cineasta trasla il propriosenso dell’inevitabile scorrere del tempoe della giovinezza alla ricognizione del-l’universo femminile nella Città delle

donne, pellicola carica di altissimi mo-menti visionari che costituisce una varia-zione sul tema del mai realizzato Viaggio

di G. Mastorna, cronaca di un viaggioall’interno di un mondo ultraterreno che -nonostante non oltrepassò mai la fasedella sceneggiatura- influenzò profonda-mente questa seconda fase creativa delMaestro; passando per le rappresenta-zioni allucinate, sperimentali e apocalitti-che di una Roma prima imperiale e poicontemporanea rispettivamente del Fel-

lini Satyricon e di Roma, il simbolismoa tinte storiche di film come E la nave va

e Prova d’orchestra e quello bonaria-mente ingenuo, immediato ma quantomai paradigmatico de I clowns. Nell’ul-tima fase della sua carriera, infine, Fellinisembra tornare alle origini, riportando inauge quello smisurato amore per ilmondo dello spettacolo che animava filmcome La strada, ora rovesciato di segno.Al varietà, il fotoromanzo e il teatro si èsostituita la televisione privata, contro laquale si scagliano pellicole come Intervi-

sta, La voce della luna e -più netta-mente- il magnifico Ginger & Fred,(pen)ultima collaborazione con i compa-gni di vita Masina e Mastroianni, neipanni di due vecchie glorie del tip-tap, re-clutate per una puntata natalizia di unosquallido programma televisivo. All’avve-lenamento dell’etere Fellini oppone unanostalgica e appassionata storia d’amoree d’amicizia, un ultimo lento ballo sgan-gherato che non si piega alla dittatura deldio-tempo, un breve dialogo sussurratoche è un elogio al silenzio nell’universo

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del frastuono tecnologico, il definitivo fac-cia a faccia di due “fantasmi che vengonodal buio e nel buio se ne vanno”. Ben di-stante dai toni visionari ed eccessivi del-l’opera felliniana è invece il cinema diMichelangelo Antonioni, dominato daglistrutturanti caratteri di lentezza, introspe-zione, assenza di nodi problematici, ca-rico di pregnanti silenzi, di tempi morti, divoci rotte e parole spezzate, fondato sumodalità di sottrazione narrativa cheasciugano trame e contenuti al fine diconsentire un ripiegamento sempre piùforte sulle psicologie fragili e devastatedei propri protagonisti borghesi, speciequelli femminili. Tuttavia, prima dellasvolta epocale inaugurata da L’avven-

tura -uno dei primi folgoranti esempi dimodernità cinematografica- lo scandagliointimo e l’interiorizzazione del narratosono ancora parte di un percorso propria-mente narrativo, le ossessioni dei prota-gonisti -comunque oggetto primario dispeculazione e interesse- vengono ana-lizzate all’interno di una diegesi forte o inogni caso di un racconto di matrice -più omeno- convenzionale. Questi primi lavorisono accomunati dal leitmotiv ricorrentedella scomparsa -fisica o simbolica, con-creta o metaforica, tema onnipresente inrelazione a cui far reagire il sentire deiprotagonisti: così nel primo magistraleCronaca di un amore due amanti si ri-trovano dopo anni e ricominciano una re-lazione duramente dilaniata dal ricordodella morte di un’amica comune a cui en-trambi assistettero, rendendosi complicie in un certo modo colpevoli mentre neLe amiche il cineasta ravennate passa inrassegna gli umori contraddittori (e gliamori colmi di ipocrisie) di un gruppo digiovani borghesi di Torino, colte dopo iltentato suicidio di una loro amica, deline-ando in modo già molto netto la fine dellapossibilità di “capirsi e capire” all’alba del-l’era tecnologica e tracciando le fila diquella riflessione sull’incomunicabilitàche trova una perfetta manifestazione inquel primo grande capolavoro che è Il

grido, sempre fondato sul tema dellascomparsa, stavolta quella dell’amore diuna donna che costringe il suo compa-gno -un operaio di paese- a vagabondarein cerca di sé stesso e di un motivo del-l’esistere insieme alla sua bambina,senza trovar scampo alla sua ineluttabilesolitudine. Un atipico on the road intro-spettivo e straniante che sostituisce al-l’azione l’introiezione, al dialogo ilsilenzio. Queste le premesse che antici-pano la rivoluzione clamorosa compiutacon L’avventura, prima -e probabilmenteinsuperata- tappa di una tetralogia del-l’alienazione co-sceneggiata con ToninoGuerra e con la meravigliosa MonicaVitti protagonista che giunge a esplorarel’impossibilità del dialogo, del contatto edel sentimento in un mondo (borghese)che ha lasciato spazio allo strapotere deldenaro, alla virtualità aleatoria e confusadella Borsa, allo spleen dei vizi consumi-stici, ai profili minacciosi e fumosi dellefabbriche che manipolano e modificanola nostra percezione del mondo. Un im-prescindibile quartetto di opere -L’avven-

tura, La notte, L’eclisse, Il deserto

rosso- che suona come un’apocalittica erassegnata dichiarazione di conclusionedefinitiva: del sentimento, di una perce-zione univoca della realtà (sempre piùcopia di una copia), di un mondo ance-strale e legato ai vecchi ritmi della terra,dell’umana consapevolezza di essereartefici e padroni del proprio destino (inun universo tecnologizzato in cui lamacchina si fa insieme schiava e divi-nità). Segue poi un trittico di film giratiall’estero in cui Antonioni mette da parteil suo tentativo di epifanizzare l’incomuni-cabilità e l’alienazione (comunque pre-senti) per prodigarsi in una riflessioneuniversalizzante sugli statuti della con-temporaneità e soprattutto sul poteredella macchina cinematografica. Se conZabriskie Point il regista elabora un er-metico (e tremendamente stilizzato) af-fresco sull’utopia sessantottina che siproponeva di abbattere i depravati crismi

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Blow up, Michelangelo Antonioni, 1966

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della società consumista per rivendicareuna solidale libertà, ben espressa nella -onirica- scena finale caratterizzata dal-l’esplosione di una villa costosissima,metafora della civiltà del consumo e forsedi quell’infernale macchina fabbrica(e di-struggi)-soldi che Antonioni riconoscevanel cinema statunitense; con i due capo-lavori Blow up e Professione: reporter

mette in atto una profonda riflessione sulcinema e l’arte tutta, sui suoi statuti este-tici e ontologici, sulla natura del suosguardo. Il primo film narra di un fotore-porter londinese che scova in alcune fo-tografie le tracce di un delitto, si getta acapofitto in un’inchiesta personale ma dipunto in bianco scopre che i corrispettiviconcreti di quelle prove fotografiche nonesistono. Un anti-thriller, dunque, che se-mina un mistero senza risolverlo, in unasuggestiva oscillazione tra realtà e fin-zione, concreto e immaginario, perfetta-mente riassunta nel magnifico finale incui il protagonista assiste a una partita ditennis solo mimata e accetta consapevol-mente l’ingresso nel mondo dell’irrealeraccogliendo una pallina inesistente. Unfilm profondamente autoriflessivo che siarrende all’amara constatazione dellacontemporanea supremazia dell’occhiomeccanico, capace meglio di quelloumano di scandagliare l’inquietante com-plessità del reale. Implicita dichiarazionedi poetica smentita 9 anni dopo con Pro-

fessione: reporter, pirandelliano rac-conto di (anti)formazione in cui uncelebre giornalista scova per caso il ca-davere di un uomo a lui molto somigliantee decide di cambiare vita, prendendo lesue sembianze. Questa immersione inuna nuova pelle, quest’ennesima avven-tura di esistere in modo nuovo e diversolo conduce alla morte: il cadavere si sco-pre essere infatti quello di un trafficantedi armi e i sicari sulle sue tracce inflig-gono al protagonista che ha preso la suaidentità una (seconda e) definitiva puni-zione. Il piano-sequenza che chiude lapellicola rimane negli annali della settima

arte per il suo immenso valore tecnico esimbolico: il protagonista (Jack Nichol-son) si sdraia su un letto d’albergo, lamacchina da presa lo riprende in totalepoi si sgancia lentamente da lui, oltre-passa la finestra e si apre a una panora-mica sulla piazza antistante che dura bensette minuti, infine torna a inquadrare ilgiornalista ormai morto, ucciso dai sicari.Dopo aver glorificato l’occhio del cinemae la sua capacità di rivelare meglio delnostro apparato visivo la verità nel suosenso profondo in Blow up, Antonioniattesta qui in modo disilluso che il cinemae l’arte non sono più in grado nemmenodi testimoniare l’essenziale della vita. Illoro sguardo si è fatto cieco, incapace diepifanizzare il momento decisivo. Una ri-flessione per certi versi accostabile a quelcrollo epocale dei modi del raccontareche Jean-François Lyotard nella suaCondizione postmoderna definiva “finedelle grandi narrazioni”.

FILMOGRAFIA PARZIALE

- Cronaca di un amore, MichelangeloAntonioni (1950) - Lo sceicco bianco,Federico Fellini (1952) - I vitelloni, Fe-derico Fellini (1953) - I vinti, Michelangelo Antonioni (1953)- La signora senza camelie, Michelan-gelo Antonioni (1953) - Senso, LuchinoVisconti (1954) - La strada, FedericoFellini (1954) - Il bidone, Federico Fel-lini (1955) - Le amiche, MichelangeloAntonioni (1955) - Le notti bianche, Lu-chino Visconti (1957) - Le notti di Cabiria, Federico Fellini(1957) - Il grido, Michelangelo Anto-nioni (1957) - La dolce vita, FedericoFellini (1960) - L’avventura, Michelan-gelo Antonioni (1960) - Rocco e i suoifratelli, Luchino Visconti (1960) - Lanotte, Michelangelo Antonioni (1961) - L’eclisse, Michelangelo Antonioni(1962) - Il Gattopardo, Luchino Visconti(1963) - 8½, Federico Fellini (1963) -

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Il deserto rosso, Michelangelo Antonioni(1964) - Vaghe stelle dell’Orsa, LuchinoVisconti (1965) - Giulietta degli spiriti,Federico Fellini (1965) - Blow-Up,Michelangelo Antonioni (1966) -Lo straniero, Luchino Visconti (1967) -La caduta degli dei, Luchino Visconti(1969) - Fellini Satyricon, Federico Fellini(1969) - Block-notes di un regista,Federico Fellini (1969) - I clowns,Federico Fellini (1970) - ZabriskiePoint, Michelangelo Antonioni (1970) -Morte a Venezia, Luchino Visconti(1971) - Ludwig, Luchino Visconti(1972) - Roma, Federico Fellini (1972) - Amarcord, Federico Fellini (1973) -Gruppo di famiglia in un interno,Luchino Visconti (1974) - Professione:reporter, Michelangelo Antonioni (1975) - L’innocente, Luchino Visconti (1976) -Il Casanova di Federico Fellini, FedericoFellini (1976) - Prova d’orchestra, Federico Fellini(1979) - La città delle donne, FedericoFellini (1980) - Il mistero di Oberwald,Michelangelo Antonioni (1980) -Identificazione di una donna, Michelan-gelo Antonioni (1982) - E la nave va,Federico Fellini (1983) - Ginger e Fred,Federico Fellini (1985) - Intervista,Federico Fellini (1987) - La voce dellaLuna, Federico Fellini (1990) - Al di làdelle nuvole, Michelangelo Antonioni eWim Wenders (1995) - Eros, Michelan-gelo Antonioni, Steven Soderbergh eWong Kar-wai (2004)

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Helmut Berger

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IL CINEMA TOTALEDI STANLEY KUBRICK

suo nome è sinonimo di cinemae insieme di arte totale capacedi trascendere i limiti contingenti

dell’immagine in movimento. Di autoria-lità e genere. Di genio e sregolatezza. Diabnegazione assoluta e totalizzante, diprecisione millimetrica e maniacale, dicreazione e ricreazione, invenzione e ri-cerca. Stanley Kubrick corrisponde al-l’assoluto e all’intimo, alla grandezzasterminata e all’astrattezza significante,al cosmo e all’anima, alla potenza diun’opera dai contorni indefiniti, irriducibilialla pochezza di qualsiasi definizione,concetto, parola. Con un numero abba-stanza esiguo di titoli -appena 13 in più di40 anni di carriera- il Maestro di New Yorkha saputo veicolare una delle riflessionipiù adulte, mature e stimolanti sulla na-tura del creato, l’origine della vita, il mi-stero del cosmo e insieme sull’universo-più immenso e diseguale di quello fisico-dell’umano, sugli abissi insondabili dellospirito, la gretta piccolezza dell’essere almondo, la schizofrenica marea di torbideossessioni propria del vivente, le contrad-dizioni del vivere sociale e delle epochestoriche tra passato, presente e futuro,attraverso una linea di speculazione im-pregnata di rigore scientifico, presuppostiestetici, filosofici e morali di valore incal-colabile. Una parabola capace di passareattraverso tutti i generi storicamente con-solidati e di rivisitarli attraverso il filtro diuna mente estranea alle convenzionicostringenti e ai canoni sclerotizzati.Paradossalmente, l’esordio del registastatunitense è una pellicola di scarso va-lore estetico, da lui stesso rigettata in se-guito. Si tratta di Paura e desiderio,

mediocre film bellico carico di tutti i limitidi una sperimentazione universitaria to-talmente autoprodotta (così la definì il ci-neasta) lungo poco più di un’ora, giàcaratterizzato da quel radicato anti-mili-tarismo -unito all’anelito universalizzante-che costituirà uno dei fulcri portanti dellasua poetica ma penalizzato da un ritmostanco, un’andatura schematica, dise-guale, verbosa. Di ben altro valoreIl bacio dell’assassino, primo contattodi Kubrick con i labirintici e contortistilemi del noir e con la sua diacronicastruttura fatta di rimandi e continui scivo-lamenti temporali, imperniato sulla brevee appassionata storia d’amore tra un pu-gile e una ballerina orfana impiegatapresso una squallida sala di incontri,ostacolata dalle sordide mire di unviscido proprietario, innamorato di lei. Tramagistrali chiaroscuri, scambi di persona,finestre mai abbastanza chiuse che per-mettono di guardare ed essere spiati,tradirsi o mettersi in salvo, inquietanti de-positi di manichini che si fanno luogo discontro tra vita e morte, Stanley Kubrickmette in luce a soli 28 anni una straordi-naria padronanza del mezzo unita a unacapacità pressoché inappuntabile dimuoversi nei binari predefiniti del sistemadei generi statunitensi. Al secondo filmdella sua carriera, il cineasta conclude apieni voti il suo “tirocinio” cinematograficoe, dimostrando di non avere più nessunaregola da apprendere, dà il via a una rivi-sitazione totalmente e definitivamentepersonale di quelle strutture su cui ilcinema classico americano fondava dadecenni la propria ragion d’essere, auto-certificandosi appena prima della rivolu-

Stanley Kubrick

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zione messa in atto dalla NouvelleVague, autore nel senso più pieno e pro-fondo del termine. È proprio al terzo lun-gometraggio che Kubrick giunge alcapolavoro con il monumentale Rapina

a mano armata, noir moderno che rac-conta la pianificazione e la messa in attodi un colpo grosso a un banco di scom-messe di un ippodromo, riplasmando at-traverso il proprio personalissimo sensodel cinema il genere e rinnovando l’ar-chetipo del cosiddetto caper movie, inuna struttura che fungerà da paradigmaintoccabile per generazioni di registi. Am-plificando a dismisura l’operazione giàmessa a punto con il film precedente, Ku-brick forza lo scheletro già contorto delnoir e aggiunge al tipico groviglio di per-sonaggi, identità, amore e morte, unastruttura temporale esplosa che sezional’intreccio narrativo in temporalità e puntidi vista che si susseguono, si alternano,si ripetono con scarti e variazioni, la-sciando che lo spettatore non saturi maicon certezza inattaccabile la propria esi-genza di sapere e anzi si trovi di volta involta spiazzato da un passo indietro die-getico che corrisponde a un’inversionedel conoscere. Kubrick riplasma -conuna maestria mai sperimentata prima- iltempo filmico, chiude definitivamentel’era delle narrazioni chiare, lucide, linearie programmate. E lo fa senza mai disto-gliere il proprio pubblico da quel magicovortice di suspense, sorpresa, incanto,potenza e affabulazione che ha fattodella sua opera uno dei rarissimi casi incui una poetica autoriale, capace di spe-rimentare e mettere in crisi le categorieestetiche pre-costituite, convive con unpubblico eterogeneo, vastissimo e diampio respiro. Dopo l’approccio al noir,Kubrick decide di tornare alle atmosferedi quel primissimo “esperimento studen-tesco” a più riprese rigettato e firma Oriz-

zonti di gloria, destinato per converso adiventare uno dei massimi capolavori delcinema bellico, e non solo. Le inesploratezone boscose in cui i soldati americani si

ritrovavano smarriti e privi di speranza inPaura e desiderio lasciano il posto aquell’anticamera dell’inferno che è unatrincea francese della prima guerra mon-diale, continuamente alternata al rigoreclassicheggiante dei più inquietanti e mo-struosi palazzi della sovrintendenza mili-tare in cui maggiori senza scrupoliprogrammano le esistenze dei soldati alfronte come fossero merci da baratto.Kirk Douglas -anche produttore- fa dacontraltare a questi indegni tutori della le-galità bellica, dimostrando in più di un’oc-casione un’umanità e un attaccamento aipropri uomini che nei primi è negata e as-sente. In questo devastante affresco diun’umanità alla deriva, il cineasta dà vitaa una delle marche più tipicamente rico-noscibili del suo cinema, quella carrellataancorata ai propri personaggi -a prece-dere o a seguire- che tornerà come unleitmotiv ossessivo praticamente in tutti isuoi lavori. Qui inoltre colora queste co-stanti carrellate di un sottotesto simbo-lico, carico di notazioni morali epsicologiche: mentre i movimenti legatiagli ufficiali corrotti assumono un orienta-mento curvilineo, zigzagante, in grado dirichiamare le spirali serpentiformi dei ret-tili e tutto l’allegorico bagaglio di conno-tazioni negative (meschinità, oppor-tunismo, smodata supremazia dell’Ego,tradimento) di cui la tradizione occiden-tale -e non solo- li ha caricati; i carrelli cheprecedono l’esemplare generale interpre-tato da Douglas sono caratterizzati dauna linearità priva di smottamenti oscosse, in un evidente richiamo alla lega-lità incorruttibile come al coraggio di unagiustizia purtroppo negata. Tre anni dopoancora Kirk Douglas -di nuovo produt-tore e protagonista- scalza MichaelMann dalla cabina di regia di Spartacus

e impone Stanley Kubrick che per laprima volta si ritrova schiacciato sotto ilpeso delle manie hollywoodiane (il film fufinanziato dalla Universal), costretto adaccontentare le esigenze di quelle altesfere mosse da un ben noto conservato-

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rismo, e capace insieme di imprimere pic-coli scarti -di sceneggiatura come diregia- tesi ad ancorare la pellicola al tes-suto coerente della sua poetica. Ne esceun ibrido di grande interesse che fondegli stilemi classici del kolossal epico conalcune scelte originali, prima fra tutte laresa della battaglia finale con la reitera-zione di campi lunghi o lunghissimi atti amostrare con rigore filologico (lo stessoche permeerà altri suoi film storici) i mo-vimenti e le avanzate rigidamente per-fette delle coorti romane, in opposizionealla forza brutale e diseguale dei ribelli.La stessa opposizione chiave che do-mina il film, quella che oppone gli schiaviguidati da Spartaco contro il logoro e cor-rotto potere di Roma, viene inoltre rilettada Kubrick attraverso quella chiave uni-versalizzante già paradigmatica del pre-cedente Orizzonti di gloria (e in fondoanche del primo Paura e desiderio).L’esperienza di Spartacus tuttavia frustrapesantemente il cineasta statunitenseche mal digerisce l’invadenza della pro-duzione all’interno del circuito della lavo-razione del film come l’impossibilità disovrintendere liberamente a tutte le fasidella realizzazione. Così, al pari di altrigeniali cineasti quali Orson Welles edEric von Stroheim, Kubrick decide dilasciare definitivamente gli Stati Uniti,prendendo la volta dell’Inghilterra dovenel 1962 gira Lolita, adattando per ilgrande schermo il capolavoro letterario diNabokov, uscito tra fiumi di controversieappena sette anni prima. Il cineasta sta-tunitense inizialmente investe lo stessoscrittore -appassionato di cinema- delruolo di scrivere la sceneggiatura. Nabo-kov elabora una prima enorme stesura(oltre 400 pagine) ma su consiglio del re-gista la sfoltisce ampiamente. Al mo-mento della consegna riceve icomplimenti di Kubrick ma alla presen-tazione della pellicola definitiva si ac-corge della profonda manipolazione cheil cineasta newyorkese ha attuato al suoscritto, di cui a detta sua non è rimasto

che “il 20% del lavoro originario”. In pra-tica, nonostante nei credits del film ilnome di Nabokov spicchi imperiosocome autore dello script, Lolita costitui-sce il primo -o quantomeno il più paradig-matico- esempio della straordinariacapacità di adattamento di Stanley Ku-brick (paragonabile forse solo a quellaleggendaria del nostro Luchino Vi-sconti), dotato di un’innata sensibilità neiconfronti dell’immagine in movimento ecapace di dar vita con maestria senzaeguali alle parole rinchiuse nelle paratiestagne della carta stampata.Nel dar forma e vita al torbido intreccioamoroso tra un professore e una “nin-fetta” adolescente, il cineasta rende giu-stizia alla complessità di evocazioni etemi elaborata dallo scrittore russo, de-scrivendo senza -troppi- freni l’annichili-mento e il vortice di follia maniacale in cuidecade il protagonista, la sua doppiezzastrutturale ambiguamente riflessa nell’al-ter-ego trasformista Quilty (interpretatoda un grandissimo Peter Sellers), all’in-terno di un apparato complessivo che ri-chiama lo specchio, la reiterazione, laduplicità finzionale, in una parola il ci-nema stesso. Successivamente Kubrickgiunge alla fantascienza e si fa interpretedei suoi diversi orientamenti, realizzandoin soli 7 anni tre dei massimi capolavoridel genere e del cinema tout court, muo-vendosi tra distopia e riflessione di ma-trice filosofica sul cosmo e il destinodell’uomo. Nel 1964 realizza Il dottor

Stranamore, ovvero: come imparai a

non preoccuparmi e ad amare la

bomba, “commedia-incubo”, drammasurreale, farsa grottesca dai toni politiciche s’inscrive perfettamente nel clima ditensione proprio del mondo bipolarepost-secondo dopoguerra. Tra simbolifallici, tagliente umorismo nero, unaparodia anti-militarista sempre tesa ascreditare le imbecillità ipocrite edegoiste delle alte sfere e uno strepitosoPeter Sellers che -al vertice del suoistrionismo- recita in ben tre parti diverse,

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2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odyssey), Stanley Kubrick, 1968

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Kubrick narra di un futuro prossimo -oforse di un tristemente ipotetico presente-in cui la tanto temuta bomba nucleare èesplosa davvero, provocando un’apoca-lisse atomica. Nei modi di un perfettocongegno a orologeria impregnato di su-spence e satira, il cineasta alterna lostretto abitacolo di un B-52 diretto versol’Unione Sovietica per sganciare l’ordignomortale, la vasta sala del Pentagono incui uno scienziato ex-nazista, molti gene-rali e il Presidente in diretta telefonica de-cidono le sorti dell’umanità e le vicendedel colonnello Mandrake che tenta di fer-mare la folle missione, in un crescendo didisavventure ad alto tasso di comicitàsurreale. Eppure nonostante l’incredibilesuccesso di critica e di pubblico cheIl dottor stranamore ottiene in tutto ilmondo e al di là dell’incalcolabile in-fluenza prodotta su decine e decine di ci-neasti avvenire, la vera svolta del cinemakubrickiano -e non solo- giunge quattroanni dopo, in quel 1968 che vede l’uscitadi 2001: Odissea nello spazio, vero eproprio evento -definitivo e insieme fon-dativo- di una nuova epoca, tassello im-mancabile e imprescindibile di queldiseguale mosaico che è la storia del ci-nema, pietra miliare “soprattutto per ilcambiamento che ha segnato nel mododi fare, di guardare e di considerare il ci-nema […] una svolta nella storia dellosguardo” (come scrive lo studioso italianoSandro Bernardi). La pellicola, divisa teo-ricamente in tre parti, si apre con unaterra ancestrale e desertica, abitata daanimali selvatici e scimmie antropomorfedi cui Kubrick intende narrare lo scartoevolutivo che le conduce allo stadioumano, rappresentato attraverso l’appa-rizione di un enigmatico monolito neroche coincide con la genesi della raziona-lità all’interno di un primate. A sua voltal’avvento del pensiero è indistinguibil-mente legato all’apparizione della vio-lenza: un comunissimo osso divental’arma deputata a contendersi un primatoe una volta lanciato in aria si trasforma in

una navicella spaziale, in quella che èl’ellissi più famosa della storia del ci-nema. Agli ominidi si sostituiscono orauomini ultra-evoluti, capaci di navigarenello spazio profondo e di raggiungere laLuna in cerca di altre forme di vita che dinuovo coincidono con il levigato e inquie-tante monolito nero. Uno stacco ci con-duce alla seconda parte del film (“Diciottomesi più tardi. Missione Giove”): alcuniastronauti sono in viaggio verso Giove abordo della Discovery, navicella gover-nata da un computer parlante, pensantee imperfettibile che, nel momento in cuiscopre il tentativo di disattivazione pro-gettato dai propri “inquilini” li fa fuori unoa uno. L’unico a salvarsi è David Bow-man che riesce a spegnere HAL 9000 eseguendo le indicazioni di un messaggioregistrato si muove alla volta di Giove.Inizia così la terza parte (“Giove e oltrel’infinito”): un trip stellare e l’approdo fi-nale su un pianeta che tanto assume lefattezze di casa, sul quale Bowman assi-ste al proprio invecchiamento progres-sivo, all’ultima apparizione del monolito ealla finale reincarnazione in uno StarChild, uomo nuovo fluttuante nello spa-zio, minaccioso e innocente, il cui defini-tivo sguardo in macchina chiude lapellicola. Tre viaggi, dunque. O forse unsolo viaggio ripetuto tre volte, un’unicastruttura che si triplica. Una medesimastruttura narrativa -che è forma di tutte leforme e storia di tutte le storie- reiteratacon variazioni visive per fare del ritorno illeitmotiv ossessivo del racconto filmico.Motivo ribadito esplicitamente dal titolostesso: il 2001 non si configura infatticome una data reale ma piuttosto comenumero mitico in grado di rinviare simbo-licamente alle “Mille e una notte”, all’infi-nita affabulazione di Sheherazade, allaciclicità del creato, al millenarismo e aisuoi miti di rigenerazione, perfinoall’eterno ritorno di Nietzsche. Un unicoviaggio dunque attraverso l’immensitàciclica del creato e la profondità abissaledell’animo umano, permeato di elementi

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misteriosi ed enigmatici, affascinanti ecarichi di evocazioni, a cominciare dal le-vigato e speculare monolito nero, formalapidaria, psicanalitico simbolo dellospecchio capace di costruire identità,astratta e unica raffigurazione possibile diuna off-earth intelligence lontana dallebanalizzazioni hollywoodiane, passandoper il peculiare “personaggio” HAL 9000,lungimirante prefigurazione di intelligenzaartificiale e insieme inquietante sintesidella rivolta tecnologica sull’uomo, conquell’occhio rosso iniettato di sangue cherinvia in modo palese alla tigre domina-trice che apre il film tra le lande di unaterra archetipica, fino allo sguardo inmacchina di quello Star Child che pare ri-vendicare la necessità di uno sguardonuovo del cinema e insieme riferire al suopubblico di impegnarsi a guardare ilmondo con occhi nuovi. Il tutto in quelloche è il paradigma più perfetto e com-piuto delle strutture aperte, svincolatedall’univocità del senso e tese invece allasua infinitizzazione, una struttura apertaall’affascinante possibilità per cui ognispettatore sia “libero di speculare a suogusto sul significato filosofico del film”,un’opera in grado “di rappresentareun’esperienza visiva, che aggiri la com-prensione per penetrare con il suo conte-nuto emotivo direttamente nell’inconscio”.Un film dominato da uno stile drastica-mente innovante capace di rigettare i cri-teri di ritmo, azione e causalitàtipicamente classici e prediligere inveceil rigore scientifico, l’azzardata scelta diricreare il reale -e lentissimo- movimentodelle astronavi nello spazio, di fissare ilnero assoluto del cosmo, di abbando-narsi al silenzio totale, di prediligere dia-loghi rarefatti e quasi mai significativi.Senza trascurare quella tendenza meta-cinematografica e citante così propria delcinema kubrickiano, qui tesa a omag-giare le esperienze del cinema under-ground statunitense degli anni ‘60 (sipensi al trip stellare di Bowman), le tec-niche della Nouvelle Vague (dallo

sguardo in macchina ai jump-cut sfruttatinella seconda parte del film, passandoper l’espediente della camera a mano),perfino gli stilemi di un maestro come Ej-zenstein di cui Kubrick recupera l’espe-diente straniante di riprendere la stessainquadratura da più punti di vista nel ce-lebre e magnifico frammento in cui lascimmia antropomorfa che ha acquisitorazionalità colpisce la carcassa di un fa-cocero. Solo tre anni dopo, il cineastastatunitense conclude il suo itinerario at-traverso il “macrocosmo fantascienza”con Arancia meccanica, ennesimo im-prescindibile capolavoro tratto dall’omo-nimo romanzo di Burgess, ambientato inuna Londra futuristica e decadente in cuitutto è copia di una copia e nella qualeAlex De Large -accompagnato dai suoidrughi- pratica gratuitamente l’eserciziodell’ultraviolenza tra la musica di Beetho-ven, droghe, stupri e aggressioni finchénon finisce in carcere e accetta un lavag-gio del cervello che inibisce le sue ten-denze violente. Al di là dell’esplicitariflessione sul libero arbitrio per cui -comeammette Kubrick- “l’uomo deve poterscegliere tra bene e male, anche se sce-glie il male. Se gli viene tolta questascelta egli non è più un uomo, maun’arancia meccanica”, il film occupa unposto di rilievo in tutti gli annali del ci-nema per la profonda e -allora- inusitatariflessione sulla modernità e sullo stessomezzo cinematografico di cui si fa porta-tore. Kubrick crea un mondo distopicoche condivide con la contemporaneità eil cinema una serie di implicazioni struttu-rali e fondative. Dimostrando per l’enne-sima volta il suo occhio lucido elungimirante sul presente, il cineasta fadell’universo in cui si muovono Alex e isuoi drughi un mondo di simulacri, di fi-gure, fantasmi e immagini false, rinviandoin tal modo a una società sempre più me-diatizzata e tecnologica che ha perso ipropri punti di riferimento da tempo, me-scolando in un’unico indifferenziato pasti-che postmoderno il vero con il falso, il

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concreto con l’astratto, l’epidermico conil virtuale e soprattutto a quella straordi-naria e megalomane macchina di falsifi-cazione che è il cinema. Arancia

meccanica -come quel Vertigo di cui ab-biamo parlato nell’episodio dedicato adHitchcock- oggettiva a partire dalla con-figurazione del visibile messa in scena lanatura simulacrale del dispositivo cine-matografico e insieme si fa affresco disto-pico di un mondo che ha definitivamenteperduto la propria naturalità per trasfor-marsi in pura immagine. Tutto nell’uni-verso creato da Kubrick perde la propriaconsistenza fenomenica e si fa segnoche rinvia ad altri segni, linguaggio cherinvia ad altri linguaggi canonizzati, im-magine di altre immagini: dalle scenogra-fie costruite palesemente in relazione allapop art e ad alcune tendenze dell’opticalart, alla lingua usata dai protagonisti, chesi dà come eteroclito impasto di idiomi di-versi, slegato da una reale connessioneal fenomenico; dall’artificialità evidente ditrucco e costumi all’accumulazione sin-cretica e falsante dei luoghi in cui perfinol’uomo è ridotto a un miscuglio di plasticae vetroresina (si pensi al Korova Milk Barcostruito attraverso l’accumulazione e ladisposizione simmetrica in doppia seriedi alcune sculture-manichini di donnenude che fungono da tavolini). In pratica,in Arancia meccanica ogni elemento delvisibile è connotato come falso in un rife-rimento diretto alla natura artificiale, illu-siva, falsificante e simulacrale cheinforma il cinema stesso e al progressivosciogliersi nel mondo contemporaneo diquella dicotomia positivistica tra carnalee artificiale. Decisamente opposti gli ob-biettivi del successivo Barry Lyndon,cronaca delle (dis)avventure di un gio-vane irlandese attraverso il ‘700 europeo.Mentre Arancia Meccanica si proponecome ritratto del falso, ora come in 2001

Kubrick tenta di raccontare con piglio everità quasi filologiche la storia di un viag-gio. Se nel capolavoro del ‘68 però il ri-gore della rappresentazione riguardava i

movimenti interspaziali (giudicati realisticidai tecnici della NASA), in questo affre-sco storico il cineasta tenta di recuperarele atmosfere tipiche del Settecento ado-perandosi in un coinvolgimento capillareche lo porta a utilizzare come ispirazionele grandi opere dei paesaggisti del tempoe a filmare attraverso le rivoluzionarie -per il tempo- lenti Zeiss (progettate pro-prio per la NASA), progettando spesso evolentieri set a lume di candela per recu-perare le reali condizioni degli interni an-gusti di quel secolo. Ne deriva un’operamagnifica ed esteticamente insuperabile,un quadro in movimento mal compresoalla sua uscita, definito sarcasticamentecome “una pinacoteca da 11 milioni didollari”, riscoperto in seguito come la piùrigorosa rappresentazione del Settecentomai realizzata al cinema. Lo stesso ince-dere freddo, distante e lento del film ri-chiama le atmosfere aristocratichesettecentesche di cui il protagonista si ri-trova membro, gelidamente impregnatedi formalismo, anti-empatia, austerità e inogni caso rafforza le violente e potentis-sime fiammate di dolore e sentimento dicui la vita di Barry si colora. Dopo l’affre-sco storico, Kubrick continua il suo di-sarmonico itinerario tra i generi eapproda all’horror, dando vita a Shining,uno dei suoi film più universalmenteamati, racconto della discesa negli abissidella follia omicida di Jack Torrance (unostratosferico Jack Nicholson), scrittorefallito che, insieme alla propria famiglia,si autoesilia con la mansione di custodein un hotel enorme, popolato da stranepresenze, forse frutto della sua immagi-nazione. Il lavoro del cineasta stavoltaforza a dismisura le paratie stagne delgenere fino ad approdare all’ennesimastruttura aperta, priva di reali soluzioni. Tutto il film si carica di un cupo senso diclaustrofobia, di doppiezza strutturale, disoffocamento. Lo spazio fisico è circo-scritto e limitante e il tempo, racchiuso intale labirinto privo d’uscita, sembra per-dere un orientamento logico. Il fluire del

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racconto è intervallato da cartelli che ten-tano di fissare le immagini su un puntospecifico della catena temporale ma conlo scorrere dei frame le indicazioni sifanno sempre più vaghe. A “Un mesedopo” segue “Martedì”, a “Sabato”, “Lu-nedì”. Ma di quale settimana? Di qualemese? Il tempo si sfibra, diventa essostesso labirinto, collassa fino ad esplo-dere nell’ultima enigmatica immagine chemostra su una parete dell’hotel l’impossi-bile fotografia di una festa degli anni ‘20che ritrae anche il protagonista. Anche illabile confine tra realtà e irrealtà sispezza e in questo senso diventanoestremamente significative le inquadra-ture allo specchio, in cui la superficie ri-flettente occupa totalmente lo schermoper poi svelare -tramite un movimento dimacchina- di essere solo una copia delreale. Un meccanismo simbolico che al-lude all’accesso a una dimensione ulte-riore: quella del fantasmatico dominatadagli inquietanti spettri che i personaggiincontrano nelle varie stanze o quella del-l’isteria folle in cui Jack lentamente sci-vola. Nel suo porsi al di là di ogniinterpretazione oggettiva, nel suo essereun puro animale filmico grondante di sen-sazioni, visioni e essenze da cui farsi tra-volgere, nel suo dichiarare quantol’impossibilità di (ri)conoscere la verità delreale sia il vero orrore del vivere, Shining

si erge come uno degli horror movie (eti-chetta senza dubbio stretta) più maturi econsapevoli mai realizzati. Follia e psi-cosi, profondamente connesse alla terri-ficante esperienza di disumanizzazionecausata dalla guerra, sono peraltro i temiportanti del successivo Full Metal Jac-

ket, titolo che richiama un particolare tipodi pallottole utilizzate dai fucilieri statuni-tensi negli addestramenti per il Vietnam.Il film, che riporta Kubrick a quella rifles-sione antimilitarista già centrale in alcunidei suoi migliori lavori, si caratterizza peruna struttura volutamente anomala, di-stante dai tre atti canonicamente utilizzatinegli script statunitensi e imperniata in-

vece su due blocchi distinti e connessiesclusivamente dalla presenza del sol-dato Joker. Se la prima sezione, consu-mata in una caserma d’addestramento incui giovani di ogni estrazione vengono ra-pidamente trasformati in assassini lega-lizzati, muove da un ideale diaggregazione, la seconda, che vede i sol-dati impegnati al fronte, si configuracome la successiva dispersione. Talestruttura fondata sulle opposizioni binarieplasma tutti gli elementi del film, oscil-lante tra la rappresentazione del fascinoesercitato sull’animo umano dalla guerrae dal pericolo e il disprezzo verso le aber-razioni del conflitto, tra l’assuefazione di-sumanizzante che trasforma gli uomini inmacchine e gli strenui tentativi di conser-vare un’identità che sia propria, tra ilgesto suicida dell’ormai squilibrato Palladi Lardo e la strenua tattica difensivadella giovane vietnamita nascosta fra lemacerie. Qui -in un’operazione simile aquella compiuta per altri precedenti capo-lavori- inoltre Kubrick spoglia il Vietnamdella sua configurazione tradizionale, eli-minando ad esempio riferimenti a quelselvaggio e infernale campo di battagliache fu la giungla vietnamita (ravvisabilein precedenti straordinari capolavoricome Apocalypse now o Il cacciatore),enfatizzando così la portata universale etotalizzante della sua polemica anti-bel-lica. E infine Eyes wide shut, trasposi-zione di quel Doppio sogno di ArthurSchnitzler che Kubrick intendeva met-tere su celluloide dai tempi di Arancia

meccanica. Oggetto impervio e difficol-toso da interpretare, l’ultimo film del mae-stro americano naturalizzato britannicoripercorre la crisi di una coppia sposata,iniziata dopo un’intima confessione di leiche una notte, dopo una festa, dichiara almarito l’attrazione potente subita nei con-fronti di un ufficiale anni prima unita a unosfrenato e inconfessabile desiderio ses-suale. L’ammissione della moglie fa crol-lare le certezze dell’uomo -rispettabilemedico- che vaga per una New York not-

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Shining, Stanley Kubrick, 1977

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turna, trasformata in un caleidoscopioeterogeneo di tutte le perversioni umanetra puttane, donne sposate, ragazzineninfomani e ville misteriose fatte di orgee riti massonici. Proprio in questo non-luogo morboso e inquietante, l’uomoviene salvato da una donna in mascheradella quale il giorno successivo cominciala ricerca, scoprendone la morte. A que-sto punto il film apre percorsi multiplisenza destare nessuna soluzione defini-tiva. Non bastano le parole sicure di unamico -che identifica la salvatrice defuntain una donna strappata a un’overdosemortale la sera precedente dallo stessoprotagonista- a chiarire il mistero. Ku-brick finge di dare una via di scampo chenon esiste e confeziona l’ultima strutturaaperta possibile, la definitiva messa inatto di quella poetica del labirinto già pa-radigmatica di film come 2001 e Shining.Se nel primo il labirinto si configuravacome il mistero stesso del creato e nelsecondo finiva per coincidere con la ver-tigine della follia, Eyes wide shut si dàcome esplorazione di quel groviglio in-sondabile che è l’inconscio, viaggio con-fuso e privo di percorsi preferenzialiattraverso l’ossessione umana, ultima eradicale presa di coscienza del fatto che,nel momento in cui “nessun sogno è maisoltanto un sogno”, il campo della specu-lazione si allarga a dismisura, facendosiesso stesso labirinto immenso, stermi-nato, senza via d’uscita.

FILMOGRAFIA

- Paura e desiderio (Fear and Desire),Stanley Kubrick (1953)

- Il bacio dell’assassino (Killer’s Kiss),Stanley Kubrick (1955)

- Rapina a mano armata (The Killing),Stanley Kubrick (1956)

- Orizzonti di gloria (Paths of Glory),Stanley Kubrick (1957)

- Spartacus (id.), Stanley Kubrick (1960)

- Lolita (id.), Stanley Kubrick (1962)

- Il dottor Stranamore, ovvero: come im-parai a non preoccuparmi e ad amare labomba (Dr. Strangelove or: How I Lear-ned to Stop Worrying and Love theBomb), Stanley Kubrick (1964)

- 2001: Odissea nello spazio (2001: ASpace Odyssey), Stanley Kubrick (1968)

- Arancia meccanica (A ClockworkOrange), Stanley Kubrick (1971)

- Barry Lyndon (id.), Stanley Kubrick(1975)

- Shining (The Shining), Stanley Kubrick(1980)

- Full Metal Jacket (id.), Stanley Kubrick(1987)

- Eyes Wide Shut (id.), Stanley Kubrick(1999)

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Full Metal Jacket, Stanley Kubrick, 1987