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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRIESTE Dipartimento di Fisica Corso di Laurea Triennale in FISICA STUDIO DI ALCUNE CARATTERISTICHE DI UN PROTOTIPO DI CALORIMETRO A CAMPIONAMENTO TUNGSTENO-FLUORURO DI CERIO CON LETTURA A FIBRE OTTICHE Laureando: Jacopo Magro Relatore: Prof. Giuseppe Della Ricca Anno Accademico 2014/2015

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRIESTE

Dipartimento di Fisica

Corso di Laurea Triennale in FISICA

STUDIO DI ALCUNE CARATTERISTICHE DI UN PROTOTIPO DI CALORIMETRO A

CAMPIONAMENTO TUNGSTENO-FLUORURO DI CERIO CON LETTURA A FIBRE OTTICHE

Laureando:

Jacopo Magro

Relatore:

Prof. Giuseppe Della Ricca

Anno Accademico 2014/2015

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3

Indice

Introduzione 5

1 LHC e l’esperimento CMS 7

1.1 LHC 7

1.2 CMS 8

2 Calorimetri 10

2.1 Generalità sui calorimetri 10

2.1.1 Calorimetri omogenei 10

2.1.2 Calorimetri a campionamento 10

2.2 Il calorimetro elettromagnetico di CMS 11

2.3 Danni dovuti all’irraggiamento 12

2.4 Possibili soluzioni 12

3 Il prototipo W-CeF3 13

3.1 Struttura del calorimetro 13

3.2 Setup sperimentale 15

3.3 Test su fascio a Frascati 16

3.3.1 Risultati del Beam Test 17

4 Analisi del Beam Test al CERN 19

4.1 Risposta del prototipo 19

4.2 Ricostruzione della posizione 24

5 Conclusioni 31

Bibliografia 33

Ringraziamenti 35

4

5

Introduzione

L’obbiettivo di questo lavoro di tesi è di presentare il nuovo prototipo di calorimetro elettromagnetico a cam-

pionamento tungsteno-fluoruro di cerio (W-CeF3) con lettura a fibre ottiche, mostrandone le principali carat-

teristiche. Tale prototipo è una delle soluzioni in fase di studio per la sostituzione dell’attuale tipo di calorime-

tro elettromagnetico, omogeneo in tungstato di piombo (PbWO4), posizionato negli endcap del rivelatore CMS

del Large Hadron Collider del CERN, a Ginevra.

A tal scopo verrà fatta una panoramica sull’esperimento CMS, introducendo quindi i vari tipi di calorimetri,

riservando particolare attenzione a quello di CMS ed ai problemi riscontrati, con le possibili soluzioni. In

seguito si descriveranno il prototipo ed i test effettuati su di esso: il primo a Frascati presso la Beam Test

Facility, con i risultati ottenuti, ed il secondo al CERN presso l’acceleratore SPS. Infine saranno esposti lo

studio del prototipo e la sua caratterizzazione utilizzando i dati raccolti durante il secondo test.

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1 LHC e l’esperimento CMS

1.1 LHC

LHC (acronimo di Large Hadron Collider) è l’acceleratore di particelle più grande e potente al mondo. È

situato a Ginevra, al confine tra Francia e Svizzera, presso il CERN (Conseil Européen pour la Recherche

Nucléaire), il più grande laboratorio e centro di ricerca di fisica delle particelle esistente. Costruito tra il 1998

e il 2008 nel tunnel sotterraneo che ospitava l’esperimento LEP (Large Electron-Positron Collider), un anello

sotterraneo di 27 km di circonferenza alla profondità media di 100 m, LHC è in grado di accelerare due fasci

di protoni che viaggiano in direzioni opposte fino ad un’energia di 14 TeV nel centro di massa. I due fasci

viaggiano in due tubi separati in cui è praticato l’ultra alto vuoto, e vengono curvati utilizzando magneti su-

perconduttori raffreddati a -271.3°C da elio liquido. I fasci vengono fatti collidere in quattro punti dell’anello,

presso i quali sono stati costruiti i seguenti esperimenti:

ATLAS (A Toroidal LHC ApparatuS);

CMS (Compact Muon Solenoid);

ALICE (A Large Ion Collider Experiment);

LHCb (Large Hadron Collider beauty).

Sono inoltre presenti altri tre esperimenti: LHCf (Large Hadron Collider forward), TOTEM (TOTal Elastic

and diffractive cross section Measurement) e, dal 2010, MOEDAL (MOnopole and Exotical Detector At the

LCH) per un totale di sette esperimenti svolti con LHC.

Figura 1.1 Il complesso di acceleratori del CERN con i quattro esperimenti principali. Le particelle vengono

gradualmente accelerate prima di essere iniettate nell’anello principale; alcune vengono estratte prima per es-

sere utilizzate negli altri esperimenti del CERN.

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Lo scopo dei vari esperimenti è quello di esplorare la fisica delle alte energie:

ATLAS e CMS sono stati progettati per studiare il maggior numero possibile di fenomeni legati alle

collisioni protone-protone; sono rivelatori polivalenti che indagano principalmente la fisica delle su-

persimmetrie, della violazione di CP (Carica-Parità) e del bosone di Higgs (l’origine della massa delle

particelle elementari);

ALICE ha come obbiettivo lo studio delle interazioni forti fra ioni pesanti ad alte densità di energia

(quando la materia si trova sotto forma di plasma quark-gluone);

LHCb è stato costruito per approfondire la violazione di CP in adroni che contengono quark bottom;

TOTEM è installato vicino a CMS e approfondisce la fisica dei protoni misurando quelli che emergono

dalle collisioni con un piccolo angolo, che risultano essere impossibili da rivelare per gli altri esperi-

menti;

LHCf è posizionato vicino ad ATLAS ed è costruito per permettere una migliore comprensione dei

raggi cosmici: sfrutta le particelle prodotte dalle collisioni per simulare i raggi cosmici in condizioni

di laboratorio;

MOEDAL è l’ultimo esperimento costruito (vicino a LHCb) ed ha come scopo la ricerca del monopolo

magnetico.

1.2 CMS

L’esperimento CMS è un rivelatore multifunzione costruito nella caverna sotterranea scavata lungo l’anello di

LHC nei pressi di Cessy, in Francia. Come detto precedentemente, è progettato, insieme ad ATLAS, per stu-

diare il maggior numero possibile di fenomeni legati alle collisioni protone-protone: supersimmetrie, viola-

zione di CP e bosone di Higgs. Quest’ultimo obbiettivo è stato parzialmente raggiunto con la scoperta del

bosone stesso, ma sarà completato solo con le prossime misure che verranno effettuate.

CMS circonda completamente il punto di interazione fra le particelle, presentando una struttura cilindrica (bar-

rel) chiusa alle estremità dagli endcap. Ha una lunghezza di 21.6 m, con un’altezza di 14.6 m e un peso di

12500 tonnellate. All’interno la struttura è a strati con numerosi sottorivelatori.

In Fig. 1.2 si può vedere lo spaccato di CMS e la sua struttura interna.

Figura 1.2 Spaccato che illustra schematicamente la struttura di CMS. All’interno, la regione occupata dal

tracciatore (in grigio). Al suo esterno i calorimetri elettromagnetico (verde) e adronico (arancione). All’esterno

di questi ultimi è raffigurato il magnete superconduttore (in grigio più scuro). La regione più esterna è occupata

dalle camere a muoni (in rosso), alternate alle lastre metalliche del giogo di ritorno del campo magnetico.

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Il tracciatore è il sottorivelatore posto il più vicino possibile al punto di collisione ed ha il compito di rivelare

la traiettoria delle particelle cariche interagendo con esse il meno possibile. È in grado di ricostruire la traiet-

toria con poche misure con una precisione dell’ordine del micron. È formato da due strati di rivelatori:

Lo strato interno è costituito da rivelatori a pixel di silicio di dimensione 100μm ⨉ 150 μm, posti a 4,

7 e 11 cm dalla linea del fascio;

Lo strato esterno è composto da rivelatori a microstrip di silicio, raggruppati in moduli per un totale

di 10 milioni di microstrip.

L’intero sistema di tracciamento opera ad una temperatura costante di -20°C ed ha un raggio complessivo di

120 cm ed una lunghezza di 540 cm.

Attorno al tracciatore è posizionato il calorimetro elettromagnetico (ECAL), che serve per rivelare l’energia

delle particelle prodotte dalla collisione e che interagiscono elettromagneticamente, ovvero fotoni, elettroni e

positroni. Esso è un calorimetro omogeneo costruito da cristalli inorganici di tungstato di piombo (PbWO4),

organizzati in sottomoduli, moduli e super moduli, per un totale di 61200 cristalli nel barrel e 7324 cristalli in

ogni endcap. La lettura dei segnali avviene attraverso fotodiodi a valanga per i cristalli del barrel e con foto-

diodi a vuoto per quelli degli endcap. ECAL lavora alla temperatura costante di 18°C.

Attorno al calorimetro elettromagnetico si trova il calorimetro adronico (HCAL), che rivela le particelle che

sfuggono a ECAL, ovvero gli adroni (tra cui neutroni, protoni e pioni). HCAL ha una struttura molto simile a

ECAL, ma è costituito da numerosi strati di materiale assorbente (ottone spesso 5 cm), alternato a strati di

materiale scintillatore (plastico spesso 3.7 mm), invece che da elementi sensibili uniformi come nel caso di

ECAL; si tratta quindi di un calorimetro a campionamento. La luce di scintillazione viene raccolta da fibre

ottiche e trasportata verso i fotodiodi per la lettura.

Il componente che contraddistingue CMS è il magnete superconduttore solenoidale che avvolge i calorimetri.

Poiché per mantenere un’alta risoluzione nelle misure di momento delle particelle cariche è necessario un alto

potere curvante, il campo magnetico generato nella regione centrale è pari a 4 T. Complessivamente il magnete

ha un diametro interno di 5.9 m, una lunghezza di 12.9 m e 2168 spire. Per operare al regime di supercondut-

tività il magnete è raffreddato con 3He a 1.9 K. La corrente che circola in regime di pieno funzionamento è di

20 kA, mentre l’energia immagazzinata nel circuito delle spire è 2.7 GJ. La scelta della forma solenoidale è

motivata dal fatto che in questa configurazione il campo magnetico non perturba i fasci circolanti nell’anello.

Posto all’esterno del magnete superconduttore vi è il rivelatore di muoni. Una prima misura sui muoni meno

energetici viene effettuata dal tracciatore. Per quelli più energetici sono stati collegati una serie di rivelatori

all’esterno del magnete, che sfruttano il campo magnetico presente all’esterno, di intensità pari a 1.8 T. Gli

strati di rivelatore sono circondati da piastre di ferro utili per concentrare il campo magnetico nelle zone occu-

pate dai rivelatori.

Questa composizione a strati è utile per poter rivelare quasi tutti i tipi di particelle prodotti dalle collisioni:

I fotoni vengono rivelati nel calorimetro elettromagnetico;

Elettroni e positroni vengono rivelati sia dal tracciatore (traiettoria) che dal calorimetro elettromagne-

tico (energia);

La traiettoria degli adroni carichi viene ricostruita nel tracciatore, mentre l’energia viene depositata

all’interno del calorimetro adronico;

Gli adroni neutri depositano l’energia nel calorimetro adronico.

Il flusso di dati prodotto nelle collisioni è di circa 108 Hz, che è troppo grande per essere registrato: si usa

quindi un sistema di trigger per filtrare i dati riducendo il volume di un fattore 106. La base è rappresentata

dall’elettronica di lettura; al di sopra è implementato un primo sistema di trigger (L1) di tipo hardware: per

ottenere la massima velocità di risposta usa circuiti logici basati principalmente sulle informazioni prodotte

dai calorimetri e dal rivelatore di muoni che sono i rivelatori con il minor tempo di risposta. In 3.2 μs il flusso

di dati si riduce di un fattore 1000.

Gli eventi che passano il filtro L1, passano al secondo livello di trigger di tipo software (High Level Trigger),

che ricostruisce parzialmente l’evento, scartando quelli non interessanti. Il volume di dati viene ridotto di un

altro fattore 1000, risultando ora di 100 Hz. I dati raccolti vengono quindi inviati al centro di calcolo dove

vengono elaborati ricostruendo completamente gli eventi.

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2 Calorimetri

2.1 Generalità sui calorimetri

I calorimetri sono rivelatori che assorbono l’energia cinetica delle particelle che li attraversano e forniscono

un segnale elettronico proporzionale all’energia assorbita. I calorimetri elettromagnetici assorbono l’energia

che viene ceduta da fotoni ed elettroni per bremsstrahlung e ionizzazione (eccitazione), quelli adronici invece

assorbono l’energia ceduta dagli adroni a causa di collisioni dovute all’interazione forte e per ionizzazione

(eccitazione). In generale, poiché la cascata adronica è più lunga e più larga di quella elettromagnetica, un

calorimetro adronico avrà una grandezza maggiore di un calorimetro elettromagnetico.

Si usa dividere i calorimetri in due gruppi: a seconda di come sono costruiti abbiamo calorimetri omogenei e

calorimetri a campionamento.

2.1.1 Calorimetri omogenei

I calorimetri omogeni sono costituiti da un unico materiale che ha la duplice funzione di assorbitore e rivela-

tore: in tale modo si ottiene un’eccellente risoluzione in energia, a prezzo però di una scarsa precisione in

posizione e nella distinzione fra le varie particelle, perché, essendo un unico blocco di materia, non possono

essere divisi né lateralmente né longitudinalmente. Esistono diversi tipi di calorimetri omogenei: a semicon-

duttore, ad effetto Čerenkov, a gas rari, a scintillazione.

I calorimetri a semiconduttore sono costruiti con un metallo semiconduttore (silicio o germanio) in cui

una particella lascia una traccia creando una lacuna nel materiale;

I calorimetri ad effetto Čerenkov sono costruiti con vetri al piombo in cui una particella carica emette

luce Čerenkov;

I calorimetri a gas rari impiegano un gas nobile allo stato liquido, in particolare argon, xenon e kripton;

I calorimetri a scintillazione sfruttano l’energia persa dalla particella per ionizzazione per produrre un

segnale luminoso che viene convertito in un segnale elettrico e amplificato attraverso un fotomoltipli-

catore, costituito da un fotocatodo e da dei dinodi. Gli scintillatori a loro volta si dividono in organici

e inorganici. Quelli organici sono formati da

composti aromatici (come il benzene) in cui la

luce viene emessa dagli elettroni di valenza

delle molecole; possono essere cristalli, liquidi

o plastici. Quelli inorganici invece sono cristalli

con piccole impurezze attivatrici. I più comuni

sono NaI(Tl), BGO, CsI e PbWO4. Gli scintilla-

tori organici hanno un minor tempo di risposta

ma anche una minore efficienza luminosa ri-

spetto a quelli inorganici.

2.1.2 Calorimetri a campionamento

I calorimetri a campionamento sono costituiti da piani assorbenti alternati a piani sensibili, in questo modo

offrono una maggiore sensibilità nel riconoscimento delle particelle e una migliore risoluzione spaziale. I van-

taggi principali sono la facilità di assemblaggio e sostituzione delle parti danneggiate e il basso costo; per

questi motivi i calorimetri adronici, più grandi rispetto a quelli elettromagnetici, sono spesso del tipo a cam-

pionamento. Presentano però anche un importante svantaggio: per via della non continuità fra i piani rivelatori,

Figura 2.1 Cristalli di PbWO4. [1]

11

la luce di scintillazione non può propagarsi fino al fondo del rivelatore e deve quindi essere raccolta tramite

fibre ottiche da ogni scintillatore e convogliata verso i fotomoltiplicatori.

Un secondo problema è il fatto che per ottenere una migliore risoluzione in energia è necessario raccogliere

quanti più fotoni possibili, ed è quindi di cruciale importanza la posizione delle fibre ottiche nel rivelatore.

2.2 Il calorimetro elettromagnetico di CMS

Entriamo ora nel dettaglio per quello che riguarda il calorimetro elettromagnetico di CMS.

Come precedentemente spiegato, si tratta di un calorimetro omogeneo in cui il materiale sensibile (e assor-

bente) sono cristalli di tungstato di piombo (PbWO4), che ha una densità molto elevata e un raggio di Molière

piccolo, permettendo quindi la costruzione di un rivelatore compatto. Il raggio di Molière è una costante ca-

ratteristica di un materiale, definita come il raggio di un cilindro fatto con quel materiale contenente in media

il 90% dell’energia rilasciata da una cascata elettromagnetica indotta da un fotone o un elettrone ad alta energia.

I principali svantaggi di questo materiale sono due: una bassa efficienza luminosa e una risposta che dipende

fortemente dalla temperatura; è quindi necessario un massiccio impiego di fotomoltiplicatori e di un efficiente

sistema di regolazione termica.

La struttura interna di ECAL rispecchia quella di CMS: una parte centrale cilindrica, barrel, chiusa da due

tappi, endcap. Le dimensioni dei cristalli dipendono dalla zona in cui sono posizionati.

Nel barrel i cristalli sono organizzati in sottomoduli (10 pezzi), moduli (400-500 pezzi) e supermoduli (1700

pezzi), per un totale di 36 supermoduli e 61200 cristalli; un reticolo in alluminio sostiene il peso della struttura.

Ogni cristallo è a forma di tronco di piramide a base quadrata. L’ampiezza delle basi (22⨉22 mm2, quella

interna, e 26⨉26 mm2, quella esterna) sono tali da sottendere il medesimo angolo solido, mentre la lunghezza

di 230 mm corrisponde a 26 lunghezze di radiazione, permettendo una buona granularità (superficie offerta

alle particelle incidenti) e un’ottima compattezza. Sulla base maggiore della piramide sono installati i fotodiodi

a valanga per la lettura dei segnali.

Gli endcap sono essenzialmente dei dischi formati da 7324 cristalli, raggruppati in matrici 5⨉5. I cristalli

hanno la medesima forma, ma sono leggermente più grandi (28.62 mm il lato della base interna, 30 mm il lato

di quella esterna). In questo caso, per la lettura si utilizzano fotodiodi a vuoto. Inoltre, di fronte al calorimetro,

sono posizionati due strati di piombo inframezzati da rivelatori a microstrip di silicio che hanno il ruolo di

preshower, ovvero innescano lo sciame elettromagnetico per facilitare l’identificazione di particelle prove-

nienti dai pioni neutri.

Figura 2.2 Il calorimetro elettromagnetico di CMS. In verde sono raffigurati i supercristalli degli endcap, in

arancione i moduli del barrel e in rosa sono indicati i preshower. [1]

12

2.3 Danni dovuti all’irraggiamento

Lo scopo di CMS è anche quello di studiare eventi rari, riconducibili alla fisica delle alte energie che si cerca

di esplorare. Pertanto, oltre a necessitare di una grande precisione costruttiva ed ermeticità (per poter cogliere

qualsiasi fenomeno), deve essere in grado di resistere all’alta dose di radiazioni prodotta dalle collisioni. Infatti,

per poter osservare dei fenomeni rari, è necessario che la macchina abbia un’altissima luminosità, cioè un

grandissimo numero di eventi per sezione d’urto per unità di tempo. L’alta luminosità insieme all’alta energia

dei fasci che collidono fa sì che la zona di interazione sia estremamente radioattiva, in particolare per ECAL,

visto che è il calorimetro posto più vicino al fascio.

Considerando una luminosità integrata (sui primi 10 anni di funzionamento di LHC) di 5·105 pb-1 si ottiene

una dose di radiazione che varia da 4 kGy nel barrel a 200 kGy negli endcap, che equivalgono ad una dose per

cristallo che varia da 0.18 Gy/h a 6.5 Gy/h.

L’effetto di queste dosi di radiazioni non intacca la scintillazione dei cristalli, ma provoca una diminuzione

dell’efficienza luminosa, cioè della capacità di trasportare i fotoni fino ai fotomoltiplicatori. In pratica si creano

zone in cui la trasparenza è minore (ingiallimento) che affievolisce la luce di scintillazione, senza però modi-

ficarla in altro modo. Queste zone si creano nei punti in cui il cristallo è inevitabilmente meno puro.

Il fenomeno dell’ingiallimento si è dimostrato essere irreversibile, anche nei momenti di inattività di LHC.

Per questo motivo, essendo anche previsto un aumento della luminosità di un ordine di grandezza a partire dal

2022, è stato necessario pensare a soluzioni alternative.

2.4 Possibili soluzioni

Tra le varie soluzioni proposte per risolvere il problema dei danni da radiazione, si è pensato di sostituire i

calorimetri omogenei degli endcap di ECAL (i più colpiti da questo tipo di danni) con dei calorimetri a cam-

pionamento, che però presentano il problema dell’efficienza luminosa; per ovviare a questo inconveniente

sono state proposte principalmente due soluzioni: shashlik e corner, illustrate in Fig. 2.1.

Delle diverse tipologie di shashlik esistenti, quella applicata al nostro caso richiede di forare ogni piano rive-

latore: si praticano cinque fori, quattro vicino agli angoli in cui inserire le fibre per la luce di scintillazione e

uno al centro con una fibra di controllo.

La seconda soluzione richiede invece di smussare i vertici per ricavare un canale per far passare le fibre ottiche.

Entrambe le soluzioni sono ancora in fase di studio (per quanto riguarda numero, posizione, grandezza delle

fibre, grandezza dei cristalli…), ma la seconda presenta una maggiore facilità di realizzazione: è molto più

facile smussare gli angoli del cristallo piuttosto che forarlo senza romperlo, ed è anche più difficile allineare

esattamente i fori dei vari piani.

Figura 2.3 Le due soluzioni proposte: a sinistra l’opzione shashlik a destra l’opzione corner. [2]

13

3 Il prototipo W-CeF3

Come spiegato nel capitolo precedente, si è reso necessario l’impiego di nuove soluzioni per gli endcap del

calorimetro elettromagnetico di CMS. È nata quindi l’esigenza di studiare nuovi tipi di materiali e di confor-

mazioni per rendere più efficiente ed accurato possibile il lavoro di CMS.

Il lavoro di questa tesi si è concentrato su una delle soluzioni proposte: un calorimetro a campionamento in

tungsteno fluoruro di cerio in cui le fibre ottiche sono disposte come nell’opzione corner.

3.1 Struttura del calorimetro

La scelta del fluoruro di cerio come materiale scintillante è dovuta soprattutto ad una straordinaria proprietà di

questo materiale: spontaneamente, a temperatura ambiente, autoripara i danni prodotti dalle radiazioni adroni-

che, ed è anche possibile produrlo in modo tale da renderlo molto resistente alle particelle ionizzanti. Il risultato

di queste sue peculiarità è che, anche in condizioni di alto irraggiamento, rimangono inalterate le sue proprietà.

Combinando a queste caratteristiche un tempo di risposta di 30 ns, cioè sufficientemente veloce rispetto alla

frequenza delle collisioni dell’acceleratore, si ottiene un ottimo candidato per sostituire i cristalli di PbWO4.

Il calorimetro preso in esame è composto da 15 lastrine di CeF3 spesse 10 mm alternate con placche di tung-

steno spesso 3.1 mm, per una lunghezza complessiva di 19.65 mm che corrispondono a 25 lunghezze di radia-

zione Χ0. Schematicamente il calorimetro è raffigurato in Fig. 3.1.

Le lastrine di fluoruro di cerio sono state anche levigate per massimizzare la riflessione interna, tranne agli

angoli, dove l’abrasione praticata sui cristalli permette alla luce di scintillazione di uscire e di venire catturata

dalle fibre ottiche: la smussatura degli angoli è di 3 mm con una rugosità di 0.4 ± 0.1 μm. Le dimensioni di

questi cristalli sono 24⨉24⨉10 mm3, perfettamente compatibili con il raggio di Molière del materiale, che è

stato stimato essere di 23.1 mm. Nel caso fosse necessaria una maggiore granularità è possibile ottenerla au-

mentando la parte assorbente a discapito di quella scintillante. Nel prototipo preso in esame le placche di

tungsteno avevano una dimensione di 24⨉24⨉3.1 mm3.

Ogni cristallo è avvolto in un sottile involucro (0.2 mm) per massimizzare la luce raccolta.

Figura 3.1 Rappresentazione schematica del prototipo utilizzato: in azzurro sono raffigurati i cristalli di CeF3,

in grigio le placche di tungsteno e in verde le fibre ottiche posizionate agli angoli del calorimetro.

14

Figura 3.2 I cristalli assemblati nel modulo, alternati con le piastrine di tungsteno. [3]

Ogni scanalatura creata dà alloggio ad una della quattro fibre Kuraray 3HF. Le fibre hanno una singola plac-

catura di 0.02 mm in polimetilmetacrilato (PMMA) che avvolge il cuore in polistirene; una delle estremità

delle fibre è alluminizzata, l’altra è collegata ad un fotomoltiplicatore Hamamatsu R1450.

Il tipo di fibra ottica utilizzata è wavelenghtshifter

(WLS): la luce di scintillazione del fluoruro di cerio

ha una lunghezza d’onda che cade nell’ultravioletto

e deve essere convertita in luce visibile per poter es-

sere rivelata dai fotomoltiplicatori; le fibre impiegate

hanno un picco di eccitazione a 340 nm che è com-

patibile con la luce ultravioletta di scintillazione,

mentre hanno un picco di emissione nell’ottico a 540

nm.

Tuttavia la tipologia di fibre utilizzate non sarà suf-

ficientemente resistente alla quantità di radiazioni

prevista per l’upgrade di LHC, e pertanto nuove ti-

pologie più resistenti sono in via di sviluppo.

Per simulare l’ambiente chiuso di lavoro di un calo-

rimetro elettromagnetico, il prototipo è stato inserito

in una matrice 5⨉5 completata da 24 cristalli di ger-

manato di bismuto (BGO), come è visibile in Fig.

3.3.

I cristalli di BGO sono stati recuperati dal precedente

esperimento L3 di LEP e sono lunghi 24 cm con due

basi quadrate, quella frontale con il lato di 22 mm e

quella posteriore di 30 mm. In questa configurazione

si migliora dell’1% il contenimento dello sciame. La

luce di scintillazione prodotta da questi cristalli viene

anch’essa rivelata con fotomoltiplicatori Hamamatsu R1450. La matrice è stata posizionata su un piano mobile

(con una precisione di 0.1 mm) e mantenuta alla temperatura costante di 18.0 ± 0.1°C.

Il segnale delle fibre è stato letto da un digitalizzatore CAEN V1742, mentre il segnale prodotto dai cristalli di

BGO è stato raccolto da un digitalizzatore CAEN V792 ADC. Per ridurre il rumore presente nel segnale e per

migliorare la stabilità della misura è stato applicato un filtro passa-basso all’output dei digitalizzatori.

Figura 3.3 La matrice di BGO che avvolge il prototipo.

[3]

15

3.2 Setup sperimentale

Il prototipo costruito come nel precedente capitolo è

stato sottoposto al collaudo per quattro giorni, dal 22 al

26 ottobre 2014. Il calorimetro è stato irradiato con fa-

sci di elettroni (con energie comprese fra 20 e 150

GeV) emessi dalla linea H4 dell’acceleratore SPS (Su-

per Proton Synchrotron) presso il CERN, ovvero il sin-

crotrone di 6.9 km di circonferenza che inietta i protoni

preaccelerati in LHC.

Gli elettroni vengono tracciati prima di colpire il rive-

latore, come schematizzato in Fig. 3.5: una camera a

multifili (WC) è stata posizionata a 8.4 m dal prototipo,

seguita da due odoscopi a 5.2 e 3.1 m e da un odoscopio

più piccolo proprio di fronte al modulo in tungsteno-

fluoruro di cerio.

La camera a multifili era composta da due piani, cia-

scuno di 55 fili come catodi e 28 fili come anodi, di-

sposti su una griglia di 80⨉80 mm2; ogni piano poteva

misurare una componente (x o y) della posizione degli

elettroni con una precisione inferiore a 200 μm.

Gli odoscopi erano formati da due lastre di 64 fibre scintillanti di 0.5 mm di diametro orientate secondo le

direzioni x e y; i segnali di fibre vicine vengono raggruppati, associando una posizione al cluster così creato

come media delle posizioni delle fibre e permettendo di stimare la traiettoria degli elettroni incidenti.

Il piccolo odoscopio (quadrato con lato di 2 mm) posizionato esattamente davanti al centro del modulo, era

invece formato da due paia di fibre di 1 mm, orientate secondo le direzioni x e y. Lo scopo di questo ulteriore

odoscopio era quello di allineare il centro della matrice con i diversi componenti del sistema di tracciamento:

alla fine della procedura, gli odoscopi e la camera a multifili erano allineati a meno di 0.5 mm.

La posizione di impatto di ogni elettrone sul calorimetro è stata ricostruita come la media delle posizioni rive-

late dai due odoscopi; è stato inoltre necessario filtrare gli eventi dovuti a particelle secondarie e ad elettroni

non paralleli alla linea del fascio.

L’intero setup sperimentale è stato anche simulato con il software GEANT4 (GEometry ANd Tracking). I vari

componenti sono stati schematizzati come blocchi del corrispondente materiale con le rispettive dimensioni. I

cristalli di BGO sono stati inseriti nel programma come parallelepipedi di dimensioni 22⨉22⨉240 mm3: in-

fatti, poiché l’energia rilasciata in direzione trasversale decresce molto rapidamente con la distanza dal fascio,

non è necessaria una gran accuratezza nella descrizione dei cristalli; è invece di molta importanza una simula-

zione accurata del prototipo e del materiale adiacente ad esso. In aggiunta, è stata fatta anche una simulazione

con una matrice 5⨉5 di moduli in W-CeF3 per poter studiare meglio il contenimento laterale e in previsione

delle future applicazioni del prototipo.

Figura 3.5 Schema del sistema di tracciamento. [4]

Figura 3.4 CERN SPS. [3]

16

Figura 3.6 Particolari della linea di fascio (a sinistra) e della camera a multifili (a destra). [4]

3.3 Test su fascio a Frascati

Il test svolto al CERN è il secondo effettuato su questo prototipo; un primo test su fascio (beam test) era stato

realizzato tra il 28 aprile e il 5 maggio 2014 al LINAC di Frascati (RM).

Il primo test ha analizzato un modulo formato da soli 10 cristalli di fluoruro di cerio e altrettante piastrine di

tungsteno, per un totale di 17 Χ0. Le dimensioni dei componenti erano le stesse di quelli utilizzati successiva-

mente, così come erano dello stesso tipo le fibre e i fotomoltiplicatori impiegati.

Il test era finalizzato allo studio del prototipo a basse energie: gli elettroni incidenti avevano un’energia da

98.3 MeV a 491.4 MeV e il modulo è stato inserito in una matrice 3⨉3 completata anche in questo caso da

cristalli di BGO di forma analoga a quella impiegata al CERN. Anche in questo caso la matrice è stata posi-

zionata su un piano mobile (con una precisione di 0.1 mm) e mantenuta alla temperatura costante di 18°C.

Lungo la linea del fascio sono stati posizionati uno scintillatore e un odoscopio: il primo è servito per distin-

guere il numero di elettroni che colpivano in cristallo contemporaneamente, mentre il secondo è stato utilizzato

per centrare il fascio e misurare il punto di impatto sul cristallo.

Figura 3.7 La configurazione del test svolto a Frascati. [4]

17

3.3.1 Risultati del Beam Test

La prima fase ha riguardato lo studio dell’uniformità dell’efficienza luminosa, che però non è stato possibile

confrontare in modo sodisfacente con la simulazione svolta con la configurazione adottata. Infatti, le dimen-

sioni ridotte dell’odoscopio hanno provocato una scarsa uniformità di illuminazione e quindi un’asimmetria

nell’efficienza luminosa delle fibre (cfr. Fig. 3.8).

Nella seconda fase si è sondata invece la linearità di risposta in energia del calorimetro: l’andamento dell’ener-

gia rilasciata nel calorimetro da una particella dovrebbe avere una forma del tipo E(ε) = m·ε + q , dove E è

l’energia depositata, m e q sono delle costanti ed ε è l’energia della particella incidente. m è il coefficiente di calibrazione delle fibre, mentre q dovrebbe essere 0, perché ci aspettiamo che non ci sia

alcun deposito di energia se nessuna particella colpisce il calorimetro. Sono stati presi in esami alcuni run ad

energie diverse: 98.3 MeV, 147.4 MeV, 196.5 MeV, 294.8 MeV e 491.4 MeV, avendo cura che il fascio fosse

puntato esattamente verso il centro del modulo, in modo che ogni fibra raccogliesse la stessa quantità di luce,

e selezionando solo gli eventi in cui solo un elettrone per volta incideva nel cristallo. Estrapolando i valori

medi dell’energia di ciascun run si è ottenuta una funzione lineare, ma la cui intercetta non è compatibile con

0. Anche analizzano le fibre singolarmente si ottengono funzioni lineari la cui intercetta non è compatibile con

0. I risultati sperimentali sono stati confermati dalla simulazione: è da supporre quindi una non linearità del

modulo a basse energie, forse dovuta ad un incompleto contenimento laterale dello sciame e dal fatto che le

particelle incontrano per prima una lastra di tungsteno (cfr. Fig. 3.9-3.10).

L’asimmetria riscontrata nella prima fase e la non linearità nella seconda potrebbero essere dovute ad una

asimmetria intrinseca del fascio provocata dai magneti dell’acceleratore. Non è stato possibile indagare appro-

fonditamente questa possibilità, ma è stata scoperta una non corretta intercalibratura delle fibre, che potrebbe

spiegare i problemi.

Complessivamente dal primo test sono stati ricavati dati utili per il miglioramento del prototipo e la progetta-

zione del secondo test.

Figura 3.8 L’uniformità dell’efficienza luminosa ottenuta con i dati sperimentali (a sinistra) e con la simula-

zione (a destra): le due immagini non possono essere confrontate in modo soddisfacente.

18

Figura 3.9 Linearità energetica delle singole fibre.

Figura 3.10 Linearità energetica complessiva confrontata con la simulazione: in entrambi i casi l’intercetta

non è compatibile con 0.

19

4 Analisi del Beam Test al CERN

Nell’effettuare il secondo test si è tenuto conto delle difficoltà riscontrate a Frascati e si è cercato di migliorare

il setup sperimentale per ovviare agli inconvenienti. Vedremo ora nel dettaglio i risultati ottenuti dal test effet-

tuato al CERN. Durante il test si sono svolti diversi periodi di presa dati (detti run), molti dei quali utilizzati

per il settaggio degli strumenti e solo alcuni, invece, per lo studio effettivo del prototipo; di questi ultimi ci

concentreremo su quelli effettuati con elettroni incidenti a 50 GeV e 100 GeV. L’analisi dati si è svolta intera-

mente con l’utilizzo del software ROOT [5].

4.1 Risposta del prototipo

L’utilizzo di due odoscopi e di un terzo posizionato di fronte al prototipo ha permesso un ottimo allineamento

e una distribuzione uniforme del fascio incidente. In questo modo è stato possibile sondare la risposta del

cristallo in ogni sua parte e nelle zone limitrofe, anche se ci si è concentrati soprattutto sulla regione centrale

per poter analizzare meglio il comportamento delle singole fibre.

I piccoli disallineamenti residui sono stati corretti in fase di analisi dati: pertanto la posizione del punto di

incidenza dell’elettrone è stata determinata come

X = -0.5 · (position_X1 + position_X2) + (XTable - 194)

Y = -0.5 · (position_Y1 + position_Y2) - (YTable - 254)

dove positionX1 è la posizione del cluster nella coordinata x data dal primo odoscopio a cui è stata aggiunta

una costante correttiva. In modo analogo sono definite le altre tre variabili “position”: per le quantità in x la

costante è -2.15, per quelle in y la costante è -0.08. XTable e YTable sono le coordinate della posizione del

tavolo espresse in mm.

Le immagini ottenute in Fig. 4.1-4.2 (a sinistra) sono la sovrapposizione dei diversi run effettuati all’energia

stabilita e sono confrontabili con quelle ottenute dalla simulazione (a destra): sebbene ci sia una certa unifor-

mità, nel test si è sondata soprattutto la zona occupata da cristallo, mentre per la simulazione si è preferito

distribuire in modo omogeneo gli elettroni incidenti anche nelle zone limitrofe. È da notare un leggero vuoto

accidentale di informazioni nella parte in basso a sinistra, indicato con un cerchio rosso.

Figura 4.1 La posizione del punto di impatto nel test (a sinistra) e nella simulazione (a destra) per i run a 50

GeV. Il quadrato nero indica il bordo del cristallo.

20

Figura 4.2 La posizione del punto di impatto nel test (a sinistra) e nella simulazione (a destra) per i run a

100 GeV. Il quadrato nero indica il bordo del cristallo.

Con queste migliorie nel setup sperimentale si è andati a studiare di nuovo l’efficienza luminosa, sia global-

mente, sia per le singole fibre. In Fig. 4.3-4.4 vi è il confronto tra quanto ottenuto e quanto atteso dalla simu-

lazione per quello che riguarda la risposta globale del prototipo in funzione della posizione di incidenza degli

elettroni. Come detto, l’asimmetria che si riscontra è solo dovuta ad un’accidentale mancanza di dati e non ad

altri tipi di problemi. Il profilo all’interno della fascia colorata in viola-blu combacia perfettamente con la zona

dove era posizionato il cristallo, ed è possibile notare le smussature ai vertici che ospitano le fibre ottiche:

risulta chiaramente come l’allineamento sia riuscito in modo ottimale.

Considerando che la distribuzione delle particelle era all’incirca uniforme, la cintura viola-blu (poca energia

rivelata) che circonda il prototipo, evidenzia una regione in cui c’è assenza di materiale scintillante: si tratta

infatti della separazione tra il W-CeF3 e i cristalli di BGO (che possono notarsi come le zone in azzurro

all’esterno). Questo “buco” dovrebbe essere colmato considerando il prototipo nella sua configurazione finale,

ovvero circondato da altri moduli dello stresso materiale tutti a contatto tra loro.

Figura 4.3 La risposta del prototipo in funzione della posizione di impatto a 50 GeV.

21

Figura 4.4 La risposta del prototipo in funzione della posizione di impatto a 100 GeV.

È da notare, infine, l’ottima corrispondenza tra la simulazione (a destra) e quanto ottenuto dall’analisi dei dati

raccolti (a sinistra), in entrambi i casi è ben visibile il profilo del modulo e la risposta data è simile. Le piccole

differenze che si possono osservare sono solo due:

Nella simulazione i cristalli di BGO sono più esterni e meno evidenti che nella realtà; ma questo è

dovuto al fatto che si è scelto di implementare con minor accuratezza questi componenti;

La zona centrale rossa è più piccola nella simulazione. Questa discrepanza è da ricondursi al numero

di eventi simulati: con un numero maggiore si avrebbe avuto un maggiore accordo ed inoltre si sareb-

bero riempiti i pixel bianchi della simulazione.

Le considerazioni appena fatte risultano più evidenti se andiamo ad analiz-

zare il profilo di risposta in funzione della posizione. Consideriamo quindi

le Fig. 4.3 e 4.4 e immaginiamo di prendere due strisce sottili, una centrata

sull’asse x e l’altra sull’asse y (cfr. Fig. 4.5): otteniamo la Fig. 4.6 in cui

abbiamo i profili di risposta in funzione della posizione del punto di im-

patto proiettato sugli assi; i punti in blu sono ricavati dai dati mentre quelli

rossi sono stati ricavati dalla simulazione. Possiamo vedere come nella si-

mulazione la parte piatta centrale sia leggermente più stretta (specie nei

run a 100 GeV), creando la piccola discrepanza, evidenziata nei cerchi

gialli, fra le due curve che era visibile anche nei grafici precedenti.

Molto evidente è la differenza tra le code esterne, dove la crescita

dell’energia percepita dovuta ai cristalli di BGO è molto più netta nei dati

che nella simulazione (ovali rossi): nei primi i picchi esterni di energia ar-

rivano ad essere anche il 40% del picco centrale rivelato dal prototipo, men-

tre nella simulazione risultano essere invece poco più del 10%. Come pre-

cedentemente spiegato, questa differenza è dovuta al fatto che i cristalli di BGO sono stati inseriti nel pro-

gramma con meno accuratezza.

Infine, nell’ovale verde è visibile la lacuna di informazioni nella zona con x inferiore a 10 mm.

Complessivamente, comunque, la corrispondenza tra dati e simulazione è eccellente.

Figura 4.5 Le regioni selezio-

nate per i grafici successivi.

22

Figura 4.6 I profili di risposta proiettati sugli assi x e y. I punti in blu sono ricavati dai dati, mentre quelli rossi

dalla simulazione. Negli ovali colorati sono evidenziati alcuni esempi di discrepanza fra le curve.

Proseguendo nell’analisi si è deciso di studiare le risposte delle singole fibre, che sono visibili in Fig. 4.7 (per

i run a 50 GeV) e in Fig. 4.8 (per i run a 100 GeV).

È ben visibile come ogni fibra percepisca l’energia rilasciata dagli elettroni indipendentemente dalla posizione

di impatto nel cristallo: è, infatti, evidenziata l’intera regione occupata dal prototipo e la fascia che la circonda;

ma è altrettanto evidente come la quantità di energia percepita da ogni fibra dipenda fortemente dal punto di

incidenza: più vicino è alla fibra e maggiore è l’energia raccolta. Bisognerà quindi tenere conto che l’efficienza

luminosa non è uniforme qualora si adoperasse questa soluzione per l’effettiva rivelazione di particelle.

Un passo avanti si otterrebbe conoscendo la funzione che regola l’efficienza luminosa in dipendenza della

posizione. A prima vista non è facile riconoscere una funzione analitica che ricalchi la forma “a goccia” che

possiamo vedere nei grafici: su questo punto ritorneremo in seguito quando parleremo della ricostruzione della

posizione partendo dall’energia raccolta da ciascuna fibra.

Bisogna anche notare come la fibra numero 3, quella in basso a sinistra, mostri un comportamento diverso

dalle altre, specie nei run a 100 GeV. La fibra in questione dimostra di percepire un’energia maggiore rispetto

alle altre nella regione vicino ad essa: come è ben evidente nella Fig. 4.8 le zone in giallo e in verde chiaro

della fibra 3 sono più estese di quelle delle altre tre fibre, che invece hanno un comportamento simile tra loro.

Anche le porzioni in arancione-rosso sono più grandi per questa fibra che per le altre.

23

Figura 4.7 Le risposte delle quattro fibre a 50 GeV.

Figura 4.8 Le risposte delle quattro fibre a 100 GeV.

24

Figura 4.9 Il segnale raccolto dalle fibre in funzione della distanza, a sinistra per i run a 50 GeV e a destra per

i run a 100 GeV. La fibra numero 3 è quella in giallo, ed è evidente la discrepanza con le altre soprattutto per

piccole distanze.

Per capire meglio ciò che succede abbiamo associato ad ogni punto la sua distanza da ogni fibra e l’energia

rivelata da ciascuna di esse e abbiamo fatto un grafico posizione-energia per ogni fibra, sovrapponendoli per

poterli confrontare. I due grafici ottenuti sono riportati in Fig. 4.9. La fibra numero 3 è quella raffigurata con

il colore giallo. Mentre le prime tre fibre ottiche hanno un andamento molto simile, l’ultima se ne discosta: per

piccole distanze dalla fibra si vede come percepisca molta più energia delle altre e come abbia il picco di

energia prima; per elettroni a 50 GeV già dopo 5 mm, appena dopo il picco delle tre fibre, il comportamento

anomalo cessa, uniformandosi alle altre. Per elettroni a 100 GeV, invece, sebbene l’andamento dopo il picco

sia simile, l’anomalia si uniforma solo nella parte finale. Questo diverso comportamento sembra quindi dipen-

dere dall’energia, giustificando così le risposte delle fibre, tuttavia il motivo principale per cui è accaduto

questo non è ancora chiaro: è probabile che sia dovuto ad una fibra difettosa o ad un posizionamento diverso

della stessa nel prototipo.

4.2 Ricostruzione della posizione

Il passo successivo è stato cercare di ricostruire la posizione di impatto partendo dall’energia percepita da

ciascuna fibra. Come accennato nel paragrafo precedente, nessuna funzione analitica sembra ricalcare la forma

“a goccia” riconoscibile nei grafici dell’energia rilevata da ogni fibra; si è quindi dovuto procedere per tentativi,

cercando dapprima una funzione adatta e successivamente cambiando radicalmente approccio.

La prima e più semplice idea implementata è stata l’utilizzo di una media pesata:

X = E0 · X0 + E1 · X1 + E2 · X2 + E3 · X3

E0 + E1 + E2 + E3

Y = E0 · Y0 + E1 · Y1 + E2 · Y2 + E3 · Y3

E0 + E1 + E2 + E3

dove Xi e Yi sono le coordinate dell’i-esima fibra e Ei l’energia associata. In questo modo si costruisce una

specie di “baricentro” per ogni particella: più essa è caduta vicino ad una angolo e maggiore dovrebbe essere

25

l’energia associata alla fibra corrispondente; mediando quindi tra tutte le energie si dovrebbe poter ottenere

una buona stima della posizione del punto di incidenza. Il risultato è visibile (per i run a 100 GeV) in Fig. 4.10.

Come è evidente, questa soluzione non funziona appieno: ci aspetteremmo una distribuzione uniforme simile

alle Fig. 4.1-4.2, ma così non è. Infatti, l’utilizzo di queste formule richiederebbe che l’energia variasse in

modo lineare; non essendo il nostro caso, vista la forma “a goccia”, il contributo delle fibre più lontane diventa

trascurabile non permettendo un’adeguata ricostruzione: i punti nella zona centrale vengono centrati in (0,0) e

quelli più esterni vengono riposizionati sulle due diagonali del cristallo.

Come ulteriore tentativo abbiamo provato a modificare le formule riportate sopra usando altre funzioni

dell’energia, cioè varie potenze e il logaritmo, ma senza ottenere risultati migliori.

L’idea successiva ad essere implementata, per escludere eventuali problemi dovuti alle coordinate delle fibre,

è stata una rotazione di 45° del sistema di riferimento: con l’utilizzo della matrice di rotazione

(cos θ − sin θsin θ cos θ

), ponendo θ = 45°, si sono svolti i calcoli nel nuovo sistema di riferimento, in cui le fibre

sono posizionate agli estremi degli assi x’ e y’. Purtroppo anche in questo caso non si è ottenuto il risultato

sperato, escludendo comunque che il problema fosse dovuto alle coordinate delle fibre.

Nella Fig. 4.11 sono riportati alcuni esempi del lavoro svolto. Con l’aumentare della potenza abbiamo un

abbassamento del picco centrale e una ridistribuzione dei punti nel cristallo, fino alla scomparsa completa del

picco; rimane sempre presente la tendenza a ricostruire la posizione vicino alla diagonale. Al contrario, per

piccole potenze (radice quadrata), il picco aumenta, rimpicciolendo la zona in cui vengono ricostruiti i punti.

Rientra in quest’ultimo caso anche il logaritmo naturale.

Anche cambiando il sistema di riferimento non otteniamo miglioramenti apprezzabili: la modifica nell’algo-

ritmo di analisi amplia la zona del picco centrale e la superficie in cui viene ricostruito almeno un punto. Poiché

non era stata imposta nessuna condizione sul fatto che un punto ricostruito dovesse essere all’interno del cri-

stallo, si può notare la figura romboidale che esce dai bordi dell’immagine anziché un quadrato 24⨉24 mm2.

Figura 4.10 Primo tentativo di ricostruzione.

26

Figura 4.11 Alcuni esempi delle prove fatte della ricostruzione della posizione.

Visti i risultati insoddisfacenti si è deciso di abbandonare questa strada e cambiare approccio.

Se è possibile rappresentare l’energia rilevata da ogni fibra con una funzione strettamente monotona, qualun-

que sia la sua forma, ogni valore di energia definisce un unico punto nello spazio. In realtà, poiché siamo nello

spazio a due dimensioni della superfice del cristallo, un valore di energia definisce solo la distanza rispetto alla

fibra. Se il profilo di risposta della fibra in questione è indipendente dalla direzione, la distanza trovata defini-

sce una circonferenza centrata sulla fibra, tale che ogni punto appartenente ad essa produce la medesima ri-

sposta nella fibra.

Consideriamo ora due circonferenze create in questo modo: idealmente dovrebbero intersecarsi in due punti o

essere al più tangenziali (se il punto di incidenza da ricostruire era il punto medio della distanza tra le fibre

considerate). Se inoltre consideriamo solo le circonferenze vicine e non due circonferenze opposte, uno dei

punti di intersezioni sarà all’interno del quadrato 24⨉24 mm2 definito dal cristallo, mentre l’altro sarà

all’esterno. Il motivo per cui siamo interessati a due circonferenze vicine è il fatto che in questa configurazione

sfruttiamo le informazioni provenienti dalle fibre che hanno misurato un’energia maggiore e quindi, poiché 𝜎(𝐸)

𝐸∝

1

√𝐸 , con una maggiore precisione. Con tutte queste osservazioni, dovremmo essere in grado quindi di

ricostruire il punto di impatto partendo dalla luce raccolta da due fibre vicine. Vediamo ora se possiamo uti-

lizzare questo metodo e che risultati otteniamo.

Rotazione

27

Innanzi tutto è necessario conoscere la forma della risposta delle fibre per verificare che abbia un andamento

strettamente monotono e che non dipenda dalla direzione. Infatti dai grafici delle Fig. 4.7-4.8 non è chiaro se

le zone colorate in modo uguale producano la stessa risposta nelle fibre, o l’uniformità sia dovuta semplice-

mente al modo di riempire il grafico da parte del programma. In Fig. 4.12 possiamo vedere i profili di risposta complessivi delle fibre, indipendentemente dalla direzione.

Da questi grafici capiamo perché le funzioni che avevamo utilizzato in precedenza non fossero corrette: nes-

suna di esse era effettivamente simile al profilo di risposta. Possiamo anche concludere che le uniformità nelle

zone colorate a cui abbiamo accennato sopra, siano dovute unicamente al programma di grafica, non abba-

stanza sensibile alle minime variazioni di dati.

I quattro profili sono molto simili, sebbene la quarta fibra fosse sembrata differente dalle altre: normalizzando

i risultati troviamo che nonostante l’anomalia riscontrata il profilo di risposta è lo stesso per tutte. Vediamo

inoltre che la forma della curva è generalmente una funzione monotona decrescente, tranne che nei punti indi-

cati negli ovali rossi; infatti, in queste zone è presente un minimo relativo, all’incirca a 23 mm di distanza da

ogni fibre. Il motivo di questo minimo non è stato identificato, e, in teoria, renderebbe impossibile continuare

per questa strada, ma con le dovute osservazioni potremo procedere comunque:

Il minimo è solo un piccolo discostamento dalla curva e se lo “eliminassimo” rendendo il profilo più

omogeneo, l’errore commesso non sarebbe grande;

È situato distante dalla fibra che lo riguarda, oltre il centro del cristallo che è a circa 17 mm. È quindi

verosimile che questa parte di curva non rientri mai nell’algoritmo di analisi, perché siamo intenzionati

ad usare le informazioni delle due fibre con la risposta più alta, che sono anche le due più vicine, e

difficilmente dovremo usare le informazioni provenienti dalla parte oltre la metà del cristallo.

Con queste annotazioni si è deciso di procedere e di verificare la dipendenza della risposta dalla direzione.

Basta osservare la Fig. 4.7 per vedere che la forma “a goccia” implica una dipendenza, altrimenti avremo degli

archi di circonferenza concentrici. Una conferma è data dalla Fig. 4.13, dove abbiamo il profilo di risposta di

una fibra in due diverse direzioni: sebbene abbiano un andamento simile, ci sono delle discrepanze nei valori

di energia per una stessa distanza.

Figura 4.12 Il profilo di risposta complessivo delle quattro fibre. I grafici sono stati normalizzati.

28

L’unico modo per andare avanti è fare un’ulteriore approssimazione: poiché non è possibile usare il profilo di

risposta corretto per ogni direzione senza conoscerla a priori, dobbiamo accontentarci di utilizzare il profilo

complessivo approssimando la funzione di risposta come indipendente dalla direzione.

Gli accorgimenti adottati, si sono resi necessari per provare a procedere con la ricostruzione della posizione:

il test svolto al CERN aveva come obbiettivo la risoluzione dei problemi precedentemente riscontrati e non ci

si è focalizzati sul passo successivo. Pertanto le considerazioni che abbiamo appena fatto saranno utili nei

futuri test, che invece avranno come scopo anche lo studio della ricostruzione della posizione di incidenza.

Non dobbiamo quindi stupirci di aver dovuto fare tante approssimazioni, visto che i dati non erano ottimali per

il nostro obbiettivo.

Dopo queste necessarie considerazioni preliminari, vediamo quindi i risultati ottenuti.

Si sono fatti diversi tentativi, cambiando numerose volte l’algoritmo, in particolare:

Profilo di risposta: all’inizio si è usato quello complessivo del cristallo, passando poi ad utilizzare

quelli delle singole fibre. Un miglioramento importante si è ottenuto facendo un’interpolazione sui

punti dei profili per poter lavorare con una funzione continua piuttosto che discreta;

Fibre coinvolte: abbiamo impiegato diverse soluzioni partendo dall’utilizzo delle informazioni delle

due più vicine (cioè con una maggiore energia rivelata), ma passando ad altre configurazioni che da-

vano risultati migliori. Ad esempio: le due fibre opposte o quelle di uno stesso lato, oppure anche le

due fibre con una risposta minore. In questi casi il minimo relativo di cui si è parlato prima non è più

trascurabile, ed infatti nei grafici finali si possono notare delle zone con assenza di punti ricostruiti.

Figura 4.13 Il profilo di risposta della seconda fibra in due diverse direzioni: diagonale e orizzontale.

Figura 4.13 Uno dei grafici ottenuti durante l’analisi dati; si può notare la discretizzazione nella distribuzione

dei punti.

29

In Fig. 4.14 sono riportati i risultati finali ottenuti per i run, quelli a 50 GeV a sinistra e quelli a 100 GeV a

destra. Come è ben visibile i risultati non sono comparabili con le Fig. 4.1-4.2. L’utilizzo dell’interpolazione

ha permesso un netto miglioramento dell’uniformità rispetto alle prime fasi di analisi (cfr. Fig. 4.13), ma non

ha eliminato il minimo relativo, causa principale delle zone vuote, in particolare a 50 GeV. Si possono notare

anche gli archi di circonferenza dell’algoritmo di ricostruzione, evidenziati dalle porzioni non ricostruite.

I principali difetti riscontrati sono due: pochi punti ricostruiti e lo spostamento del picco centrale. Purtroppo

con il nostro algoritmo molti punti non vengono ricostruiti perché solo poche circonferenze si intersecano.

Inoltre bisogna considerare che le fibre non hanno un profilo di risposta perfettamente identico: se fossero tutte

uguali avremmo un picco nel centro, ma a causa di queste differenze è più probabile che i punti ricostruiti

siano più vicini alla fibra che ha una risposta più alta, provocando così una traslazione del picco.

Si ipotizza che con un numero maggiore di eventi ricostruiti si sarebbe ottenuto un risultato più simile a quanto

aspettato; infatti, come possiamo vedere dal confronto dei grafici alle diverse energie, più eventi si hanno, più

tendono a riempire il grafico.

Per verificare la bontà dei nostri risultati possiamo confrontare i punti ricostruiti con quelli effettivamente

rivelati; la comparazione è illustrata nelle Fig. 4.15-4.16.

Il confronto è stato diviso nelle due coordinate: indicheremo con l’apice le quantità ricostruite con il nostro

algoritmo. Per prima cosa possiamo vedere i grafici x vs x’ (e y vs y’): idealmente dovremmo avere una retta

con una pendenza di 45°, ed effettivamente la parte centrale si avvicina abbastanza, mentre agli estremi la

curva si appiattisce asintoticamente. Complessivamente è un buon risultato che mostra una certa correlazione

e conferma la tendenza a ricostruire meglio i punti nella parte centrale piuttosto che nelle zone più esterne.

In secondo luogo vediamo i grafici x-x’ (e y-y’); una porzione di punti non viene ricostruita correttamente,

quelli che abbiamo dedotto essere i più esterni. È stato possibile fare un fit con delle gaussiane, che sono

risultate essere centrate vicino a 0, e con dei valori di σ minori di 12 mm

√12: i punti ricostruiti tendono a cadere

all’interno del quadrato definito dal cristallo, evidenziando una non casualità nel metodo; infatti tale valore

sarebbe atteso nel caso di una ricostruzione completamente casuale.

Valore di σ Valore medio

Asse x (50 GeV) 2.706 -0.2048

Asse y (50 GeV) 2.695 -0.1484

Asse x (100 GeV) 2.502 -0.4136

Asse y (100 GeV) 2.577 -0.1492

Tabella 1 I risultati dei fit in Fig.4.15-4.16.

Figura 4.14 La ricostruzione della posizione di incidenza per i run a 50 GeV e a 100 GeV.

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Figura 4.15 Confronto tra i risultati ottenuti e quelli attesi per 50 GeV. A sinistra per la coordinata x (x vs x’

sopra e x-x’ sotto) e a destra per la coordinata y (y vs y’ sopra e y-y’ sotto).

Figura 4.16 Confronto tra i risultati ottenuti e quelli attesi per 100 GeV. A sinistra per la coordinata x (x vs x’

sopra e x-x’ sotto) e a destra per la coordinata y (y vs y’ sopra e y-y’ sotto).

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5 Conclusioni

Lo scopo di questa tesi era di presentare e studiare un nuovo prototipo di calorimetro a campionamento, can-

didato a sostituire parte dell’attuale calorimetro elettromagnetico del rivelatore CMS. Sono state analizzate le

caratteristiche principali del prototipo, e come queste possano risolvere il problema dei danni dovuti all’irrag-

giamento. Partendo dai risultati ottenuti dal primo test di Frascati, si sono analizzati quelli del secondo test di

Ginevra, per studiare in modo approfondito l’uniformità di risposta del cristallo ed estendere la nostra cono-

scenza sul comportamento del prototipo ad energia più elevate e più vicine a quelle che saranno realmente in

gioco ad LHC. Si è fatto poi un ulteriore passo avanti nello studio di tale prototipo, cercando dei metodi per la

ricostruzione della posizione del punto di incidenza delle particelle: alcuni sono apparsi più promettenti di altri,

ma non si è potuto dare un metodo certamente funzionante, poiché la raccolta dati del secondo test non era

stata ottimizzata per questo scopo. Si sono comunque ricavate preziose indicazioni per i test che verranno

svolti in futuro. In queste occasioni, si implementeranno matrici 4⨉4 interamente costituite dai nuovi moduli,

per studiare il contenimento laterale del fascio e il comportamento del prototipo in una configurazione più

simile a quella dell’eventuale detector. Verranno anche testati diversi rapporti di spessore tra i piani sensibili

e quelli assorbitori e un diverso tipo di fibre ottiche più resistenti alle radiazioni. Con un maggior numero di

cristalli a disposizioni, e quindi di fibre ottiche, sarà il momento giusto per focalizzarsi sulla ricostruzione dei

punti di incidenza e migliorare la nostra conoscenza sul prototipo.

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Bibliografia

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CMS calorimetry at the High-Luminosity LHC, PhD seminar, Zurigo (30 August 2013).

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[8] AA.VV., Experiments, http://home.web.cern.ch/about/experiments.

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Ringraziamenti

Desidero ricordare tutti coloro che mi hanno supportato in questi anni con suggerimenti, critiche ed osserva-

zioni: a loro va la mia gratitudine e il mio riconoscimento.

Innanzi tutto vorrei ringraziare la mia famiglia, in particolare i miei genitori, che mi sono stati vicini nonostante

la distanza e per la possibilità che mi hanno dato.

Un grazie di cuore va ad Ivana, per avermi aiutato in tutto quello che ho fatto ed essermi stata sempre vicina.

Ringrazio gli amici, vecchi e nuovi, i compagni di corso e di judo, per avermi fornito idee, spunti di riflessione,

aiuti, in ogni forma possibile.

Infine vorrei ringraziare la Dott.ssa Myriam Schönenberger per avermi fornito tutti i dati e le informazioni sul

secondo test necessari al lavoro di questa tesi.