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monografia Made in Italy Architetture Rivelate 04 2010

TAO-04

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TAO – Transmitting Architecture Organ. Magazine monografico OAT. Made in Italy

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Page 1: TAO-04

monografia

Made in ItalyArchitetture Rivelate

04 2010

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Direttore responsabileRiccardo Bedrone

CoorDinatore reDazionaleLiana Pastorin [email protected]. +39 0115360513

reDazione Via Giolitti, 1 - 10123 TorinoTel +39 0115360514Fax +39 011537447www.to.archiworld.it

Raffaella Bucci [email protected] Garda [email protected] Lecchi [email protected]

art DireCtorFabio Sorano - Lorem

impaginazioneDavide Musmeci - Lorem

FotograFieI materiali iconografici e le fotografie provengono dagli autori, salvo dove diversamente specificato. La Fondazione OAT è a disposizione degli aventi diritto per eventuali fonti iconografiche e fotografiche non identificate e si scusa per eventuali involontarie inesattezze e omissioni.

stampaUnoprintBorgata Tetti Piatti, 2 - 10024 Moncalieri (TO)

pubbliCità[email protected]

Web versionSimona Castagnotti

Foto Di CopertinaItalian Americans – Ralph Iodice at the San Silverio Shrine of Dover Plains, New York, USA, 2008Carlotta Maitland Smith

La mostra Italian Americans documenta una comunità di italiani provenienti dall’Isola di Ponza ed emigrati a New York negli anni ’20. Nonostante il tempo e la distanza sono ancora uniti da un incredibile amore per la loro isola e da una forte devozione al loro santo patrono San Silverio.Dopo Parigi (17 febbraio - 17 marzo 2010) la mostra sarà trasferita a Roma e allestita alla Galleria Micro.

Periodico di informazione della Fondazione dell’Ordine degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Torinon. 4/2010Registrato presso il Tribunale di Torino con il n. 51 del 9 ottobre 2009

Le informazioni e gli articoli contenuti in TAO riflettono esclusivamente le opinioni, i giudizi e le elaborazioni degli autori e non impegnano la redazione di TAO né l’Ordine degli Architetti PPC della Provincia di Torino né la Fondazione OAT

TAO n.4/2010www.taomag.it

Consiglio oatRiccardo Bedrone, presidenteMaria Rosa Cena, vicepresidenteGiorgio Giani, segretarioFelice De Luca, tesoriere

ConsiglieriMarco Giovanni AimettiRoberto Albano Sergio CavalloPier Massimo CinquettiFranco FranconeGabriella GeddaMaria Adriana GiustiElisabetta MazzolaGennaro Napoli Carlo NovarinoMarta Santolin

Direttore oatLaura Rizzi

Consiglio FonDazione oatCarlo Novarino, presidenteSergio Cavallo, vicepresidente

ConsiglieriRiccardo BedroneMario CarducciGiancarlo FalettiEmilia GardaIvano Pomero

Direttore Fondazione oatEleonora Gerbotto

Si ringraziaSerena Pastorino

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Indice

2 Contributors 4 Comitato scientifico 5 L’Italia creativa edItorIale dI rIccardo Bedrone

Italiani 8 Vivere fra due mondi ermInIa dell’oro 10 L’italiano globale Il sondaggIo

12 'Luogocomunismo' e outlet color ocra davIde Banfo

14 Torinesi del mondo e il mondo a Torino IntervIsta a loredana IonIta, juraj valcuha, allegra hIcks, laura tonatto

Capitali 20 Italia fuori Italia rIccardo Bedrone 23 Capitali italiane nel Mondo 24 Le vie dell’Oriente. Istanbul roBerta ferrazza 25 Il piano regolatore di Tripoli ezIo godolI 26 Una piccola Italia in Cina gIulIo machettI 27 Il teatro Colón a Buenos Aires edgardo salamano 28 New York e le Little Italy lorena BarI 29 Berlino, nuova capitale italiana? alvIse del pra' 30 Migrazioni italiane e segni italiani maddalena tIraBassI

Italici 36 La Ferrari come modello da esportare gIannI roglIattI 40 100% Made in Italy pasquale de angelIs 42 Una lezione di francese crIstIano seganfreddo 44 Gli italici: una nuova comunità glocale pIero BassettI

46 Roundabout48 Un dialogo per immagini

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DAVIDE BANFOGiornalista torinese, ha iniziato come professionista alla Gazzetta del Popolo. Da vent’anni è a La Re-pubblica, dove ha lavorato nelle redazioni di Torino, Bari e nella sede centrale di Roma. Attualmente si occupa delle edizioni locali del sito internet. Insegna tecniche e linguaggio multimediali presso il master di Giornalismo di Torino. Tra i suoi interessi l’archi-tettura contemporanea e le trasformazioni urbane. Ha scritto alcune guide per il Touring Club Italiano dedicate al Piemonte e alla Valle d’Aosta.

LORENA BARIGiornalista televisiva. Lavora a Canale 5 e si occupa di arte, architettura, design, comunicazione. Rela-trice in diverse conferenze, tiene lezioni in numerosi istituti italiani. Considera le arti come laboratorio antropologico, analizzando l’oggetto culturale in tutte le sue sfaccettature: dalla produzione alla me-diazione, al consumo, per comprendere i processi di decodifica (e costruzione) da parte dell’utente. Attualmente si interessa dei meccanismi della co-municazione televisiva del costume.

PIERO BASSETTI È presidente di Globus et Locus, associazione atten-ta alla dialettica tra globale e locale, e della Fonda-zione Giannino Bassetti, che studia la ‘responsabilità nell’innovazione’. È stato consigliere e assessore del Comune di Milano, primo presidente della Regione Lombardia e deputato al Parlamento Italiano; è stato inoltre presidente della Camera di Commercio Indu-stria e Agricoltura di Milano, dell’Unione delle Camere di Commercio Italiane e dell’Associazione delle Ca-mere di Commercio Italiane all’estero.

ERMINIA DELL’OROÈ nata ad Asmara, in Eritrea, dove suo nonno pa-terno si stabilì nel 1896. È autrice di numerosi repor-tage dal suo Paese d’origine, anche come inviata durante la guerra Eritrea-Etiopia. Ha lavorato per quindici anni nella storica Libreria Einaudi di Milano. Ha scritto libri per adulti, ragazzi e bambini, affron-tando anche le tematiche del colonialismo italiano, della Shoà, delle guerre e delle recenti immigrazioni; sono frequenti i suoi incontri con gli studenti delle scuole primarie e secondarie.

ALVISE DEL PRA'Laureato in Storia presso l’Università degli Studi di Milano, attualmente è ricercatore presso il Centro Altreitalie della associazione Globus et Locus. In passato si è occupato di temi attinenti alle migra-zioni storiche e contemporanee, ha lavorato come giornalista e traduttore a Berlino. È autore di Nuove mobilità europee e partecipazione politica. Il caso degli italiani a Berlino (Altreitalie 36-37, 2007) e di Giovani italiani a Berlino: nuove forme di mobilità europea (Altreitalie 33, 2006)

PASQUALE DE ANGELIS Dal 1989 è amministratore delegato e responsabile commerciale della S.EL.DA. INFORMATICA, leader sul territorio nazionale nel software gestionale per fotolaboratori industriali e aziende ortoflorovivaiste. Docente in molti corsi privati di discipline informa-tiche e aziendali, ha acquisito un’ampia esperien-za in ambito associativo e politico. Attualmente è vicepresidente dell’Istituto di Tutela dei Produttori Italiani (ITPI) e membro della Commissione Provin-ciale per l’Artigianato di Ascoli Piceno (CPA).

ROBERTA FERRAZZAIn qualità di storica dell’arte e funzionaria del Mi-nistero per i beni culturali, ha lavorato per molti anni a Firenze come curatrice e nel campo della didattica museale per bambini e per adulti. Dal 2002 al 2007 ha lavorato come addetto culturale e vicedirettrice presso l’Istituto italiano di cultura di Istanbul, dove ha avuto l’opportunità di con-durre ricerche approfondite e di curare testi sulla comunità italiana di Istanbul. Dal 2007 è direttrice dell’Istituto italiano di cultura di Lubiana.

EZIO GODOLIProfessore ordinario di Storia dell’architettura presso l’Università di Firenze dal 1987, negli ultimi anni ha partecipato a progetti di ricerca sull’opera degli architetti europei nei Paesi della riva meridio-nale del Mediterraneo. Dal 2008 ha organizzato tre esposizioni promosse dal Ministero italiano degli affari esteri sull’opera degli architetti italiani in Si-ria e Libano, in Egitto e in Marocco. Ha promosso inoltre cicli di convegni sulla presenza degli archi-tetti italiani nei Paesi del Mediterraneo.

ALLEGRA HICKSNata a Torino, ha studiato Design a Milano e Belle arti a Bruxelles, prima di trasferirsi negli Stati Uniti, dove ha iniziato la sua carriera nel settore dell’ar-te. Ormai rinomata per l’arredamento d’interni, nel 1998 ha dato vita alla prima serie di Kaftani. Attualmente vive a Londra e disegna collezioni di tappeti e tessuti, d’abbigliamento femminile e per la casa. Autrice di Design Alchemy con Ashley Hicks (Conran Octopus), pubblicherà nel 2010 En eye for design (Abrams).

contributors

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LOREDANA IONITANata nel 1972 a Bacau (Romania), è in Italia dal 2001. Torinese ‘di adozione’, avvocato, professore all’agenzia formativa TuttoEuropa ove preceden-temente ha conseguito un master in Traduzione giuridico-amministrativa per l’UE. Specializzata in mediazione culturale, ambito penale giudiziario. Nel percorso di integrazione ha svolto diverse at-tività lavorative (interprete, traduttrice, mediatrice culturale), prima di diventare il primo legale rumeno iscritto all’Albo forense nel capoluogo piemontese.

GIULIO MACHETTIInsegna Storia contemporanea presso l’Univer-sità degli studi di Napoli L’Orientale. Dalla fine del 2001 è consigliere di amministrazione della società partecipata S.i.re.na. cittàstorica. I suoi interessi di ricerca si sono orientati sullo studio della struttu-ra sociale, economica e politica del Mezzogiorno d’Italia tra età crispina e fascismo e sulla mobilità sociale in epoca contemporanea. Attualmente co-ordina con Brunella Como una ricerca sulla storia dell’ex-concessione italiana a Tianjin.

CLAUDIO MELLANAVignettista, dalla fine degli anni ’60 pubblica su rivi-ste underground e di controcultura alcune delle quali ha partecipato a far nascere: Ca Balà, Puzz, Gero Zoom, Pelo & Contropelo. È autore di contributi su riviste e giornali tradizionali come Paese Sera, La Stampa, Stampa Sera, l’Unità, Radiocorriere, Pia-neta, ABC, Novasocietà, Gong, Il Collezionista. Nel 1991, insieme a Dino Aloi, per Feltrinelli, pubblica Un lavoro da ridere nel centenario delle Camere del La-voro di Torino, Milano e Piacenza.

GIANNI ROGLIATTITorinese del 1929, giornalista, direttore editoriale de La Manovella, ha iniziato a scrivere nel 1959 interessandosi al mondo dell’auto a 360 gradi ed in particolare alla Ferrari, grazie allo stretto rappor-to instaurato sin dal 1956 con il fondatore Enzo Ferrari e successivamente con il figlio Piero e con l’attuale presidente Luca di Montezemolo. Sulla Casa di Maranello ha scritto molti libri e articoli e la storia ufficiale edita nel 2007 in occasione del 60° anniversario del primo esemplare prodotto.

EDGARDO SALAMANOLaureato alla Facoltà di Architettura e Urbanistica di Buenos Aires e dottore di ricerca in Pianificazio-ne regionale e progetto urbano presso l’Universi-tà Sorbona di Parigi, ha frequentato la scuola di specializzazione in Urbanistica a Berlino. Ha cu-rato mostre e pubblicazioni e ha tenuto lezioni in ambito accademico; si è occupato di urbanistica e pianificazione per numerose istituzioni pubbliche. Attualmente è consulente del Ministero per lo svi-luppo urbano della città di Buenos Aires.

CRISTIANO SEGANFREDDODirettore di Fuoribiennale (piattaforma di sviluppo del contemporaneo), di Innov(e)tion Valley (progetto di pianificazione strategica del Nord-Est come area al mondo con il più alto tasso di industria creativa), e amministratore di Agenzia del Contemporaneo (società di servizi dedicati all’ambito della contem-poraneità, per istituzioni e brand). Curatore di eventi e mostre con una particolare attenzione alle intera-zioni con la moda, il design e l’architettura, in uno stretto rapporto con il tema di impresa-cultura.

MADDALENA TIRABASSIÈ direttore del Centro Altreitalie sulle Migrazioni Italiane (associazione Globus et Locus) e della rivi-sta Altreitalie. Curatrice della mostra itinerante Mi-grazioni italiane esposta in numerose città italiane ed europee, è nel comitato scientifico di Italia 150 per la sezione emigrazione e fa parte del comitato scientifico del Museo dell’Emigrazione di Roma. È stata docente di letteratura angloamericana presso l’Università di Teramo. Ha pubblicato numerosi sag-gi su riviste italiane e straniere e alcune monografie.

LAURA TONATTOTorinese per nascita, ha collaborato con il maestro profumiere Hassan del Cairo e con Serge Kalou-guine. Alla creazione di profumi su misura, affianca un’intensa attività divulgativa, divenendo docente nel master post-laurea in Scienza e tecnologie co-smetiche a Ferrara. Ha sviluppato numerose col-laborazioni con istituzioni culturali (dal Festival del Cinema di Roma all’Hermitage di San Pietroburgo). È stata inoltre insignita di numerosi premi tra cui il Creativity Award 2008 nel Regno Unito.

JURAJ VALCUHANato nel 1976 a Bratislava, in Slovacchia, ha studia-to al Conservatorio Nazionale a San Pietroburgo e a Parigi. Dal 2003 al 2005 è stato direttore assistente presso l’Orchestra e l’Opéra National di Montpellier, debuttando nello stesso periodo con l’Orchestre Nationale de France. Ha diretto le più importanti or-chestre del mondo: Parigi, Lione, Bologna, Londra, Berlino, Pittsburgh, Lipsia, Milano. Dal novembre 2009 è direttore principale dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai.

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comitato scientifico

MARCELLO CINIProfessore emerito di Istituzioni di fisica teorica e di Teorie quantistiche all’Università La Sapienza di Roma, è stato vicedirettore della rivista internazionale Il Nuovo Cimento. Il suo ambito di ricerca interessa prevalentemente lo studio delle particelle elementari della meccanica quantistica e dei processi stocastici. Dagli anni ’70 ha accompagnato questa attività con studi di storia della scienza e di epistemologia, e interventi su varie riviste e sul quotidiano Il manifesto, di cui è tra i fondatori. Tra le sue numerose pubbli-cazioni ricordiamo l’Ape e l’Architetto (1976) scritto insieme a Giovanni Ciccotti, Michelangelo De Maria e Giovanni Jona-Lasinio, Il paradiso perduto (1994), Dialoghi di un cattivo maestro (2001). Ha ricevuto il premio Nonino 2004 “A un maestro italiano del nostro tempo”.

MARIO CUCINELLAArchitetto, ha fondato lo studio Mario Cucinella Architects, a Parigi, nel 1992 e, a Bologna, nel 1999 con la socia Elizabeth Francis. I suoi progetti sono caratterizzati da innovazione tecnologica, salvaguardia ambientale e sostenibilità architettonica; tra i più significativi, il progetto di ricerca sulla casa 100K, il Sino Italian Ecological Building a Pechino e la nuova sede del Comune di Bologna. Ha partecipato a grandi concorsi internazionali, ricevendo numerosi riconoscimenti, tra cui il Mipim Green Building Award 2009 e l’Architectural Review Future Projects Award 2009 a Cannes, Francia. Si dedica inoltre alla ricerca e allo sviluppo di prodotti di design industriale e all’attività didattica, ricoprendo il ruolo di Visiting Professor all’Università di Nottingham e tenendo regolarmente conferenze in Italia e all’estero.

PHILIPPE POTIÉArchitetto, è professore ordinario di Histoire et cultures architecturales a Versailles. Membro del comi-tato di redazione della rivista Le visiteur (Société Francaise des Architectes, SFA) dal 2007, è fondatore della rivista Dessin/Chantier in collaborazione con Cyrille Simonnet (1982). È autore di numerosi saggi e monografie sui temi dell’architettura, della storia delle tecniche costruttive e della rappresentazione di cui, fra le più significative, si segnala Le couvent Sainte Marie de la Tourette, Fondation Le Corbusier/Birkhäuser (bilingue francese-inglese, 2001 – inglese/cinese, 2007). Responsabile nazionale di numerosi gruppi di ricerca nell’ambito della cultura costruttiva, tra cui Le Plan Urbanisme Construction Architectu-re, histoire et devenir d’une politique d’expérimentation, Plan Urbain Construction Architecture, 2007.

CYRILLE SIMONNET Architetto e ricercatore presso il Laboratoire Dessin Chantier a Grenoble (1985-96). Dal 1997 è pro-fessore ordinario di Architettura e arti applicate presso l’Institut d’architecture de Genève, e direttore dello stesso istituto di Ginevra dal 1998 al 2002. Attualmente è professore di Storia dell’arte presso la facoltà di Lettere dell’Università de Genève. Le sue principali pubblicazioni a carattere storico e teorico riconducono ad una lettura dell’architettura come fatto costruttivo e sociale. È referente culturale di una rete di ricerca legata sia all’ambito accademico che professionale (Réseau Cultures Constructives) che organizza convegni e seminari nell’ambito del rapporto fra architettura e tecniche costruttive. È membro del comitato di redazione della rivista FACES (Ginevra). Ha al suo attivo più di cinquanta pubblicazioni oltre alle numerose partecipazioni ad opere collettive.

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l’Italia creativa

Ma si può, oggi, parlare dell’Italia come metafora di crea-tività, cultura, fantasia, insomma di tutto ciò che siamo abi-tuati a pensare di noi stessi, guardando alla nostra gloriosa storia passata?

Già al termine del ‘miracolo economico’ un autorevole osservatore delle nostre attitudini, come Ennio Flaiano, non ci credeva più e scriveva amaramente “fra trent’anni l’Italia non sarà come l’avranno fatta i governi, ma come l’avrà fatta la televisione” e ancora “l’italiano è un tentativo della natura di smitizzare se stessa”.

Questa volta TAO ha voluto provare a verificare se il pes-simismo sia giustificato e condiviso, oppure se sussistano motivi di orgoglio e di speranza, almeno guardando alle testi-monianze che gli italiani hanno saputo esprimere, in passato, di quella creatività che ancor oggi è indissolubilmente intrec-ciata con il marchio Made in Italy.

Lo spunto è offerto dal progetto di mostra Capitali italiane nel Mondo che l’Ordine degli architetti di Torino ha preparato per i festeggiamenti del centocinquantenario dell’Unità d’Ita-lia, nel 2011, e che lo ha portato a scandagliare il contributo di innovazione nei costumi, negli stili di vita, nell’ambiente urbano adattato o creato ex novo dagli italiani all’estero dal 1861 ad oggi. E dagli interventi ospitati sulla rivista sembra prevalere la fierezza di chi riconosce quanto sia stato impor-tante il nostro contributo nel mondo e quanto anche oggi e in futuro possa esser utile e apprezzato.

Certo, c’è chi (Banfo) segnala la perdita delle nostre radici architettoniche come effetto derivato della (in)cultura di massa. Ma c’è anche chi (Bassetti) propone una lettura total-mente nuova dell’italianità e della sua forza innovativa, che

Editoriale di Riccardo Bedrone

preferisce attribuire all’‘italicità’, come idea aggregante di una comunità allargata agli extracomunitari integrati, ai figli degli italiani all’estero, agli ‘italiofili’…

E chi esalta i prodotti italiani come simbolo assoluto di supremazia creativa e tecnica – la Ferrari – e chi si impegna a tutelarli, ritenendoli più che mai valore in sé e come tale patrimonio collettivo da non disperdere. Nello stesso senso si possono intendere le interviste ai ‘nuovi creativi’ che l’Ita-lia produce, come fucina continua di genialità, purtroppo spesso più apprezzate al di fuori dei suoi confini.

Ma, soprattutto, gli interventi qui ospitati di tanti studiosi evidenziano il quadro straordinario che traspare dalle testi-monianze materiali dell’architettura italiana all’estero, in ogni Paese, in ogni latitudine ove, per emigrazione o per aggres-sione, l’Italia abbia messo piede.

Questo perché, come ben sottolinea Tirabassi, se in ter-mini numerici i movimenti migratori presentano cifre impres-sionanti, gli italiani che li hanno alimentati “hanno lasciato profondi segni della loro presenza nelle diverse società. Si tratta di segni diretti, legati alle loro professionalità, architetti, ingegneri e artisti, maestranze, artigiani, scalpel-lini, stuccatori, intagliatori e manovali” con “influenze deri-vate dal continuo intreccio tra migrazioni di professionisti e migrazioni non specializzate”.

Insomma, parrebbe di capire che la creatività, l’inven-tiva, l’estro, la genialità, come caratteristiche peculiari della gente italiana (e non solo dei suoi rappresentanti eccellenti), sopravvivano ancor oggi, nonostante tutto, alla decadenza dei costumi e della morale che ogni giorno di più le pagine di cronaca ci riferiscono tristemente.

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'luogocomunismo' outlet color ocra

davide Banfo

nascono all’estero tante 'piccole Italie', caratterizzate da un modo comune di intendere i luoghi urbani

Italiani

gli abitanti dello stivale

chi è più italiano? chi lo è per nascita o chi lo diventa per scelta? come è possibile veicolare l’italianità nella propria professione?quali stereotipi ci perseguitano?

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vivere fra due mondi

erminia dell’oro

una città descritta come una giostra di lingue, di colori, di profumi.asmara è una città sospesa.solo entrando nel mondo degli altri non sono più stranieri e noi stranieri a loro

quali sono i nomi a cui si riconosce maggiore italianità? esiste un Made in Italy anche in architettura?

l’italiano globale

quattro storie per raccontare chi è italiano, come e dove

laura tonatto

torinesi del mondo e il mondo a torino

allegra hicks

juraj valcuha

loredana Ionita

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Erminia Dell’Oro

vivere fra due mondi

Un tempo, in uno dei luoghi più magici di Asmara, il Caravanserraglio, sostavano le carovane dei cammellieri che risalivano l’al-topiano. Immagino che la notte i mercanti accendessero fuochi per tenere lontane le iene, i leopardi, gli sciacalli. Per cucinare e scaldarsi nelle ore notturne sull’altopiano. Fumavano narghilè e si raccontavano sto-rie, sotto un cielo coperto di stelle.

“Vado al Caravanserraglio”, diceva tal-volta mio padre.

Quando ero bambina credevo che andasse in un luogo incantato, con ani-mali fiabeschi dove soltanto gli adulti potevano entrare. Forse aveva capito che mi ero inventata una fiaba, e non rivelava l’acquisto di ferri vecchi che si trovavano soltanto in quell’immensa fucina.

Mio nonno paterno lasciò la natia Lecco nel 1896, diretto in Congo Belga. Durante la tappa forzata nel porto di Massaua, avendone abbastanza di quel lungo viaggio, sbarcò. L’Eritrea era da pochi anni una colonia italiana. Il giovane e avventuroso Carlo decise di raggiun-gere il grande villaggio posato sull’alto-piano, a duemilaquattrocento metri.

Non c’erano strade, né ferrovia.Salì, immagino, con una carovana di

cammellieri. Mi chiedo se anche lui, nella prima notte ad Asmara, abbia sostato al Caravanserraglio, ascoltando i racconti di altri viaggiatori, e narrando dei luoghi che aveva lasciato. Uno scambio di esperienze e culture diverse come in un bellissimo rac-conto di Italo Calvino ne Le città invisibili.

La mia città è invece sospesa.Sospesa nel tempo, in attesa. Un bal-

cone fiorito, attraversato da uccelli vario-pinti, posato sull’orlo dei precipizi.

Arrivarono ad Asmara, in quel primo Novecento, gli ebrei adeniti che fuggi-vano dalle persecuzioni nello Yemen, arabi yemeniti, indiani, greci, armeni. Architetti italiani costruirono la sinagoga (1906), la cattedrale in stile lombardo con mattoni a vista, la grande moschea, e la bellissima chiesa copta Nda Mariam-Casa di Maria.

Entravo con le amiche nei variopinti negozietti degli indiani, profumati da incensi, compravamo braccialetti di vetro, andavamo a guardare i tessuti sgargianti e le babbucce di seta nei negozi degli ebrei, compravamo datteri e biscotti al

miele nelle bottega di Ahmed e lui, cono-scendoci, ci regalava caramelle.

Nella grande casa di Sansone Banin, con le stanze piene di voci che mesco-lavano parole arabe ebraiche inglesi ita-liane, mi affascinava la figura della nonna. Una signora anziana, vestita sempre con abiti lunghi, orientali, che fumava un lungo narghilé, sdraiata su un divano.

Andavamo al mercato, dal signore dei coralli. Era un uomo dalla lunga barba bianca, seduto con le gambe incrociate, avvolto nella jallabia e con il gilè per met-terci i soldi. Portava il turbante, come tutti i mercanti arabi. Ci vendeva straordinarie perline colorate, aveva tempo e pazienza, il mercante delle mille e una notte.

In quel mercato delle meraviglie, ac-canto alle stradine delle botteghe orien-tali, avevo visto, sulla piazza, un fantoccio che si muoveva nel vento, appeso a uno strano congegno. La donna eritrea che mi accompagnava – ero ancora bambina – mi portò via in fretta, ma io mi voltavo a guardare quella tunica bianca, una vela nell’aria, e sentivo le urla di una povera donna. Avevano impiccato “un bandito”.

8 — Italiani

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Mio padre aveva rapporti di lavoro e di amicizia con imprenditori arabi, indiani, greci, e giocava a scacchi, quasi ogni sera, con un maggiore dell’esercito bri-tannico. Io mi dividevo fra la mia abita-zione e quella della mia amica più cara, di famiglia ebraica.

Andavamo spesso nella casa dei suoi nonni, parlavano spagnolo quando non volevano farsi capire da noi bam-bini. La nonna veniva da Cipro, il nonno dalla Spagna.

C’è sempre quella casa avvolta dalle buganvillee, dove Beniamino Levi mi offriva il tè speziato e mi raccontava, affascinandomi, storie bibliche. Cultura e religioni diverse che in un microco-smo mi rendevano partecipe di un vasto mondo. Non pensavo, allora, che si potesse vivere in un mondo diverso.

I bambini italiani non giocavano con i coetanei eritrei, che abitavano periferie estreme senza alberi e fiori, senz’ac-qua, con la polvere sollevata dal vento.

Conoscevamo i bambini eritrei, che si arrangiavano nel centro della città, a guadagnarsi la sopravvivenza.

Li salutavamo, ci davano informa-zioni preziose, c’era fra noi la compli-cità dell’infanzia. Ma abitavamo mondi distanti, divisi da barriere create dagli adulti. Erano i bianchi i padroni, nella terra dove da sempre abitavano i neri.

Quando torno ‘a casa’ cammino, per ore, nei luoghi amati. Cammino con un senso di felicità e con un senso di ango-scia per questo popolo orgoglioso, ospi-tale, che ha attraversato lunghi anni di guerre, di sacrifici, di infinite perdite, e ancora soffre. Li sento fratelli, gli eritrei.

Cammino per le piccole strade con pareti dove si arrampicano nasturzi, buganvillee e per i viali principali. Edifici di diverse epoche e stili fanno della luminosa Asmara una città molto particolare.

Vado al mercato delle granaglie, ban-chi colorati da frutta, verdura, piramidi di cereali, grani di sale lucente.

Salgo l’Amba che porta al cimitero di Asmara, dove è narrata, fra date e fotografie sbiadite, la storia dei vecchi coloni. Il cielo blu, la terra rossa, i colori dei fiori, le lepri che corrono fra le tombe danno vita a questo luogo dei morti.

Torno al mercato, passo accanto alla chiesa copta e percorrendo ‘strade mer-cato’ arrivo davanti al Caravanserra-glio. Oltrepasso, emozionata, l’ingresso a portico. All’interno, fra le mille scintille dei fonditori, regna un magico caos. Nubi di polvere rossa avvolgono le donne che macinano il berberè, ragazzini offrono tappeti colorati, modellano ogni genere di attrezzi, espongono macinini di caffè di altre epoche. Si intrecciano cesti, si fabbricano scarpe ricavate da vecchi pneumatici. Voci, suoni, odori. Forse una notte, nel silenzio, torneranno i mercanti con i loro cammelli, carovane dei tempi lontani. E narreranno altre storie.

Penso all’Italia, dove nei primi anni mi sono sentita straniera, io cittadina ita-liana… I bambini di oggi condividono i ban-chi di scuola con bambini di altri Paesi, di altre religioni. Ancora non sanno che è una grande ricchezza ‘stare insieme’. Anch’io non lo sapevo. L’ho capito negli anni vissuti in Italia. Sono stata fortunata a crescere in un Paese di culture diverse. Chissà, forse mio padre mi aveva trovato al Caravanser-raglio, dove l’inimmaginabile è possibile.

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Il concetto di ‘italiano’ non indica esclusivamente l’appartenenza ad una nazione, ma assume un significato più ampio, descrive un vero e proprio stile di vita, rappresentato soprattutto attra-verso stereotipi radicati nel tempo. E sono proprio gli stereotipi a rendersi veicoli dell’italianità nel mondo: pizza, mafia e mandolino sono tra i termini più ricorrenti per descrivere l’Italia e si sono dif-fusi a tal punto da entrare a far parte di un linguaggio universale.Ma esistono anche aziende e prodotti che hanno saputo gua-dagnarsi il favore del mercato internazionale, diventando famosi in tutto il mondo. Marchi come ‘Fiat’ e ‘Ferrero’ sono così noti all’estero da divenire simbolo dell’Italia e hanno contribuito a ren-dere il Made in Italy rinomato.In questo contesto viene spontaneo interrogarsi sul ruolo dell’ar-chitettura nel veicolare l’italianità fuori confine. Esiste ancora (o è mai esistito) un Made in Italy in architettura? Gli architetti di epo-ca romana e rinascimentale hanno contribuito a rendere famosa l’Italia nel mondo, ma è corretto parlare della loro opera come di un Made in Italy? E oggi chi ha preso il loro posto? Renzo Piano e Massimiliano Fuksas sono espressione di un modo di proget-tare all’‘italiana’ o esclusivamente individuale?Hanno risposto al sondaggio Federico Alzu, Barbara Biasiol, Maria Vittoria Capitanucci, Alberto Brunasso Cassinino, Giorgio Comoglio, Romina Cuda, Tommaso Delmastro, Roberto Do-glio, Marco Virginio Fiorini, Francesca Gianola, Giudy Girardina, Raffaela Maglio, Enrico Maritano, Andrea Muzio, Giuseppe Polli-chino, Paolo Pitone, Alberto Raimondi, Giovanni Sessa, Monica Stroscia, David Terracini, Davide Turaglio, Stefano Vellano, Silvia Zanetti, Andrea Zavattaro e molti altri anonimi.

un sondaggio tra gli iscritti oat (e non solo) per indagare che cos’è il Made in Italy nel linguaggio comune

l’italiano globale

10 — Italiani

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Nel campo del restauro Renzo Piano, Noumea. Nomi di archistar (Renzo Piano, Gae Aulenti, ecc). Palaz-zo Lascaris a Nizza. Il teatro del mondo di Aldo Rossi. Se estendiamo architettura al design soprattutto nella componentistica e finiture (rivestimenti illuminazione sanitari arredi ecc). Beaubourg. Acquedotti e costruito romano, Rinascimento e Barocco, stop Architetture locali e nei materiali. Da Palladio a Juvarra, dal Rinascimento al Barocco, un periodo di tempo a cui non corrisponde nell'era attuale un concetto di architettura così grandioso e importante se non con singoli e limitati progetti architettonici e urbanistici. Le architetture delle archistar sono a volte l'espressione di una idea che spesso è solo autocelebrazione e non un vero Made in Italy; l'architettura è una idea universale e non può essere l'espressione chiusa di una sola nazione ma di un individuo che l'ha pensata. Le opere di Giò Ponti, Ridolfi, Michelucci, Carlo Scarpa, E. Sottsass, A. Mendini Il rapporto con la storia e il territorio. Le grandi opere di Renzo Piano. Esisteva nei secoli passati, dai Romani all'800. Oggi l'Italia ha perso il primato dell'arte internazionale nel campo dell'architettura, mantenendolo ancora nel design, nel cinema, nella moda. Perché? Perché l'italiano non ha più il senso della civitas cioè della collettività (cui l'architettura è rivolta). Sopravvive il bello nel privato. Nel pubblico è morto. Renzo Piano. Purtroppo è visibile da chiunque giornalmente. Sono gli edifici comuni che si continuano a costruire diffusamente nel nostro Paese, senza alcuna qualità architettonica o tecnica. Probabilmente sono questi i rappresentanti veri del Made in Italy architettonico, e non le rare e pregevoli eccezioni, realizzate da studi che hanno passione per questo mestiere. In ne-gativo: quello scempio fatto da più generazioni di geometri scatenati, incompetenti complici una classe politica corrotta e una popolazione sostanzialmente amorfa. In positivo: il design degli anni ’60, ’70 e '80 che ha contaminato in positivo molti architetti. Semplice... Vitruvio... solo noi abbiamo questo innato senso della proporzione, l'armonia, il bello! Difficile fare un esempio... esiste una cultura italiana che per-mea l'architettura e fa si che essa diventi riconoscibile e non confondibile con quella di altri Paesi. Forse ciò era più vero nei secoli passati, però qualcosa di quel genius loci ancora rimane. Isola, Rossi... Roma antica, Palladio, il Rinascimento in genere, Nervi, Rossi, Piano, le piazze disegnate. Esisteva, le opere di architetti come Terragni ne sono un esempio.

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l’Italia perde le sue radici architettonicheDavide Banfo

'luogocomunismo'e outlet color ocra

Un piccolo episodio, ma significativo. Un candidato alle elezioni regionali del Lazio finisce al centro di un caso poli-tico per aver regalato dei calendari con le gesta del Duce e il banner del suo sito personale. Il politico si difende parlando di un ‘omaggio’ dei suoi sostenitori per – testuali parole – “i 70 anni dell’inau-gurazione di Pomezia”. Inaugurazione? Possibile che un ex esponente di An non ricordi proprio nulla della mistica fasci-sta. Le città si fondano, non si inaugu-rano come i centri commerciali.

Osservando l’Italia del 2010 da lontano o, meglio ancora, dalla siderale distanza del web, si avverte una specie di cesura netta con le sue radici. Anche l’Italia del Ventennio, come dimostra il patetico aspi-rante consigliere regionale del Lazio, è stata cancellata. Il ‘piccone demolitore’ è confinato nei libri di storia, il quartiere dell’Eur viene difeso paradossalmente dalla Lega Nord che non vuole farsi scip-pare da ‘Roma ladrona’ il gran premio di Formula 1 che si vorrebbe correre usando come grande paracarro il Palazzo delle Civiltà. L’Italia del passato non esiste più. I

grandi monumenti diventano delle specie di cartoline, o meglio sfondi per cartoline. Quella che prevale, e non vale citare come al solito l’antropologo Marc Augé, è un’Ita-lia, architettonicamente parlando, del non luogo. L’unica Italia vera e riconosciuta è quella ricreata negli outlet gestiti da mul-tinazionali. Basse costruzioni ad un piano rosa, ocra o gialline. Il resto è stato dimen-ticato. Prevale una specie di ‘luogocomu-nismo’ che tende a omogeneizzare tutto.

Le periferie delle grandi città sono ormai tutte uguali. Sembrano quelle francesi con forse qualche rotonda in meno ma le stesse insegne dei centri commerciali.

Il discorso non è quello di rimpiangere le città italiane degli anni ’60-’70, ma forse qualche identità locale ancora all’epoca si avvertiva. Il Nord era segnato dalle frat-ture tra le banlieue industriali e le cam-pagne che tendevano ad essere occu-pate dai capannoni. Nelle città del Sud la campagna arrivava quasi all’improv-viso, con gli ultimi palazzi che anno dopo anno venivano superati da altri agglome-rati spesso abusivi. Uno scenario andato avanti con qualche modificazione per

quasi vent’anni nel mito della crescita economica, della cementificazione del territorio. I capannoni degli anni ’60 sono i progenitori dei capannoni che negli anni ’90 hanno invaso tante zone pregiate come le Langhe, la campagna roma-gnola, le colline o le pianure toscane e venete. Una metastasi che non è stata sufficientemente combattuta, ma anzi promossa e agevolata da tante ammi-nistrazioni pubbliche. Le stesse ammini-strazioni che si ritrovano poi a fare i conti con le vecchie fabbriche nei centri sto-rici, vecchie fabbriche tutte promosse a pezzi di archeologia industriale nella spe-ranza di trasformarle in qualche museo o spazio sociale.

Il problema, senza avere la presunzione di parlare di massimi sistemi, non è pro-vare nostalgie, ma riflettere un attimo. La ricorrenza dei 150 anni dall’Unità d’Ita-lia potrebbe essere una grande occa-sione. L’Italia è un Paese che ancora si ‘vende’ bene. Turisticamente parlando è in crisi da anni, ma all’estero stanno crescendo tante ‘piccole Italie’. Il web, come accennato, ne è l’esempio. Non

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ci sono solo il cibo e la moda a rendere interessante il Made in Italy. Forse c’è ancora un modo di intendere le città con la loro storia che rende questo paese unico. Firenze non è uguale a Venezia non solo perché non ci sono il mare, le gondole o l’acqua alta. Torino non asso-miglia a Catania o a Palermo nonostante siano evidenti per tutte e tre le città gli influssi del Barocco. Milano ha ancora meno grattacieli di qualsiasi piccola città della Cina o degli Stati Uniti. Roma (‘fon-data’ dai gemelli Romolo e Remo e non ‘inaugurata’!) resta unica e straordina-ria con i suoi palazzi finalmente ripuliti e i monumenti sopravvissuti a duemila

anni di angherie e devastazioni. A pro-posito: anche il Colosseo non si sottrae alla ignominia di certe definizioni da reality show dove il sussidiario di terza elementare è l’ultimo libro letto o sotto-lineato. L’Anfiteatro Flavio è stato defi-nito da uno studente in gita scolastica che si era perso “quel muro alto, alto e pieno di buchi”. Una definizione perfetta per farsi venire a prendere da una pro-fessoressa rassegnata, precaria e mal pagata. L’Italia è un Paese che rispetto a 150 anni fa sta decisamente meglio. Grazie al sommerso ha un’economia in grado di superare crisi internazio-nali che hanno messo in ginocchio altre

nazioni. La sua capacità di reagire alle grandi emergenze non è stata nean-che scalfita dagli ultimi scandali che hanno fatto precipitare in un unico cal-derone eroi (civili) e faccendieri (misera-bili). L’Italia resta un Paese fatto di mille piccole realtà che, nonostante il pro-cesso di unificazione sia andato avanti in modo contradditorio ma impetuoso, rimangono gelose della propria autono-mia, della propria identità.

Riempiamo gli outlet sparsi per il Bel Paese di pannelli per spiegare chi sono stati i grandi architetti italiani, quali sono i fondamenti della civiltà italiana. Alimen-tiamo qualche speranza per il 2061…

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torinesi del mondo e il mondo a torinol’Italia e gli italiani: il punto di vista di chi è appena arrivato nel nostro paese e di chi se ne è andato da tempo e porta all’estero la sua italianità.Interviste a Loredana Ionita, Juraj Valcuha, Allegra Hicks, Laura Tonatto

Loredana Ionita è un’avvocato rumeno, nata a Bacau, arrivata a Torino per ricon-giungersi alla madre Viorica, già prece-dentemente emigrata in Italia per motivi di lavoro. Nel nuovo contesto sociale, in seguito ad un iniziale periodo di difficol-tà, Loredana si è agevolmente integrata, quasi a voler testimoniare la vicinanza tra i due popoli latini.

DOMANDA Quando è arrivata a Torino e quale motivazione l’ha spinta a rimanere?RISPOSTA Ho visitato per la prima volta la città in un breve soggiorno avvenuto nel 2000. Mi sono trasferita definitivamente nel 2001, per stare vicina a mia madre, ma anche attratta dalla piacevolezza del luogo e dalla cordialità delle persone, nonché per il desiderio di inseguire il mio destino, alla stregua di un cavaliere erran-te che insegue ed è ad un tempo artefice della propria ‘Leggenda Personale’.

D Dove ha preso avvio la sua professio-ne di avvocato? In Italia o in Romania?R Mi sono laureata in Romania nel 1996 e ho ottenuto nel 1998 l’abilitazione alla professione forense e la titolarità del mio studio. In quel periodo la situazione economica generale del mio Paese, ef-fetto di un’inflazione galoppante, non of-friva interessanti opportunità lavorative, né di crescita professionale. Per questo motivo molte persone sono emigrate all’estero. Grazie al mio percorso di in-tegrazione e agli studi, a luglio dell’anno scorso sono riuscita ad ottenere il rico-noscimento dei miei titoli e l’iscrizione all’Albo degli Avvocati di Torino.D Quali stereotipi conosce legati all’Ita-lia o agli italiani?R Gli stereotipi accomunano tutti i Pae-si; certo bisogna conoscere le diverse realtà per avere opinioni ‘oggettive’ e non sconfinare nei pregiudizi. In Ro-mania gli italiani erano soprannominati ironicamente ‘macaronari’ e ‘broscari’, in quanto mangiatori di maccheroni e di rane. In generale l’idea che mi ero fatta era di persone gentili e simpatiche, con

uno spiccato senso degli affari. Avevo sentito parlare anche della mafia italia-na, ma naturalmente non si deve fare di tutta l’erba un fascio.D Secondo lei, con quali stereotipi sono connotati i rumeni in Italia?R Le donne rumene ‘rubano’ gli uomini alle italiane, gli uomini rumeni ‘amano’ più la grappa che le loro donne, per ci-tare stereotipi che potrebbero suscitare ilarità. Altri rasentano la calunnia o la dif-famazione e questi preferisco ometterli ed esprimere così il mio dissenso.D Quali sono i suoi ricordi del regime?R Durante la dittatura di Ceausescu era garantito il minimo vitale. Pur non man-cando il lavoro e la casa, la vita era fat-ta di sacrifici, di privazioni e tutto era subordinato al ‘bene’ dello Stato. Nelle cooperative agricole di produzione, veni-va reclutata tutta la forza lavoro dispo-nibile, inclusi gli studenti delle medie e delle superiori, che svolgevano un ‘lavo-ro patriottico’, raccogliendo granoturco, barbabietole ecc. Per approvvigionarsi di generi di prima necessità, occorreva avere la tessera e fare code estenuanti

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Loredana Ionita

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cui la bagna cauda, il fritto misto alla pie-montese, i dessert al cioccolato. Seppure i sapori della cucina torinese si discostino da quelli tradizionali della cucina rumena, apprezzo ugualmente ambedue.D Prima di venire a Torino, dove si era fat-ta un’idea dell’Italia?R Attraverso i film d’autore, i documen-tari sul ‘Bel Paese’, che in Romania sono in lingua originale sottotitolati, e dai libri di autori italiani.D Che cosa non sopporta di Torino?R Lo smog e il traffico, ciò che mi ha in-dotto a trasferirmi nella tranquillità di un paesino di provincia.D Che cosa sta leggendo in questo mo-mento e quali sono i suoi autori preferiti?R Sto leggendo un libro motivazionale, Come trattare gli altri e farseli amici di Dale Carnegie. Leggo molto, tra i miei autori preferiti ci sono i classici della let-teratura italiana e della letteratura inter-nazionale. Mi piacciono Pirandello, D’An-nunzio, Svevo, Hemingway, Antoine de Saint-Exupéry, Hugo, Eminescu, ecc.D Ha un suo motto?R “Prima ci ho creduto col cervello, poi l’ho fermamente voluto con il cuore, infi-ne mi sono semplicemente dato da fare” (Barone Bich).

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dalle quattro del mattino. La privazione più abominevole era quella di non poter esprimere apertamente le proprie idee, aggravata dalla presenza ovunque del-la securitate, la polizia segreta che si è macchiata di crimini efferati. L’unica fine-stra sul mondo occidentale era la stazio-ne radio La voce dell’America, ascoltato di nascosto, con timore e circospezione. Nel 1989, la caduta di Ceausescu e della moglie Elena (considerata la vera mente delle azioni del marito) aveva suscita-to speranza e disperazione. Ricordo la sensazione di terrore del Paese, le strade deserte e le porte sbarrate. Dalla televi-sione appresi ciò che stava accadendo, qualcosa che rasentava l’impossibile. Poi i bus pieni di ragazzi che andavano ver-so Bucarest e che salutavano con le due dita alzate in segno di vittoria; la guerra civile in un vortice di terrore e di crudeltà, con il sacrificio di troppe vittime innocen-ti; infine l’esecuzione di Ceausescu.D Quali sono i luoghi di Torino che ap-prezza di più?R Appena arrivata, sono rimasta colpita dal monumento emblema di Torino, la Mole Antonelliana. Successivamente ho avuto modo di ammirare ed apprezzare l’architettura dei palazzi della città, sono rimasta affascinata dal barocco torinese di Juvarra e Guarini e dai tanti musei cit-tadini, e non per ultimo dallo stupendo polmone verde, il Parco del Valentino.D Gli architetti hanno realizzato anche archi-tetture giudicate orribili per la forma e per il degrado sociale e ambientale che hanno alimentato. Esiste un reato per distruzione di opere d'arte e costruzione di mostri ar-chitettonici? Che pena infliggerebbe?R Le strutture architettoniche rispecchia-no la civiltà di un popolo, la sua storia e devono avere un valore simbolico in sin-tonia con canoni estetici raffinati; proprio per questo non credo esista una pena sufficientemente adeguata per quello che considero una grande offesa, non solo ambientale ma anche morale.D Un piatto tipico che ha assaggiato?R La conoscenza dei piatti tipici di una re-gione credo sia una tappa fondamentale nel processo di integrazione. Ho avuto modo di assaggiare ed apprezzare alcu-ni specificità della cucina piemontese, tra

Juraj Valcuha, trentatreenne, slovacco, già affermato a livello internazionale, è da novembre 2009 il nuovo direttore princi-pale dell’Orchestra sinfonica nazionale della Rai. La sua formazione artistica è avvenuta tra Bratislava, San Pietroburgo e Parigi e la sua carriera di direttore lo sta portando in giro per il mondo.

DOMANDA Che cosa conosceva dell’Italia prima della nomina della Rai?RISPOSTA Conoscevo già l´Orchestra della Rai, che avevo diretto almeno in 4 programmi diversi. Avevo già trascorso qualche settimana a Torino. Ho diretto

anche a Napoli, Venezia, Bologna, Ge-nova e Milano, tutte città affascinanti.D Le piace Torino? R È una città positiva, ha un’ottima energia. D Torino è una città antica che ha cono-sciuto un importante passato industria-le, ora in fase di grande trasformazio-ne. Può citare qualche edificio di Torino storico o moderno che l’abbia più col-pita e perché? R Direi il Lingotto, con il suo Auditorium progettato da Renzo Piano, architetto a me familiare: abito a Parigi e vado spes-so al Beaubourg, dirigo a Berlino e passo sempre nel Sony Center per andare alle prove. Il Lingotto è una fabbrica trasfor-mata in una sala da concerti apprezzata dalle piu grandi orchestre che vi fanno tappa nelle loro tournée europee.D Secondo lei, esiste un’atmosfera tori-nese? Qual è l’angolo della città nel quale trascorre volentieri una pausa?R Torino ha una vera personalità: non è esuberante, non è ‘ostentatoria’, ma è accogliente, ha un certo stile. Mi piace vagare per le vie del centro, osservare le facciate orgogliose degli edifici.D Un piatto o una bevanda torinese e un esempio invece tipicamente italiano.R I marrons glacés, il bicerin, ma anche i piatti col tartufo e con un bel bicchiere di Barbaresco.D Il teatro più bello e funzionale in Italia nel quale vorrebbe o tornerebbe a dirige-re un’orchestra?R Finora ho diretto alla Fenice, al San Carlo di Napoli, al Comunale di Bolo-gna: uno più bello dell’altro. La paro-la funzionale non mi sembra molto in sintonia con questi prestigiosi edifici. Il fatto di trovarsi a fare musica in questi luoghi, testimoni di tanta grandezza e creatività, aiuta ad accettare la mancan-za di funzionalità. Dirigo anche spesso in sale molto sofisticate che offrono soluzioni tecnologiche all’avanguardia. Entrambi gli aspetti sono interessanti.D L’ha mai affascinato il Made in Italy e a che cosa lo riconduce? Secondo lei esiste ancora? R Come non rimanere affascinato? L’estetica, la purezza delle linee, la qua-lità dei prodotti. Si può ancora parlare del Made in Italy e bisogna puntare sul-

Juraj Valcuha

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D Le piace Torino? Qual è il suo rappor-to con la città natale?R Considero Torino una città viva e inte-ressante da un punto di vista intellettuale. È una città bella a livello architettonico. Ma per me è soprattutto un luogo allo stesso tempo familiare e sorprendente. Ho lasciato Torino da ragazzina; non è stato difficile perché stavo per inizia-re una nuova esperienza e la curiosi-tà ha prevalso sulla nostalgia. Il posto da cui si arriva è sempre in noi e vi si può sempre fare ritorno. È diverso se invece si lascia la propria città in fuga o da emigrante: sapere di non potere più ritornare indietro avrebbe reso l’addio molto più difficile.D Come mai ha scelto Londra?R Ero attratta dal mondo anglosassone, che per me rappresentava l’eccesso, l’esotico, il diverso. Vivere prima a New York e poi a Londra mi permetteva una forte astrazione, mi consentiva di non sentirmi radicata alle mie radici. Allo stesso tempo però mi ha sempre lascia-to con un piede ancora in Italia. D È stato facile integrarsi all’estero?R Gli Stati Uniti sono molto inclusivi: ci si integra facilmente e nell’arco di poco ci si sente immediatamente ‘statuniten-si’. Gli inglesi sono molto diversi: non sono inclusivi, ma sono tolleranti. Non incasellano chi arriva da un altro Pae-se e questo consente ampia libertà. È difficile però sentirsi ‘inglesi’, si resta sempre ‘italiani’. Amano molto l’Italia (dai Grand Tour del Settecento in poi) e questo mi aiuta, come italiana, a rinsal-dare le mie radici.D Ritiene che essere italiana le sia stato d’aiuto nel suo lavoro?R Torino è una città con un’eleganza in-credibile: è uno ‘stile’, non una semplice ‘moda’ che dura tre mesi; il suo fascino non si esaurisce facilmente. Nel mio la-voro e nei prodotti che vendo ho cerca-to di portare questo senso di eleganza che caratterizza la mia città.D Esiste ancora un Made in Italy nel campo della moda?R Sì. Il Made in Italy è sinonimo di qua-lità e non si tratta solo di un’etichetta. In Italia esiste un know-how diffuso nel campo della moda che è impensabile in

altri Paesi, ad esempio in Gran Bretagna dove non esiste nemmeno l’industria della moda. Tuttavia non sempre il con-cetto di ‘made in’ trasmette un’immagine positiva: ad esempio i miei ricami sono prodotti in India perché la qualità degli artigiani in questo ambito è la più alta al mondo; in India sono ancora diffuse delle abilità che noi occidentali abbiamo perso da secoli. Tuttavia se un tappe-to è Made in India è automaticamente visto come un prodotto hippie, da tutti i giorni; è inimmaginabile associarlo ad un oggetto di alta qualità. D Secondo lei quanto è diverso dall’Ita-lia vivere a Londra?R Gli inglesi non hanno la capacità di godersi la vita con la stessa naturalez-za che abbiamo noi: hanno un culto della vita molto diverso dal nostro. Ad esempio noi diamo molta importanza al mangiare bene; gli inglesi molto meno. Io sono regionalista: ogni città ha le sue specificità. Torino ha il cioccolato, la Fiera del Libro, il Conservatorio; Lon-dra il teatro e i musei.D Con quali stereotipi sono rappresen-tati gli italiani in Gran Bretagna?R Gli inglesi sostengono che quando vedi uno vestito da inglese è sicuramente un italiano. Gli italiani sono visti come focosi, istintivi, goduriosi, ritardatari e inaffidabi-li. Però se si chiede a un inglese “Dove vorresti vivere?”, la risposta è sempre “In Italia”. Se con i francesi c’è sempre un rapporto di concorrenza e competizione, gli italiani invece sono posti su un piano diverso, non confrontabile perché preva-le sempre l’ammirazione.D Quale edificio torinese e quale londi-nese vestirebbe e come?R Se potessi scegliere ricoprirei la GAM di Torino con gigantografie che ripro-ducano le opere esposte all’interno e la Mole Antonelliana con del muschio verde; a Londra sceglierei invece il Lon-don Bridge e lo ricoprirei di monete di cioccolato.D Se dovesse descrivere un architetto con una stoffa, chi sceglierebbe?R Guarino Guarini è per me damasco, Carlo Mollino è velluto rosso, Tadao Ando è lino grezzo e Zaha Hadid è pelle nera e voile trasparente.

Allegra Hicks, torinese fino a 18 anni, si trasferisce a Milano per frequentare una scuola di design e successivamente a Bruxelles, specializzandosi nel disegno tessile; inizia a lavorare a New York per un artista contemporaneo e successi-vamente si sposta a Londra.

DOMANDA Come è iniziata ed è prose-guita la sua carriera londinese?RISPOSTA Nel 1996 ho iniziato a disegna-re tappeti e stoffe per interni (prodotti in 25 unità per modello) in collaborazione con diversi studi di architettura; tre dei miei tappeti sono utilizzati nel Parlamento inglese come arazzi decorativi. Recente-mente ho aperto un negozio lifestyle in cui vendo i tessuti d’arredamento, i tap-peti e le collezioni d’abbigliamento che di-segno; la matrice della mia creatività è la produzione di stampe disegnate e questo mi consente diverse applicazioni.

la qualità e l’esclusività. In poche paro-le: si deve resistere. D La musica usa un linguaggio universa-le, ma l’opera è un elemento di orgoglio italiano, che ha anche rappresentato l’unità del Paese. Lei dirige anche l’opera. Quanta italianità c’è allora nella sua arte? R Lopera è una forma d´arte italiana. Non solo l´opera è stata inventata in Ita-lia, ma in tutte le sue manifestazioni fuo-ri Italia deve fare i conti con la tradizione interpretativa italiana. Tutti direttori e interpreti devono cercare d´appropriarsi di un´italianità ogni volta che dirigono o interpretano l´opera (che sia tedesca, russa o francese). È ovvio che Verdi e Puccini sono i più legati all´Unità d´Italia e… l´Unità d´Italia è partita da Torino… D Un gioco per chiudere. Quali architetti italiani conosce e quale brano musicale abbinerebbe a ciascuno di essi? R Il primo che mi viene in mente è Palla-dio abbinato a Mozart (e Palestrina).

Allegra Hicks

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Laura Tonatto, uno dei ‘nasi’ più famosi e ricercati al mondo, è stata una dei relatori alla Conversazione OAT, Il naso nell'archi-tettura. Il primo incontro è stato nella sua casa-laboratorio dove crea profumi, die-tro le grandi vetrate che guardano i bo-schi della collina, la città e le montagne.

DOMANDA Un ‘naso’ si eredita o si educa?RISPOSTA Si educa e un po’ si nasce. Il mio primo ricordo olfattivo risale a quando ero bambina e mi ero ferita il naso cadendo. Ricordo distintamente l’odore del sangue e dell’acqua clorata del medicamento usa-to da mia madre. Avevo una nonna con questo mio stesso istinto, che però non ne aveva fatto un lavoro. Dei miei due figli, il maschio è come me, la femmina assoluta-mente no, a dimostrare che la passione da sola non basta. D Chi sono stati i suoi maestri?R La prima maestra è stata la nonna, che ha rappresentato il punto di partenza, la presa di coscienza delle mie capacità. Mi parlava di Guerlain e di Guy Robert, oggi ultraottantenne, che ho avuto la fortuna di conoscere e che mi ha molto seguita.Il ‘privilegio’ che si vuole riferire ai ‘nasi’ in realtà non esiste: bastano due fragranze, di cui una deve essere la rosa, e il profu-mo è fatto. Ecco perché realizzo corsi: perché chiunque può comporre un pro-fumo. Mi piace trasmettere la capacità di usare l’olfatto soprattutto per aiutare a capire la realtà che ci circonda. “Perché il profumo”, come diceva Yves Saint Lau-rent, “è il fratello del respiro”. È necessario un allenamento continuo come per la musica anche per chi crea fragranze. Le fragranze sono come i colori per i pittori. Certo di Caravaggio ce ne fu uno soltanto… Miscelare è un istinto ed è lo stesso che guida i migliori chef. D Qual è stata la fragranza-rivelazione?R L’ambra d’Egitto, che esiste solo nel Pa-ese che le dà il nome e che ho scoperto quand’ero diciannovenne. È una costan-te nelle mie esperienze olfattive. Chi ama i miei profumi ama quella fragranza.

D Quale lingua parla il profumo?R Una e tutte. L’olfatto risiede nell’ipota-lamo, sede degli istinti come la fame, il sonno e il sesso. Non è quindi un sen-so addomesticabile: se sento una cosa e sto bene, mi piace; al contrario, se mi procura disagio, la detesto. Nei rifugi di Londra della seconda Guerra Mondiale, il diffuso profumo di lavanda ricordava ai sopravvissuti i cadaveri e in generale un senso di morte. Il profumo è un linguag-gio universale, ma l’istinto è personale. Ognuno di noi ha una sensibilità diversa.D Quanta italianità c’è nei suoi profumi?R Moltissima, e come italiani possiamo van-tare anche capacità, che ci riconoscono in tutto il mondo: gli italiani hanno lasciato un imprinting per esempio nella rinomata (per i profumi) Francia, dove le coltivazioni di fiori quali la rosa, il gelsomino e la lavanda sono un’eredità di Caterina de’ Medici an-data in sposa al re di Francia. Un campo dove gli italiani eccellono è il cibo: mangia-re una mozzarella di bufala è un’esperienza sensoriale! Così è per me l’orto botanico di Palermo, dove ho scoperto l’odore di zagara che tanto contribuì alla buona riu-scita del film di Luchino Visconti, che volle quella fragranza per Claudia Cardinale per renderla meravigliosa e permearne il set, rendendo l’atmosfera olfattiva reale.D Caravaggio l’ha ispirata per un profu-mo, come è nata questa idea?R Colleziono Maddalene del periodo barocco romano: Maddalena è la santa protettrice dei profumieri. Mi sono ap-passionata al periodo e ho studiato il Suonatore di liuto che è ospitato all’Her-mitage di San Pietroburgo. Quell’opera, commissionata a Caravaggio dal cardi-nale Giustiniani, era programmaticamen-te multisensoriale. Ho svolto un lavoro filologico, consapevole del fatto che Ca-ravaggio dipingesse dal vivo e che quindi sentisse tutti quegli odori, anche quello della cera usata per incerare il liuto e il ta-volo di finto marmo su cui erano appog-giati gli oggetti da ritrarre. Avevo realiz-zato quel profumo per me, ma il direttore dell’Hermitage mi propose un’esperien-za interessante: far vedere il quadro agli spettatori anche con il naso.D Lei ha prodotto profumi per personaggi famosi: quali caratteristiche l’hanno gui-

data e da dove ha tratto l’ispirazione?R Creo profumi dal 1986. Tutto è comin-ciato in un piccolo negozio in via Brera a Milano nel quale si affacciarono presto i primi clienti importanti che desideravano una fragranza su misura: Ornella Vanoni, Elio Fiorucci, Lucia Locatelli, Francesco Totti, Asia Argento, Ornella Muti, Giorgio Armani. Ma il cliente più importante, quello che da solo basterebbe a rendere famoso un marchio nel mondo, è Elisabetta II d’In-ghilterra. Nel 2008 la Regina mi chiese una fragranza esclusiva per le candele e gli am-bienti di Buckingham Palace e delle altre residenze reali. Il profumo che ho realizzato per la regina Elisabetta unisce stile inglese a creatività italiana: abbiamo investigato in-sieme tutto il percorso olfattivo da quando era una ragazzina ad oggi.D Per quale città creerebbe un profumo?R Sicuramente per Roma, che è la città più bella al mondo e per me fonte di re-lax. In particolare mi ispirano il Palazzo Doria Pamphilj e la sua collezione e Villa Giulia. Mi piacerebbe creare un profumo anche per Torino e le fonti di ispirazione sarebbero il fiume, dove amo ‘canottare’ e dal quale mi godo lo spettacolo della città, e Piazza Vittorio Veneto, che amo per la sua atmosfera magica soprattutto quando c’è la nebbia o anche quando c’è l’aria frizzantina della prima primavera.D Per quali architetti realizzerebbe un profumo e con quali essenze?R Per tre donne: per Francesca Moroso userei note di legni africani, per Paola Navone mughetti e fiori d'arancio e per Gae Aulenti rosa e ambra.D Esiste il Made in Italy? E nei profumi?R Esiste uno “Smerd in Italy”, per citare Oli-vero Toscani e la grandissima vergogna di cui si è coperto il nostro mercato. Ma è il pubblico che decide e alla lunga qualcu-no il conto deve pur pagarlo, se le borset-te vengono prodotte in Cina a due euro e rivendute in Italia a duemila… Preferisco i piccoli artigiani, sempre coerenti con il loro lavoro. La profumeria italiana è conosciuta e stimata e sicuramente rappresenta un Made in Italy di cui andare orgogliosi.D In primavera uscirà il suo nuovo profu-mo da donna Notte a Taif. Qual è il suo profumo meglio riuscito?R Quello che devo ancora realizzare.

Laura Tonatto

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capitali

Made out of Italy

Il mondo è pieno di un Made in Italy che non siamo abituati a riconoscere e che esiste da sempre: è quello di città o di pezzi di città immaginate, disegnate, costruite da italiani in giro per il mondo, tanto che possono considerarsi 'anche italiane'

capitali italiane nel mondo

storia e geografia di una vicenda extraterritoriale

Istanbul | roberta ferrazza

Tripoli | ezio godoli

Tianjin | giulio machetti

Buenos Aires | edgardo salamano

New York | lorena Bari

Berlino | alvise del pra'

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Italia fuori Italia

migrazioni italiane e segni italiani

riccardo Bedrone

maddalena tirabassi

la mappa di una storia dimenticata che illustra l’attualità delle proposte degli architetti italiani nel mondo

sono 29 milioni gli emigrati che in un secolo e mezzo dall’Italia si sono diretti in ogni parte del mondo

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un progetto di mostraRiccardo Bedrone

Italia fuori Italia

150 anni di emigrazione italiana corri-spondono spesso, nelle grandi città del mondo, ad altrettanti valori culturali e arti-stici, apporti economici e professionalità che hanno lasciato segni ed esempi mai veramente indagati. Eppure essi fanno parte della storia italiana e sono partico-larmente visibili nell’architettura urbana estera. Molte grandi città possono dirsi ‘anche italiane’ e non solo quelle di fon-dazione. Gli esempi sono numerosis-simi in Albania, Etiopia, Eritrea, Grecia, Libia, oppure in Argentina, Uruguay, Bra-sile, Stati Uniti, Belgio, Germania, Fran-cia, Svizzera, Turchia, fino alle recenti realizzazioni portate a compimento da imprese italiane o comunità italiane in Cina o in molti Paesi arabi.

I festeggiamenti del centocinquante-nario dell’Unità d’Italia sono la giusta occasione per descrivere anche questo contributo di inventiva e stile italiano nel mondo, raccontando non soltanto ‘sto-rie’ d’architettura ma anche i modelli di comportamento esportati, le abitudini di vita che hanno implicato, le relazioni sociali alla base delle trasformazioni dei

quartieri di insediamento, nonché la conformazione degli stessi.

Ma non bisogna guardare solo al pas-sato, ricostruendo le mappe di una storia dimenticata, semmai riproporre anche l’attualità delle professionalità italiane, dal disegno ai materiali, dal progetto ai nuovi criteri realizzativi, a dimostrazione della continuità della ricerca e della pro-posta italiana nel mondo.

Questo progetto vuole valorizzare il ricco patrimonio culturale del lavoro italiano nel mondo riconnettendolo alla storia identi-taria nazionale e ‘raccontandolo’ soprat-tutto alle giovani generazioni.

Centro focale dell’azione generale è lo sviluppo della conoscenza reciproca, volta a stimolare l’avvio di azioni con-giunte a respiro internazionale, nuclei ini-ziali di sistemi di reti e relazioni (identifica-zione di patrimoni culturali di riferimento, costruzione di buone pratiche, diffusione di risultati, identificazione di nuovi pro-getti pilota) come possibili nuove soluzioni all’integrazione culturale.

Integrazione rivolta soprattutto al pub-blico fruitore degli eventi di Italia 150,

attraverso un forte richiamo internazio-nale derivante dalle tematiche progettuali (volendo significare l’Italia come nazione unitaria ma ‘diffusa’ nel mondo).

Il concetto di capitale: una definizione operativa

La capitale – estesamente città capitale di Stato o, in altri contesti, capitale politica – è in senso proprio la città che ospita la sede del governo di uno Stato. Pertanto l’idea di capitale racchiude in sé la fun-zione del potere: la capitale si definisce in quanto luogo dell’esercizio e dell’imma-gine del potere.

Nel divenire storico il potere si caratte-rizza come funzione nomade e cambia sede nel tempo: da questo punto di vista si osserva che in qualche modo anche le capitali ‘emigrano’ e non sono luoghi fissi nel tempo, come ben dimostra il caso ita-liano con tre capitali diverse in un arco temporale di dieci anni.

Oggetto del progetto sono dunque le Capitali Italiane nel Mondo. 1861-2011 ed è bene spiegare, a partire dalla sua

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definizione, che cosa si comprenda in que-sto vasto concetto. In prima analisi, queste capitali sono città, individuate come spazi fisici sui quali vengono misurate la forza e la qualità dell’impatto di un ‘innesto’ esterno, diverso e straniero, che rappresenta una discontinuità o una evidente novità.

Talvolta coincidenti con la capitale poli-tica di un Paese, sono capitali in quanto città da cui, nel periodo di tempo oggetto della ricerca, l’influenza italiana si è mani-festata e irradiata con tale riconoscibilità da farle considerare – in tutto o in parte – ‘un pezzo di Italia fuori dall’Italia’. Sono capitali in quanto luoghi di ‘riproduzione’ dell’italianità, frutto della creatività di architetti, ingegneri, artisti, del lavoro di maestranze, dell’insediamento dovuto a flussi migratori che cambiano e model-lano il panorama urbano attraverso gli stili di vita e le opportunità commerciali, ma talvolta attraverso l’uso delle armi e l’imposizione forzata.

Il progetto, quindi, si concentra su archi-tettura e urbanistica, sugli spazi pubblici e su quelli del potere, ma anche, inevitabil-mente, su come questi spazi sono vissuti,

quali processi li generano, li alimentano, li contaminano, li superano e li abbando-nano, in un intreccio di relazioni che sono parte integrante degli spazi stessi.

La definizione operativa di capitale con-sidera tale attribuzione come funzione mobile nello spazio e nel tempo, che pro-cede da una città a un’altra in luoghi lon-tani geograficamente e culturalmente, accomunati da fenomeni di trasforma-zione riconducibili a una matrice identita-ria italiana che, da un lato, agisce sull’am-biente (o paesaggio) urbano e la sua identificazione, dall’altro sulla morfologia urbana. Sono fenomeni spesso intrecciati e complementari, ma in alcuni casi, l’uno prevale nettamente sull’altro.

Tuttavia diversi sono gli agenti della trasformazione: nel caso dell’ambiente urbano si tratta di una comunità in grado di modificare a sua immagine lo stile di vita – e dunque lo spazio che ne è la ‘sce-nografia’ – di una città o di una sua por-zione riconoscibile. Nel caso della mor-fologia urbana il cambiamento è operato da una élite, politica e tecnica in grado di imporre un disegno e una visione.

Élite di potere ed emigrazione

Se ci si attiene alla stretta definizione di capitale come ‘luogo dell’esercizio e dell’immagine del potere’ ne conse-gue che il disegno stesso della capi-tale, i suoi spazi e gli edifici pubblici sono costruiti per essere espressione del potere di un’élite che si serve dei migliori architetti e artisti a disposizione. Spesso gli architetti e gli urbanisti chia-mati a lavorare nelle capitali sono italiani e progettano dunque ‘capitali italiane nel mondo’. In questo caso il disegno delle capitali avrà un’influenza diretta, tangibile, documentabile, essenzial-mente morfologica di modelli italiani, portata all’estremo nel caso delle colo-nie del ventennio fascista.

A questo tipo di influenza hard – dovuta alla cooperazione di un’élite di potere con un’élite intellettuale e professionale – si accompagna un’influenza più vasta e diffusa (soft), che riguarda solo occa-sionalmente la sfera del potere: quella della grande massa di emigranti italiani. L’emigrazione italiana non sembra infatti

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avere esiti eclatanti e coordinati sul piano della morfologia urbana, ma molto di più su quello del ‘paesaggio urbano’, inteso come somma di paesaggi di vita, pae-saggi sonori e di gusto.

È un influsso indiretto, non immediata-mente visibile, ma osservabile, una sorta di semantizzazione italiana delle capitali nel mondo. Fra queste due ipotesi di indagine si estendono territori intermedi ed esplora-zioni trasversali, come nel caso della par-ticolare categoria di emigranti rappresen-tata da manovali e lavoratori di cantiere, importanti per l’influenza in entrambe le ipotesi, o nei casi di piccole capitali ‘cultu-rali o morali’ piuttosto che politiche.

Una narrazione ‘per capitali’

Il racconto propone le Capitali italiane nel Mondo, ovvero le città di potere – politico, economico e culturale – in cui in epoca post-unitaria si sono verificate condizioni tali sia da attrarre flussi di immigrazione italiana, sia da consentire la realizzazione di momenti puntuali di espressione archi-tettonica di matrice culturale italiana. E

procede per macroaree geografiche defi-nite dall’area di influenza di una capitale leader e di altre eventuali città presenti nell’area, città correlate, che rappresen-tano una variante originale delle caratte-ristiche della capitale leader: alle macroa-ree geografiche corrispondono altrettante macroaree tematiche.

Ciò consente di proporre una doppia chiave di lettura delle capitali, insieme semantica e morfologica e richiede, di conseguenza, di rappresentare la complessità delle capitali selezionate attraverso immagini e visioni immer-sive dell’ambiente urbano, con gli aspetti più immediati e sensoriali del vivere degli immigrati italiani, accanto a momenti tecnici di approfondimento puntuale (interviste, selezione di pro-getti e maquettes) della morfologia urbana, ovvero della produzione archi-tettonica di un’élite di professionisti ita-liani incaricati dalle classi al potere.

Il progetto, che l’Ordine degli archi-tetti di Torino ha immaginato per le celebrazione del 2011, prevede una mostra di forte impatto per contenuti

e tecnologie, scenografica e, appunto, ‘immersiva’, che presti particolare at-tenzione all’esposizione di modelli di costruzione, alla visione di documenti, immagini, reportage, disegni e progetti, alla proiezione di materiali dell’Istituto Luce ma anche filmati successivi o rea-lizzati ex novo, alla divulgazione di tra-dizioni e testimonianze.

Non solo per parlare di quartieri ita-liani ma anche per sottolineare come lo stile architettonico italiano ha costitu-ito un modello per le città, soprattutto americane. Non solo per ricordare gli architetti ma anche i manovali italiani che hanno costruito la metropolitana o le ferrovie, i mosaicisti impiegati nella decorazione dei grattacieli, gli stuc-catori che hanno lasciato un’impronta inconfondibile sugli edifici, ecc.

Tutte le città selezionate andranno indagate attraverso i due filtri interpreta-tivi, per restituirne storicamente quell’im-magine prevalente, in un senso piutto-sto che nell’altro, che le rende ulteriori testimonianze imperdibili dello spirito e della genialità italiana.

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L’Italia fuori Italia. Aggirare stereotipi e sentirsi a casa

28 gennaio 2010 Incontri al Circolo dei Lettori a Torino conLorena BariRiccardo BedroneMercedes BressoBrunella ComoSergio ContiAlvise del Pra’Erminia Dell’OroRoberta FerrazzaMaria Adriana GiustiEzio GodoliGiulio MachettiGian Giacomo MigoneCarlo NovarinoGianni OlivaPaolo RianiEdgardo SalamanoMaddalena TirabassiEnrica Viola

IntervisteLiana Pastorin, media-arch

RipreseVisual-studio

Si ringraziaIl Circolo dei Lettori, Torino

Capitali italiane nel Mondo 1861-2011

un progetto diOrdine degli Architetti PPC della Provincia di Torino

con il contributo diRegione Piemonte

con il patrocinio diComitato Italia 150

Comitato preparatorioRiccardo Bedrone presidenteLorena BariSergio ContiAlvise del Pra’Maria Adriana GiustiAlfredo MelaAntonio MoroneGianni OlivaMaddalena TirabassiDomenico VassalloStefania Vola

Coordinamento progettoRaffaella Lecchi

Ufficio stampa Fondazione OATLiana Pastorin, media-archRaffaella Bucci

Marchio e progetto graficoLorem, Torino

Si ringrazia Luigi Garretti

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le vie dell’oriente. Istanbul

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La comunità italiana di Istanbul è una delle più antiche al mondo e la sua for-mazione risale all’epoca delle Repubbli-che Marinare. Composta inizialmente da mercanti e da famiglie dalle origini antiche, soprav-visse e si sviluppò nei secoli, grazie al modello ottomano di governo delle minoranze religiose. Nell’Ottocento una grossa ondata migra-toria cambiò completamente il volto della comunità grazie ai patrioti del Risorgi-mento – accolti con favore sulle rive del Bosforo – al personale diplomatico e agli artisti e ai professionisti il cui contributo di idee e conoscenze tecniche favorì l’opera di modernizzazione messa in atto dall’Impero Ottomano.

Tale ondata migratoria, a netta predomi-nanza operaia, si caratterizzò per il forte patriottismo e per il senso di apparte-nenza, contribuendo in maniera deci-siva alla diffusione dei principi di demo-crazia, solidarietà, identità nazionale che ispirarono gli statuti delle varie associa-zioni che la comunità seppe darsi (a cominciare dalla Società Operaia Ita-liana di Mutuo Soccorso nata nel 1863). Anche molti architetti e ingegneri ita-liani che operarono ad Istanbul in que-sti anni rispecchiarono questi valori. Tra questi Raimondo d’Aronco, chiamato a Istanbul nel 1894 per la Seconda Espo-sizione Nazionale Ottomana (poi annul-lata a causa del terremoto) e rimasto in Turchia fino al 1910 ad occuparsi

dell’opera di restauro dei tanti e celebri monumenti danneggiati. I fratelli Gaspare e Giuseppe Fossati, in diverse occasioni ferventi patrioti e modello di riferimento degli architetti italiani a Istanbul. Luigi Storari, ingegnere, incaricato dal Sultano di realizzare una pianta di Istan-bul nel 1855 e carbonaro emigrato da Ferrara nel 1849. Tante le ditte italiane di progettazione architettonica e di costruzioni: passa-rono dalle sei del 1869 alle centotrenta del 1912, occupandosi, oltre agli edifici per il Sultano e la sua corte, della collina di Pera e del quartiere di Galata, dove sorsero a ritmo sostenuto luoghi di par-ticolare rilevanza.

Roberta Ferrazza

(Gruppo dei Soci fondatori della Società Operaia Italiana di Mutuo Soccorso di Costantinopoli, 1863)

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Il piano regolatore di tripoli

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In un articolo apparso nel settembre 1929 nel quotidiano L’Avvenire di Tripoli e firmato da Maurizio Rava, segretario generale della Tripolitania, sono contenute autore-voli indicazioni per il futuro piano regola-tore della città. Vi si affermano le esigenze di salvaguardare il ‘carattere’ del vecchio centro tripolino, al quale viene attribuito un “enorme valore ambientale”, elemento di attrazione per il turismo, e di tutelare le specificità delle zone verdi dell’oasi. Per le emergenze monumentali sono auspi-cati interventi per isolarle creando loro dintorno uno spazio “abbastanza vasto, in modo da consentire da ogni lato suffi-ciente ampiezza di visuali prospettiche”.La preoccupazione di tutela della medina è recepita nel piano regolatore e di

ampliamento di Tripoli di cui sono inca-ricati nel 1931 Guido Ferrazza, Alberto Alpago Novello e Ottavio Cabiati, ma redatto solo dagli ultimi due tra il 1931 e il 1933 e integrato da successive varianti.Rispetto alla ‘fondamentale’ questione della separazione tra quartieri per indi-geni e per metropolitani l’atteggiamento degli estensori del piano è improntato a pragmatismo. Più che ad una logica di separazione etnica, la differenziazione delle zone residenziali sembra corrispon-dere alla distinzione tra quartieri signo-rili e popolari comune dei piani regolatori per le città italiane: una zonizzazione più classista che etnica. Nella definizione dei caratteri architet-tonici della nuova Tripoli, la visione di

Alpago Novello e Cabiati si discosta invece dalle raccomandazioni dell’articolo di Rava, che invitava a ricercare nella edi-lizia minore locale le radici ‘latine’ di una comune identità mediterranea, oltre che un funzionalismo fondato sulla lezione del buonsenso costruttivo della tradizione autoctona. Alpago Novello e Cabiati con-cepiscono la nuova architettura per la colonia libica come imposizione alle popolazioni sottomesse dei modelli cul-turali della potenza dominante e propon-gono un classicismo improntato al Nove-cento lombardo, che, trapiantato in Libia, appare negli esterni decantato, come dis-seccato al sole del Mare nostrum, salvo riacquistare negli interni tutta la sua opu-lenza materica e ricchezza ornamentale.

Ezio Godoli

(Sistemazione architettonica dell’imbocco del Corso Vittorio Emanuele)

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una piccola Italia in cina

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Quella che si affaccia in Cina agli inizi del Novecento è una piccola Italia ridi-mensionata sul piano politico interna-zionale dalla disfatta di Adua. Con que-sto spirito il nostro Paese partecipa alla missione militare dell’estate del 1900 per liberare le legazioni diplomatiche di stanza a Pechino dall’assedio dei boxer e accetta di aprire nella città di Tianjin una concessione con gli altri Paesi che hanno partecipato alla missione. L’Italia, l’ultima a firmare gli accordi (1902), è costretta ad accettare il più infe-lice lembo di terra rimasto tra quelli desti-nati alle potenze straniere: circa 100 ettari di terreno che si insinuano tra la con-cessione russa e quella austro-ungarica lungo la riva sinistra del fiume Hai-He.

Per poter avviare l’ambizioso progetto si procede alla stesura del piano rego-latore (approvato nel 1905), all’elabora-zione del regolamento edilizio (1907) e alla stesura del bando dell’asta per la vendita dei terreni. Nell’acquisto si cerca di privilegiare gli italiani, ciononostante a farsi avanti per primi sono nella maggior parte dei casi ricchi cinesi.L’immagine della concessione comin-cia a delinearsi: uno spazio destinato ad abitazioni signorili rappresentativo di una cultura architettonica rigorosamente ita-liana, ben distinta da quella locale e da quella delle altre concessioni dove pri-meggiano costruzioni destinate a ban-che, uffici, alberghi.

Ampie strade che si incrociano ad angolo retto su cui si affacciano villini di due piani con piccoli giardini recintati dove si insediano circa 600 connazio-nali, 700 cittadini di varie nazionalità che operano nelle diverse concessioni stra-niere e circa 6.000 cinesi. Una comunità mista che vive ben lon-tana e poco partecipe dei travagli della madrepatria. La concessione, infatti, fino al 1925 è amministrata da antifascisti. Solo con la soppressione del consiglio municipale fa il suo ingresso ufficiale il fascismo che inciderà sui caratteri formali del quar-tiere con la costruzione secondo i canoni dell’architettura del regime del Forum e della Casa degli italiani.

(Tianjin, piazza Marco Polo, direzione nord)

Giulio Machetti

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Il teatro colón a Buenos aires

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Buenos Aires e la sua area metropoli-tana contano più di 6 milioni di cittadini di discendenza italiana. Gli italiani hanno contribuito significa-tivamente al disegno e alla costruzione della capitale argentina e il teatro Colón è sicuramente l’edificio simbolo dell’Italia in Argentina e dell’Argentina nel mondo. Progettato dall’italiano Francesco Tam-burini e proseguito dal suo allievo Vit-torio Meano con il finanaziamento di un altro italiano, Angelo Ferrari, il teatro fu concluso dal belga Jules Dormal dopo 18 anni di costruzione. Fu inaugurato nel maggio 1908 con la messa in scena di Aida di Giuseppe Verdi. Negli anni Trenta fu ampliato nei sotterranei per dotarlo di un atelier di

scenografia, ampliato nuovamente trenta anni dopo da Mario Roberto Alvarez per incorporare altri 20.000 metri quadri destinati a sale prova, produzione e aree amministrative. Il teatro Colón è un’opera fondamen-tale della cultura argentina, che pro-muove e proietta l’identità nazionale su scala mondiale. La sua notorietà deriva dall’insuperabile acustica, dall’impo-nente architettura eclettica, dall’am-piezza e genialità tecnica della sala e dalla capacità artigianale della produ-zione di spettacoli. Qui si sono esibiti musicisti, cantanti, registi e ballerini tra i più prestigiosi: da Toscanini a Stravin-sky, da Nijinsky a Nureyev, alla Callas, Pavarotti, Domingo.

Oggi il Colón è nella fase conclusiva di un profondo processo di restauro conserva-tivo e di modernizzazione tecnologica che restituirà lo sfavillio degli anni di splendore.La sfida è grande tanto quanto il presti-gio del teatro e prevede l’applicazione di un metodo di gestione in grado di coor-dinare tutti gli attori coinvolti in questa grande opera. Un progetto che si sud-divide in 60 sottoprogetti coordinati a cui lavorano più di 500 fra operai ed esperti. Tutte le aree principali del tea-tro Colón verranno terminate prima della sua riapertura nel maggio 2010, mentre le cosiddette ‘opere complementari’ ver-ranno consegnate nel 2011.

www.teatrocolon.org.ar

(La grande sala del Teatro Colón)

Edgardo Salamano

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new York e le Little ItalyNew York ci permette di analizzare il luogo comune, lo stereotipo dell’appartenenza: la costruzione di quell’idea di ‘italianità’ che non è mai stata data in sé e per sé ma che si è sempre modificata a seconda dei bisogni e delle opportunità. Del resto, molto spesso la tradizione procede al contrario: proietta nel passato imma-gini e bisogni che appartengono al pre-sente. A New York dunque, si cerca l’ar-chitettura come costruzione delle identità, quelle identità declinate nelle Little Italy (luoghi grandi come un nucleo familiare, un paese, un ristorante, una strada); negli spazi che hanno contrassegnato il tempo del Made in Italy (boutique, ristoranti di alta cucina, showroom di design); negli oggetti culturali creati da curatori di musei,

direttori di testate prestigiose, docenti uni-versitari, artisti, designer, fino ad arrivare agli interstizi di un presente dalla com-plessa lettura: questo tempo che, dopo la crisi finanziaria, sembra scivolare oltre gli oggetti e declina il concetto di ‘nuovo’ non più all’interno di categorie estetiche ma temporali. Little Italy, dunque, come ‘architettura degli stereotipi’. Dall’immi-grato rozzo dell’Ottocento all’Italian way of life degli anni ’80 e ’90 del Novecento, dalla costruzione dell’identità di ritorno con i suoi rituali legati a santi patroni di un’altra latitudine all’edificazione dei luoghi cultu-rali dell’‘apolide italiano’ Renzo Piano, fino al trionfo dell’indistinto contemporaneo.Nel Duemila quasi sedici milioni di americani hanno dichiarato di avere antenati italiani.

Dall’inizio del nuovo millennio però, si vanno acuendo alcune caratteristiche. Si assiste a una tendenza che il sociologo Richard Alba ha definito “crepuscolo dell’etnicità”: quella condizione di assimilazione nella quale si trovano gli italoamericani di terza genera-zione per cui il retroterra di immigrati è privo di un autentico significato. Si assiste a una sorta di trionfo dell’indi-stinto – come afferma il sociologo Giu-seppe De Rita – dove le identità storiche, nazionali o ideologiche si dissolvono e si ricompongono velocemente e spesso al loro posto si insedia un insieme di com-portamenti (di consumo, di comunicazione di massa, di mobilitazione emotiva) struttu-ralmente troppo labili e generici per garan-tire nuove identità.

Lorena Bari

(Renzo Piano Building Workshop, The New York Times Building, New York, 2000-2007)

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Berlino, nuova capitale italiana?L’architetto vicentino Franco Stella firmerà l’ambizioso e discusso progetto della rico-struzione dell’antico castello cittadino di Berlino (Berliner Stadtschloss). L’edificio originale, rovinato dai bombardamenti, fu abbattuto dal regime della DDR per-ché considerato simbolo del militarismo prussiano; al suo posto fu eretto il Palast der Republik tirato giù, a sua volta, dopo il crollo del muro. Il progetto si compone di una parte conservativa – la ricostruzione secondo i piani originali di tre facciate barocche (nord, est e ovest) – e di una parte completamente innovativa: la facciata sud dell’edificio, infatti, sarà edificata secondo il progetto originale dell’architetto. Non è la prima volta che architetti italiani ‘riempiono i buchi’ della storia berlinese.

Basti pensare a Potsdamer Platz, sim-bolo della divisione della città a due passi dal bunker dove si suicidò Hitler, ricostru-ita da zero sotto la supervisione di Renzo Piano; oppure alla riedificazione ad opera di Aldo Rossi dello Schützenquartier, area centrale accanto al Checkpoint Char-lie; senza dimenticare i contributi di Gior-gio Grassi, Vittorio Gregotti, Aldo Rossi e altri alla Internationale Bauausstellung (la mostra internazionale dell’edilizia) del 1984 a Berlino ovest. Ma la Berlino ‘italiana’ non si riduce a que-ste importanti opere. Di fatto, la capitale tedesca nell’ultimo ventennio è diventata una meta ambita di un flusso di mobilità composto da giovani italiani alla ricerca non solo di esperienze professionali, ma

anche di studio e di vita (in merito, basti pensare che il tasso di disoccupazione nella città si aggira intorno al 17%, e, secondo alcuni studi, nella collettività ita-liana rasenterebbe il 30%). Le autorità tedesche calcolano che, nel 2008, gli italiani residenti a Berlino fossero 14.964, di cui oltre un quarto da meno di 5 anni, a cui ogni anno si aggiungono tra i cin-quecento e i mille individui, in maggioranza giovani studenti, ricercatori, professionisti attratti anche dal basso costo degli immo-bili in locazione, grazie al surplus di offerta rispetto alla domanda nel mercato immo-biliare. I rappresentanti di queste ‘nuove mobilità’ partecipano così, assieme ai grandi architetti italiani, nel dare alla capitale tedesca un volto sempre più ‘italiano’.

Alvise del Pra’

(L’area del cantiere della ricostruzione dello Stadtschloss)

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Le migrazioni italiane sono lette in senso globale e diacronico per comin-ciare a esplorare il contributo architet-tonico, artistico, urbano e paesaggi-stico che gli italiani hanno apportato ai Paesi di insediamento.

In termini numerici i movimenti migra-tori presentano cifre impressionanti. Sono 29 milioni gli emigrati che nel corso di un secolo e mezzo hanno varcato i confini italiani per poco, o per sempre, per diri-gersi in ogni parte del mondo: quasi 15 milioni in Europa (2.970.040 in Germania, 4.436.965 in Francia, 4.434.113 in Sviz-zera), 12 milioni nelle Americhe (672.410 in Canada, 5.800.706 negli Stati Uniti, 1.476.552 in Brasile, 3.007.361 in Argen-tina) e attorno al mezzo milione tra Africa e Oceania. Ancora oggi si trovano nel mondo 3.734.428 cittadini italiani, per non parlare degli oriundi che si stimano in decine di milioni. Nella sola Argentina essi costituiscono la maggioranza della popo-lazione del Paese.

Gli italiani hanno lasciato profondi segni della loro presenza nelle diverse società. Si tratta di segni diretti, legati

alle loro professionalità: architetti, inge-gneri e artisti, maestranze, artigiani, scal-pellini, stuccatori, intagliatori e manovali. Ma non sono da trascurare le influenze derivate dal continuo intreccio tra migra-zioni di professionisti e migrazioni non specializzate. Anche quando, come al momento dell’emigrazione di massa, par-

tivano prevalentemente i contadini, essi in molti Paesi preferirono dedicarsi a lavori all’aperto piuttosto che rinchiudersi nelle fabbriche. Parteciparono così alle grandi opere infrastrutturali dell’epoca come ferrovie, metropolitane, viadotti, dighe e a tutte quelle opere relative allo sviluppo delle grandi città. Fenomeno che si è riproposto nel secondo dopoguerra. Non

è da trascurare nemmeno l’attività edilizia ‘privata’: molti degli emigrati, indipenden-temente dalla loro attività lavorativa, ten-devano a costruirsi la propria casa, per necessità se si trovavano nelle campagne argentine o brasiliane, per risparmiare, nelle zone urbane. Come testimonia il let-terato italoamericano Fred Gardaphè nel video Segni italiani quando racconta che il nonno manovale, a Chicago, portava a casa ogni sera, come tutti i suoi com-pagni, un mattone ‘rubato’ dal cantiere per costruirsi la casa. L’intreccio tra cul-tura del risparmio e tradizione si è riflet-tuto anche nella creazione di orti in ogni fazzoletto di terra limitrofo all’abitazione, sia che si trattasse di una backyard o di un terreno incolto. Assieme a chiese, cimiteri e edicole i segni italiani sul pae-saggio straniero si sono così moltiplicati nel tempo, affiancati dalle capitali italiane dell’Italia coloniale in cui all’architettura ufficiale si unì l’impronta della emigra-zione, seppur limitata nei numeri, e quella dell’Italia diplomatica con ambasciate, consolati, Case italiane che si possono trovare in ogni grande città del mondo.

grandi opere infrastrutturali e singoli edifici… quanto è riconoscibile l’influenza che gli italiani hanno avuto sul disegno delle città in cui sono andati a vivereMaddalena Tirabassi

migrazioni italiane e segni italiani

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Non meno importanti sono poi i muta-menti del paesaggio urbano, legati al con-centrarsi delle migrazioni in quartieri poi definiti ‘etnici’: con l’arrivo degli italiani in molte città gli incroci diventano piazze, le strade, spesso teatro di processioni e feste, con ristoranti e negozi di generi ita-liani. Capitali italiane nel mondo, quindi, ma anche capitali degli italiani nel mondo. Il fenomeno più eclatante in questo senso è quello delle Little Italy statunitensi, in cui non erano gli edifici, preesistenti alla pre-senza italiana, ma lo stile di vita a segnare il quartiere, con negozi legati alle più varie attività commerciali, a conferire un aspetto particolare… ‘Piccole Italie’ che, seppur in misura e in tempi diversi, si pos-sono trovare in tutti i continenti.

Le migrazioni di professionisti sono state spesso offuscate dall’immagine dominata da una lettura pauperistica dell’emigra-zione. Al contrario esse costituirono un segmento importante che trova le sue radici in epoche antecedenti di molto l’unificazione del Paese. Già ai tempi delle colonie genovesi e veneziane, gli italiani avevano lasciato la loro impronta nelle

città del Mediterraneo. Si trovano quar-tieri e strade italiane a Salonicco, a Chio e a Creta, in Asia minore, a Costantinopoli e a Smirne, in Siria, in Palestina e in Egitto, fino all’estremo del Marocco.

A partire dal Seicento, mercanti e ban-chieri si diressero in Europa, dove archi-tetti e artigiani italiani parteciparono alla

cultura e alla costruzione delle grandi città europee, che a Londra e a Parigi davano rispettivamente il nome a Lombard Street e a Rue de Lombards.

A Vienna architetti, impresari edili e arti-sti italiani imporranno lo stile barocco, il teatro moderno, la musica. Ma il primato italiano si ha nell’architettura e nell’inge-gneria militare: fino alla seconda metà del

Seicento si costruiranno fortezze sia in Europa che nell’America spagnola.

Nel Settecento in Germania si avvi-cendarono intere dinastie di decoratori e stuccatori contribuendo alla realizza-zione di saloni e cappelle a Stoccarda e a Wurzburg. Le compagnie di lavoro costi-tuite da gruppi familiari avevano compe-tenze che andavano dall’architettura, alla scultura e all’intaglio, fino alla stuccatura e alla decoratura.

Nella Russia degli zar architetti tici-nesi e lombardi tracciarono le muraglie del Cremlino: Aristotele Fioravanti, Pietro Antonio Solari, Marco Ruffo furono tra gli italiani a cui fu commissionata l’elabora-zione dello stile russo che si trova nelle cupole multicolori a smalto e oro delle cattedrali di Mosca e dintorni. Bartolomeo Rastrelli diverrà la figura centrale dell’ar-chitettura russa importando il Barocco. Quarenghi contribuirà con lo stile neo-classico a trasformare San Pietroburgo, dandole un tono italiano.

La Francia di Francesco I venne con-quistata dai modelli artistici e architet-tonici italiani: i palazzi-fortezza verranno

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modelli architettonici italiani importati nel Paese dagli ‘scenografi’ americani del paesaggio urbano all’opera negli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento. Il caso di New York offre l’esempio più interes-sante. I grandi cantieri che dovevano tra-sformare la fisionomia della metropoli: quelli dei grattacieli – Flat Iron, 1902,

World Tower ed Equitable Building, 1915 – della metropolitana inaugurata nel 1904, dei ponti (Brooklyn Bridge, 1883) oltre ad avvalersi del lavoro degli immigrati italiani, si rifacevano a modelli architettonici euro-pei, spesso italiani. Già il parco Luna, a Coney Island, aperto nel 1903, creato da Frederick Thompson, considerato l’ide-atore dell’utopia di Manhattan, si ispirò

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rimpiazzati da edifici rinascimentali. A Parigi Fra Giocondo assieme al suo giardiniere Pacello da Mercegliano e all’ingegnere Domenico da Cortona gui-deranno il passaggio dallo stile gotico a quello rinascimentale.

Anche negli Stati Uniti il contributo ita-liano alla società è stato particolarmente rilevante in campo artistico, come testi-moniano le ricerche di Regina Soria, che elenca 350 artisti: scultori e pittori, ma anche scalpellini, intagliatori di marmo e legno, figurinai, stuccatori, e bronzisti, esercitarono un ruolo importante nel ‘dar forma’ all’America. Ad esempio alcune delle icone americane sono state pro-dotte da italiani. Da citare lo scultore del Campidoglio, Giuseppe Franzoni, autore dell’aquila americana simbolo della repubblica, Enrico Causici, scultore della prima statua di Washington e dei busti di Jefferson e Moore, Costantino Bru-midi, che introdusse in America la tec-nica dell’affresco

Oltre alle influenze veicolate dall’im-migrazione, delle masse e degli ‘artisti’, ci furono quelle indirette, costituite dai

a modelli rinascimentali e orientali intro-ducendo accanto ai minareti, vedute del Vesuvio, la caduta di Pompei, una rico-struzione del Canal Grande e del Palazzo Ducale di Venezia. La New York di inizio secolo si avvalse in larga misura della manodopera italiana, creativa e abile, per decorare i grattacieli e la metropoli-tana (1904) con stucchi, mosaici. L’Arts and Crafts Movement – che enfatizzava la figura del maestro artigiano – si avvalse ampiamente delle loro competenze.

Anche in Brasile architetti e artisti italiani sono stati autori di numerosi edifici sim-bolici e monumenti: Tommaso Gauden-zio Bezzi (Monumento do Ipiranga a San Paolo che commemorava l’indipendenza del Brasile); Luigi Pucci, un toscano, edi-ficò numerose ville per la famiglia di Anto-nio Prado e poi fu responsabile di impor-tanti cantieri edili e costruttore di canali, strade e gallerie. Un altro italiano, inge-gnere, Bertolotti nel 1891 vinse il concorso per la direzione delle Obras Publicas di San Paolo. A lui venne affidato il com-pito della realizzazione del primo nucleo urbano di Piracicaba e della fabbriche di

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l’Italia o, per citare Luigi Einaudi, “l’am-biente argentino è saturo di italianità”.

Gli italiani parteciperanno anche alla ricostruzione europea nel secondo dopoguerra. L’edilizia, assieme alle atti-vità commerciali e di ristorazione offrì le migliori opportunità di mobilità sociale: mentre la manovalanza dei cantieri veniva

reclutata fra gli immigrati della costa meri-dionale del Mediterraneo, gli italiani anda-rono progressivamente a occupare posi-zioni tecniche e imprenditoriali.

Le migrazioni italiane attraverso i mec-canismi della catena migratoria familiare e di mestiere, concentrandosi in speci-fici quartieri, hanno formato nel mondo tante piccole Italie che, negli Stati Uniti,

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ceramica di Calmon Viana. Adolpho Josè del Vecchio diplomato al Politecnico di Rio costruì l’edificio della Dogana su un’iso-letta davanti a Rio de Janeiro. In questa città nel primo Novecento in occasione dei grandi lavori di trasformazione urbana intrapresi dal governo repubblicano gli architetti e ingegneri italiani assumeranno un ruolo di primo piano diffondendo “il loro decoroso classicismo passe par-tout”. Ma è in alcune zone rurali del Paese che si respira, grazie all’isolamento in cui sono rimaste per decenni, un’aria italiana, come mostrano le imponenti ricerche sulla cultura vernacolare italiana nel Rio Grande Do Sul.

In Argentina, l’edificazione della capitale Buenos Aires coincise con il picco dell’im-migrazione e gli italiani contribuirono a tutti i livelli all’edificazione della nuova capi-tale. Ma anche qui, oltre ai numerosi segni lasciati da architetti come Francesco Tam-burini e Giovanni Antonio Buschiazzo fu la presenza italiana a segnare profonda-mente la cultura del Paese. Ci troviamo di fronte a una nazione in cui è difficile rin-tracciare i segni italiani poiché tutto ricorda

a differenza di tanti altri quartieri etnici ‘euroamericani’: German, Jewish e Polish Towns, sono sopravvissute al mel-ting pot, allo sradicamento post bellico, alla gentrificazione.

Gli spostamenti degli americani di origine italiana nei sobborghi, grazie al benessere finalmente acq isito negli anni del dopo-guerra hanno visto trasformarsi, ma non estinguersi le Little Italy, che divennero meta di loro visite per ritrovare i risto-ranti, i negozi, le chiese. ‘Quartieri etnici’ andarono a riformarsi a Brooklyn, Long Island, Benson Hearst. Le ragioni di que-sto attaccamento al territorio sono da rin-tracciarsi nella cultura italiana: il possesso di una casa, o meglio la costruzione di una casa, rappresenta il simbolo del suc-cesso dell’esperienza migratoria. A dare continuità nel tempo sono poi i mate-riali utilizzati, pietre e mattoni. Questo ha fatto sì che le case degli italiani abbiano resistito meglio agli incendi che hanno in più occasioni distrutto le città americane costruite prevalentemente in legno.

Fonte dati: rielaborazione a cura di Centro Altreitalie su base ISTAT, Sommario di statistiche storiche italiane, vari anni

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una lezione di francese

cristiano seganfreddo

esclusività e unicità sono gli ingredienti di un’abilità radicata nelle mani degli artigiani italiani

Italici

dal cibo alle scarpe, il mito di una nazione

esiste nel mondo una comunità di persone che si sentono vicine all’Italia per sensibilità e origini. È un’Italia descritta attraverso le icone, i prodotti, lo stile di vita, ma anche e soprattutto tramite l’architettura

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100% Made in Italy

pasquale de angelis

I distretti da eredi delle botteghe rinascimentali a principali artefici di un saper fare italiano

la ferrari come modello da esportare

gianni rogliatti

l’architettura è chiamata a promuovere il marchio più simbolico del Made in Italy all’estero

gli italici: una nuova comunità glocale

piero Bassetti

Immigrati, oriundi, italofoni e italofili: la rete degli italici sparsi nei cinque continenti

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la ferrari come modello da esportareI nuovi edifici dello stabilimento costruiti secondo la 'formula uomo'Gianni Rogliatti

Che la Ferrari sia il marchio automobi-listico italiano più conosciuto nel mondo non ci sono dubbi, ed è forse il marchio italiano più famoso tout court, il porta-bandiera del Made in Italy.

Sui motivi di questo successo molto è già stato detto, ma il tutto si può rias-sumere in una serie di concetti: c’è il carisma del fondatore Enzo Ferrari, che col passar del tempo diventa sempre più misterioso, poi la tecnica vincente che ne ha fatto delle auto leggendarie vittoriose in tutte le gare più importanti del mondo e, non ultimo, il fascino della bellezza rappresentato dalle carrozzerie Pininfarina. Si potrebbe anche aggiun-gere che il costo elevato ed il tempo richiesto per la consegna dei singoli esemplari conferisce loro una caratteri-stica di esclusività, ma questo è sicura-mente l’elemento meno importante.

La storia della marca raggiunge quest’anno i 70 anni dalla sua fonda-zione nel 1940 con il nome di Auto Avio Costruzioni e i 63 anni dalla uscita su strada della prima automobile col mar-chio Ferrari, la mitica 125 S del 1947.

Questa storia si è sviluppata in due periodi, il primo dei quali parte dall’ori-gine e si è concluso negli anni ’90: ha visto l’espansione della capacità produt-tiva che è passata dai tre esemplari del 1947 ai 3.518 del 1997 grazie al continuo ampliamento dei vecchi capannoni e la costruzione di nuovi.

In questo periodo ci sono stati grandi avvenimenti, le vittorie, il diffondersi della fama internazionale della marca anche nel bel mondo dove il possesso di una Ferrari diventava sinonimo di successo personale, ma anche la scomparsa di Enzo Ferrari nel 1988 cui erano seguiti alcuni anni di assestamento per metabo-lizzare la perdita. Alla fine del 1991 Luca Cordero di Montezemolo veniva nomi-nato presidente ed amministratore dele-gato. Scelta azzeccata in quanto cono-sceva bene la Ferrari essendo stato dal 1973 al 1976 assistente del presidente e direttore della squadra corse.

Dopo avere risolto problemi organizza-tivi, come la scelta di nuovi modelli e il rilancio della squadra corse che da alcuni anni offriva risultati non all’altezza della

tradizione Ferrari, Montezemolo affron-tava nel 1997 un problema nuovo, dan-dogli un nome che ricordava il mondo delle corse e cioè ‘Formula uomo’.

Si trattava di ridisegnare la fabbrica in modo che fosse sempre più efficiente dal punto di vista tecnologico, ma pre-sentasse un’elevata qualità dell’ambiente di lavoro. Per dirla con le parole di Mon-tezemolo: “qualità dell’ambiente significa qualità della vita e del lavoro, in spazi non coercitivi e non deprimenti, dove il lavoro non sia vissuto come un obbligo”.

Era un impegno gigantesco, che richie-deva la costruzione di nuovi edifici al posto di quelli vecchi, il tutto senza interrom-pere la produzione, che anzi è aumentata dai citati 3.518 ‘pezzi’ del 1997 agli oltre 6.000 del 2009. Ma l’innovazione andava oltre, perché i nuovi edifici sono stati tutti ‘firmati’ da grandi architetti, in modo tale che, sono ancora parole di Montezemolo, “chi arriva a Maranello vuole soprattutto vedere delle bellissime macchine, vuole capire cosa c’è dietro la macchina e il suo successo, ma io voglio che vedano anche alberi dentro stabilimenti pulitissimi, che si

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senta la simbiosi tra un lavoro fortemente manuale e la grandissima sofisticazione delle macchine utensili”.

In realtà la ‘Formula uomo’ non con-siste solo negli edifici ma anche in una serie di iniziative tese a migliorare le condizioni del personale e delle fami-glie, e nei programmi per migliorare la sicurezza sul lavoro, l’uso ottimale ed il risparmio di energia nonché la cura dell’ambiente. A proposito di questi ultimi due punti va detto che la Ferrari ha già istallato molti pannelli fotovoltaici e sta costruendo una centrale di trige-nerazione che la renderà praticamente autosufficiente sul piano energetico. Per l’ambiente ha piantato mille alberi nei viali interni dello stabilimento.

Ma ecco il programma relativo agli edifici.Il primo, costruito secondo la nuova filo-sofia aziendale nel 1997 è stato quello della Galleria del vento, di Renzo Piano. La galleria del vento è, in pratica, un grosso tubo entro il quale circola l’aria mossa da un potente ventilatore ed i cui effetti sull’automobile in prova pos-sono essere accuratamente misurati.

In genere queste istallazioni vengono racchiuse entro parallelepipedi senza finestre e senza personalità. Piano ha lasciato all’aperto questo tubo, ada-giandolo di sbieco contro una collinetta ed ha creato di fatto un richiamo anche paesaggistico in quanto si trova vicino alla nuova entrata della fabbrica.

Nuova logistica, una struttura che non sta nel complesso dello stabilimento, bensì accanto alla pista di prova di Fio-rano: ospita i mezzi di trasporto neces-sari per partecipare alla gare di Formula 1 in tutto il mondo ed è stata progettata da Sturchio Architects & Designers, con una forma che ricorda chiaramente un dirigibile, quasi volesse muoversi con tutti gli autocarri dentro.

Il Centro sviluppo prodotto, costruito nel 2004, è stato progettato da Massimi-liano Fuksas e si potrebbe definire sem-plicemente come un parallelepipedo, ma la definizione, geometricamente cor-retta, non rispecchia la realtà di un edi-ficio le cui pareti sono di vetro e creano effetti ottici curiosi, aiutate in questo dai solai esterni che sono piscine con 10 centimetri di acqua attraversate da cam-minamenti. È un ambiente arioso, atto a stimolare la creatività.

Nello stesso 2004 è stato ultimato l’edi-ficio della Nuova verniciatura, anche que-sto opera di Marco Visconti, con propor-zioni gigantesche e con la caratteristica di possedere una balconata esterna dalla

Nel 2001 è entrata in funzione la Nuova meccanica, opera di Marco Visconti dove tra le macchine utensili si trovano aiuole verdi e dove la lumino-sità ed il basso livello di rumorosità pos-sono trarre in inganno il visitatore circa la vera attività che si svolge nell’edificio dove si producono i pezzi delle auto-mobili. Nel 2003 è stata la volta della

Grandi architetti sono stati chiamati a ridisegnare la fabbrica in modo che oltre all’efficienza tecnologica presentasse un’elevata qualità dell’ambiente di lavoro, facendo emergere la simbiosi tra un lavoro fortemente manuale e la grandissima sofisticazione delle macchine utensili

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ciascuno di questi edifici è avvenuta con la più stretta collaborazione tra gli archi-tetti e i dirigenti della Ferrari, in modo che il risultato fosse proprio quello pro-grammato e cioè la bellezza esterna unita alla funzionalità delle operazioni cui sono destinati. Come dicevano i grandi architetti greci καλòς καì αγαθòς ossia ciò che è bello è anche buono, nel senso di utile, pregevole.

Il risultato è impressionante sia che lo si osservi camminando negli ampi viali interni, sia vedendo una foto aerea: il piccolo stabilimento di 10.000 metri quadri del 1947 è diventato un com-plesso luccicante di 209.070 metri qua-dri che si sviluppano sull’area comples-siva di ben 551.519 metri quadri ottenuti

da segnalare nelle guide gastronomiche.Infine l’ultimo della serie è quello desti-

nato al Montaggio vetture: progettato da Jean Nouvel si sviluppa su due piani, quello terra dedicato alle automobili con motori V8 e quello superiore alle 12 cilindri. La sua lunga facciata rea-lizzata parte in acciaio e parte in vetri riflettenti è visibile dalla Statale dell’Abe-tone e appare come un lungo spec-chio, con effetti non solo estetici ma anche di regolazione della luce e della temperatura dell’ambiente di lavoro. È stato costruito sulla traccia dell’edi-ficio originale, di cui si conserva parte della parete esterna come elemento decorativo e monumento alle origini. Va da sé che la progettazione di

quale i visitatori possono vedere come si svolgono i processi di verniciatura, total-mente automatizzati.

Infine nel 2008 venivano completati altri due edifici: uno è il Ristorante aziendale strategicamente piazzato al centro del complesso industriale in modo da avere una distanza massima predefinita che i lavoratori debbano percorrere dai punti più lontani. Anche questo progetto è di Marco Visconti: la linea innovativa che ricorda un profilo alare sistemato alto da terra in modo da apparire come in volo e l’ambiente interno molto gradevole fanno da contenitore ai prodotti della cucina emiliana che sono preparati sul posto e sempre freschi. Un locale che, se non fosse riservato ai soli dipendenti, sarebbe

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si era fatto costruire un castello inglese in America, del tutto uguale all’originale salvo un dettaglio: il prato di erba fitta, verde e rasata, detto appunto prato all’in-glese. Chiamato un esperto ebbe come responso che, sì, il prato si poteva otte-nere: bastava annaffiare e tosare regolar-mente… per 400 anni.

Oggi le automobili si fanno dovun-que nel mondo ma una Ferrari non si potrebbe costruire in nessun altro posto che a Maranello. Non a caso esiste anche un reparto chiamato Ferrari Clas-siche dove qualunque automobile uscita dal portone col numero 4 di via Abetone Inferiore a partire dal 1947 può ritornarvi per essere rimessa a nuovo coi pezzi di ricambio e le istruzioni originali.

assemblate le scocche in alluminio di cui sono dotate tutte le Ferrari stradali.

È stata un’operazione in cui si rispec-chia la filosofia del fondatore, il quale diceva che per fare delle buone mac-chine ci vogliono prima di tutto gli uomini, poi le attrezzature e infine gli edi-fici e con la sua ‘Formula uomo’ Monte-zemolo ha fatto proprio questo.

Il modello naturalmente è esportabile: deciso il prodotto e il posto dove farlo si possono applicare tutti i canoni elen-cati all’inizio e il risultato sarà probabil-mente buono e comunque sufficiente per le esigenze di mercato. Esiste però il fattore tempo di maturazione, bene esemplificato da una storia che si asse-risce essere vera. Un ricco americano

con successive acquisizioni dei terreni circostanti quello originale che già Enzo Ferrari aveva previdentemente com-prato abbondante rispetto alle sue esi-genze di allora. Tutto ciò ha richiesto un investimento di oltre 200 milioni di euro e costituisce il fiore all’occhiello per la città che attualmente ha un sindaco architetto, Lucia Bursi.

A questo va poi aggiunto lo Stabilimento Scaglietti di Modena con una superfi-cie coperta di 15.467 metri quadri, sto-rica sede del carrozziere principe per le auto da corsa Sergio Scaglietti, di cui si è voluto conservare il nome, (presente anche in modello in produzione il 612 Scaglietti appunto) anche questo com-pletamente rinnovato e dove oggi sono

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l’Istituto per la tutela dei produttori Italiani è nato per garantire che il Made in Italy non sia realizzato solo 'prevalentemente' in ItaliaPasquale De Angelis

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Un autorevole studioso tedesco, Jacob Burckhardt, circa un secolo e mezzo fa, parlando dell’uomo del Rinascimento ita-liano, lo definiva dotato di straordinaria ver-satilità, animato dal desiderio di allargare le sue conoscenze in tutti i campi, che poi applicava alle varie esperienze della vita operativa, dalle forme più alte dell’arte ai più comuni oggetti di squisita bellezza.

Oggi ritroviamo questa nostra cultura del ‘saper fare’ e ‘fare bene’, che ci deriva dalle botteghe di arti e mestieri rinasci-mentali, trasformata e allargata su varie aree della nostra penisola. I nostri distretti industriali sono in chiave moderna l’evolu-zione di quelle botteghe artigiane, rinasci-mentali. Da questa arte di prestigio antico nasce il Made in Italy. Un nome quest’ul-timo che insieme a ‘pizza’ e ‘pastasciutta’ è fra i più famosi al mondo. Gli eredi di quelle intelligenze rinascimentali sono oggi i nostri artigiani che, appena hanno avuto l’opportunità, si sono imposti in tutti i mercati internazionali.

Ebbene, questa grande ricchezza nazio-nale rischia di scomparire nell’arco di pochi anni perché la concorrenza di coloro che

producono parzialmente all’estero, senza alcun rispetto per le norme e con un costo di manodopera molto basso, la sta met-tendo in ginocchio. L’Istituto per la Tutela dei Produttori Italiani (ITPI) è sorto oltre 15 anni fa, senza scopo di lucro, per opporsi a ciò e ha sostenuto la battaglia per far togliere la scritta ‘sole Made in Italy’ dalle suole... e si tratta proprio di suole e non delle scarpe!

Infatti le fabbriche italiane di semilavorati erano riuscite a far inserire su una legge la possibilità di scrivere Made in Italy anche sui loro prodotti. Ai loro clienti esteri inte-ressava comperare la scritta e poi la suola. Dopo anni nel 2001 con un Decreto del 30 gennaio di Enrico Letta, che modifi-cava il Decreto 11 aprile 1996, siamo riu-sciti a fare qualche passo avanti. Tutti però oggi possono ancora fregiarsi della scritta Made in Italy anche producendo il 49% all’estero. Come dire “bevo del vino con il 49% di acqua, tanto è vino comunque”. Noi estimatori del vino e del Made in Italy pensiamo che ciò sia tutto uno scherzo. Ma poi vediamo che è amara realtà.

A noi questo sembra ambiguo e

ingiusto. Ambiguo perché è difficile, se non impossibile, stabilire e control-lare quando un prodotto è ‘prevalente-mente’ fatto in Italia. Ingiusto perché così si penalizza chi produce interamente in Italia. Tuttavia, dal momento che lo stile, il buon gusto, la creatività sono caratteri-stiche che sui mercati internazionali ven-gono tradizionalmente riconosciute agli architetti italiani e alle imprese italiane, creatività e design sono le migliori leve per il rilancio competitivo del Made in Italy e dell’industria italiana.

Non possiamo non considerare però quale sia il comportamento dei gruppi di forza del mercato e… dei furbi, fab-bricanti che continuano a dire che pro-ducono in Italia ma poi si scopre che non è vero. Il consumatore vorrebbe comprare Made in Italy vero, ma ha sempre il dubbio di essere raggirato. Sempre più spesso sente che è vero. La ragione dell’esistenza del nostro Istituto deriva proprio da un quadro così falsato. Vogliamo fare in modo che l’autentico Made in Italy diventi logo, una firma, seppur firma collettiva,

100% Made in Italy

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di sistema e non di una sola ditta, un brand ombrello promuovendo l’imma-gine collettiva: selezionando i produttori che rispondono a rigidi requisiti e asso-ciandoli, sensibilizzando i negozianti, inducendo i consumatori a saper distin-guere tra il vero e il falso Made in Italy.

Con l’avvento della globalizzazione si è trascurato il contenuto del prodotto, valorizzandone di più l’aspetto econo-mico: non ci preoccupiamo di come è fatto, di quali materiali vengono utiliz-zati, da dove proviene, ma si punta sul prezzo e sulla grande firma che suppli-sce all’analisi dei contenuti e della qua-lità. Noi però vogliamo riportare l’atten-zione sui contenuti, visto che il Made in Italy è contenuto. Con la Certificazione del ‘100% Made in Italy’ vogliamo evitare ai consumatori di bere vino annacquato!

Oggi la sede dell’istituto è nella città di Fermo, in uno dei più antichi opifici di questo territorio. Un edificio del Set-tecento nato per la raccolta del baco da seta. Nel 2003, dopo un attento restauro conservativo, è ritornato il ‘Palazzo dei produttori’, per dare continuità alle sue origini manifat-turiere, in un distretto della calza-tura fra i più importanti nel mondo. Vediamo in breve come avviene la certificazione ‘100% Made in Italy’. L’istituto ha realizzato un sistema di cer-tificazione volontaria in base al quale i produttori distinguono le loro crea-zioni da quelle di dubbia provenienza, ridando certezza al consumatore finale sull’origine e la qualità.

Alcuni requisiti indispensabili per avere il marchio 100% Made in Italy sono: innanzitutto materie prime natu-rali di qualità e di prima scelta. In gene-rale sappiamo che l’Italia non ha mate-rie prime; prendendo ad esempio il settore delle calzature, i pellami ven-gono dall’estero, però la conciatura deve essere rigorosamente italiana ed i pellami di prima scelta. Inoltre, fab-bricazione interamente italiana, semi-lavorati prodotti in Italia, modelli esclu-sivi dell’azienda, prodotti conformi alle norme sulla sicurezza e l’igiene.

L’istituto ha provveduto anche alla rea-lizzazione di un sistema di tracciabilità

per i prodotti ‘100% Made in Italy’. L’azienda certificata dovrà utilizzare i segni distintivi rilasciati dall’istituto. I prodotti sono dotati di marchio ologra-fico anticontraffazione e di numerazione progressiva.

Oggi l’istituto estende la propria certifi-cazione a molti settori produttivi: abbiglia-mento, arredamento (mobili, sedie, par-quet, poltrone, illuminazione), intimo, abiti da sposa, cosmetici, giocattoli, arredi e oggetti sacri, rubinetterie, ceramiche d’arte, gioielli, ecc. In sintesi: tutti quei pro-dotti che riguardano principalmente la casa e la persona. Le produzioni ‘100% Made in Italy’ certificabili sono anche gli acces-sori moda e i particolari che vengono con-tenuti in produzioni più complesse come borse e calzature.

marchio dello stile e della creatività del lavoro italiano. Scomparirà una cultura, una tradizione, sarà mortificata l’inven-tiva e la capacità creativa italiana di cui invece dobbiamo essere fieri. Ma soprat-tutto si rischia di far diventare un giardino in un deserto, con l’espulsione di migliaia di addetti che non troveranno un lavoro in un altro settore.

Eleganza e attenzione ai dettagli sono la forza dello stile italiano. In architettura gli ingredienti importanti sono creatività e materiali selezionati, un incontro vincente tra progetto e produttività. Nell’ultimo decennio anche l’architettura abbraccia i validi principi della certificazione, solo che dobbiamo distinguere i due livelli: certificazione obbligatoria per legge e certificazione volontaria.

Nel primo livello troviamo la norma-tiva antisismica, la manutenzione degli impianti, ecc. Sono tutte certificazioni

obbligatorie per salvaguardare prin-cipalmente la vita delle persone. Nel secondo livello troviamo invece quelle volontarie. ICMQ (Istituto di Certificazione e Marchio Qualità per prodotti e servizi per la costruzione) che valuta e certifica il livello di sod-

disfacimento dei diversi requisiti cui la costruzione deve rispondere; dalla

prestazione energetica al benessere ter-mico ed acustico. Oltre ai requisiti legati al benessere luminoso ed al risparmio delle risorse idriche. Oppure il protocollo SBC (Sustainable Building Council), un sistema di certificazione della sosteni-bilità delle costruzioni, che permette di valutare edifici di diversa destinazione d’uso (terziario, commerciale, industriale, residenziale, ospedali, musei, grattacieli, ecc.) in tutte le fasi del ciclo della vita, dal progetto all’esercizio dell’edificio.

Tutte le certificazioni volontarie, in qualsiasi settore e contesto di applica-zione e diffusione, diventano di fatto lo strumento per affermare la qualità e far emergere le eccellenze. In generale nel definire un disciplinare di certificazione, l’importante per noi italiani è quello di sti-lare regole semplici e chiare, sul modello anglosassone.

www.madeinitaly.org

Obiettivo primario del nostro istituto è tutelare, valorizzare e promuovere il ‘100% Made in Italy’ per-ché il Made in Italy è un prestigio antico, che si basa sulla creatività che sposa qualità ed inventiva. Il Made in Italy dalla moda alle calzature, dall’arredamento alle invenzioni e alle scoperte scientifi-che, da sempre ci distingue nel mondo.

Oggi il paradosso è che si vuole tra-sporre il marchio di Made in Italy anche sui prodotti realizzati all’estero, senza tener conto del significato delle parole. Chiaramente il tutto a discapito di quegli imprenditori che non hanno delocalizzato e che operano con sani principi etici.

Senza una prospettiva certa, senza alcun intervento a correzione di certe storture, si può solo ipotizzare una rapida scomparsa del Made in Italy quale

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l’artigiano italiano, da interprete di antiche pratiche sedimentate e desuete, diviene oggi il principale artefice del Made in ItalyCristiano Seganfreddo

una lezione di francese

Qualche mese fa il buon signor Vuitton ha mandato in scena una nuova campa-gna pubblicitaria sui mezzi nazionali. Chi si aspettava Madonna o la Jolie, Gorbaciov o qualche nuova starlette planetaria deve essere rimasto profondamente deluso.

Un colpo basso è stato portato a tutti i fashion victim. Convinti di trovarsi Lara Stone (la prossima modella) si sono tro-vati invece tre diverse immagini di tre signori intenti ad eseguire lavori manuali.

‘Piccoli gesti’, che vengono descritti come fondamentali, nel garantire quello che ognuno di noi cerca nel momento in cui acquista un prodotto di lusso: esclu-sività, unicità, sapore manuale, ‘imper-fezione’ perfetta.

Vuitton, indirettamente, forse, ha portato alla causa dell’artigianato più di tutte le azioni consociative messe assieme negli ultimi trent’anni. I difensori o i tutori dell’ar-tigianato hanno sempre rilasciato l’idea naif e folk dell’artigiano capace di reite-rare gesti che vengono letti dalla società come desueti. Come vecchi e non inte-ressanti. Cose che spesso stanno meglio nei mestieri in piazza, la domenica, che

in un negozio di design. L’immaginario dell’artigiano da noi corrisponde all’im-pagliatore di sedie, o al falegname vec-chietto che usa lima e scalpello, davanti alla classe di scolaretti delle elementari. L’artigiano italiano è relegato a un ruolo di antico interprete di antiche pratiche che ormai non corrispondono più alla nostra vita in bilico da un’applicazione all’altra, tra iphone, ipad e infinite connessioni wireless. Il signore del lusso cosa ci dice invece? Vuitton ci racconta che i suoi artigiani sono contemporanei. Che sono fondamentali nel processo di creazione di un prodotto di altissima qualità, dove ogni dettaglio è determinante nel risultato complessivo. Vuitton ci racconta che non è solo una questione di stile o di bozzetti di uno stilista glamour (di cui ci siamo tutti più o meno stancati, come dimostra la riduzione del 30% nei fatturati anche dei grandi marchi), ma è questione di mani. Di preziosissime mani. Che permettono ai suoi ambiti prodotti di mantenere un ruolo di diversità sul mercato. Motivo per cui il colosso francese decide di imbastire un’astronave di migliaia di metri quadri a

Fiesso d’Artico, in provincia di Venezia. Viene in Italia a farsi costruire le scarpe.

Perché dall’altra parte delle Alpi nessuno le sa più fare. L’Italia sapeva fare, come Geppetto con il suo Pinocchio. Aveva una straordinaria padronanza manuale, diffusa e sedimentata, in secoli di tradi-zione artigianale, poi diventata industria. Una sapienza di controllo di materiali e idee che, inaspettatamente, diventa-vano oggetto.

Storie. Narrazioni, come le chia-mano le ultime frontiere del marke-ting esperenziale. Partendo dalle mani. Il progetto si fondeva con l’oggetto, grazie a quel mix impreciso, instabile e indefinibile di competenze, passione, rischio. Gusto e precisione. Di prove e tentativi andati male. Di frequentazione, quasi maniacale, di un’idea. Basi per l’innovazione di prodotto di quello che è diventato il Made in Italy nel mondo. Se da altre parti l’innovazione è stata progetto e pianificazione, l’Artifi-cial Intelligence, da noi è stato l’artigianato industriale. Qualcosa di diverso, che non nega ricerca e tecnologia, ma che si fonde con altri saperi e modalità. Mondi mandati

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spesso in outsourcing o in pensione, e che dovremmo riprendere, perché quella ‘roba lì’, la nostra AI, può essere la via d’uscita, dall’impasse economica e sociale italiana. Ma solo se resa contemporanea e non, ancora una volta, folklore.

Interi comparti, infatti, si sono rinchiusi nell’autarchia. Non capiscono più il mer-cato. Non si ritrovano più sulla cartina geografica. I cui punti cardinali, nel frat-tempo, sono completamente cambiati. E così molte aziende vivono in un isola-mento che le sta portando alla chiusura. Dall’oro alla ceramica, dalla pelle al tes-sile. Realtà con una grande capacità pro-duttiva e di lavorazione che non sanno più per chi e per cosa producono. E che così stanno deperendo quotidianamente la loro capacità ‘manuale’. Quando il mondo cerca esattamente quelle capa-cità. Non servono stilisti ma modellisti. Non servono art director isterici ma pro-grammatori seri. È dunque un enorme problema di alfabetizzazione del Paese.

Come fare allora? Quali politiche appli-care? Togliere il mondo artigiano dagli organismi datati e politicizzati che l’hanno

malamente governato. Risemantizzare integralmente la parola e il mondo che le sottostà. Creare una task force multi-disciplinare che ritraduca l’artigiano con nuovi codici. Creare scuole interdiscipli-nari vere, che mixino cultura a tecnica. Costruire piattaforme con le imprese di innovazione. Produrre link interna-zionali. Mettere in rete mondi diversi... Ma prima di tutto lanciare una straor-

dinaria campagna di comunicazione. A tutti i livelli. Dedicata ai giovani.

Che renda orgogliosi di essere arti-giani del nuovo millennio. Di essere artigiani aperti, internazionali, colti. Persone che fanno un lavoro unico e insostituibile. Che sia la sarta o il pro-grammatore. E che ogni volta raccon-tano un pezzo di una storia.

Un pezzo di Italia.

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la globalizzazione non deve far paura. le nuove organizzazioni transnazionali nascono e si sviluppano a partire da cultura, economia e tradizioni locali dando vita a global communitiesPiero Bassetti

gli italici: una nuova comunità glocale

Per affrontare la questione dell’italicità, di cui noi di Globus et Locus ci occu-piamo ormai da anni, è centrale il tema del Made in Italy, che andrebbe ripensato o quanto meno riposizionato, per sco-prire che, forse, questo riposizionamento sfocia ormai in una accezione più ampia, quella del ‘fare italico’.

Ma che cosa vuol dire ‘italico’? Se a questa domanda dovessi rispondere con un titolo di giornale, necessariamente sintetico e non esauriente, direi che l’ita-lico è il passo successivo all’italiano: è il modo che ci viene offerto di affrontare ed entrare nella globalizzazione. Un passo inevitabile, pena l’esclusione dai nuovi grandi flussi sociali, economici e politici su cui – sotto gli occhi di ognuno di noi – si va riaggregando la comunità internazionale.

Questa aggregazione, proprio perché è nuova, avviene utilizzando parametri nuovi. Il cui elenco è sempre più lungo. Comprende:

- le aggregazioni di Stati che, dopo essersi scontrati per generazioni in guerre sanguinose ed eterne, confluiscono in nuove realtà come l’Unione europea,

mettendo per ora insieme le proprie eco-nomie e poi, auspicabilmente, la propria politica estera e la propria difesa;

- le alleanze politiche e/o economiche anche più ampie della Ue, sia pure meno vincolanti: Nato, Onu ma anche Asean, Unione degli Stati africani eccetera;

- le macro-regioni, cioè le comunità di interessi economici sulla base di vici-nanze territoriali che, per parlare ancora di Europa, non soltanto trascendono i confini elaborati circa due secoli fa con il trattato di Westfalia, ma ormai si stanno artico-lando secondo modalità nuove. Un esem-pio per tutti: l’area lombardo-ticinese.

La globalizzazione fa paura o può fare paura, lo sappiamo. Tant’è che le reazioni e le chiusure a riccio, per primi dai no-global, sono nelle cronache quotidiane.

Noi di Globus et Locus, ormai da anni impegnati in ricerche e analisi in questo settore, pensiamo invece che non ci sia da avere paura. Purché si capisca che anche se si scrive ‘globalizzazione’ si deve in realtà leggere ‘glocalizzazione’. Pensare localmente, agire globalmente: è questa la risposta non intimorente

a un fenomeno – la globalizzazione, appunto – che altrimenti spaventa i più.

Molto in sintesi, la glocalizzazione – intuita per primi da sociologi come Zyg-munt Bauman e Roland Robertson – ritiene che il fondamento della società in ogni epoca è stata ed è la comunità locale: l’interazione degli individui, organizzati in gruppi, costituisce un insieme di ‘sistemi’ che diventano ‘sottosistemi’ se relazio-nati a organizzazioni più complesse. Ad esempio, la famiglia è un sottosistema del sistema quartiere ma il quartiere è un sottosistema del sistema città e così via. La glocalizzazione, insomma, inizia la propria analisi dai sistemi semplici per arrivare ai più complessi: se alla base di tutte le società c’è il micro-gruppo, questo cresce, si sviluppa, interagisce con gli altri gruppi sempre più macro fino ad arrivare alle complesse realtà globalizzanti di oggi. Mantenendo, però, alcune caratteristiche locali, culturali, economiche e legate alle tradizioni, che rendono più tranquilliz-zante l’inevitabile confluire in un sistema gigantesco. Al contrario la globalizzazione tout court privilegia in partenza i sistemi

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complessi e, trascurando le implicazioni dei sottosistemi, rischia di diventare un freddo e dispotico ‘regime’.

Il futuro – un futuro che è già quasi il presente – sarà delle global communities. Con il progressivo venir meno dei vecchi, statici e sempre più inutili confini nazio-nali, a governare il mondo del Terzo mil-lennio sarà un insieme di comunità che si vanno aggregando su quei parametri del tutto nuovi che ho già evidenziato.

E in questo insieme di nuove reti, qual è il percorso riservato agli italiani? Secondo noi è quello di ‘pensare italico’, di diven-tare italici. Superando i confini e i limiti mediterranei dello Stivale si scopre così che nel mondo globale – o meglio: glo-cale – c’è una rete di persone, di interessi, di stili di vita che sta avviando una nuova aggregazione, anzi: l’ha già avviata.

L’aggregazione italica, appunto. Ne fanno parte: gli abitanti dell’Italia, sia i cittadini di passaporto sia gli emigranti e i loro figli – la cosiddetta Generazione 2 o G2 – ormai diventati italiani a tutti gli effetti. Ma ne fanno parte anche: gli oriundi, gli italofoni (ticinesi, dalmati,

sanmarinesi, ecc.). In più – ed è questo il vero e nuovissimo ‘valore aggiunto’ – di questa rete di persone fanno parte gli italofili: professionisti e/o amanti dello stile di vita italiano che, pur non avendo italiani tra gli antenati e i parenti acquisiti, ma, per passione o per interesse eco-nomico e professionale, hanno abbrac-ciato l’Italian way of life. Si va dai cultori dell’arte italiana, agli operatori e impren-ditori il cui core business ruota attorno a commerci e attività in stretto legame con aziende e affari italiani, agli appas-sionati del modo di vestire o di cuci-nare italiano, a quella rete radicata del mondo e delle opere cattoliche e vati-cane che parla direttamente in italiano o, comunque, l’italiano lo conosce, per arrivare al mondo dello sport i cui prota-gonisti – non solo del calcio – parlano e anche bene la lingua di Dante.

Impossibile fare un censimento. Ma, finora nessuno ci ha smentito, quando facendo un calcolo approssimativo rite-niamo che della rete italica facciano parte almeno 250 milioni di persone. Sparse nei cinque continenti e operanti

in tutti i settori. Una rete con i suoi lea-der in ogni campo: economia, cultura, politica, moda, architettura, gastrono-mia e, perché no, anche sport. Troppo lungo fare una lista, e si farebbe torto a chi ne restasse fuori. Ma almeno due nomi mi sento di farli: Sergio Mar-chionne e Mario Botta. Il primo ha tre passaporti – italiano, canadese e sviz-zero – il secondo solo uno, svizzero. Ma entrambi sono, sostanzialmente, italici.

Ecco, questa è la sfida che ci siamo posti e che lanciamo: noi, con il think tank Globus et locus, vogliamo aggre-gare la comunità degli italici. Vogliamo far capire che, senza nulla togliere alle rispettive tradizioni e appartenenze di origine, ‘servire’ una sola nazione sarà sempre più un’anomalia. È quello che, faticosamente, sta avvenendo per noi europei nei confronti dell’Europa unita. E noi italiani, in particolare, per la nostra storia siamo portatori di un universalismo che nel mondo glocalizzato può realiz-zarsi molto più di quanto abbiano finora provato a fare le singole nazioni raffron-tandosi con il contesto internazionale.

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roundabout

Lusso & Autarchia. 1935-1945. Salvatore Ferragamo e gli altri calzolai italiania cura di Natalia Aspesi e Stefania Ricci

Sillabe, 2005pp. 96 | € 17,00ISBN 9788883472923

Il volume, a cura di Natalia Aspesi, nota giornalista e studiosa di storia del costume, e di Stefania Ric-ci, direttrice del Museo della calzatura ‘Salvatore Ferragamo’ di Firenze, illustra uno dei periodi più interessanti della storia della calzatura italiana, dal-la seconda metà degli anni ’30 fino alla Seconda Guerra Mondiale.Mussolini pronunciò la parola autarchia nel marzo 1936 come risposta alle sanzioni commerciali che la Società delle Nazioni aveva imposto all’Italia nel 1935, a causa della guerra in Etiopia. Nella realtà si ufficializzavano provvedimenti, già in atto in prece-denza, destinati a potenziare la produzione interna e a limitare le importazioni alle merci non reperibili sul territorio nazionale.Nell’abbigliamento e negli accessori, la politica au-tarchica incoraggia il progetto di una moda italiana e, soprattutto nel settore calzature, stimola la ri-cerca sulle materie alternative, come le plastiche, il cellofan e il sughero, impiegato nell’invenzione più celebre del periodo, il tacco a zeppa, brevettato da Salvatore Ferragamo nel 1937.Tra alto artigianato, ricerca qualitativa e sperimen-tazione nei materiali, le calzature italiane comincia-no a farsi conoscere fuori dei confini nazionali, ma-turando una propria autonomia in grado di opporsi al monopolio francese e preparando il terreno per il futuro Made in Italy anni ’50.

Italianità.La costruzione del carattere nazionaledi Silvana Patriarca

Laterza, Storia e Società, 2010pp. 348 | € 22,00ISBN 9788842092070

“Il carattere nazionale è stato un elemento cen-trale delle riflessioni di una parte importante del mondo intellettuale e politico dal Risorgimento alla Repubblica, e il discorso sui vizi degli italiani è stato anche parte integrante della lotta politica, nel senso che è stato regolarmente messo in campo e utilizzato come strumento nella battaglia per la definizione della nazione”. Dai patrioti risorgimentali che volevano che gli italiani prendessero in mano il loro destino, al fascismo che voleva trasformarli in una massa disciplinata e militarizzata, fino all’Italia postbellica, in ogni epoca il discorso sul caratte-re nazionale ha assunto toni e contenuti differenti. Nel corso del tempo le analisi dell’‘italianità’ hanno contribuito a richiamare l’attenzione sulla vita pub-blica e la qualità della cittadinanza, ma sono anche state utilizzate dai nazionalisti per i loro scopi sciovi-nistici, oppure sono servite da alibi per nascondere responsabilità precise. Ricorrenti autostereotipi ne-gativi hanno continuato a circolare anche quando si inventavano le narrazioni dei ‘primati’ o della ‘brava gente’. Ma può esserci davvero una speranza di cambiamento se il carattere di un popolo si perce-pisce in questo modo e se il passato ha lasciato su di esso un’impronta quasi ‘genetica’?

Il caratteracciodi Vittorio Zucconi

Mondadori, Frecce, 2009pp. 256 | € 18,50ISBN 978880459367 Perché siamo come siamo, noi italiani? Perché ci piacciamo sempre di meno e cominciamo a tro-varci antipatici? Che cosa è accaduto nella nostra storia nazionale, da Porta Pia alle Veline, che ha fatto di noi quello che siamo diventati: rissosi, astiosi, perennemente ‘incazzati’ contro gli altri e sfacciatamente ipocriti, capaci di celebrare il Fa-mily Day un giorno e di tradire la stessa Family il giorno dopo?Vittorio Zucconi sceglie, fra i tanti possibili, dieci eventi chiave della storia d’Italia – dalla presa di Roma alla Grande Guerra, dal fascismo al boom economico, da Tangentopoli a Berlusconi, pas-sando per la tv di Mike Bongiorno, i furgoncini Ape e la ‘gioiosa macchina da guerra’ post comunista – in cerca di quel ‘cromosoma storto’ che non ha permesso di ‘fare gli italiani’. Sì, perché l’homo ita-licus, incline a denigrarsi con passione, ha ormai maturato la certezza di non possedere un vero ca-rattere nazionale, ma un caratteraccio. Prendendo spunto da un ciclo di ‘lezioni americane’ tenute agli studenti di una prestigiosa ed esclusiva università del Vermont, il Middlebury College, Zucconi mette da parte, rispettosamente, Boccaccio e Cavour per rivisitare, con la sua ironia affettuosa tessuta di deliziose esperienze personali e con la coscienza di rivolgersi non ad accademici, ma a chi della sto-ria italiana sa molto poco (cioè quasi tutti), pregiu-dizi e cliché sul dramma pirandelliano degli italiani in cerca di se stessi.

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Pecore neredi Gabriella Kuruvilla, Ingy Mubiayi, Igiaba Scego, Laila Wadia

Laterza, Contromano, 2009pp. 148 | € 9,50ISBN 9788842077978

La prima generazione di figlie di immigrati, nata o cresciuta in Italia, racconta la propria identità divi-sa, a cavallo tra il nuovo e la tradizione, una identi-tà obliqua, preziosa, su misura. Quattro voci, otto storie, molte culture. L’incrocio dei mondi e delle esperienze, tra integrazione e diversità, accoglien-za e rifiuto. Tra noi e loro. La raccolta è stata cura-ta da Flavia Capitani e Emanuele Coen.

Made in Italy.Storia del design italiano di Renato De Fusco

Laterza, Grandi Opere, 2010pp. 338 | € 30,00ISBN 9788842082552 Il liberty, il futurismo, l’art déco, il fascismo, il ra-zionalismo, lo stile Olivetti, il neo-storico, l’high tech, il minimalismo, il radical design, fino all’era informatica: Renato De Fusco traccia la comples-sa evoluzione del design nel nostro paese privile-giando le continuità formali che la caratterizzano, piuttosto che la pura successione cronologica da cui è scandita. Questo volume, dopo il grande successo editoriale della Storia del design dello stesso autore, approfondisce le peculiarità pro-prie di una nazione come l’Italia dove mancano, o sono mancati, solidi riferimenti come risorse, grandi imprese industriali, vasta committenza: un contesto produttivo-commerciale che ha ine-vitabilmente influenzato la vivacissima parabola artistico-culturale del nostro design.

Roma capitale senza centrodi Vieri Quilici

Officina Edizioni, 2007pp. 208 | € 16,50ISBN 9788860490346

La singolare anomalia riguardante Roma è quella di trovarsi ancora oggi, a più di un secolo dall’es-sere diventata capitale italiana, senza un nuovo ‘centro’, senza una centralità chiaramente ricono-scibile come moderna, nel senso che a questo ter-mine si può attribuire in riferimento alle altre capitali europee. Il libro intende verificare se l’‘anomalia’, le cui origini vanno ricercate nei tempi lunghi della storia urbana post-unitaria ed ancor prima, possa costituire un limite insormontabile nel giocare un ruolo di capitale di rango europeo. Si tende in ultima analisi ad interrogarsi – parten-do da basi storiche, ma anche con un particolare interesse rivolto alle prospettive progettuali – se oggi, mentre la diffusione metropolitana della ‘città esplosa’ sembra ancor più allontanare la possibi-lità di rincorrere i tempi perduti della trasformazio-ne moderna, la posta in gioco debba intendersi definitivamente persa. Ovvero se proprio la nuova confusa condizione ‘ambientale’ non offra un’ine-stimabile riserva di risorse, tale da poter prefi-gurare un assetto territoriale del tutto originale e, rispetto al tema trattato, alternativo ai modelli classici, europei ed occidentali.

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le fotografie di carlotta maitland smith

Per questo numero di TAO, dedicato all’influenza che gli italiani hanno avuto nei Paesi colonizzati o in cui sono immigrati, si è scelto di affiancare alle parole scritte un dialogo per immagini trasversale. Sono state proposte quattro fo-tografie, utilizzate nella copertina e nelle aperture di sezione, di Carlotta Mait-land Smith, fotografa freelance, specializzata in reportage documentaristico e in ritratti di persone immortalate nel loro ambiente. Carlotta Maitland Smith ha studiato Fotografia presso lo SPEOS (Paris International Photographic Insti-tute) e l’ICP (International Centre of Photography, New York).Spinta dalla sua inesauribile curiosità nei confronti di popoli e di persone di-stanti geograficamente e culturalmente, ha viaggiato a lungo in giro per il mondo, immortalando comunità sparse in vari angoli del pianeta.

Nei mesi a cavallo tra il 2008 e il 2009, mentre si trovava a New York, Carlotta Maitland Smith ha colto l’opportunità offertale dal soggiorno negli Stati Uniti per entrare in contatto con una comunità di italoamericani emigrati nel Bronx negli anni ’20 e tutti originari dell’isola di Ponza. Il suo interesse per questa comunità si è alimentato non solo delle sue radici familiari (madre italiana di Asti, Piemon-te) ma, più in particolare, dei lunghi periodi trascorsi a Ponza. Periodi nei quali ha avuto occasione di sentire spesso parlare dei ponzesi d’America, tanto da desiderare di conoscere personalmente la loro comunità. Ma non si sarebbe mai aspettata di entrare in case e ristoranti, sia nel Bronx sia altrove, con le pareti coperte di dipinti di Ponza e statue di San Silverio, il patrono dell’isola.Sebbene nei pochi mesi a disposizione abbia avuto modo di conoscere per-sonalmente solo una componente necessariamente limitata di questa comu-nità, Carlotta Maitland Smith ha potuto constatare che oggi sono presenti a New York molti più ponzesi di quanti ne siano rimasti sull’isola stessa. Inoltre, è stata colpita da come, nonostante la distanza e il tempo trascorso, essi rimangano un gruppo di persone unito e fortemente caratterizzato.Ad affascinarla più di ogni altra cosa è stato il fatto di trovarsi a documentare un chiaro esempio di come, dovunque nel mondo, le culture degli immigrati stiano evolvendo rapidamente a causa del contatto con altre culture. Si è infatti imbattuta in un momento decisivo nell’equilibrio fra la devozione e l’impegno della prima generazione – ancora rappresentata dai più anziani, che cercano disperatamente di aggrapparsi alle radici e trasmetterne i valori culturali ai nipoti – e la generazione dei più giovani, che sentono i legami con l’Italia troppo allentati perché possano essere parte della loro vita.

www.maitlandsmith.co.uk

un dialogo per immagini

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