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TEORIE SUI MOVIMENTI SOCIALI Resource mobilization approach, political process model e nuovi movimenti sociali di Stefano De Luca Nella grande mobilitazione di massa che dalla metà degli anni Sessanta alla metà degli anni Settanta ha attraversato l’Italia e altre democrazie occidentali, sono emersi dei nuovi movimenti sociali, caratterizzati sia dalla novità dei temi affrontati che dagli attori impegnati in questi ‘conflitti’ (giovani, donne, nuovi gruppi professionali, ecc.). Proprio lo sviluppo di questi movimenti ha reso evidente, come i due principali modelli teorici di interpretazione del conflitto sociale, quello struttural-funzionalista e quello marxista, non erano più in grado di interpretare i nuovi conflitti. Sia negli Stati Uniti sia in Europa, c’è stata una critica delle rispettive tradizioni di studio sui movimenti sociali, con un conseguente aumento di attenzione da parte di studiosi di scienza politica e di sociologia a questo tema sino a quel momento considerato marginale. La tradizione marxista, anche se non si è mai occupata esplicitamente dei movimenti sociali, sostiene che le azioni di protesta presenti nelle società sono azioni razionali motivate da interessi di classe, e dirette a provocare mutamenti radicali. Secondo Karl Marx la classe esprime una comunanza di posizione nel rapporto di produzione, o meglio una comune condizione di esistenza, presupposto del sorgere di quella coscienza di classe che permette agli individui di mobilitarsi. Le azioni di protesta scaturiscono dalle contraddizioni del sistema capitalistico, il quale contiene già i germi della propria dissoluzione, il proletariato. Questo, nella dialettica marxista, avrebbe soppiantato ‘sicuramente’ la classe borghese, rea delle ingiustizie presenti. Si può intuire facilmente come questo tipo di approccio non risultasse più idoneo a dare una spiegazione dei nuovi fenomeni dove, come già accennato, a mobilitarsi sono stati soprattutto nuovi attori come studenti e donne. Anche le tematiche su cui s’incentrava il conflitto non erano più inquadrabili nelle principali divisioni intorno alle quali si erano composti i sistemi politici delle società industriali: soprattutto, non erano più conflitti di classe (anche se non bisogna sottovalutare le lotte operaie in Italia di quegli anni). Il modello marxista non era più in grado di spiegare le dinamiche di quest’azione collettiva, che si svolgeva al di fuori di strutture rigidamente organizzate quali i partiti. Per quanto riguarda la sociologia americana, la scuola che si occupava dello studio dei movimenti sociali era il collective behaviour approach. I movimenti sociali erano descritti come fenomeni prevalentemente irrazionali che si sviluppano quando si diffonde un sentimento d’insoddisfazione verso il sistema, e a cui le istituzioni non riescono a dare risposta. I limiti a questo tipo di approccio sono due: si usa un unico concetto per designare fenomeni diversi quali le folle, i moti, il panico, le mode e i movimenti sociali, facendo più attenzione alle dinamiche impreviste come ad esempio le reazioni che si scatenano all’interno di una folla, che alle strategie consapevoli che gli attori sociali mettono in pratica per raggiungere l’obiettivo; in secondo luogo viene data una

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TEORIE SUI MOVIMENTI SOCIALIResource mobilization approach, political process model e nuovi movimenti sociali

di Stefano De Luca

 Nella grande mobilitazione di massa che dalla metà degli anni Sessanta alla metà degli anni Settanta ha attraversato l’Italia e altre democrazie occidentali, sono emersi dei nuovi movimenti sociali, caratterizzati sia dalla novità dei temi affrontati che dagli attori impegnati in questi ‘conflitti’ (giovani, donne, nuovi gruppi professionali, ecc.). Proprio lo sviluppo di questi movimenti ha reso evidente, come i due principali modelli teorici di interpretazione del conflitto sociale, quello struttural-funzionalista e quello marxista, non erano più in grado di interpretare i nuovi conflitti.  Sia negli Stati Uniti sia in Europa, c’è stata una critica delle rispettive tradizioni di studio sui movimenti sociali, con un conseguente aumento di attenzione da parte di studiosi di scienza politica e di sociologia a questo tema sino a quel momento considerato marginale. La tradizione marxista, anche se non si è mai occupata esplicitamente dei movimenti sociali, sostiene che le azioni di protesta presenti nelle società sono azioni razionali motivate da interessi di classe, e dirette a provocare mutamenti radicali. Secondo Karl Marx la classe esprime una comunanza di posizione nel rapporto di produzione, o meglio una comune condizione di esistenza, presupposto del sorgere di quella coscienza di classe che permette agli individui di mobilitarsi. Le azioni di protesta scaturiscono dalle contraddizioni del sistema capitalistico, il quale contiene già i germi della propria dissoluzione, il proletariato. Questo, nella dialettica marxista, avrebbe soppiantato ‘sicuramente’ la classe borghese, rea delle ingiustizie presenti.  Si può intuire facilmente come questo tipo di approccio non risultasse più idoneo a dare una spiegazione dei nuovi fenomeni dove, come già accennato, a mobilitarsi sono stati soprattutto nuovi attori come studenti e donne. Anche le tematiche su cui s’incentrava il conflitto non erano più inquadrabili nelle principali divisioni intorno alle quali si erano composti i sistemi politici delle società industriali: soprattutto, non erano più conflitti di classe (anche se non bisogna sottovalutare le lotte operaie in Italia di quegli anni). Il modello marxista non era più in grado di spiegare le dinamiche di quest’azione collettiva, che si svolgeva al di fuori di strutture rigidamente organizzate quali i partiti.                                                                Per quanto riguarda la sociologia americana, la scuola che si occupava dello studio dei movimenti sociali era il collective behaviour approach. I movimenti sociali erano descritti come fenomeni prevalentemente irrazionali che si sviluppano quando si diffonde un sentimento d’insoddisfazione verso il sistema, e a cui le istituzioni non riescono a dare risposta. I limiti a questo tipo di approccio sono due: si usa un unico concetto per designare fenomeni diversi quali le folle, i moti, il panico, le mode e i movimenti sociali, facendo più attenzione alle dinamiche impreviste come ad esempio le reazioni che si scatenano all’interno di una folla, che alle strategie consapevoli che gli attori sociali mettono in pratica per raggiungere l’obiettivo; in secondo luogo viene data una descrizione, sia pure dettagliata, della realtà, senza dedicare attenzione alle fonti strutturali del conflitto che provocano la mobilitazione.  La reazione a queste carenze assunse però forme diverse sulle due sponde dell’Atlantico. Comunemente, infatti, si usa fare riferimento ad un approccio ‘americano’ e uno ‘europeo’ nello studio dei movimenti sociali. Questo fatto è dovuto principalmente a due motivi: il primo è rintracciabile nelle differenze esistenti tra le tradizioni culturali nelle scienze sociali nei due continenti; il secondo, nell’aver utilizzato dei diversi oggetti di studio per l’analisi delle proteste. Infatti pur essendosi sviluppati contemporaneamente, e pur essendo in contatto l’uno con l’altro, i movimenti collettivi della fine degli anni Sessanta e quelli che li seguirono, ebbero caratteristiche parzialmente diverse nei due continenti.  Negli Stati Uniti i movimenti protagonisti dell’ondata di protesta si trasformarono il più delle volte in gruppi di pressione oppure, quando avevano un forte sentimento antisistema, vennero assumendo un carattere contro-culturale. In Europa i movimenti sociali sono stati influenzati

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dai forti movimenti operai nazionali, e da questi hanno ereditato la forte ‘ideologizzazione’ e i tratti marcatamente antisistema.   Le scuole di pensiero che si sono formate negli Stati Uniti in concomitanza dei movimenti degli anni ’60, e che contestano l’approccio struttural-funzionalista, dove questi vengono considerati come un sintomo di malessere a livello sociale, sono il resource mobilization approach e il political process model.  Entrambi sottolineano la razionalità dei comportamenti collettivi, e il fatto che i movimenti, come del resto gli altri attori politici, sono consapevoli del proprio ruolo nel mutamento sociale.  In Europa invece l’insoddisfazione nei confronti del marxismo sviluppò la prospettiva di analisi dei ‘nuovi movimenti sociali’, che intendeva sottolineare la novità di questi movimenti rispetto a quello operaio, sia per quanto riguardo i temi su cui si svolgeva la mobilitazione, che per la novità degli attori impegnati nei conflitti.  Fatte queste premesse possiamo evidenziare tre prospettive dominanti nell’analisi dei movimenti sociali: resource mobilization approach, political process model, ‘nuovi movimenti sociali’.  L’analisi dei processi di mobilitazione delle risorse necessarie all’azione collettiva, sviluppatasi negli Stati Uniti nel corso degli anni Settanta, considera i movimenti sociali un’estensione delle forme tradizionali di azione politica, che agiscono in modo razionale per il perseguimento dei propri interessi. Sono soggetti coscienti che applicano delle scelte razionali e sono anche, come già negli anni Venti li aveva considerati la ‘scuola di Chicago’, attori del mutamento del sistema: non un fenomeno patologico, una devianza o una disfunzione del sistema stesso, come erano stati descritti dalla sociologia americana del collective behaviour.  Secondo il resource model approach, l’azione collettiva nasce dal calcolo razionale degli interessi da perseguire in una società, che è composta da gruppi sociali in conflitto tra loro;   quindi per poter dare una spiegazione esaustiva ai movimenti sociali non basta scoprire l’esistenza di tensioni e conflitti strutturali, occorre anche studiare le condizioni che permettono di trasformare lo scontento in mobilitazione.  Questi studiosi (come Zald, Oberschall, Tilly) sostengono che la capacità di mobilitazione dipende dalle risorse materiali (lavoro, denaro, beni concreti e servizi) e non (autorità, impegno morale, fede, relazioni d’amicizia) a disposizione di un gruppo. Tali risorse vengono distribuite dal gruppo a seconda degli obiettivi che si sono prefissati, facendo un calcolo razionale dei costi e dei benefici. Di  conseguenza tipo ed entità delle risorse disponibili spiegherebbero le scelte tattiche dei movimenti, e le conseguenze sul sistema sociale e politico. La mobilitazione deriva dal modo in cui i movimenti sociali sono in grado di organizzare lo scontento, ridurre i costi dell’azione, utilizzare e creare reti di solidarietà, distribuire incentivi ai membri, acquisire consenso all’esterno e non solo quando si diffonde un sentimento d'insoddisfazione, come avevano affermato i sociologi del collective behaviour.  Le tensioni, i possibili conflitti all’interno di una società sono tanti, e per capire però quando esplodono e come si formano i movimenti sociali bisogna guardare alle risorse che hanno a disposizione in un particolare periodo questi attori; altrimenti si potrebbe pensare che ogni volta che compare una ragione di protesta, o che si costituiscono dei gruppi con interessi particolari, ogni volta che emergono delle rivendicazioni, automaticamente il sistema fornisce a questi gruppi delle risorse che gli permettono di trasformare la contraddizione in conflitto. Si può dunque affermare che le basi strutturali del conflitto non solo non costituiscono una spiegazione sufficiente, ma che se ci si ferma ad esse si rischia di non capire come, ad esempio, da una stessa contraddizione possa ‘emergere’ un movimento pragmatico o uno violento, un movimento, come lo sono molti in Europa, che riprenda la frattura tra destra e sinistra presente appunto all’interno delle società europee.  L’analisi dei movimenti effettuata con questi criteri ha messo in evidenza anche come a mobilitarsi non sono gli individui più isolati e sradicati della società che cercherebbero nell’immersione nella massa un surrogato per la loro emarginazione sociale, come fino allora si

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era portati a credere, ma coloro che sono o erano attivi e ben integrati nella collettività. Infatti chi si mobilita lo fa sia per una gratificazione morale, intrinseca nel perseguimento di un bene collettivo, ma anche per l’esistenza di legami di solidarietà sia orizzontali, cioè interni alla collettività, che verticali, tra collettività differenti. Varie ricerche hanno dimostrato come i partecipanti alle sommosse popolari, e gli attivisti nelle organizzazioni d’opposizione, vengono reclutati in primo luogo tra gli individui precedentemente attivi e ben integrati nella collettività, mettendo in evidenza come gli individui socialmente più isolati e sradicati sarebbero meno rappresentati. Varie critiche sono state mosse a questo tipo di approccio, come la scarsa attenzione alle origini strutturali del conflitto e l’aver trascurato la capacità di organizzarsi dei gruppi sociali meno dotati di risorse. In questo approccio di studio si è prestata attenzione soprattutto alle risorse organizzative e ideologiche di un movimento, cioè quelle che possiamo definire come risorse interne, considerate come il fattore più influente per la loro mobilitazione, ma, come affermano i teorici del political process model, per capire come i movimenti collettivi si sviluppano in maniera differente nei diversi contesti nazionali, bisogna guardare anche alle risorse esterne che questi trovano nel loro ambiente. La mobilitazione dipende in grande misura dalla struttura delle opportunità politiche, che in un dato contesto sono offerte ai movimenti sociali.  I movimenti sociali nascono e si sviluppano non in risposta a delle condizioni di disagio psicologico dovute al ritmo rapido del cambiamento sociale, ma a delle ‘opportunità politiche’ che si aprono a seguito di tale cambiamento strutturale.  Gli studiosi che si rifanno a questo tipo di approccio analizzano le relazioni tra attori politici istituzionali e protesta, rifiutando di considerare i movimenti esclusivamente come anti-istituzionali, e mettono in risalto il ruolo dei movimenti nella rappresentanza degli interessi degli individui. Con questo tipo di approccio, lo studio sui movimenti sociali viene effettuato prestando attenzione all’ambiente politico e istituzionale in cui questi operano.  Con il concetto di ‘struttura delle opportunità politiche’ si intendono tutti quegli elementi caratteristici di un sistema politico che influenzano l’azione dei movimenti sociali come: il grado di apertura o chiusura dei sistemi politici, il decentramento territoriale, il grado di tolleranza dimostrato dalle èlite nei confronti della protesta e il rapporto che si instaura con gli alleati o gli oppositori. Sidney Tarrow ad esempio, nella sua analisi dei cicli di protesta in Italia dal 1965 al 1975, ha messo in evidenza come lo sviluppo dei movimenti sociali sia influenzato dal grado di apertura del sistema politico. La partecipazione ad un movimento sociale si intensifica quando si aprono canali di accesso nel sistema politico, portando gli attivisti a credere nella possibilità di successo della protesta. Da questo punto di vista, l’emergere di nuovi movimenti nel corso degli anni Sessanta in Italia è stato favorito dall’esperienza del governo di centro-sinistra, che aveva creato sia delle speranze di riforma profonde nella società, che la convinzione di trovare degli alleati all’interno delle istituzioni. La presenza di questi alleati all’interno del sistema politico, rende i movimenti più moderati nelle forme di azione e nelle ideologie. Invece la perdita di alleati istituzionali, può scoraggiare una mobilitazione di massa, e radicalizzare le forme di azione di coloro che restano attivi nei movimenti. Altra caratteristica del sistema politico che può influenzare le forme di protesta dei movimenti è il grado di decentramento territoriale. Gli studiosi che si rifanno al political process model, sostengono che tanto maggiori sono i poteri distribuiti alla periferia (enti locali, regioni, Stati in sistemi federali), tanto maggiori saranno le possibilità per i singoli movimenti di trovare un punto di accesso nel sistema decisionale. Infatti si considera in genere più facile l’accesso al sistema, quanto più vicina è al cittadino l’unità amministrativa.  Ad esempio in un sistema federale i movimenti sociali avranno una pluralità di punti di accesso al sistema, sia a livello nazionale che a quello regionale. Questi movimenti adotteranno di conseguenza un tipo di organizzazione decentralizzata, per essere rappresentati ed agire più

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vicino ai centri di potere regionali. Sul piano dell’azione, tenderanno ad agire attraverso forme di protesta più moderate, dal momento che gli attori sono consapevoli del fatto che il sistema offre loro diverse vie per canalizzare la loro protesta. Infine altro elemento del sistema politico che influenza la formazione dei movimenti sociali è il grado di tolleranza dimostrato dalle èlites verso la protesta, in particolare le strategie prevalenti utilizzate per reprimere la protesta. Queste strategie sono state distinte in esclusive, caratterizzate dalla repressione dei conflitti, e inclusive, orientate alla cooperazione con le nuove domande.  Gli studiosi del political process model hanno messo in evidenza come in alcuni paesi dell’Europa, Italia, Francia e Germania, l’esperienze di regimi totalitari e anche la ritardata introduzione del suffragio universale avrebbero portato ad adottare strategie di tipo esclusivo nei confronti degli ‘sfidanti’ del sistema politico.  Questo atteggiamento nei confronti degli ‘sfidanti’, avrebbe influenzato il movimento operaio che in questi paesi si è contraddistinto per essere diviso e radicalizzato. Al contrario, in paesi come Gran Bretagna e i Paesi scandinavi, dove non vi sono state esperienze assolutistiche e con una precoce introduzione del suffragio universale, le strategie sarebbero di tipo inclusive, infatti i movimenti operai sono stati caratterizzati dall’unità interna e dalla moderazione delle forme di protesta.  Da queste analisi è emerso come i regimi politici qualificati da strategie inclusive sarebbero aperti ai nuovi sfidanti, e i movimenti che emergono più moderati; al contrario i regimi caratterizzati da strategie esclusive sarebbero chiusi rispetto alle domande emergenti, e qui vi sarebbe una radicalizzazione della protesta. Come ad esempio è accaduto in Italia per quanto riguarda il movimento studentesco, che a causa della forte repressione incontrata, si sarebbe radicalizzato sino a degenerare nel terrorismo.  Di recente è stato osservato da questi studiosi che in tutte le democrazie si sta adattando una tendenza più inclusiva, con una prevalenza di strategie di mediazione, nella gestione dell’ordine pubblico. Questo elemento favorisce il proliferare di movimenti sociali diffusi e pacifici.  Infine, altra variabili che può influenzare lo sviluppo dei movimenti è il rapporto che si instaura tra i movimenti sociali e i loro possibili alleati od oppositori. I movimenti sociali trovano in genere alleati od oppositori nell’amministrazione pubblica, nel sistema dei partiti e nella società civile, e quindi secondo gli studiosi del political process model, bisogna anche prestare attenzione a che genere di rapporti si instaurano tra questi attori, per capire che influenze hanno sui movimenti sociali. Il sistema di alleanze infatti fornisce risorse e crea opportunità politiche per gli sfidanti, che invece gli oppositori cercano di eliminare.   Attraverso le differenze che si riscontrano tra il movimento studentesco italiano e quelli che si sono sviluppati negli altri paesi negli anni Sessanta, si può capire l’influenza ha avuto nei movimenti il rapporto con i partiti della sinistra.  Nel nostro paese i movimenti, trovandosi in un sistema già polarizzato, hanno avuto bisogno di alleati forti, che hanno trovato nei partiti di sinistra. Questi gli fornivano sia delle consistenti risorse per le mobilitazioni, ma hanno anche la forte ostilità degli oppositori della sinistra. Ciò ha fatto sì che però per differenziarsi dalla sinistra tradizionale, in Italia i movimenti hanno assunto caratteri utopici o radicali mentre, negli altri paesi, dove il rapporto con i partiti di sinistra era meno forte, si sono caratterizzati per aver introdotto dei nuovi temi.  Solo con la depolarizzazione degli anni Ottanta e Novanta, i movimenti sociali in Italia potranno, come quelli di altri paesi, evitare un appiattimento troppo forte sul cleavage politico della sinistra, creando così alleanze trasversali nel sistema politico.  Sia il politcal process model che il resource mobilization approach studiano le condizioni dell’azione collettiva, la sua formazione e il suo sviluppo, trascurando le origini strutturali del conflitto, il perché. Allo studio di questo aspetto si è dedicata la sociologia europea dei ‘nuovi movimenti sociali’.

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 Gli studiosi che utilizzano quest’ultimo approccio (come Alain Tourain, Claus Offe e Alberto Melucci), definiscono i movimenti sociali che si sono sviluppati dagli anni Sessanta in poi come il prodotto dei nuovi conflitti presenti nelle società moderne (definite con vari termini come post-industriali, tecnocratiche e post-fordiste).  L’ampliamento dell’accesso all’istruzione superiore, l’ingresso delle donne nel mondo del lavoro, lo sviluppo economico, hanno fatto emergere dei nuovi conflitti e aumentato la rilevanza dei criteri di stratificazione sociale, come ad esempio il genere, non più fondati sulla posizione di classe, spostando l’attenzione ad esempio dalle condizioni dei lavoratori nelle fabbriche, alle rivendicazioni degli studenti per un’istruzione che non sia più d’élite, o ancora alle lotte delle donne o degli omosessuali per una maggiore tutela delle proprie condizioni. E’ a queste novità presenti nelle società che prestano attenzione i sociologi europei nello studiare le origini strutturali dei conflitti emersi negli anni Sessanta. Secondo questi studiosi i movimenti nati negli anni Sessanta sono ‘nuovi’ rispetto al movimento operaio. Le origini del conflitto non sarebbero più rintracciabili nella contrapposizione capitale-lavoro, ma centrale per questi movimenti diviene la critica verso il modernismo e il progresso, tentano di opporsi alla penetrazione dello Stato nella vita sociale, e difendono la sfera dell’autonomia personale. Questo cambiamento è dovuto, sostengono i teorici dei nuovi movimenti sociali, alla crescita dello Stato del benessere e alla centralizzazione dell’economia capitalistica, che ha spostato l’attenzione dai temi del benessere materiale a quelli relativi allo stile di vita.  Dagli anni Ottanta in poi questi studiosi hanno parlato della fine dei movimenti. Non esisterebbero più movimenti collettivi, esistono partiti politici come i Verdi, o gruppi di pressione, come il WWF e Green Peace, o associazioni di volontariato. Ma, come sostiene Donatella Della Porta, questo non è vero, ed è più giusto parlare della creazione in quegli anni di associazioni vicino ai movimenti, e di partiti vicini ai movimenti (vedi ad esempio il partito dei Verdi).

Nella formazione economico-sociale capitalistica la sovrastruttura è «gigantesca» come dice Marx. Più si sviluppano le forze produttive della società capitalistica più si sviluppa la sovrastruttura. Ciò corrisponde ad un processo socialmente necessario a determinati rapporti di produzione poiché scopo fondamentale della società divisa in classi è quello di perpetuare tutte le condizioni che ne permettono un funzionamento ininterrotto.

Il meccanismo produttivo deve essere posto nelle condizioni migliori per poter continuare a formare quote crescenti di plusvalore e per poter trasformare questo in una quota crescente di accumulazione capitalistica.

Il processo di produzione del capitale necessita di un processo complessivo della produzione capitalistica per potersi realizzare. In questo processo complessivo il plusvalore prodotto dal proletariato viene ripartito tra l'interesse, la rendita, il profitto commerciale, le imposte ed il profitto industriale. Sulla base di questa ripartizione del plusvalore si sviluppano strati sociali parassitari e tutta la gigantesca sovrastruttura estremamente articolata e ramificata che trova nella organizzazione statale la forma tipica e fondamentale di organizzazione. Tutti gli strati sociali parassitari e tutta la sovrastruttura sono socialmente interessati alla continuità e alla difesa del processo di formazione del plusvalore.

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Il ruolo specifico della attuale sovrastruttura nei rapporti di produzione capitalistici è, quindi, determinato dalle funzioni di continuità e di difesa del processo di formazione del plusvalore.

Assolvendo questo compito lo Stato esercita le sue funzioni di apparato repressivo della dittatura della classe capitalistica, funzioni che si esercitano nel campo economico, nel campo politico, nel campo ideologico. 

L'organizzazione scolastica è la principale forma di organizzazione della dittatura del capitalismo esercitata dallo Stato nel campo ideologico, anche se ovviamente non è la sola. La scuola pubblica è parte integrante dell'apparato statale di repressione per la continuità e la difesa del processo di formazione del plusvalore. E' un settore indispensabile in questo apparato. Consuma una parte considerevole del plusvalore che lo Stato ha assorbito come imposta nel processo complessivo della produzione capitalistica.

Per questo suo carattere fondamentale la scuola non solo non può essere da un punto di vista di classe, trasformata ma deve essere decisamente combattuta così come decisamente devono essere combattute tutte le altre ramificazioni organizzative dello Stato. Ogni teoria e posizione che si proponga di modificare la scuola senza aver preliminarmente rovesciato gli attuali rapporti di produzione non è altro chela traduzione in un campo specifico, di quelle teorie e posizioni, di matrice borghese e socialdemocratica, che si propongono di modificare la natura sociale e l'organizzazione dello Stato o che affermano il carattere socialmente «neutro» dello Stato. Se fosse possibile modificare anche un solo aspetto, come è la scuola, dello Stato non sarebbe necessaria la rivoluzione proletaria per il passaggio da una società capitalistica ad una socialistica. In realtà la modifica anche di un solo aspetto della organizzazione statale non è altro che l'azione riformistica di miglioramento delle funzioni dello Stato, in altre parole del suo grado di efficienza come apparato dittatoriale del capitalismo.

L'organizzazione scolastica come ramo dell'apparato statale ha particolari caratteristiche derivanti dal suo rapporto con l'organizzazione della produzione capitalistica. La scuola è un'organizzazione duplice: è un'organizzazione di elaborazione e di diffusione della ideologia, ed è una organizzazione di elaborazione e di diffusione dell'istruzione. L'ideologia borghese mistifica questi due aspetti col termine «cultura» e compie una doppia mistificazione dividendo la "cultura" in «umanistica» e «tecnica».

In termini marxisti occorre ribadire che la cosiddetta cultura non è altro che l'insieme delle idee dominanti che la classe dominante impone alla società attraverso una sua «organizzazione della cultura», cioè una sua organizzazione di oppressione ideologica, una sua organizzazione specifica di lotta sul fronte ideologico della lotta di classe.

La scuola è una delle componenti fondamentali di questa «organizzazione della cultura», di questa organizzazione di lotta ideologica della borghesia. Nella scuola la classe dominante elabora la sua ideologia, la perfeziona, la collauda nel processo di diffusione nelle giovani generazioni, seleziona, riproduce, estende i suoi quadri, seleziona, riproduce, estende i quadri al suo

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servizio degli strati parassitari, burocratici, piccolo-borghesi. Ma, soprattutto, ribadisce ed estende la sua influenza ideologica sulle nuove generazioni operaie, stabilisce il suo dominio sulla classe operaia. Quest'opera capillare, compiuta da un apparato burocratico di ben 400 mila precettori di ideologia borghese, si estende su 8 milioni di allievi. In pratica si estende su tutta la futura classe operaia. Dalla scuola le nuove generazioni escono adattate a subire tutta la pressione della organizzazione culturale-ideologica borghese (mezzi di comunicazione, organizzazioni politiche ecc).

Vedere in questo processo capillare, come elemento caratterizzante, il cosiddetto «autoritarismo scolastico» o «autoritarismo accademico» che riproduce le forme di organizzazione gerarchica della fabbrica capitalistica è un errore idealistico d'impostazione metodologica. E' lo scambiare particolari forme con i reali processi di diffusione ideologica, oltre che stabilire un rapporto deterministico tra struttura e sovrastruttura (in questo caso fabbrica-scuola) senza individuare lo specifico carattere di mediazione della diffusione ideologica nella scuola.

Non c'è nessuna ragione oggettiva che determini una forma di organizzazione scolastica corrispondente alla organizzazione di fabbrica. E, poi, le forme di organizzazione della fabbrica sono mutate nel tempo, mutano, e possono mutare in corrispondenza delle esigenze produttive e produttivistiche, degli sviluppi tecnologici e del corso della lotta di classe, così come mutano le forme di proprietà privata e statale mentre non mutano i rapporti di produzione (capitale e salario).

Le forme di organizzazione scolastica, anche se ne subiscono una forte influenza, non seguono necessariamente il mutamento delle forme organizzative aziendali, anche per il fatto stesso che le forme organizzative delle aziende, grandi, medie e piccole capitalistiche, operanti nella società, sono molteplici così come sono molteplici i tipi di azienda nella produzione e nella distribuzione.

L'organizzazione scolastica della diffusione della ideologia e della istruzione deve adeguarsi alle esigenze di tutta la società capitalistica e se non vi riesce manifesta una delle tipiche crisi di disfunzione burocratica. Le sue forme organizzative non solo possono ma debbono variare così come debbono essere diversificate al suo interno. Il cosiddetto «autoritarismo scolastico» è una delle forme e non può essere visto come un obiettivo strategico di lotta rivoluzionaria contro la diffusione dell'ideologia borghese. Occorre sapere individuare tutte le forme di organizzazione scolastica per poter condurre con efficacia una lotta contro questa particolare organizzazione della diffusione ideologica borghese nella classe operaia così come occorre sapere individuare tutte le attuali e possibili forme di altri tipi di organizzazione (mezzi di diffusione, organizzazioni politiche ecc.).

La scuola è anche una organizzazione di elaborazione e di diffusione dell'istruzione. Dato che il compito di diffusione dell'istruzione non è mai stato prevalentemente della scuola, ma della società anche se nella tendenza di sviluppo l'incidenza della scuola è destinata ad aumentare, ne deriva che la

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diffusione dell'istruzione non è mai stata e non è il compito prevalente della scuola.

In termini marxisti occorre dire che l'istruzione è il rapporto uomo natura, rapporto che varia nelle differenti condizioni sociali, cioè nei differenti rapporti tra gli uomini. La istruzione acquisisce un carattere sociale determinato dai caratteri sociali in cui si svolge l'attività del lavoro in una data società.

Nella società capitalistica questo carattere è determinato dalla divisione in classi, dalla divisione del lavoro, dalla divisione del lavoro intellettuale e del lavoro manuale. Il tipo attuale di istruzione riproduce questa divisione sociale, questa divisione del lavoro. E' impossibile riunificare nell'istruzione la divisione del lavoro, la divisione sociale. E' impossibile nella scuola come in ogni altro tipo di organizzazione. Tentarlo in sede teorica non vuol dire altro che elaborare una nuova "cultura", cioè un'altra ideologia un'altra mistificazione. Questi tentativi sono particolarmente frequenti negli intellettuali della piccola borghesia studentesca, cioè in gruppi che, per la loro formazione sociale hanno sempre la tendenza a credere di poter risolvere con le idee ciò che può essere solo risolto dalla pratica.

Il tipo attuale di istruzione deve necessariamente riprodurre il tipo di società che lo esprime. Ciò avviene a tutti i livelli: da quello della cosiddetta «ricerca pura» a quello della cosiddetta "applicazione tecnica ".

Il problema dell'istruzione, in termini marxisti, il problema di una cultura, di una scienza, di una tecnica espressioni organiche del collettivo lavoro intellettuale e lavoro manuale della specie umana integrata può essere risolto solo con la scomparsa della divisione sociale e della divisione del lavoro: cioè può essere risolto con l'unificazione dello studio e del lavoro e con l'istituzione socialista di una organizzazione scuola-fabbrica.

Solo in questa prassi sociale la scienza può essere recuperata dalla ideologia e dalla tecnica di classe così come Marx ed il marxismo l'hanno recuperata nell'analisi della società e nella teoria e nella organizzazione del partito rivoluzionario. 

La lotta contro la diffusione della ideologia borghese non si può esaurire nella scuola. Crederlo sarebbe una illusione che porterebbe inevitabilmente ad una visione riformistico settoriale, così come in una visione di questo tipo finiscono con il cadere tutti quei gruppi e correnti che vedono come terreno esclusivo di scontro la fabbrica.

Ovviamente la lotta contro la diffusione ideologica nella scuola, così come nella fabbrica, ha un ruolo importantissimo e richiede forme specifiche di azione (agitazione, propaganda, occupazioni, contro corsi marxisti, mobilitazioni di massa, lotte di piazze ecc.).

Ma la lotta contro l'ideologia borghese deve essere combattuta in tutta la società e soprattutto nell'ambito della classe operaia, la quale non vive socialmente solo nella fabbrica. Questa lotta sul fronte ideologico richiede uno

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strumento specifico, il partito leninista, e due specifiche forme di attività: la propaganda del programma marxista e la agitazione delle idee rivoluzionarie. Queste forme di attività devono essere sviluppate nel corso della lotta di classe perché non debbono e non possono essere un intervento «illuministico» e «programmistico» sulla classe operaia ma debbono e possono inserirsi partendo dalle lotte più elementari del proletariato per far maturare, in un processo di formazione materialistica, la sua coscienza politica, la sua coscienza rivoluzionaria. Senza una lotta implacabile, metodica e costante, sul fronte ideologico per sgretolare l'influenza della borghesia, della socialdemocrazia, del riformismo, dell'opportunismo sulla classe operaia non è possibile sviluppare efficacemente la lotta sul fronte economico e su quello politico, cioè stabilire una influenza rivoluzionaria nelle lotte operaie e far sì che queste lotte si inseriscano in una prospettiva di uscita dalla attuale fase controrivoluzionaria e di preparazione della rivoluzione socialista.

Per portare avanti la lotta sui tre fronti, e nella loro organica successione, occorre sviluppare il partito leninista e per sviluppare il partito occorre organizzare gli operai più coscienti d'avanguardia, formare e organizzare i militanti e i quadri rivoluzionari della classe operaia e in particolare, di quei settori che per condizioni oggettive non sono assimilabili a posizioni di aristocrazia operaia. Il raggruppamento di tutto l'attuale potenziale di militanti operai rivoluzionari non può essere un processo spontaneo ma deve essere un processo organizzato. Il partito rivoluzionario deve svilupparsi, quindi, organizzativamente utilizzando le possibilità che gli sono date. La lotta contro la diffusione ideologica borghese nella scuola può essere una di queste possibilità. Lo sviluppo organizzativo per la formazione di militanti rivoluzionari operai rappresenta, nello stesso tempo la formazione di militanti rivoluzionari provenienti dalle agitazioni studentesche e che si pongono fuori e contro le formule di marca socialdemocratica, di «unità fra studenti e operai» e dei fronti unici interclassisti cosiddetti «antimperialistici», di marca maoista e castrista.

La crisi della scuola deve essere utilizzata leninisticamente e deve essere utilizzata ai fini della classe operaia e della sua lotta contro il sistema capitalistico ed imperialistico mondiale.

Dati i caratteri particolari della crisi della scuola in Italia, quindi della crisi parziale dello Stato, possono essere possibili diversi utilizzi. L'avanguardia proletaria deve cercare di utilizzarla dal suo punto di vista e per i suoi interessi di lotta. Possono essere individuate due serie di cause di questa crisi: una di carattere generale e comune a tutte le società capitalistiche private o capitalistiche statali avanzate e l'altra di carattere particolare, riguardante l'Italia, paese capitalistico avanzato a maturità imperialistica che si colloca tra le prime dieci potenze mondiali.

Cause generali: 1 ) lo sviluppo produttivo di certi settori determina uno sviluppo tecnico adeguato. Il crescente aumento della massa del plusvalore alza la composizione organica del capitale. Aumenta la parte costante del capitale e, in questa aumenta in termini relativi, ed anche assoluti, la componente fissa. Una parte sempre più crescente dell'investimento del capitale entra nel processo produttivo nella forma di nuove macchine

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elaborate e complesse che sostituiscono parte del capitale variabile. Sorge per il sistema capitalistico l'esigenza di elevare ed estendere il livello tecnico di tutto il processo produttivo e, di conseguenza, di elevare ed estendere il livello tecnologico.

2) Sorge la necessità di adeguare la massa e la composizione della forza lavoro al grado stesso della composizione organica del capitale. Ciò comporta introduzione di forza-lavoro in nuovi settori, spostamenti di forza-lavoro da un settore all'altro, riduzione della massa di forza-lavoro, aumento dell'esercito industriale di riserva. La sovrastruttura, e quindi anche la scuola, deve adeguarsi a questi movimenti della struttura, a questi movimenti del capitale. L'adeguamento non è mai simultaneo e ciò determina permanenti squilibri nel sistema. Quando, poi l'adeguamento è estremamente ritardato gli squilibri diventano acuti.

Per quanto riguarda la scuola essa deve adeguarsi a tutti gli aspetti del complesso processo dei movimenti del capitale, e non solo ad alcuni, pena il ricreare nel suo seno altri squilibri. Vedere solo alcuni aspetti di adeguamento della scuola è estremamente limitativo, conduce ad errori di prospettiva, porta alla incomprensione della reale natura della crisi della scuola. Non si può ridurre la crisi della scuola ad uno scarto tra la formazione di forza-lavoro specializzata e l'effettiva esigenza di tale forza-lavoro da parte della produzione. Questo è solo un aspetto anche se importantissimo. La scuola deve adeguarsi a tutti i movimenti del capitale, quindi oltre che alla formazione di forza-lavoro specializzata per determinati settori, alla formazione di forza-lavoro adatta allo spostamento da un settore all'altro, alla riduzione della massa di forza-lavoro, allo stesso aumento dell'esercito industriale di riserva.

3) Necessità di una istruzione estremamente differenziata ed estremamente variabile che riesca a precedere tutti i movimenti del capitale. Dato che il capitale nel suo complesso non può prevedere tutti i suoi movimenti in tutti i suoi settori della produzione e della distribuzione, ne deriva l'impossibilità della organizzazione scolastica di prevedere tutti i tipi di istruzione che dovrebbe fornire. Le stesse richieste delle aziende capitalistiche riflettono tale situazione oggettiva e tale complesso di contraddizioni, aggravate dagli squilibri di ritmo che ogni azienda subisce nelle tendenze del mercato locale e del mercato mondiale. Lo stesso processo di internazionalizzazione esaspera queste contraddizioni e rende praticamente impossibile ogni previsione di piano di produzione e di distribuzione. Rende, quindi, praticamente impossibile ogni previsione qualitativa e quantitativa dell'istruzione di forza-lavoro.

Vi sono, indubbiamente, tendenze di sviluppo sulla composizione della classe operaia in certe aziende di certi settori che alzano sensibilmente la percentuale della manodopera specializzata, dei cosiddetti tecnici. Ma gli stessi dirigenti aziendali sostengono l'impossibilità di prevedere i tipi di specializzazione occorrenti per il futuro. E' stata ad esempio, avanzata come soluzione la proposta della formazione di un "tecnologo", cioè di un diplomato che abbia una istruzione generale non specializzata, ma nello stesso tempo

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adeguata per permettere all'azienda che l'utilizzerà, di spostarlo rapidamente da una lavorazione all'altra e infine da un tipo di industria all'altra.

4) Sviluppo crescente della burocratizzazione. Nella società capitalistica avanzata gli strati parassitari e burocratici si estendono e ne sorgono dei nuovi. Una forte quota della piccola borghesia produttrice e detentrice dei mezzi di produzione si trasforma, nel processo di concentrazione, in una piccola borghesia terziaria parassitaria burocratica. Compito della scuola è anche quello di fornire un tipo di istruzione adatto a questa trasformazione della piccola borghesia e al generale processo di burocratizzazione.

Una buona parte di erogazione di istruzione è dedicata alla riproduzione e all'allargamento della burocratizzazione e del parassitismo sociale.

La scuola deve fornire oltre che forza-lavoro specializzata alle aziende industriali burocrazia allo Stato e alla società.

5) Dato che il grado ed il tipo di istruzione fornito dalla scuola si incorpora in una serie di funzioni sociali e in parte, interviene sul mercato della forza-lavoro ne deriva che la scuola è una delle fonti della valorizzazione del lavoro e della forza-lavoro, indipendentemente dal fatto che questo lavoro e questa forza-lavoro diventino lavoro produttivo o lavoro improduttivo. Lo Stato legalizza questa valorizzazione sotto la forma giuridica dei diplomi di vario tipo. Già il processo di valorizzazione è un fattore di incremento, della differenziazione sociale, e un fattore della stratificazione sociale.

L'aumento della scolarizzazione diventa un fattore del processo in atto che vede da un lato, una tendenza alla valorizzazione (qualificazione; giuridicamente diplomi e lauree) e dall'altro di devalorizzazione e di degradazione sociale (operai specializzati devalorizzati dalle trasformazioni tecniche ecc.; strati operai degradati a sottoproletariato ecc.).

E' un violento processo in atto che vede gli Stati Uniti, coi suoi ghetti e «con sacche di miseria» del 30% della popolazione, all'avanguardia e che trova la sua spiegazione storica nei processi di proletarizzazione in differenti fasi di sviluppo capitalistico: nella fase ascendente il sottoproletariato è la condizione di passaggio al proletariato, nella fase discendente il termine di degradazione di deproletarizzazione. In tutti i paesi capitalistici avanzati le tendenze di questo processo sono in atto. La crisi della scuola, le masse studentesche, le loro agitazioni sono un polo dialettico di questo processo.

Ogni classe, ogni strato sociale lotta per riprodurre il suo valore, e quindi la sua collocazione sociale, al livello della qualificazione richiesta dall'attuale e dal futuro grado delle forze produttive. La tendenza è perciò all'ingresso dei figli di strati operai nelle scuole superiori. Negli Stati Uniti abbiamo circa 6 milioni di allievi universitari di vario tipo, cioè addirittura il 43% delle loro generazioni. Rivendicare l'allargamento dell'Università ai figli di operai fa parte della tendenza riformista, fa parte di un processo di estrema stratificazione nella classe operaia e della conseguente degradazione di una parte di essa. Questo processo crea, forse una nuova figura sociale dello

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studente, una nuova classe, un nuovo strato? No. Lo studente, come la casalinga, è caratterizzato socialmente dal nucleo familiare.

Per quanto riguarda il valore della forza-lavoro esso è determinato dalla sussistenza e dalla riproduzione della forza-lavoro stessa, quindi dal nucleo famigliare. Le spese di istruzione in questa riproduzione "entrano dunque nel ciclo dei valori spesi per la produzione della forza lavoro" (Marx, Il capitale, I).

Esse riguardano il rapporto capitale-salario. Debbono essere impostate come lotta salariale e non come richiesta di aumento di spese scolastiche, spese che vanno a vantaggio di strati piccolo-borghesi e burocratici sia nella forma diretta reddito sia in forma indiretta di valorizzazione. Aumento di spese scolastiche significa aumento della quota delle imposte nella ripartizione del plusvalore. Aumento del salario è, invece, risultato della lotta di classe. 

VI) A queste cause generali della crisi della scuola possiamo aggiungere, per l'Italia, alcune cause particolari:

1) Presenza e contrasto di due tendenze fondamentali del capitalismo che sono presenti anche in altri paesi ma che in Italia si manifestano particolarmente. Semplifichiamo col termine «tendenze» per meglio identificarle a livello di manifestazione politica e nel caso in esame di politica verso lo Stato e verso la scuola e per caratterizzarle come tendenza "conservatrice" e tendenza «riformistica». In realtà si tratta di gruppi e di settori capitalistici a diversa composizione organica di capitale per cui il settore dove più alto è il capitale costante richiede un tipo di istruzione ed il settore dove più alto è il capitale variabile un altro tipo. Nelle tendenze che si esprimono, invece, a livello politico influiscono anche strati parassitari e burocratici non interessati direttamente alla produzione.

2) Ciò spiega perché questi strati abbiano un peso nell'organizzazione scolastica, nella sua crisi, nelle sue agitazioni non proporzionato al loro reale peso nella produzione. Nella Università italiana, ad esempio, la composizione sociale piccolo-borghese è altissima. In Università di altri paesi, invece, la composizione proletaria ha una forte incidenza e ciò determina certi caratteri delle agitazioni e dei problemi presenti. Ciò determina, inoltre, problemi specifici di tattica al partito rivoluzionario.

3) Disorganizzazione burocratica, caratteristica di tutta la sovrastruttura statale che non si è ancora adeguata ai forti ritmi di sviluppo produttivo dell'ultimo decennio ed a tutti i fenomeni ad esso connessi.

4) Squilibri particolari si innestano in quelli generali e provocano crisi e movimenti. Questo complesso di cause finisce con il mettere a nudo tuta una serie di aspetti sovrastrutturali. Gli attuali schieramenti politici con le loro attuali ideologie dimostrano un logoramento perchè sono ancora il prodotto di una situazione in parte superata dal più recente sviluppo capitalistico. Ciò pone per il sistema la necessità di attrezzare nuovi schieramenti politici e nuove ideologie utilizzando, in parte, quelle presenti e portando elementi di innovazione. Una crisi di transizione è iniziata e le agitazioni studentesche ne

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sono il sintomo più evidente, anche se meno evidenti ma pur presenti altri sintomi si manifestano nella classe operaia.

A quale soluzione condurrà questa fase transitoria è difficile dirlo. Un dato è chiaro: le agitazioni studentesche hanno debordato gli attuali schieramenti politici. E se le organizzazioni politiche, specie quelle riformistiche, non servono a controllare e dirigere i movimenti sociali esse non servono più al sistema. Sono diventate inutili, a meno che si trasformino alle nuove necessità. Ma la crisi è complicata dal fatto che anche gli schieramenti politici internazionali dimostrano tutto il loro logoramento. L'assetto dei rapporti interimperialistici, stabiliti dopo la seconda guerra mondiale dalla sconfitta dell'imperialismo tedesco da parte della alleanza imperialistica russo-americana che si divise il mondo in sfere d'influenza, in crisi nell'Europa occidentale e orientale, nell'America Latina, in Africa e particolarmente in Asia.

Il dominio del mercato mondiale da parte degli Stati Uniti, possibile quanto questo imperialismo rappresentava il 50% della produzione industriale mondiale, non è più possibile oggi che ne rappresenta il 30-35%. In Asia e in Europa risorgono gruppi imperialistici che intervengono nella ripartizione del mercato, oggi con certi mezzi economici e politici, domani con altri.

L'URSS, che ha seguito una politica di penetrazione imperialistica in tutti i continenti, non ha la possibilità di mantenere il dominio sul mercato dell'Europa Orientale il quale si è disgregato in tendenze centrifughe.

Si stanno preparando le basi oggettive di nuovi contrasti, di nuovi conflitti, di nuovi schieramenti, di nuove alleanze, di nuove lotte propagandistiche ed ideologiche. Le masse studentesche in tutti i paesi sono, per la loro natura un settore di incubazione di nuovi quadri politici, sensibili, più di altri strati, a queste crisi di transizione e suscettibili a fornire gruppi e base a nuovi movimenti politici espressi dalle nuove condizioni. Ogni soluzione è possibile specie dove la prevalenza piccolo-borghese impedisce di trovare un punto fermo, anche se minimo, nella lotta di classe. Le agitazioni studentesche possono costituire una fase preparatoria alla formazione di quadri rivoluzionari per lo sviluppo del partito leninista di classe. In questo caso il futuro corso di lotta di classe che la crisi interimperialistica prepara avrà un forte impulso e troverà una sufficiente organizzazione per imprimergli una direzione rivoluzionaria nello scontro con l'opportunismo. I quadri provenienti dalle agitazioni studentesche ed i quadri provenienti dalle agitazioni di fabbrica si salderanno nella lotta e nel partito leninista.

Se invece le agitazioni studentesche finiranno col fornire nuovi gruppi alle lotte imperialistiche, all'opportunismo riformato o ai giovani capitalismi, la lotta di costruzione del partito leninista avrà, come tante volte nella storia, ostacoli addizionali da superare. Questo è in fondo il problema dello sviluppo del partito leninista. Questo è in fondo il problema della tattica leninista nella lotta contro l'organizzazione scolastica di diffusione dell'ideologia borghese e della sua crisi generale e parziale.

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 Questo lavoro inizierà con l'esaminare il pensiero di alcuni economisti e storici economici, i quali hanno elaborato teorie inerenti a quanto l’istruzione sia stata importante per lo

sviluppo sociale ed economico (ma non solo) dell’uomo lungo l’arco della storia. Seguirà, nel paragrafo 2, un esame sul funzionamento del nostro sistema scolastico, quanta popolazione è diplomata e/o laureata, e quali sono le zone italiane dove risiede la più alta percentuale di iscritti all’Università, così come di laureati. Al paragrafo 3, si evidenzierà come l’istruzione può aver contribuito allo sviluppo dell’impresa, in due Paesi:

1. La Gran Bretagna, la quale ha seguito le linee di sviluppo proprie del modello anglosassone; 2. L’Italia, uno degli esempi tipici del modello di sviluppo renano.

Infine, gli ultimi due paragrafi saranno incentrati sulla Ricerca e Sviluppo, certamente fattore correlato all’istruzione. Al 4 sarà presentata una carrellata di grafici e tabelle evidenzianti le statistiche, i trend di spesa in R&S e le eventuali conseguenze derivabili (con anche qualche risultato “non voluto”), suddivise per blocco (USA, UE e Giappone), seguito dalla situazione riscontrata in Italia. Al 5 si esporranno quali possono essere i frutti che la ricerca può portare ad un qualche Stato, così come si esamineranno alcuni progetti di ricerca in cui in Europa si sta lavorando.

Abstract:

L’istruzione è comunemente considerata utile ai fini della ricerca di un impiego remunerativo e del raggiungimento di un buon livello culturale. La teoria del capitale umano ha fornito la giustificazione scientifica di questo diffuso convincimento: l’istruzione, la formazione professionale, la cura della salute, la migrazione e l’acquisizione di informazioni sul mercato del lavoro accrescono le conoscenze, le capacità e, quindi, la produttività dei lavoratori ; indirettamente, ciò determina un aumento dei guadagni ottenibili. Per questo si parla di forme di investimento in capitale umano a proposito delle attività elencate: le maggiori retribuzioni costituiscono il rendimento di tale investimento. Un secondo aspetto importante riguarda il contributo del capitale umano alla crescita economica complessiva dei vari Paesi, in un’ottica di lungo periodo. L’esigenza di individuare e quantificare questo contributo scaturisce dal fatto che, in base alla sola crescita del capitale fisico, i modelli tradizionali non sono in grado di spiegare una parte consistente dell’aumento della produzione aggregata. Partendo dall’analisi della teoria del capitale umano, questa tesi si concentra poi sull’istruzione, scelta come forma principale di investimento che gli individui effettuano per accrescere la propria produttività e i propri guadagni futuri. Nel capitolo 1 è esposta la teoria del capitale umano, elaborata nei primi anni ‘60 da Theodore W.Schultz, Jacob Mincer e Gary Becker. La formulazione essenziale è stata poi completata, una decina di anni dopo, dalle formalizzazioni della funzione di produzione del capitale umano, da parte di Yoram Ben-Porath, e della funzione dei guadagni, da parte di Jacob Mincer. Il capitolo 2 è articolato in tre sezioni: la prima riguarda un’applicazione della teoria all’analisi del ruolo del capitale umano nella crescita economica. L’esposizione di questo argomento segue le diverse impostazioni metodologiche che, dagli anni ‘60 fino ad oggi, i vari autori hanno dato al problema: l’ideale percorso parte dalle stime di Schultz e Denison e giunge fino ai complessi modelli di crescita endogena, passando attraverso l’uso delle funzioni di produzione proposto, fra gli altri, da Nelson e Phelps per spiegare il contributo del capitale umano alla crescita. La seconda sezione è dedicata alle evoluzioni, ossia agli ambiti di indagine che hanno radici comuni con la teoria del capitale umano ma che si sono poi sviluppati autonomamente, perdendo progressivamente ogni legame: si tratta, in particolare, della job search theory e dell’economia sanitaria. La loro origine si può far risalire, come per la teoria del capitale umano, al supplemento del Journal of Political Economy dell’ottobre 1962 dedicato all’”Investimento in esseri umani”. In esso, infatti, sono contenuti gli articoli di George Stigler e Selma Mushkin, da cui altri autori hanno preso spunto per elaborare e sviluppare le nuove teorie. La terza sezione del capitolo 2 prende in esame le principali critiche portate alla teoria del capitale umano, soprattutto durante gli anni ‘70: si tratta delle varie versioni della screening hypothesis, della teoria dei salari di efficienza, della teoria dei mercati interni del lavoro e di una critica di stampo marxiano da parte di due autori della cosiddetta “scuola radicale”. Brevi cenni riguardano poi alcune critiche minori. Nell’ambito della screening hypothesis, la teoria dei segnali e la teoria credenzialista negano l’esistenza di una relazione positiva fra istruzione e produttività dei lavoratori; la teoria dei salari di efficienza critica, invece, la relazione fra produttività e guadagni. La teoria dei mercati interni del lavoro contesta la relazione fra età e guadagni, mentre la critica marxiana propone una spiegazione alternativa del legame fra produttività e istruzione. La seconda parte della tesi, dedicata al ruolo pubblico nell’offerta dei servizi di istruzione, è divisa in due capitoli, riguardanti uno i fondamenti teorici dell’intervento pubblico in materia scolastica e l’altro i problemi e le prospettive legati al finanziamento dell’istruzione. In base all’analisi svolta nel capitolo 3, la presenza pubblica è giustificata dall’esistenza di rendimenti sociali provenienti dall’investimento in servizi scolastici e dalle particolarità dell’istruzione come bene quasi-collettivo, o misto, e il cui consumo produce esternalità. La trattazione è condotta facendo costante riferimento alle opere di Paul Samuelson e James Buchanan, Premi Nobel per le Scienze Economiche e autori fondamentali nell’ambito dell’economia pubblica. Il capitolo 4 prende invece spunto dalla pubblicazione, nel 1992, di un rapporto dell’OCSE sul finanziamento pubblico dell’istruzione in molti dei Paesi suoi membri. Le problematiche, le possibili evoluzioni e le prospettive praticabili emerse dall’analisi dei dati dell’OCSE sono poi riferite al sistema scolastico italiano e al suo travagliato iter di riforma, tuttora in corso.INTRODUZIONE Da un po’ di anni a questa parte, m’interesso del ruolo che l’istruzione ha nello sviluppo e nella modernizzazione di un determinato Paese. Fin dai miei studi più semplici e lontani (e precisamente quelli delle scuole media e superiore) di geografia e storia, non ho potuto ignorare un fenomeno molto importante e significativo: i Paesi più ricchi e all’avanguardia erano sempre quelli con il tasso di popolazione istruita più elevato (o, se si preferisce, con il tasso di analfabetismo più basso). Questo, nella storia, è stato il caso della Gran Bretagna. Ancora oggi, sfogliando qualche comunissimo libro di geografia ed esaminando le schede riportanti i dati politici, economici e sociali di qualsiasi paese, ci si accorge subito che i Paesi più poveri sono proprio quelli registranti le maggiori percentuali di analfabeti al mondo: il caso più drammatico è certamente quello dell’Africa (anche se le cause della povertà di questo continente sono ben altre: nel corso di questo lavoro ne accennerò qualcuna). Quindi, sono sempre stato convinto che l’istruzione sia fondamentale, onde far sviluppare e crescere un Paese (in economia, politicamente e socialmente).Nel primo paragrafo esaminerò il pensiero di alcuni economisti e storici economici, i quali hanno elaborato teorie inerenti a quanto l’istruzione sia stata importante per lo sviluppo sociale ed economico (ma non solo) dell’uomo lungo l’arco della storia. Seguirà, nel paragrafo 2, un esame sul funzionamento del nostro sistema scolastico, quanta popolazione è diplomata e/o laureata, e quali sono le zone italiane dove risiede la più alta percentuale di iscritti all’Università, così come di laureati. Al paragrafo 3, si evidenzierà come l’istruzione può aver contribuito allo sviluppo dell’impresa, in due Paesi: 1. La Gran Bretagna, la quale ha seguito le linee di sviluppo proprie del modello anglosassone; 2. L’Italia, uno degli esempi tipici del modello di sviluppo renano.Infine, gli ultimi due paragrafi saranno incentrati sulla Ricerca e Sviluppo, certamente fattore correlato all’istruzione. Al 4 sarà presentata una carrellata di grafici e tabelle evidenzianti le statistiche, i trend di spesa in R&S e le eventuali conseguenze derivabili (con anche qualche risultato “non voluto”), suddivise per blocco (USA, UE e Giappone), seguito dalla situazione riscontrata in Italia. Al 5 si esporranno quali possono essere i frutti che la ricerca può portare ad un qualche Stato, così come si esamineranno alcuni progetti di ricerca in cui in Europa si sta lavorando.

1. ISTRUZIONE: QUALE UTILITÀ NELL’ECONOMIA? 1.1 Considerazioni iniziali e origine dell’istruzioneL’istruzione occupa un posto fondamentale, impossibile da ignorare, nel modernizzare un Paese. Fino a pochi decenni fa, l’attuale situazione di cultura e società dei PVS odierni era la medesima che si aveva in Europa. Diamo un concreto esempio di quanto sostenuto, introducendo un po’ di storia: mettiamoci nei panni di un ragazzo cresciuto in una comunità contadina francese di due secoli or sono. Questi è analfabeta, come buona parte degli adulti del suo villaggio. Il ragazzo passa le giornate aiutando i genitori nelle attività agricole e domestiche. Più passano gli anni, più egli dovrà lavorare intensamente nella coltivazione della terra. Probabilmente, non lascerà mai il villaggio ove è nato. Ecco, quindi, come viveva un ragazzo contadino in quell’epoca: per lui non esisteva alcuna possibilità di accedere all’istruzione, in quanto questa era appannaggio di una ristretta élite (le scuole esistenti erano costose, non c’era l’obbligo scolastico e i contadini, dovendo lavorare tutto il giorno la terra, non avrebbero certo avuto tempo per studiare). Allora, il termine “crescere” aveva una connotazione diversa da quella che gli attribuiamo oggi: significava apprendere, per imitazione, le stesse abitudini sociali e le capacità lavorative dei propri antenati. In seguito, grazie al crescente uso di materiali scritti (dovuto all’invenzione della stampa del 1454) si raggiunsero elevati livelli di alfabetismo ed entrò in scena l’istruzione: questa consisteva (e consiste tuttora) nell’impartire un insegnamento a degli allievi all’interno di edifici scolastici appositamente costruiti. Anche la Rivoluzione Francese giocò un ruolo importante in merito: essa aveva introdotto il principio dell’istruzione pubblica gratuita e fu all’origine delle scuole specializzate nelle materie scientifiche e nell’ingegneria, (École Polytechnique e École normale Superieure). Queste istituzioni fornivano un’istruzione avanzata. In più erano impegnate nella ricerca (fattore strettamente correlato con l’istruzione, nella crescita di un Paese). Discorso simile va fatto per la Germania postnapoleonica: le sue antiche università furono tutte rivitalizzate e l’istruzione scientifica fu in gran parte modellata sull’esempio dell’École Politechnique francese (punto importante è che quest’ultima fu resa accessibile ad un numero molto maggiore di studenti che non in Francia).Ecco, dunque, che, se oggi Europa e USA hanno raggiunto un livello di benessere sociale e crescita economica soddisfacente, merito va dato anche all’istruzione, certo uno dei pilastri del decollo. 1.2. Teorie sul valore dell’istruzione nello sviluppo economicoDa tempo, economisti e storici economici elaborano teorie sul valore che può avere l’istruzione nello sviluppo economico. Possiamo esaminare le più importanti partendo dagli anni ’60, anni in cui i governi e le organizzazioni internazionali hanno iniziato a finanziare progetti educativi: questo perché, alla stessa data, si diventava sempre più consapevoli che i benefici che si sarebbero ricevuti da investimenti in istruzione avrebbero superato di gran lunga i costi. Tuttavia, non era possibile calcolare il tasso di rendimento di un progetto d’istruzione. E ancora, i governi stanziavano cospicui fondi per l’istruzione senza avere gli strumenti necessari, mediante i quali calcolare i benefici delle loro spese.Oggi, gli studiosi di storia economica sono tutti concordi sull’enunciato: <

La sociologia dell'educazione [modifica]

La sociologia dell’educazione è una disciplina che analizza principalmente, da un punto di vista diacronico e sincronico, il rapporto tra educazione e società nelle sue variegate configurazioni. È lo studio delle pratiche, delle strutture sociali, del contesto storico, dello sviluppo dei temi di fondo comuni a tutti i processi educativi e formativi. Si sottolinea in particolar modo il ruolo che l’educazione ha svolto nelle diverse società, oggi e lungo la storia. I sociologi dell’educazione tentano di spiegare gli effetti della società sull’educazione e gli effetti della educazione sulla società, nonché il loro rapporto dialettico e di interdipendenza. Esiste una pluralità di approcci alla sociologia dell’educazione che possiamo semplificare in due diversi filoni: uno che pone maggiormente l’attenzione sulle strutture e che tende a privilegiare la logica della spiegazione dei fenomeni individuando la relazione tra variabili indipendenti e dipendenti (ad esempio tra istruzione e sviluppo economico, tra istruzione e disuguaglianze sociali). L’altro filone, invece, pone il fuoco

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dell'analisi sugli attori e sulla comprensione delle loro rappresentazioni, sulle relazioni di tipo formativo (qui il termine formazione viene preferito a quello di educazione), ad esempio tra insegnante e allievi, tra genitori e figli.

La sociologia dell’educazione si caratterizza come disciplina descrittiva - interpretativa che proporre un’analisi dell’educazione come attività sociale, a differenza della pedagogia che invece ha finalità principalmente prescrittive (cioè che tende a individuare ciò che dovrebbe essere la realtà educativa). La sociologia dell’educazione, come osserva Cesareo (1976: 7) è «una teoria in grado di spiegare situazioni fenomeni presenti e passati, nonché di individuare tendenze e probabili alternative».

Gli sviluppi della sociologia dell’educazione [modifica]

Gli sviluppi della sociologia dell’educazione possono essere distinti (Besozzi 2006a) in tre fasi principali:

Fase 1: “scoperta sociale dell’educazione” (corrisponde al periodo compreso tra metà Ottocento fino agli anni cinquanta del Novecento). Le problematiche principali affrontate dalla disciplina sono legate: al bisogno di ritrovare le basi della solidarietà nella società moderna; al formare il lavoratore e il cittadino; al formare una nuova classe dirigente, politica ed economica.

Fase 2: “riscoperta dell’educazione” (corrisponde al periodo compreso tra il 1950 e il 1960). Le problematiche principali affrontate sono legate: al legame tra educazione e sviluppo economico e sociale e nazionale; all’istruzione come investimento; al legame tra istruzione e occupazione.

Fase 3: “sviluppo delle riflessioni teoriche e delle ricerche” (corrisponde al periodo compreso tra il 1970 e il 1980). Le principali problematiche affrontate sono legate : alla crisi del sistema di istruzione (es: inflazione dei titoli di studio), all’uguaglianza delle opportunità di fronte all’istruzione; all’istruzione come bene espressivo; al policentrismo formativo; al legame tra educazione e nuove forme del cambiamento sociale e culturale.

Fase 4: “consolidamento dello statuto epistemologico e metodologico” (corrisponde al periodo compreso tra il 1990 ad oggi). Le principali problematiche affrontate sono legate : al tema della diversità, delle differenze (sociali, culturali, di genere, etniche) e delle disuguaglianze (con particolare attenzione alla chiarificazione sulla conciliabilità tra l’istanza di uguaglianza e di differenza); al valore dell’istruzione come rischio e come chance di mobilità sociale

Analisi del rapporto tra educazione e società [modifica]

Secondo la sociologia dell’educazione (cfr. Besozzi 2006b), il rapporto tra educazione e società può essere letto sostanzialmente secondo tre modalità : 1) LINEARE: l’educazione viene definita in funzione dei bisogni e delle aspettative della società secondo un rapporto lineare e dipendente. 2) DISCONTINUITA’: prevale la discontinuità della realtà educativa nei confronti della società di riferimento. L’educazione è una variabile autonoma rispetto alla società (attenzione agli studi sulla ridotta corrispondenza tra istruzione o occupazione). 3) CIRCOLARITA’: descrive i processi educativi in un rapporto di reciproca strutturazione con le strutture sociali,all’interno di una relazione di interdipendenza. Propone una teoria multidimensionale tra azione dell’individuo e funzionamento delle istituzioni (uno dei riferimenti principali è il pensiero di Margaret Archer).

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Il punto di vista della sociologia classica sull’educazione [modifica]

All’interno della sociologia dell’educazione è possibile rintracciare tre principali prospettive teoriche che esprimono differenti visioni del mondo. Di seguito ne viene presentata una breve sintesi focalizzando l’attenzione solo su alcuni dei principali autori di riferimento che hanno partecipato allo sviluppo della disciplina: - modello integrazionista; - modello conflittualista; - modello comunicativo.

Il modello integrazionista trae la sua visione dallo strutturalfunzionalismo e affonda le sue radici in Durkheim (1858-1917), considerato il padre fondatore della disciplina. Il nodo teorico centrale della riflessione durkhemiana ruota attorno alla questione dell’integrazione sociale. Egli si chiede come sia possibile il mantenimento dell’ordine sociale nel passaggio da una società premoderna (da lui definita a solidarietà meccanica), ad una società moderna (definita a solidarietà organica). La società infatti non può esistere in assenza di un sentimento di solidarietà reciproca che consenta di stabilire relazioni di fiducia, e se in una società relativamente semplice questo traguardo è agevolmente realizzato grazie alla religione, in una società complessa mutano le basi di questa solidarietà e un ruolo fondamentale viene ad assumerlo la scuola con la sua funzione socializzatrice. Nella stessa prospettiva teorica si pone anche Parsons (1902-1979) che sviluppa l’analisi del rapporto tra educazione e società attraverso il concetto di azione sociale. Egli, come Durkheim, è convinto che l’interiorizzazione delle norme sociali rappresenti la condizione essenziale della stabilità sociale.

Il modello conflittualista della società emerge con forza attorno alla metà del XIX secolo e affonda le sue radici in autori del calibro di Marx e Weber. Gli approcci di derivazione marxiana condividono l’idea secondo cui “le relazioni dominanti all’interno della società sono quelle economiche, che generano e condizionano ogni altro tipo di relazione; l’ordine sociale è basato sulla costrizione, sul dominio dei gruppi che detengono il potere […] e il mutamento avviene attraverso il conflitto” (Ribolzi, 1993: 135). Tra gli autori più importanti di questa linea di pensiero si ricordano Bourdieu, Passeron, Bernstein e Althusser. Gli approcci di ispirazione neoweberiana, al contrario, cercano di recuperare all’attenzione la capacità di agire esercitato da ciascun individuo, a qualsiasi livello della struttura sociale. Tra i contributi più rilevanti in tal senso si ricorda Collins il quale asserisce che i comportamenti degli individui possono essere compresi solo se si guarda la struttura delle relazioni a livello di gruppo (Collins, 1980: 7).

Il modello comunicazionista muove i suoi primi passi sul finire degli anni ‘70 e viene consolidandosi nel decennio successivo facendo emergere in maniera sempre più evidente la distinzione tra approcci macro e approcci micro nell'analisi dei fenomeni sociali ed educativi. I primi focalizzano la loro attenzione sul sistema, le strutture sociali e le istituzioni; mentre i secondi concentrano la loro analisi sull'azione e l’interazione tra gli individui. Per questo motivo, questo secondo filone si riconosce anche nell’etichetta di sociologie interpretative, le quali rappresentano uno fiorire di contributi differenti che condividono l'interpretazione della realtà sociale in una prospettiva costruttivistica. Alcuni dei più importanti contributi che si possono annoverare all'interno della sociologia interpretativa sono: l’interazionismo simbolico, la fenomenologia, l’etnometodologia e il costruzionismo.

Sul finire degli anni ’90, in corrispondenza con la straordinaria innovazione tecnologica resa possibile dall’avvento di Internet, ha cominciato a diffondersi una nuova visione interpretativa identificabile con il concetto di informazionalismo. Secondo questa prospettiva, si può asserire che siamo dentro un nuovo paradigma scientifico interpretabile proprio dal ruolo centrale assunto oggi dall'informazione come propulsore della ricchezza e della conoscenza. Castells (2001) sostiene che l'informazione oggi si presenta come il volano della produzione al pari dell'elettricità per la società

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industriale. Castells spiega questo nuovo assetto sociale attraverso tre assunti: valore dell'informazione, reticolarità e globalità. Il valore dell'informazione non è dato semplicemente dal fatto che essa si costituisce oggi come il volano dello sviluppo economico e della conoscenza, qualificandosi come materia prima essenziale. L'elemento distintivo della paradigma dell'informazionalismo sta nel fatto che mai prima d'ora l'uomo è stato nelle condizioni di processare una tale mole di informazioni. E ciò è reso possibile dall’affermazione, su scala planetaria, di un complesso di tecnologie dell'informazione capaci di governare questo processo. Il fattore di rilievo quindi è nella moltiplicazione e nell’estensione delle informazioni e delle possibilità di calcolo offerte oggi da tali tecnologie, ponendosi come il presupposto per gli altri due elementi, quello della reticolarità e quello della globalità. Reticolarità significa che ciascuno è un punto interconnesso ad una molteplicità di altri punti sparsi nel mondo; ciò introduce il terzo elemento che consiste in una mappa globale di relazioni che si ripercuote in ogni dimensione del nostro agire (economia, produzione, lavoro, socialità, ecc.).

L’approccio qualitativo ed etnografico [modifica]

Esiste inoltre una prospettiva particolarmente attenta agli attori che rientra per lo più nel cosiddetto approccio etnografico. Sviluppatosi in Gran Bretagna (si vedano tra le altre le ricerche pionieristiche inglesi di Hargreaves, 1984, Delamont, 1984, Woods, 1983, Hammersley, 1976) e negli Stati Uniti (utile è la sintesi storica che fa Ogbu sugli apporti dell’antropologia statunitense allo studio delle interazioni in classe; 1996) già a partire dagli anni Sessanta. Si tratta di un approccio di tipo interazionista e fenomenologico che si avvale di un metodo di ricerca fondato prevalentemente sull’osservazione partecipante per esempio delle interazioni in classe per un consistente periodo di tempo (si pensi al caso eccezionale di Pollard la cui indagine longitudinale si è protratta per 12 anni dalla scuola per l’infanzia fino al termine dell’obbligo scolastico per uno stesso campione di studenti; 2007). Tra i temi maggiormente affrontati nello studio delle interazioni in classe ci sono le modalità con cui viene esercitata l’autorità dell’insegnante, come vengono ad esempio negoziati lo spazio ed il tempo in classe nella relazione tra studenti e insegnante, come vengono reciprocamente costruire le reputazioni (dell’insegnante “smidollato” piuttosto che dello studente “attaccabrighe”). Vanno nella stessa direzione anche le ricerche di quella parte della sociologia dell’infanzia che privilegia gli attori. Si pensi per esempio alle indagini comparate nelle scuole per l’infanzia statunitensi e italiane di William Corsaro (2005), a quelle sulla presa di parola in una classe elementare di Régine Sirota (1988), che collocano il metiér d’élève nel più ampio metiér d’enfant (Sirota 1993). Tra le ricerche italiane, degne di nota sono quelle di impronta etnometodologica condotte da Fele e Paoletti (2003) sulle interazioni verbali in aula tra insegnanti e studenti, e le indagini sui climi di classe svolte da Giorgio Chiari (1994) per mettere in luce le relazioni esistenti tra clima cooperativo e apprendimento scolastico.

«L'istruzione è la più valida difesa della libertà». Alla luce della vostra esperienza commentate questo pensiero di Carlo

Cattaneo.

 

Per secoli l'istruzione è stata riservata soltanto a facoltosi personaggi, uomini ricchi, nobili, alcuni dei quali poi hanno fatto la storia avendo in qualche modo deciso le sorti del mondo.

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La maggior parte degli uomini, soprattutto gli umili, i sudditi erano tenuti allo scuro di tutto, soli nel loro analfabetismo. E' naturale che tale fenomeno era necessario per permettere ai governanti di disporre di loro liberamente.

L'ignorante, colui che è a corto di istruzione, non ha argomenti per ribellarsi, per opporsi a domini ingiusti. Ecco perché l'espressione di Cattaneo è da condividere pienamente.

L'uomo istruito innanzitutto sa leggere e quindi può apprendere dai giornali e dai libri cose che lo arricchiscono, che gli forniscono gli argomenti per opporsi a chi vuole approfittare di lui.

Oggi l'istruzione è largamente diffusa, anzi è stata resa obbligatoria, e bene o male la maggior parte delle persone è in grado di leggere e scrivere e quindi di partecipare alla vita della società in cui vive.

Il fenomeno dell'analfabetismo, tuttavia, è presente ancora in alcune parti del Paese, soprattutto nella parte meridionale, nelle campagne dove si è troppo distratti dal ritmo delle stagioni per poter prendere parte attivamente alla vita del Paese, almeno dal punto di vista politico e sociale.

Conoscere i fatti consente di analizzare ciò che ci si presentano con coscienza; studiare la storia e «i corsi e ricorsi storici» permette di capire il presente. Anche studiare materie come il Latino e il Greco, che ad uno studente di liceo può sembrare noioso ed inutile, è invece molto utile: consente di sviluppare il senso logico e, il Latino in particolare, di imparare facilmente altre lingue che in un'epoca come la nostra sono estremamente utili, in qualche caso addirittura indispensabili.

Senza dubbio, quindi, si può affermare che l'uomo istruito è libero, libero di prendere le sue decisioni; ma soprattutto è forte dell'esperienza del passato e della logica acquisita, il che gli permette di avere anche lui voce in capitolo nella salvaguardia di se stesso e del proprio benessere.