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Tra Calvino e la Riforma radicale. Il separatismo di John Robinson di Pietro Adamo Nella Londra di metà , mentre la polemica sulla tolleranza scalda gli animi e rende sempre più accesi i toni, i contendenti approfondiscono le loro argomentazioni, cercano giustificazioni e precedenti, svelano i presupposti teorici e culturali dei loro avversari. Sono in particolare i presbiteriani, convinti assertori delle ragioni del calvinismo sinodale, a sottolineare quanto indipendenti, separatisti, battisti, antinomiani, anti- trinitari e tutto il resto della galassia della (presunta) eresia debbano alla tradizione spiritualista e libertina. Nelle ricostruzioni della genealogia dell’eterodossia vengono così accomunati Münster e Boston, Niklaes e Serveto, Agricola e Anne Hutchinson, Franck e Valdés e via dicendo. E sono gli scozzesi nell’Assemblea dei teologi, segnatamente Robert Baillie e Samuel Rutherford, a specializzarsi nel compito: nella loro prospettiva anabattismo, separatismo e indipendenza risultano aspetti differenti dello stesso paradigma spiritualistico e anticonfessionale. Di conseguenza, i principali esponenti di queste correnti sono tutti condannati sulla me- desima base, ovvero in quanto antenati e genitori di tutte le bestemmie e le eresie che si diffondono minacciosamente nella capitale e nel paese intero. Ma in questa sentenza senza appello notiamo una significativa eccezione: nel caso di John Robinson, e in parte anche di alcuni dei suoi colleghi brownisti di Amsterdam, i toni si fanno moderati, a volte persino morbidi. Nonostante la sua fama, le sue opere e il suo indubbio ruolo come patriarca degli «eretici», i rigidi presbiteriani scozzesi gli riservano un trattamento quanto meno rispettoso. «Mastro Robinson», esordisce Baillie nelle pagine che riguardano il pastore dei Padri pellegrini nel Dis- suasive, è «lo spirito più colto, erudito e modesto di cui abbia mai goduto una qualsiasi setta»; «è veramente sorprendente», continua, «che un tale uomo sia restato sino alla fine un rigido separatista», anche perché i suoi rapporti positivi con i primi indipendenti avrebbero potuto trasformarlo, se ci fosse stato tempo, «in un felice strumento per estinguere e abolire totalmente quello scisma». Il suo collega Rutherford non si spinge a tali elogi, ma anch’egli nelle sue molteplici critiche a Robinson usa un tono quasi cortese. Thomas Edwards, martello delle sette, giunge persino a Dimensioni e problemi della ricerca storica, n. /

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Tra Calvino e la Riforma radicale.Il separatismo di John Robinson

di Pietro Adamo

Nella Londra di metà , mentre la polemica sulla tolleranza scalda gli animi e rende sempre più accesi i toni, i contendenti approfondiscono le loro argomentazioni, cercano giustificazioni e precedenti, svelano i presupposti teorici e culturali dei loro avversari. Sono in particolare i presbiteriani, convinti assertori delle ragioni del calvinismo sinodale, a sottolineare quanto indipendenti, separatisti, battisti, antinomiani, anti-trinitari e tutto il resto della galassia della (presunta) eresia debbano alla tradizione spiritualista e libertina. Nelle ricostruzioni della genealogia dell’eterodossia vengono così accomunati Münster e Boston, Niklaes e Serveto, Agricola e Anne Hutchinson, Franck e Valdés e via dicendo. E sono gli scozzesi nell’Assemblea dei teologi, segnatamente Robert Baillie e Samuel Rutherford, a specializzarsi nel compito: nella loro prospettiva anabattismo, separatismo e indipendenza risultano aspetti differenti dello stesso paradigma spiritualistico e anticonfessionale. Di conseguenza, i principali esponenti di queste correnti sono tutti condannati sulla me-desima base, ovvero in quanto antenati e genitori di tutte le bestemmie e le eresie che si diffondono minacciosamente nella capitale e nel paese intero. Ma in questa sentenza senza appello notiamo una significativa eccezione: nel caso di John Robinson, e in parte anche di alcuni dei suoi colleghi brownisti di Amsterdam, i toni si fanno moderati, a volte persino morbidi. Nonostante la sua fama, le sue opere e il suo indubbio ruolo come patriarca degli «eretici», i rigidi presbiteriani scozzesi gli riservano un trattamento quanto meno rispettoso. «Mastro Robinson», esordisce Baillie nelle pagine che riguardano il pastore dei Padri pellegrini nel Dis-suasive, è «lo spirito più colto, erudito e modesto di cui abbia mai goduto una qualsiasi setta»; «è veramente sorprendente», continua, «che un tale uomo sia restato sino alla fine un rigido separatista», anche perché i suoi rapporti positivi con i primi indipendenti avrebbero potuto trasformarlo, se ci fosse stato tempo, «in un felice strumento per estinguere e abolire totalmente quello scisma». Il suo collega Rutherford non si spinge a tali elogi, ma anch’egli nelle sue molteplici critiche a Robinson usa un tono quasi cortese. Thomas Edwards, martello delle sette, giunge persino a Dimensioni e problemi della ricerca storica, n. /

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PIETRO ADAMO

fargli i complimenti: «Alcuni dei vecchi indipendenti e brownisti, come Ainsworth, Johnson e soprattutto Robinson, hanno fornito un buon servizio nello scrivere contro anabattisti e arminiani». Il commento di Edwards ci porta alle motivazioni concrete di questo trattamento di fa-vore, rimarcate in una lettera privata dallo stesso Rutherford: per quanto «brownisti e indipendenti» differiscano dai presbiteriani, rispetto alle altre sette essi come nearest to walkers with God. In sintesi, nonostante tutto ciò che li separa dal calvinismo sinodale in materia di ecclesiologia, separatisti e indipendenti (o, per lo meno, una loro sezione rilevante) propongono una soteriologia accettabilmente ortodossa: per quanto riguarda elezione e grazia, predestinazione e giustificazione, essi non si distinguono in modo significativo dai loro confratelli calvinisti.

Calvinismo e separatismo

L’eccezione (parziale) dei presbiteriani per Robinson appare così giustifi-cata. Il ministro del culto della Chiesa separatista inglese di Leida è stato per una generazione il portavoce delle istanze più critiche nei confronti della Chiesa d’Inghilterra. E, nel più tipico stile separatista dopo Robert Browne, ha ampliato tali critiche in una feroce disamina delle pretese egemoniche e autoritarie di ogni Chiesa di Stato in quanto tale, comprese quelle protestanti, spesso mirando proprio alle ambizioni dei «puritani» inglesi e alle loro speranze di costruire, anche in Inghilterra, una Esta-blished Church sul modello di quella ginevrina, di quella olandese e di quella scozzese. Tuttavia, se da un lato il pastore dei Pilgrim Fathers sem-bra rappresentare al meglio «le vuote e leggere argomentazioni in favore della separazione» (così si legge nell’indice di Due Rights of Presbyteries di Rutherford, che impiega poi centinaia di pagine per confutarle...), dall’altro pare anche presentarsi (e autorappresentarsi) come un campio-ne dell’ortodossia dottrinale ginevrina. Il suo statuto di «calvinista» dal punto di vista strettamente teologico sembra al di là di ogni ragionevole dubbio. Lungo questa linea argomentativa si è mosso l’autore dell’unica monografia contemporanea sul separatista di Leida, Timothy George, ex professore al Southern Baptist Seminary e oggi decano della Beeson Divinity School, che ha insistito sulla necessità di riscattare Robinson dall’immagine agiografica e progressista proposta dai protestanti liberali ottocenteschi, impegnati da un lato a esaltare le potenzialità emancipatrici e pluralistiche del suo pensiero e dall’altro a minimizzarne le relazioni con la tradizione calvinista. Il più celebre «messaggio» robinsoniano, l’invito rivolto ai Padri pellegrini in partenza per le Americhe a scoprire «altra luce e verità», sarebbe una citazione «fuori contesto», che da un

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TRA CALVINO E LA RIFORMA RADICALE. IL SEPARATISMO DI JOHN ROBINSON

lato punta a rendere Robinson, anacronisticamente, «un difensore del liberalismo, dell’individualismo, della tolleranza religiosa, della demo-crazia, eccetera», e dall’altro a causare «una seria distorsione della sua teologia» o, per meglio esprimere il pensiero di George, una distorsione del ruolo centrale che essa gioca nel suo pensiero. Eppure, alla (presunta) centralità della costruzione dottrinale calvinista nel pensiero di Robinson fa da controcanto la sua fedeltà alla fede e alla pratica del separatismo, che per lo meno sul piano ecclesiologico costituisce una poderosa negazione della ragion d’essere stessa del paradigma ginevrino. E proprio l’attenta considerazione del contesto storico e culturale e del ruolo che Robinson gioca entro la tradizione separatista non può non suggerirci – come del resto ammette più volte lo stesso George, in particolare quando sottolinea che, se anche le parole della predica ai pellegrini sono probabilmente di Winslow, «il sentimento» che le ispira è sicuramente tipico di Robinson – che la carica eversiva, pluralistica e antigerarchica del pensiero del pastore di Leida (quella che tanto aveva colpito gli storici liberali dell’Ot-tocento) è tutt’altro che isolata all’interno di tale tradizione e che è anzi destinata a rivelarsi, negli anni ancora più drammatici e traumatici della Great Rebellion, uno dei punti di riferimento maggiori delle elaborazioni dei pensatori più radicali del periodo.

Detto in altri termini, il problema centrale nell’interpretazione del caso Robinson non starebbe, come sembra evincersi dalla monografia di George, nella necessità di conciliare una teologia di matrice calvinista con una teoria sociale e culturale di orientamento antitradizionale e ico-noclasta (quale quella che man mano sviluppano i separatisti in esilio in Olanda nel corso del primo Seicento), ma nell’illustrarne la convivenza e nel comprendere le modalità e i percorsi tramite i quali le due dimen-sioni interagiscono e, al caso, contrastano. In quest’ultima prospettiva, l’esperienza del pastore dei Padri pellegrini ci offre il destro per afferrare, nell’internazionale calvinista della prima metà del secolo XVII, non tanto gli elementi che conducono alla Seconda Riforma, alla scolasticizzazione ulteriore dei paradigmi ginevrini, all’irrigidimento delle strutture della confessionalizzazione, quanto piuttosto quelli che puntano a valorizzare i principi di autonomia dell’individuo, il processo di emancipazione del singolo da costumi e tradizioni «umane», la nuova enfasi concessa alla ragione degli uomini. Il percorso di Robinson – dalla separazione purista e anti-idolatrica al congregazionalismo democratico alla neofilia della ricerca metodica di «altra luce e verità» – ci permette così di intravedere alcuni punti di raccordo tra quelle due culture del protestantesimo che gli eventi degli anni Venti e Trenta del Cinquecento avevano divaricato e separato: da un lato la politica di confessionalizzazione e istituzionaliz-zazione perseguita soprattutto dai principi tedeschi e dai teologi svizzeri,

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dall’altro la scelta tendenzialmente spiritualistica e libertina (nell’acce-zione calviniana del termine) di quei gruppi e individui che raduniamo in genere sotto l’etichetta della Riforma radicale.

La fedeltà di Robinson ai dogmi dottrinali calvinisti era stata ampia-mente afferrata dai suoi contemporanei, come appunto testimoniano le considerazioni degli ortodossi scozzesi sopra menzionati. Le sue Observa-tions Divine and Morall del , il Catechism aggiunto in appendice ai Six Principles di William Perkins (il decano della teologia federale puritana, maestro di Robinson nella Cambridge di fine secolo), pubblicato per la pri-ma volta nel e più volte ristampato nei decenni successivi, la parte finale di Of Religious Communion () e soprattutto la Defence of the Doctrine Propounded by the Synode at Dort del ci consegnano un convinto se-guace non solo di Calvino ma della stessa scolastica riformata, a partire dal catechismo di Heidelberg. Guardando da un lato alle controversie olandesi e dall’altro al sostegno verso le posizioni arminiane espresso dai general baptists inglesi (in particolare da Thomas Helwys e John Murton, contro i quali sono diretti Of Religious Communion e la Defence) – un elemento per lui particolarmente rilevante visto che Helwys e Murton, membri della congregazione di John Smyth, erano di fatto giunti in Olanda (ancora nel ) come suoi compagni nella scelta separatista – Robinson riafferma la centralità della malvagità umana e del peccato originale, della concessione libera e incondizionata della grazia da parte di Dio, della predestinazione doppia e assoluta, della perseveranza dei santi, e via dicendo, contro «il nuovo vangelo dell’anabattisteria e del libero arbitrio». Nel contempo, replica alle obiezioni e affronta i problemi peculiarmente teologici sollevati dalle innovazioni di Arminio restando vicino alla vulgata calviniana, anzi spesso immedesimandosi esplicitamente con tale punto di vista: «I calvinisti non pensano, come [gli avversari] presumono, che […]», «né i calvinisti ritengono, come [i loro nemici] barbaramente affermano e ingiustamente calunniano, che […]»; «essi invece credono, come affermano le Scritture»... La strategia retorica di Robinson non ha in questo caso nulla di strumentale ed è confermata dall’episodio pubblico forse più noto che lo riguarda e che testimonia la sua diretta partecipazione (dalla parte dei controrimostranti) alle polemiche che portano a Dordrecht. A sentire le testimonianze di William Bradford ed Edward Winslow, i due futuri governatori e leader di Plymouth, il pastore della comunità separatista di Leida, ritrovatosi nell’occhio del ciclone in modo quasi casuale (ovvero per la decisione di spostare la sua congregazione proprio nella città universitaria ancora nel ), ascolta più volte le lezioni dei professori di teologia, in particolare dopo le vibranti polemiche innescate dalla nomina di Vorst, dalle dimissioni di Gomar e dall’accesso alle due cattedre dell’ateneo di Polyander ed Epi-scopo nel . Quando, dopo più di un tentativo, nel Robinson riesce

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TRA CALVINO E LA RIFORMA RADICALE. IL SEPARATISMO DI JOHN ROBINSON

a farsi accettare come theologus nell’università, viene pregato dallo stesso Polyander e dall’altro nemico giurato di Episcopio a Leida, Festus Hom-mius, poi segretario del Sinodo a Dordrecht, di impegnarsi in una formale controversia universitaria contro il loro collega. Né il grande storico dei rimostranti Geeraert Brandt né il biografo (e pronipote) di Episcopo, Philip van Limborch, che concedono molto spazio alle discussioni accademiche di Leida, accennano all’episodio. Lo ricorda invece un altro avversario, Jan Hoornbeck, professore di teologia a Leida e Utrecht, tra i più acerrimi polemisti riformati olandesi di metà Seicento, che nella seconda edizione della sua Summa controversiarum religionis dedica un lunghissimo capitolo ai separatisti e agli indipendenti, in cui si dimostra gran conoscitore dei dissidi e dei dibattiti tra i radicali inglesi e in cui assume nei confronti di Robinson lo stesso atteggiamento morbido che abbiamo registrato tra gli scozzesi (anch’essi noti a Hoornbeck). «Di frequente è stato opponente e avversario, convinto e duro, di Episcopio nell’università», ricorda dopo aver menzionato i suoi scritti contro gli arminiani; del probus ed eruditus Robinson l’olandese ricorda così la carriera e gli scritti, quasi compia-cendosi del fatto che dopo la sua morte la vedova, gli amici e i rimanenti della sua congregazione fossero «stati accolti nella comunione della no-stra chiesa» e che tutti i separatisti inglesi si fossero pronunciati contro la Chiesa riformata delle Province Unite, solo Robinsono excepto! Ma le testimonianze più significative sono quelle oculari dei due cronachisti dei Padri pellegrini. Bradford descrive le insistenze di Polyander, che «impor-tuna» ripetutamente Robinson per convincerlo a intervenire contro l’altro professore di teologia; registra poi il great and public audience presente alle «due o tre occasioni» in cui Robinson impegna Episcopo, in cui la «verità» ottiene una «famosa vittoria»; insinua che, non fosse stato per il timore di «offendere lo Stato d’Inghilterra», i calvinisti dell’università gli avrebbero volentieri accordato una qualche posizione da docente. Winslow ricorda anch’egli che sono i «teologi massimamente ortodossi» di Leida a chiedere al suo pastore di prendere la parola contro Episcopio, sostenendo che tra di loro egli gode di good respect, come fosse «uno di loro»; al punto che ai suoi funerali, nel , sono presenti i rappresentanti dell’università e gli uomini di chiesa di Leida, alcuni dei quali in quell’occasione affermano che la sua dipartita è stata una perdita «per tutte le chiese di Cristo» e non solo per la sua piccola congregazione. Anche i primi polemisti antisepa-ratisti riconoscono a Robinson uno statuto più ortodosso (in particolare rispetto a Smyth). Un altro presbiteriano, lo scozzese David Calderwood in fuga da Giacomo I/VI, pur senza lasciarsi tentare dal separatismo non ritiene vergognoso frequentare la sua congregazione, considerandola evidentemente più «pura» dell’altra Chiesa inglese di Leida, che fa capo alla Established Church anglicana.

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La distanza di Robinson dal calvinismo non va quindi misurata nello stretto ambito dottrinale. Sono le riflessioni in materia di ecclesiologia, riguardanti le relazioni tra le chiese e la distribuzione del potere entro la congregazione, che portano il pastore di Leida verso posizioni ed elaborazioni non conciliabili con il presbiterianesimo ortodosso. Come per quasi tutti i separatisti inglesi delle prime generazioni, il movente di Robinson per l’abbandono della Chiesa di Stato sta nell’insoddisfazione per la politica troppo indecisa della leadership puritana, impegnata in una dura critica della struttura episcopale e della liturgia della Chiesa di Stato che trova però un limite strutturale nella necessità di non mettere in discussione l’istituzione in sé. Alla conferenza di Hampton Court, dove Giacomo chiarisce senza lasciar più adito a dubbi le sue intenzioni nei riguardi dell’episcopato da un lato e dei suoi oppositori puritani dall’al-tro, segue di fatto una nuova stretta contro i dissidenti, molti dei quali vengono sospesi o privati della carica. Alcuni dei ministri del culto del Nord-est che subiscono tali ritorsioni si radunano nel a Coventry per discutere il da farsi. Alla quiet & peaceable conference sono presenti alcuni esponenti del movimento puritano nazionale, ovvero i grandi predicatori Arthur Hildersam e John Dod, entrambi coinvolti, soprattutto il primo, nella stesura della Millenary Petition presentata a Giacomo ad Hampton Court, nonché John Barbon, tra i più influenti dissidenti della zona. Con loro discutono almeno due deprived: Richard Clifton e il più giovane John Smyth, privato di un lettorato a Lincoln. Tutti uomini che hanno studiato a Cambridge, dove hanno assorbito – Dod e Hildersam direttamente dal leader del presbiterianesimo elisabettiano Thomas Cartwright, i meno anziani dai dioscuri della teologia federale William Perkins e William Whitaker – i fondamenti della costruzione dottrinale calvinista. È ap-punto un raduno di puritani, tutti uniti dall’odio per l’episcopato e dalla convinzione che la Chiesa di Stato vada pesantemente riformata. Tuttavia, essi si dividono: mentre Dod e in particolare Hildersam convincono la maggioranza ad astenersi da ulteriori iniziative, Smyth, spalleggiato dal più anziano Clifton, sicuro di non aver «ricevuto soddisfazione alcuna» dai patriarchi ma anzi di esser stato lui ad «aver dato istruzioni a loro», decide invece di fondare una congregazione separata, seguendo l’esempio del suo ex tutor di Cambridge, quel Francis Johnson che è diventato leader della Chiesa separatista londinese di Greenwood e Barrow e l’ha raggiunta, dopo alcuni anni di prigionia, ad Amsterdam.

È il momento decisivo: di contro ai presbiteriani ortodossi, fedeli all’idea di una Chiesa nazionale e di Stato e quindi indisponibili a una soluzione che la metta radicalmente in discussione, il giovane Smyth si pone sulla linea dei separatisti della generazione precedente, anteponendo a tale idea la necessità di conservare puro e incontaminato il culto della

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TRA CALVINO E LA RIFORMA RADICALE. IL SEPARATISMO DI JOHN ROBINSON

«vera» Chiesa. Robinson non è presente a Coventry. Tuttavia, in quello stesso periodo anch’egli, privato di una curacy a Norwich, incontra Hildersam, in compagnia di un altro deprived tentato dal separatismo, Richard Bernard, forse in casa della impegnata protettrice dei dissidenti della zona, Lady Isabel Bowes. «Dopo la conferenza tra me e il signor H.», ricorda il futuro pastore dei Padri pellegrini a Bernard nella prefazione di A Justification of Separation, «voi prometteste di non offrire provocazione a me o a qualsiasi altro e che non avreste agito contro questa causa né avreste impedito ad alcuno di prendervi parte». L’esito di questa serie di riunioni è chiaro: «Il libero popolo del signore si è unito, con un patto, nel corpo di una chiesa», ricorderà molti anni dopo Bradford (all’epoca diciassettenne) riferendosi ai separatisti della zona. Il futuro governatore di Plymouth prosegue raccontando che tale organismo è poi divenuto, a causa dell’ampiezza del territorio, two distinct bodies or churches, la prima diretta da Smyth, la seconda da Robinson. Anche quest’ultimo, come i puritani di Coventry, si è formato a Cambridge alla scuola di Perkins e conosce bene i meccanismi della diatriba contro la Chiesa di Stato.

Il dibattito sul governo della congregazione

Le chiese di Smyth e Robinson (o la singola chiesa diretta dal primo con l’assistenza del secondo), perseguitate dai funzionari dei vescovi, e prive d’appoggio tra i circoli puritani, decidono quindi di trasferirsi nelle giovani Province Unite. Ad Amsterdam sopravvive da molti anni una chiesa che condivide la loro scelta separatista: negli anni successivi diventerà nota come Auncient Church, ai suoi inizi è stata diretta dal martire John Greenwood (giustiziato sotto Elisabetta nel ), ora lo è dal già citato Francis Johnson. Le due congregazioni, giunte in loco tra fine e inizio , non si uniscono alla Auncient Church. Di fatto, gli inglesi si ritrovano appena sbarcati, e probabilmente loro malgrado, nel bel mezzo di una furibonda polemica, che condurrà a un ulteriore scisma nella stessa chiesa di Johnson, guidato dal doctor, il colto Henry Ainsworth. Il tema del dissidio riguarda il core della posizione separati-sta, la concezione della congregazione e del suo governo. Ed è proprio attraverso la riflessione intorno a questo problema, nei suoi molteplici risvolti, che Robinson definisce, nel corso degli anni, il metodo «aperto» e fallibilistico che lo ha fatto annoverare dagli ingenui – ma non per questo meno perspicui – liberali ottocenteschi tra i propri antenati.

La questione del governo della congregazione è centrale nella strut-turazione ideologica del separatismo. Robert Browne, Robert Harrison e i loro compagni sostengono, agli inizi degli anni Ottanta, che l’abban-

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dono della Chiesa di Stato è giustificato solo se le questioni di liturgia e soprattutto di disciplina non sono semplici adiafora ma elementi essenziali per la salvezza. Da qui il rigorismo dei primi separatisti, convinti che solo l’unione tra la dottrina e l’obbedienza alla legge divina costituisca la base legittima della costituzione di una congregazione. Non che ciò li conduca all’ipotesi perfezionistica (come amano sostenere spesso i pole-misti che li avversano), poiché per loro resta sempre salda la distinzione tra Chiesa visibile e Chiesa invisibile: per Browne, Barrow, Greenwood e compagni entrare a far parte di una Chiesa richiede un preciso tipo di comportamento «santo», valutabile, nei suoi soli aspetti esteriori, dalla congregazione stessa. È questo, in fondo, il senso concreto sia del cove-nant sia della professione di fede richiesta ai nuovi membri. Per questo motivo la correttezza dei riti, del culto e in generale del funzionamento della Chiesa stessa diviene per loro questione di primaria importanza: tale correttezza è di fatto prova di quella fede visibile che è il cemento reale della vita della comunità e la cui mancanza nelle parrocchie della Chiesa di Stato si configura proprio come la giustificazione ineludibile della necessità della separazione. È probabile che il percorso di questi «eretici», perseguitati con durezza dalla Chiesa elisabettiana prima e da quella giacobita poi, abbia per almeno un paio di decenni portato molti tra loro a concentrarsi sui motivi più rilevanti del distacco, cioè sugli elementi di maggior peso nel confronto sia con i difensori della Chiesa di Stato sia con i puritani di orientamento presbiteriano. Prima Browne e poi Barrow e Greenwood (questi ultimi due nelle prigioni londinesi in cui erano detenuti) hanno aspramente polemizzato contro l’idolatria che regna nella Established Church, contro la corruzione dei suoi membri, contro la sua gerarchia illegale, contro la sua costituzione «mista», e via dicendo. In questa diatriba l’argomento del governo della congregazione ha una funzione primariamente polemica: quando Browne dichiara che «il popolo del signore is of the willing sorte» e Barrow reitera che «con il termine chiesa intendiamo ogni congregazione particolare composta da tutti i suoi membri», i due non solo intendono riaffermare la tesi che vede nella sola singola congregazione l’unica forma di organizzazione ecclesiastica accettabile ma anche sottolineare che in nessun caso le par-rocchie della Chiesa nazionale rientrano in un simile ambito.

Il tema del governo della Chiesa si accende davvero negli ambienti separatisti solo quando, nell’esilio olandese, i problemi concreti della vita della comunità e della direzione della congregazione sbalzano in primo piano quei risvolti politici e culturali che già i primi riformatori avevano colto nelle ecclesiologie anabattiste e nell’a-confessionalismo spiritualistico. Nella Auncient Church emergono presto contrasti tra fazioni, disaccordi sull’uso dei fondi comuni, litigi sulle regole di am-

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missione dei nuovi membri, accuse e controaccuse riguardanti presunte violazioni morali, con recriminazioni, ritrattazioni e attacchi da parte di ex membri o ex simpatizzanti. Nel Francis Johnson si vede costretto a ricorrere alle misure più estreme, scomunicando il proprio fratello e un paio d’anni dopo anche il proprio padre. È proprio George Johnson, posseduto, come il fratello, da un «malvagio spirito di contesa odiosa e feroce» (per lo meno secondo un loro acerrimo nemico) a proporci in seguito la ricostruzione – di parte, ovviamente – dell’intera vicenda, accu-sando in sostanza Francis e l’elder Daniel Studley di aver monopolizzato il governo della Chiesa disattendendo i principi della democrazia congre-gazionalista, sposati esplicitamente nella Confession separatista pubblicata nel . Secondo George la Chiesa «non ha sopportato di farsi sedurre e ingannare dal pastore e dagli anziani», pretendendo la fetta di potere che gli spetta di diritto (in particolare per quanto riguarda la facoltà di radunarsi senza i dirigenti); ma Johnson e Studley «non hanno permesso che simili cose fossero messe alla prova»; «tutto ciò che viene deciso pub-blicamente deve prima essere concluso tra di loro, i membri della chiesa non sono che numeri per fare di conto»; i due hanno criticato la Chiesa di Stato olandese perché in essa «sono gli anziani a fare tutto […] quando in verità essi fanno la stessa cosa, usurpando con la loro autorità i diritti della chiesa molto più di quanto la chiesa faccia con loro, per quanto essi insistano sul contrario».

Le considerazioni di George Johnson ci portano agli aspetti più rilevanti della questione. Egli lamenta essenzialmente una violazione di sostanza: la pratica dei separatisti dovrebbe essere quella descritta nella Confession del , in cui, al XXIV capo, si afferma che «Cristo ha dato il potere di ricevere o di escludere un qualsiasi membro all’intero corpo radunato della congregazione, e non a qualche membro a parte, o a una parte dei membri separati da tutti gli altri»; un principio reiterato da Johnson e Ainsworth nel , con la precisazione che ogni atto pubblico della Chiesa (ammissione di nuovi membri, bando, eccetera) deve essere compiuto «con la conoscenza, la presenza, l’approvazione e il consenso» di tutti i membri della stessa. Nel pensiero dei primi separatisti si coglie con facilità quella sorta di tensione essenziale nello schema congrega-zionalista, per cui occorre bilanciare in qualche modo l’asserzione della sovranità del corpo della congregazione con le esigenze di leadership del concistoro, un bilanciamento che nell’Institutio Calvino aveva risolto decisamente a favore di quest’ultimo. Tra i «donatisti» inglesi prevale di fatto la logica opposta, decisamente più favorevole all’amministrazione diretta da parte del corpo della congregazione, restando salve le pre-rogative dei pastori per lo meno nella gestione del culto: che «il potere di Cristo, ovvero l’autorità di predicare, di amministrare i sacramenti e

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di esercitare le censure ecclesiastiche, appartenga al corpo della Chiesa nel suo complesso, anzi a ognuno dei suoi membri, e non in specifico a quelli principali», è «il primo abc dei brownisti, sul quale è costruito tutto il resto delle loro menzogne», dichiara polemico Richard Bernard. È, grosso modo, questa la posizione di Browne, mentre Barrow sembra inclinare maggiormente verso la valorizzazione «aristocratica» del ruolo dei ministri e del concistoro. Tuttavia, nell’esilio olandese, con la comu-nità sostanzialmente isolata e ristretta in se stessa, non più concentrata semplicemente sulla sopravvivenza di fronte alla persecuzioni e sulla necessità di conservare coerenza, questi temi diventano questioni di vita quotidiana, urgenti e concrete. Sono questi i motivi per cui i membri della Auncient Church continuano a dissentire, a litigare, a separarsi e a espellersi a vicenda. Sottoposto a un fuoco di fila di critiche, anche da parte di confratelli o simpatizzanti (come George Johnson o John Smyth, ma anche Thomas White e il più volte citato Bernard), Francis pensa di risolvere la questione accentuando il carattere concistoriale del governo della congregazione (così facendo, provoca l’ulteriore separazione – mi-nuscola, a dire il vero – da parte di Ainsworth nel dicembre del ). Tra il e il Francis avanza e impone una nuova interpretazione del passo chiave per l’esecuzione della disciplina entro la congregazione, ovvero Matteo , : dopo l’ammonizione privata e quella con testimoni del reo, «dillo alla chiesa». Sino a quel momento negli ambienti separatisti non vi era stato dubbio sul senso del passo: «chiesa» si legge appunto «corpo della congregazione». Johnson, in sostanza, dichiara che il passo va interpretato come «dillo al concistoro», proponendo un modello di congregazionalismo pesantemente sbilanciato verso il presbiterianesimo. In un brano estremamente rivelatore, che molto ci illustra del mood prevalente nei circoli degli esuli, il pastore della Auncient Church spie-ga per quale motivo, se si accettasse la lettura sino ad allora dominante tra i separatisti, ne uscirebbero distrutti i presupposti su cui si regge la società stessa:

Se intendiamo questa parola – “chiesa” o “congregazione” – come se indicasse la moltitudine di uomini, donne e ragazzi (come alcuni vorrebbero), allora essi dovrebbero essere presenti di persona per impegnare se stessi e fornire il loro contributo nell’udire e giudicare le questioni che ogni giorno vengono sollevate tra gli uomini e i loro fratelli. E quando dovesse capitare un qualche provvedimento per il peccato di un padrone, un padre, un marito, o casi simili, succederebbe che i servi potrebbero accusare il padrone e lamentarsene, il figlio fare altrettanto con il padre, la moglie con il marito, persino i sudditi con il sovrano: gente a cui il Signore non ha affidato alcuna autorità o governo. E nella congregazione questi potrebbero addirittura fare domande ai primi, ammonirli e rimproverarli pubblicamente.

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TRA CALVINO E LA RIFORMA RADICALE. IL SEPARATISMO DI JOHN ROBINSON

I fuoriusciti dalla bassa valle del Trent che giungono ad Amsterdam tra il e il si ritrovano coinvolti in questa polemica. Probabilmente per questo motivo Smyth non si unisce alla chiesa di Johnson; ed è pro-babilmente per le stesse ragioni che Robinson e i suoi si trasferiscono a Leida. I due rientrano però, senza ombra di dubbio, negli «alcuni» che «vorrebbero» interpretare Matteo , nel senso antigerarchico e antiautoritario che Johnson tanto paventa. È in primo luogo Smyth a fare la voce grossa, con alcuni poderosi tomi scritti tra il e il . L’ex pastore di Scrooby, spirito intellettualmente iconoclasta e meto-dologicamente radicale, spinge come sua abitudine il discorso verso le soluzioni più estreme: contro Johnson, giudica legittima qualsivoglia decisione della congregazione nel suo complesso, anche quelle che si contrappongono a ogni tradizione, ogni consuetudine e ogni gerarchia. Portando agli estremi l’idea del sacerdozio universale, afferma, con uno stile decisamente provocatorio, che chiunque può diventare ministro della congregazione, indipendentemente da titoli, cultura, preparazione, e così via. E già nel riesce a trovare, con uno straordinario giro argo-mentativo, una giustificazione convincente della concessione alle donne delle facoltà associate al ministero del culto, rileggendo creativamente la proibizione paolina. Nelle pagine di Smyth si coglie con nettezza la sua apertura verso il mondo, la disponibilità metodologica ad accettare il nuovo, la valorizzazione metodologica del confronto e del conflitto. Nella sua interpretazione la Chiesa diventa qualcosa di più della sede deputata al culto. Si fa palestra di argomentazione, arena di discussione, luogo di sperimentazione continua: «Qui sono appropriate le discussioni e le dispute», scrive entusiasta contrapponendosi, come pochissimi pri-ma di lui, a una visione della Chiesa fondata sulla quiete, la concordia, l’eliminazione del dissenso, «si possono produrre prove di ogni genere per la ricerca della verità, [...] dichiarazioni, giuramenti, [...], libri di ogni sorta [...],traduzioni, storie, cronache, commenti, eccetera, tutto può essere portato nella chiesa come prova della verità».

Nel pensiero di Smyth si scorgono quindi gli effetti di una lettura radicale dei principi del congregazionalismo separatista, che lo condur-ranno infine, dopo un percorso travagliato e “scandaloso” (compreso un autobattesimo), al quietismo dell’anabattismo e dell’antipredestina-zionismo mennonita. Robinson viaggia in fondo sullo stesso percorso, con minori asperità e spirito polemico, e, soprattutto, restando sui binari dottrinali del calvinismo federale. Il suo coinvolgimento nella polemiche tra i separatisti, i loro ex sostenitori e i loro avversari anglicani comincia con uno scambio di lettere con l’umanista e satirista Joseph Hall, nonché cappellano del principe Enrico, il quale, viaggiando al seguito dell’amba-sciatore inglese a Bruxelles, sembra esser passato anche per Amsterdam.

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Hall accusa Smyth e Robinson di essere figli degeneri della Chiesa, di averla lasciata per questioni dappoco: «Vi ingannate se pensate che le mura di Babilonia si reggano sulle cerimonie. Sono gli errori di sostanza [di dottrina] le loro fondamenta e la loro struttura». Secondo il futuro vescovo di Exeter e poi di Norwich, anch’egli noto per la sua ortodossia calvinista, «queste osservanze rituali […] sono per ornamento, non per uso, non sono parti dell’edificio ma accessori non necessari». Al forse più classico argomento anglicano, Smyth, preso in altre polemiche, non risponde neppure. Non così Robinson, che replica alla lettera di Hall concentrandosi sui temi più tipici del separatismo: «A voi manca il potere e la presenza di Cristo, perché avete le vostre cariche con un omaggio, o meglio con una servitù della gleba, verso i prelati, al cui peccaminoso giogo vi piegate, in una schiavitù più che babilonese, sostenendo e approvando, tramite una comunione personale, infiniti abomini», dichiara, aggiungen-do che ciò avviene per due aspetti, «la vostra confusione babilonese di ogni sorta di persone nel corpo della vostra chiesa, senza separazione, e la vostra schiavitù spirituale sotto i vostri signori spirituali, i prelati: noi vi riteniamo Babilonia e da voi fuggiamo». Sono i capisaldi della pole-mica separatista classica, quella di Browne e Barrow, che ispira anche il primo testo di ampio respiro composto da Robinson, la Justification of Separation, pubblicata a Leida nel e intesa come ennesima replica all’ex amico Bernard. Ma qui Robinson entra anche nel merito del tema del governo della congregazione, confrontandosi così con i problemi che nel medesimo periodo vanno dibattendo Johnson, Ainsworth e Smyth. La chiesa di Leida viene peraltro chiamata direttamente in causa dalle due fazioni della Auncient Church. Sia Johnson sia Ainsworth si appellano a Robinson, il primo perché non sanzioni la separazione (che in un primo momento egli stesso ha concesso), il secondo per il motivo opposto. Nello scambio di lettere tra le due chiese le opinioni di Robinson sono abbastanza nette: loda costantemente la «grande moderazione» di Ain-sworth, condanna con chiarezza «la nuova dottrina del signor Johnson» e propone, come soluzione, una procedura «a mezza strada», secondo la quale sarebbe meglio «rimandare in primo luogo la questione che of-fende» (cioè la nuova interpretazione di Matteo proposta da Johnson) «per ordine, preparazione e prevenzione di disordini non necessari, agli anziani, in quanto governatori delle chiese». Una middle way apparen-temente favorevole a Johnson, se non fosse che Robinson chiarisce che è solo questione di opportunità: infatti, specifica, «noi, da parte nostra, non adotteremmo, nel frangente, questa particolare pratica».

Le idee di Robinson sono espresse nella Justification in modo anche più esplicito. A suo parere, in una Chiesa legittima ogni membro è reso «re, prete e profeta non solo in se stesso, ma anche verso tutti gli altri,

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anzi verso il corpo complessivo» della Chiesa stessa. In altri termini, tutti i membri hanno potenzialmente lo stesso diritto di esercitare le facoltà asso-ciate al culto e al governo (dirigere, predicare, somministrare i sacramenti, e via dicendo). Tuttavia, spiega Robinson al polemico Bernard, ciò non vuol dire che nella Chiesa non regni un certo ordine, per cui alcuni «sono elevati al di sopra degli altri, i più fedeli e capaci, per mezzo di cariche (non regali ma ministeriali)». «Il potere è una cosa, inseparabile dal corpo, il suo uso un’altra, che in alcuni casi può mancare»: citando l’esempio delle corporazioni, che hanno una concessione dal re in quanto corpo, ma possono usufruire pienamente dei loro privilegi solo con funzionari eletti, Robinson afferma che la Chiesa da sé, senza funzionari (ovvero senza ministri e anziani), può fare solo «cose semplici e necessarie», come per esempio approvare «i nuovi membri con la loro professione di fede», «edificarli con l’esortazione e i conforti dell’ordinanza del prophesying, e quindi espellerli con il bando». La strategia discorsiva è l’opposto di quella di Smyth; laddove il futuro battista afferma quasi con arroganza, il pastore di Leida procede per sottrazione, spiegando appunto che la Chiesa senza funzionari non è mai pienamente efficiente e che in loro assenza essa può fare poco; ma questo poco comprende quasi tutto il terreno del contendere, con l’apparente eccezione dell’amministrazione dei sacramenti, che resta riservata ai ministri del culto; un’eccezione solo apparente perché anche i più radicali separatisti di inizio secolo – com-presi Smyth e Ainsworth – propongono la stessa idea, permettendo, come del resto Robinson, l’esercizio di tale facoltà a funzionari non eletti solo in casi straordinari (naufragi et similia). Sul punto chiave – l’interpreta-zione di Matteo – Robinson reitera la posizione appunto di Smyth e Ainsworth secondo la quale «chiesa» vuol dire «congregazione». Tuttavia, in una vena retoricamente più ortodossa (per lo meno rispetto al primo), giudica «aborrita dalle chiese riformate» l’idea espressa da Bernard (e Johnson) che «siano i funzionari a esser chiamati Chiesa», citando con rapidità ma precisione autorità continentali (Zwingli, Vermigli, Bucero, l’olandese Jeremais Bastynck, uno dei più noti commentatori del cate-chismo di Heidelberg, e «lo stesso Beza») e britanniche (Hooper, Fox, Cartwright ed Henry Jacob, pure lui convertito al congregazionalismo dal presbiterianesimo). Nella sua replica Johnson obietta soprattutto all’idea che «i santi in quanto re siano superiori ai loro dirigenti» (cosa che a suo parere equivale a fare del popolo «un idolo»); Robinson rispon-de con una lettera (pubblicata in una confutazione di Clifton scritta da Ainsworth) in cui riconferma la distinzione tra «il potere di Cristo nella chiesa (comune a tutti)» e il suo potere nel governo e nella guida della Chiesa stessa, «peculiare dei dirigenti». Oltre a riaffermare il diritto della congregazione di deporre i suoi dirigenti (idea sulla quale il Johnson del

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nutre ormai molti dubbi) trova nuovamente modo di legittimare la sua posizione richiamandosi ad autorità riformate – in particolare Musculus, Bullinger e Pareus – sino ad allora non citate.

Verso la Riforma radicale

Negli anni successivi, mentre frequenta l’università, dirige la sua con-gregazione e polemizza con Episcopo e i suoi seguaci, Robinson amplia e sviluppa le sue argomentazioni in una direzione complessiva sempre più antigerarchica e sempre meno compatibile con l’ottica riformata più ortodossa. Lo fa in una serie di polemiche innescate in genere dai con-creti problemi di gestione e governo delle congregazioni separatiste in Olanda e in Inghilterra, nonché di quella indipendente fondata da Jacob a Southwark nel , entro una rete di relazioni e connessioni che rende intellettualmente molto vivace il mondo separatista clandestino. Robinson interagisce con i leader indipendenti che nel abbandonano anch’essi l’Inghilterra per le Province Unite, discutendo con loro in particolare della possibilità di frequentare anche le parrocchie della Chiesa di Stato; risponde alle domande che gli pongono le altre congregazioni, riguar-danti le modalità di ammissione, la legittimità del libero prophesying, la natura dei poteri della congregazione; reagisce alle puntate polemiche di compagni, ex compagni, ex simpatizzanti e avversari. Scrive lettere brevi, missive più ampie che si trasformano in brevi saggi, trattati impegnativi. Nel complesso, al tema del governo della congregazione si annodano due altri temi fondamentali per l’identità stessa del separatismo e dell’appena nata indipendenza: quello della natura del diritto d’intervento dei membri della congregazione nelle discussioni e quello della possibilità di ascoltare sermoni e frequentare chiese che non siano separatiste.

Nello stesso anno in cui Robinson si stabilisce a Leida vi giungono anche Robert Parker, Henry Jacob e William Ames, anch’essi tra i dissi-denti che hanno replicato alla “stretta” episcopale dopo Hampton Court. Jacob ha già rivolto alcune petizioni a Giacomo chiedendo che ai ministri del culto non disposti a conciliare sui riti e sui culti della Chiesa di Stato sia concesso di «radunare» proprie congregazioni, in cambio di una certa fedeltà alla Chiesa stessa. I tre, e in particolare Ames, impegnano Robinson sul tema a loro caro della legittimità di frequentare le parrocchie anglicane (è questo l’episodio cui si riferisce lo scozzese Baillie quando ricorda la possibilità che Robinson stesso avrebbe potuto «estinguere» la separa-zione). Il confronto, tuttavia, non mira tanto, o non solo, a convincere gli avversari della correttezza della propria posizione, quanto piuttosto ad accreditarsi presso l’opinione pubblica antiepiscopale come punto di

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riferimento privilegiato. È in particolare Ames, pronto a pubblicizzare i suoi scritti e quelli di Robinson e a insistere sulla polemica, a rimarcare la bitterness del separatismo e la sua inconciliabilità con una visione ragio-nevole della religione. Nel febbraio del è lui a chiedere a Robinson di indagare sulla possibilità che vi possa essere «una comunione al di fuori di una chiesa visibile». Il pastore di Leida replica qui con la tipica rigidità separatista: al rilievo dell’altro che mette l’enfasi sulla «comunione inte-riore» come elemento distintivo del cristiano, replica che «con Cristo non si ha solo una comunione interiore, ma anche una esteriore, nell’ordine [ecclesiastico] che egli ha dato». Gli «uomini che stanno in una chiesa» hanno meno «libertà» di chi sta fuori: essi sono legati da un covenant, da un impegno all’osservanza, in the order of an established church, che non possono trasgredire, pena la loro stessa salvezza. Tuttavia, nello spazio di qualche anno Robinson sembra modificare di molto le sue opinioni, spinto in primo luogo proprio dallo sviluppo quotidiano della vita delle congregazioni separatiste: «Confesso che egli era più rigido nelle sue scelte e nelle sua condotta all’inizio che non alla fine», scriverà molti anni dopo Edward Winslow. Molti separatisti continuano a viaggiare tra Inghilterra e Olanda, dove capita loro di essere presenti a riti religiosi delle Chiese di Stato; a volte partecipano alle cerimonie di altre chiese separate (che richiedono un altro tipo di covenant); dopo la fondazione della congregazione indipendente di Southwark nel (a opera di Henry Jacob, probabilmente influenzato dallo stesso Robinson), i cui membri da un lato conducono una vita religiosa in tutto simile a quella dei separatisti e dall’altro frequentano la Chiesa di Stato, i problemi si moltiplicano, dato lo statuto ambiguo della congregazione agli occhi degli stessi alfieri della separazione e data una ovvia (seppur limitata) commistione tra i membri di queste stesse Chiese. Tali problemi e la pubblicazione della sua corrispondenza con Ames (da parte di alcuni espulsi da Leida) spin-gono Robinson a pubblicare nel Of Religious Communion Private & Publique, in cui, a fronte dell’accusa di Ames di «rifiutare la comunione nell’esercizio privato e personale della religione ai migliori nelle assem-blee» della Chiesa di Stato e quindi di essersi «separati dai malvagi e dai santi non solo nelle cose illegittime […] ma anche in quelle legittime», dichiara anche a nome della sua Chiesa che:

Noi, che professiamo una separazione dalla Chiesa e dalle chiese inglesi nazionali, provinciali, diocesane e parrocchiali, restando completamente entro questa forma e questo ordine possiamo avere legittima comunione nelle preghiere private e in altri siffatti esercizi (non tenuti entro la loro comunione ecclesiastica né per mezzo del suo potere o dei suoi ministri).

Robinson cita i testi separatisti che potrebbero sanzionare tale interpre-

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tazione (Barrow e Penry), e ricorda che egli stesso aveva discusso l’argo-mento con Smyth ancora in Inghilterra, pronunciandosi già all’epoca per una qualche forma di intercomunione. Alla successiva provocazione di Ames, che offre a Robinson un manuduction (cioè di portarlo per mano) dall’accettazione della comunione privata all’accettazione di quella pub-blica (ovvero, diremmo noi, a convertirsi alla posizione indipendente), il pastore di Leida precisa ulteriormente la distinzione tra azioni private e azioni pubbliche; nel secondo caso, la qualità di una persona, dicia-mo di un ministro del culto «santo», conta poco di fronte al suo peso pubblico:

È secondo le leggi e gli ordinamenti pubblici (in modo speciale la sottomissione a questi data pubblicamente, come nel caso del ministro del culto che qui imma-giniamo) che noi giudichiamo il ministero pubblico della Chiesa e non secondo gli intendimenti privati e le dichiarazioni implicite delle persone particolari.

Di fatto, l’ammissione di una intercomunione nella sfera del privato non deve secondo Robinson trasformarsi in alcun modo in un giudizio di legittimità, per quanto larvato, sul ministero o, peggio ancora, sul-l’istituzione ecclesiastica (al contrario di quanto si proponevano i primi indipendenti).

Nonostante le sue resistenze ad Ames, Robinson ha modo di smus-sare ulteriormente la sua bitterness separatista, nuovamente sulla base di alcuni casi concreti. Nel William Brewster, il suo principale sodale sin dai tempi di Scrooby (è in casa sua che si radunano i separatisti), viene accusato di aver partecipato a funzioni anglicane e Robinson difende la legittimità della pratica dal pulpito. Più eclatante il caso che si verifica poco prima della sua morte: il mercante Sabine Staresmore, tra i fondatori della congregazione di Jacob a Southwark e poi trasferitosi a Leida, dove è stato accettato dai separatisti sulla base del covenant stretto a Londra, quando passa ad Amsterdam viene bandito dagli eredi di Johnson per-ché nel suo andirivieni tra Inghilterra e Olanda ha assistito a qualche servizio del culto della Chiesa di Stato. Qualche mese prima del fattaccio Robinson si è già pronunciato sull’argomento, replicando alla richiesta di lumi da parte di una chiesa separatista londinese (forse quella guidata dall’artigiano Hubbard): Staresmore è stato accettato a Leida sulla base del covenant stretto entro la congregazione di Jacob che è quindi una vera Chiesa. Inoltre, non sono da condannare come idolatri, sulla base sia del christianitie sia della civilitie, coloro che occasionalmente frequentano la Chiesa d’Inghilterra:

Tutti coloro che, per ignoranza o debolezza, compiono alcuni atti tra quelli meno discernibili di idolatria, non sono idolatri, a meno che questa non regni in essi in

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azione o disposizione. Infine, se tutti nella chiesa d’Inghilterra e tutti quelli del signor Jacob fossero idolatri come dice l’apostolo, sarebbero allora tutti esclusi dal regno di Dio.

Nel Treatise on the Lawfulnes of Hearing of the Ministers in the Church of England, pubblicato postumo nel ma scritto in questo periodo, Robinson polemizza apertamente con la Auncient Church, peraltro già denunciata pubblicamente in un’altra missiva del : la chiesa di Am-sterdam è chiaramente composta da lukantropoi (ovvero licantropi) e seguaci del rabbioso Iehu. La strategia del Treatise si configura come un ripensamento radicale della bitterness separatista di cui lo aveva accusato Ames un paio di lustri prima. Pur restando fermo nel sostegno ai capisaldi dottrinali ed ecclesiologici del separatismo, Robinson smorza il rigore e la durezza delle loro posizioni:

Io nego, come immaginazione massimamente vana, che chiunque prenda parte alle attività legittime di una chiesa si unisca a essa nel sostegno alle cose illegittime che in essa si trovano.

Ancora di più, il pastore di Leida sembra avvicinarsi alle posizioni di Ames e degli indipendenti quando pare concedere un peso inedito – per lo meno nella tradizione separatista – all’ambito interiore rispetto a quello esteriore:

Bisogna considerare che in molti casi io posso compiere la stessa azione esteriore che compiono altri, nella quale essi manifestano la loro approvazione per l’ido-latria o qualche altro male, e io resto però libero, in verità e di fatto, da questa approvazione e dalla macchia che ne proviene.

Per Robinson il criterio decisivo per definire la correttezza della vita re-ligiosa sembra cioè aver assunto una nuova dimensione, orientata verso l’interiorità, la maturazione personale, la capacità di distinguere e valutare del singolo. Agli avversari che paventano il rischio di seduzioni e cadute, replica che «non dobbiamo sacrificare le principali verità guadagnate per il pericolo di alcuni nuovi errori. […] Ciò vuol dire aver più paura del diavolo che fiducia in Dio»; e inoltre, quella tanto paventata comunione «si ha solo in relazione alle verità insegnate». La stessa caratterizzazione dei werewolves della Auncient Church porta in primo piano elementi inediti: «Alcuni di questi», scrive riferendosi a coloro che hanno espulso Staresmore,

li ho trovati trasportati da un’eccessiva ammirazione per alcune precedenti guide della loro corrente, come se ritenessero una mezza eresia porre in questione

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qualcuna delle loro decisioni o pratiche. Non dobbiamo pensare che siano solo i farisei antichi e i papisti di questi ultimi tempi ad essere superstiziosamente assuefatti alle tradizioni degli antichi e all’autorità della Chiesa. In tutte le sette ci sono diversi (specialmente tra i più deboli, che essendo meno vicini al reale nelle loro concezioni sono i più attenti ai personalismi) che preferiscono scegliere di seguire il sentiero della cieca tradizione, se è stato percorso da quei predecessori che ammirano, piuttosto che le giuste vie della parola di Dio che vengono loro mostrate in seguito.

È lo stesso linguaggio del messaggio ai Pellegrini in partenza da Leida, che implica una concezione della vita religiosa avvicinabile a quella di Smyth, fondata sul primato della verità, del progresso della conoscenza, dell’avversione per la tradizione ecc. Una concezione che, potenziando il linguaggio dell’interiorità sull’esteriorità, dello spirito sulla legge, del vissuto individuale sulla natura astratta della pratica, non ci indica però la strada di quella specie di nicodemismo utilitaristico favorito dai primi indipendenti, ma piuttosto quella di una svalutazione della vita confes-sionale stessa: in altri termini, nella risoluzione robinsoniana cogliamo meno la voce opportunistica di un William Ames e più la voce dello spi-ritualismo cinquecentesco, di un Sebastian Franck, di un Obbe Phillips, di un Caspar Schwenckfeld.

Anche nell’interpretazione del prophesying proposta da Robinson rintracciamo lo stesso schema. Abbiamo visto che, di fronte alla marcia indietro di Johnson nei confronti del diritto del suo gregge di riunirsi indipendentemente, Robinson, pur dichiarandosi in favore di Johnson per puro amore di pace, aveva affermato di attenersi al principio opposto. Anche in On Religious Communion egli concede ampio spazio agli «uomini (anche non in carica [di ministri])» di intervenire nella vita della congre-gazione: essi «hanno libertà di avanzare le loro domande e proporre i loro dubbi perché siano soddisfatti, e anche, avendo ricevuto delle facoltà, di usare le stesse per edificazione, esortazione e conforto», auspicando però, nello stesso brano, che tutto ciò avvenga sotto la guida e la direzione degli anziani. Consultato più volte nel corso degli anni sul problema (i membri della chiesa di Hubbard gli chiesero infatti, nei primi anni Venti, se a suo parere il diritto di voto e di prophesying si estendesse anche alle donne), Robinson esprime la sua opinione in modo specifico nella replica a John Yates, uno dei ministri puritani che lo avevano sostituto a Norwich dopo la sua partenza per le Province Unite e che aveva condannato i tentativi di lay preaching avvenuti nella zona, evidentemente ancora segnata dall’espe-rienza separatista. Ciò che cogliamo in quest’altro scritto, intitolato The People’s Plea for the Exercise of Prophesie e pubblicato nel , è però una nuova enfasi non sulle procedure ecclesiastiche corrette, ma sui vantaggi di una free prophesie per la vita della comunità. Lo sforzo di Robinson è

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diretto a desacralizzare la figura del ministro; nega con decisione che le facoltà associate al ministero siano strutturalmente straordinarie; ritiene che tutti i membri della congregazione possano servirsene con profitto, sia proprio sia di tutti gli altri; nega che il calling della facoltà di esprimersi sia associato a una qualche condition or estate sociale, ma che sia invece potenziabile e utilizzabile attraverso labor and industry, qualità affatto riservate a chi ha una laurea o una carica ecclesiastica. Soprattutto, con-danna tutti coloro che non sopportano il confronto e il dibattito, sia pure inteso non come emulazione o contraddizione, ma come onesta e sincera esposizione della Parola:

Alcune tradizione malvagie hanno infettato la mente dell’uomo, così da far ritenere una disgrazia cedere il posto a un altro, che parli dopo di lui, andando più oltre o in modo diverso dal suo. […] Mentre invece bisognerebbe pensare in tutta modestia che un secondo o un terzo, in modo particolare se sembrano adatti a parlare sedendosi nel posto prima occupato da lui, might have something revealed further, or otherwise than he had.

Quel revealed in corsivo ci rimanda non solo al più celebre passaggio del messaggio ai Pellegrini, ma anche all’impostazione inedita che Robinson dà ora al tema della vita congregazionale, intesa in una prospettiva simile a quella del suo vecchio compagno Smyth, come luogo privilegiato di ricerca e sperimentazione. Nelle Observations questo atteggiamento viene quasi formalizzato. La conoscenza è elevata a valore supremo, in particolare la conoscenza che può essere trasmessa e resa utile agli altri: chi conosce meno di quanto potrebbe «è una bestia», chi conosce a sufficienza «è un uomo», ma «chi conosce, secondo gli aiuti garantitigli da Dio, ciò che può esser ben conosciuto e sino al punto da dirigere se stesso e gli altri al meglio, è un dio tra gli uomini». Con una mossa che lo pone direttamente tra i fallibilisti religiosi della sua epoca, con la loro valorizzazione euristica del confronto con l’errore e il male, Robinson afferma che «anche la conoscenza della cose malvagie è buona, e più grande è meglio è, ammesso che non sia condotta come sperimentazione o con approvazione». Il pastore di Leida, pur restando legato a un ethos prevalentemente religioso, sembra pronto ad approfittare anche dei primi vagiti della scienza sperimentale. Nelle Observations costruisce la sua concezione della verità con un parallelo rivelatore, che ci indica i suoi strumenti d’indagine privilegiati: «Nulla che sia vero nella retta ragione [right reason] o nella sana filosofia [sound philosophy] è, o può essere, falso in teologia». La misura del radicalismo intellettuale del pastore di Leida è data soprattutto dalla sua avversione per la tradizione, per i costumi con-solidati, per i saperi costituiti, pensati come ostacoli all’avanzamento del sapere: «Il nostro signore Gesù Cristo si è chiamato verità, non tradizione

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[custom]», afferma. Riproponendo l’antitesi tra reall e personall che aveva già usato contro i suoi avversari di Amsterdam, Robinson compone una delle più violente critiche del principio d’autorità composte nel Seicento, che un Bacone o un Cartesio avrebbero ben potuto invidiargli:

L’autorità ci rimanda all’autore di una cosa, e ci comanda di stare alla sua parola, o per fede alla sua versione o per obbedienza al suo comando. La ragione vuole che guardiamo alla cosa in sé, e agli argomenti in suo favore o contro, derivati o dal senso comune o dai principi naturali e dalle loro conclusioni o da altre indu-bitabili basi di verità o affidabilità in materia. Situare il fondamento nell’autorità significa dipendere dalla persone; situarla nella ragione significa dipendere dalla realtà. Esaminare la ragione delle cose è una specie di messa in stato d’accusa [impeachment] dell’autorità; e così è un pregiudizio per le possibilità della ragione rifarsi all’autorità per consiglio.

Nel percorso di Robinson il distacco dalla bitterness dei suoi inizi da «settario» si consuma quindi nell’accettazione di una prospettiva aperta e sperimentale, sotto la spinta delle polemiche e dei contrasti nati nel-l’ambiente separatista. Da questo punto di vista il discorso ai Padri pel-legrini, con le sue risonanze «progressiste» e antigerarchiche, sembra del tutto congruente con alcuni esiti culturalmente dirompenti e iconoclasti della tradizione separatista e battista. Ma segnala anche la vicinanza di Robinson e di molti suoi compagni di strada e allievi a costrutti discor-sivi e presupposti epistemologici più tipici dello spiritualismo che non di quel calvinismo tanto rispettato nella sua sostanza dottrinale (ma non culturale) dal pastore di Leida. E non solo nell’auspicio della rivelazione di nuove verità, ma anche nella presa d’atto che tale auspicio si applica alla stessa Riforma dei maestri, con un superamento che, ancora una volta, più che agli ortodossi teologi federali inglesi e olandesi, rimanda piuttosto all’esecrato (da loro) Sebastian Franck: egli, racconta Edward Winslow venticinque anni dopo l’addio ai Pellegrini,

ci incaricò [...] di seguirlo solo fin quando lui avrebbe seguito Cristo e, se Dio ci avesse rivelato qualcosa per mezzo di un altro strumento, differente da lui, di esser pronti ad accettarlo come se provenisse dal suo ministero, perché egli era convinto che il Signore aveva altra verità e altra luce da rivelare per mezzo della sua santa parola. Egli ne approfittò anche per lamentare lo stato e la condizione delle Chiese riformate, che in religione erano arrivate a un certo punto e non volevano andare oltre gli strumenti della loro riforma. Come per esempio i luterani [...]. Ma guardate anche i calvinisti, si sono fermati dove lui li ha lasciati. Una miseria molto biasimevole. Perché sebbene essi siano stati preziose luci scintillanti ai loro tempi, tuttavia Dio non ha rivelato loro la sua intera volontà. Se essi [Lutero e Calvino] fossero oggi tra i vivi, sarebbero tanto pronti e disposti ad accettare nuova luce quanto lo sono stati a riceverla. Egli ci ricordò anche che nel nostro

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TRA CALVINO E LA RIFORMA RADICALE. IL SEPARATISMO DI JOHN ROBINSON

Church-Covenant, o almeno in quella sua parte dove si prometteva di stringere un covenant con Dio e gli uni con gli altri, [si prometteva] di accettare qualsiasi luce o verità ci sia resa nota dalla parola scritta, ma poi ci esortò a stare attenti a ciò che accettavamo perché, ci disse, “non è possibile che nel mondo cristiano, emerso tanto tardi dalle tenebre anticristiane, si diffonda immediatamente la conoscenza perfetta”.

Note

. R. Baillie, A Dissuasive from the Errours of the Time, Samuel Gellibrand, London , p. ; T. Edwards, Gangraena, Ralph Smith, London , p. ; S. Rutherford alla viscontessa di Kenmure, marzo , in Letters of Samuel Rutherford (), The Banner of Truth Trust, Edinburgh , p. .

. T. George, John Robinson and the English Separatist Tradition, Mercer University Press, Macon , p. .

. Sulle vicende e i percorsi dei separatisti e dei battisti del primissimo Seicento cfr. almeno B. R. White, The English Separatist Tradition. From the Marian Martyrs to the Pilgrim Fathers, Oxford University Press, Oxford ; M. Tolmie, The Triumph of the Saints. The Separate Churches of London -, Cambridge University Press, Cambridge ; S. Brachlow, The Communion of Saints. Radical Puritan and Separatist Ecclesiology -, Oxford University Press, Oxford ; S. Wright, The Early English Baptists -, The Boydell Press, Woodbridge .

. J. Robinson, A Defence of the Doctrine Propounded by the Synode at Dort, s.e., s.l., , pp. n. n., Preface.

. Ivi, pp. , . . G, Brandt, Historie der Reformatie, voll., Jan Rieuwertsz, Hendrik e Dirk Boom,

Amsterdam , in particolare II, libri XXI-XXV, pp. -; P. van Limborch, Historia vitae Simonis Episcopii, G. Gallet, Amsterdam , pp. - (pp. reali -).

. J. Hoornbeck, Summa controversiarum religionis, J. Waesberge, Utrecht , pp. -.

. W. Bradford, Of Plymouth Plantation, S. E. Morison (ed.), Knopf, New York , p. ; W. Winslow, Hyprocrisie Unmasked, Richard Cotes for John Bellamy, London , p. .

. K. L. Sprunger, Dutch Puritanism, Brill, Leiden , p. . . J. Smyth, Paralleles, Censures, Observations (), ora in W. H. Whitley (ed.), The

Works of John Smyth, voll., Cambridge University Press, Cambridge , II , pp. -. Il commento sulla quiet & peaceable conference è di Smyth (ibid.).

. J. Robinson, A Justification of Separation from the Church of England, s.e., s.l., , p. ; è possibile che il «mr. H.» cui fa riferimento Robinson non sia Hildersham ma Samuel Hieron, altro influente ministro del culto puritano della zona, anch’egli impegnato in questo periodo in una serie di incontri e discussioni.

. Bradford, Of Plymouth Plantation, cit., p. . Non è chiaro se nella zona si sia formata una sola chiesa diretta da Smyth, con Robinson e qualcun’altro in veste di assi-stenti, o se sin dall’inizio – come sostiene, pro domo sua, il futuro governatore Bradford – si siano formato due distinte chiese; cfr. George, John Robinson, cit., pp. ss.; Wright, Early English Baptists, cit., pp. ss.

. R. Browne, A Treatise of Reformation without Tarying for Anie (), in A. Peel, L. H. Carlson (eds.), The Writings of Robert Harrison and Robert Browne, Allen & Unwin, London , p. ; H. Barrow, A Plaine Refutation of Mr. George Giffarde’s Reprochful Booke (), in L. H. Carlson (ed.), The Writings of Henry Barrow -, Allen & Unwin, London , p. .

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PIETRO ADAMO

. R. Bernard, Christian Advertisements and Counsels of Peace, Felix Kyngston, London , p. .

. G. Johnson, A Discourse of Some Trouble and Excommunications in the Banyshed English Church at Amsterdam, s.e., Amsterdam , pp. -.

. A True Confession of the Faith (), ora in W. Walker (ed.), The Creeds and Platforms of Congregationalism, Charles Scribner’s Sons, New York , pp. -; An Apologie of Defence of such True Christians as Are commonly (but unjustly) Called Brow-nists, s.e., s.l. , p. .

. Bernard, Christian Advertisement, cit., p. . . Cfr. soprattutto Brachlow, The Communion of Saints, cit., pp. -. . F. Johnson, A Short Treatise concerning the Exposition of Those Words of Christ,

“Tell the Church”, & c., Mat. ., s.e., s.l. , p. Ar.. J. Smyth, The Differences of the Churches of the Seperation (), in Whitley

(ed.), The Works of John Smyth, cit., I, pp. -. Sull’iconoclastia intellettuale di Smyth cfr. P. Adamo, La libertà dei santi. Fallibilismo e tolleranza nella Rivoluzione inglese, FrancoAngeli, Milano , pp. -.

. J. Hall, To Mr. Smith and Mr. Rob., Ringleaders of the Late Separation; at Amsterdam, in J. Hall, Works, voll., William and Smith et al., London , VII, p. .

. J. Robinson, An Answer to a Censorious Epistle ( o ), in R. Ashton (ed.), The Works of John Robinson, voll., John Snow, London , III, p. .

. Dalla chiesa di Leida a quella di Amsterdam, novembre , in Ashton (ed.), The Works of John Robinson, cit., III, p. ; J. Robinson e W. Brewster alla chiesa di Amsterdam, fine -inizio , ivi, pp. -.

. Robinson, A Justification, cit., pp. , -, -. . “Mr. Robinson Answer”, in H. Ainsworth, An Animadversion to Mr. Richard

Clyftons Advertisement, Giles Thorp., Amsterdam , pp. , , . . W. Ames a J. Robinson, febbraio , in Ashton (ed.), The Works of John

Robinson, cit., III, p. ; J. Robinson a W. Ames, , ivi, III, pp. -. . Winslow, Hypocrisie Unmasked, cit., p. .. J. Robinson, Of Religious Communion, Private, & Publique, s.e., s.l., , pp.

giiir, . . J. Robinson, A Manumission to a Manudction (), in “Collections of the Mas-

sachusetts Historical Society”, Fourth Series, vol. I, , p. . . J. Robinson, “A True Copie of a Letter […] by the Whole Consent of the Church

[…] Sent to London”, in J. Robinson, A Treatise on the Lawfulnes of Hearing of the Mi-nisters in the Church of England, s.e., s.l. , pp. , .

. Ivi, pp. -, , , -, , . . Robinson, Of Religious Communion, cit., p. . . J. Robinson, The People’s Plea for the Exercise of Prophesie, s.e., s.l. , pp. . . J. Robinson, Observations Divine and Morall, s.e., s.l. , pp. , -, -.. Winslow, Hypocrisie Unmasked, cit., pp. -.