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Premetto di essere lontano dal mondo della produzione e dalla pratica progettuale; in quanto filosofo mi qualifico semplicemente come osservatore. La consapevolezza della parzialità del proprio punto di vista è condizione essenziale di ogni riflessione teorica che voglia dirsi oggi filosofica. Ne deriva un certo spirito inevitabilmente critico; per altro la posizione del filosofo è facilitata per il fatto di potersi permettere di negare delle cose con cui gli altri devono lavorare. La prima cosa che vorrei negare qui è l'idea dei decenni, da cui partono molte analisi di tendenza e anche quella di questo ciclo di lezioni. ì chiaro che i decenni non esistono, se non in virtù di una convezione: perché‚ dovrebbero aver sostanza gli anni Ottanta che partono dal 1980 e finiscono nel 1990 e non invece gli anni Ottantacinque, che partirebbero e finirebbero cinque anni dopo? perché‚ i grandi fenomeni dovrebbero succedersi in sincronicità con i decenni, con i secoli, e non con le dozzine, o -diciamo- per gruppi di otto, sessantaquattro, e così via? Questo è certamente un rifiuto che non vale molto in se stesso, perché‚ nessuno sostiene davvero che la vita segua davvero cicli decimali, però è un'avvertenza utile a chi voglia pensare a una giusta scansione temporale degli eventi; quando si parla del XX secolo o degli anni Ottanta, bisogna chiedersi quando cominciano per chi e perché‚, insomma che senso ha affidarsi a una convenzione del genere; e magari forzare un po' consapevolmente i dati cronologici per metterli d'accordo coi fatti, o almeno col senso che intendiamo attribuire loro. Per parlare degli anni Novanta, dunque, che sono quelli che ci interessano in questa sede, bisogna vedere quando finiscono gli anni Ottanta: forse stanno finendo adesso, forse la Guerra del Golfo può essere considerata un buono spartiacque. ì chiaro che quello che ci interessa sono certe trasformazioni della cultura che evidentemente hanno ciclicità scarsa e che è difficile inserire in una periodizzazione schematica. Preferirei dunque dirvi, contro l'aritmetica, che gli anni Settanta incominciano effettivamente nel '68 e probabilmente finiscono nel '78, quando rapirono Aldo Moro, almeno per quanto riguarda l'Italia. Il decennio del grande disordine sotto il cielo e dell'anticonsumismo è quello. Dunque anche gli anni Ottanta iniziano un po' prima della loro cronologia aritmetica, e non sappiamo bene dire oggi se finiscono con la caduta dei regimi dell'Est o con il Golfo, e probabilmente non lo sapremo per un bel po', almeno fino a quando non avremo capito quale delle due cose è più importante, e cioè come saranno davvero gli anni Novanta: la cronologia non dipende solamente dal giudizio sui fatti, è essa stessa giudizio. Uso dei parametri politici perché‚, senza essere materialista o marxista nel senso teorico del termine, credo che le grandi sensibilità collettive vengano comunque determinate da eventi che hanno a che fare col potere. Posto che non sappiamo ancora se gli anni Novanta ci sono già , o quando arriveranno, per non parlare di quando finiranno, ignoriamo dunque anche se siamo già nel Terzo Millennio o no, non possiamo dire se il XX secolo sia già finito. Questa scadenza più larga è di estrema importanza per una valutazione delle tendenze estetiche e del gusto, perché‚ i secoli sono divisioni più solide e effettive dei decenni, e il secolo che si conclude è stato indubbiamente sul piano culturale il tempo delle avanguardie, del linguaggio, dell'afasia, della confusione delle grammatiche; e il XXI che si sta aprendo in questi anni chissà cosa sarà . Vorrei soffermarmi inizialmente su due termini che mi sembrano interessanti e che

Ugo Volli Design e Moda

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semiotica del corpo e della modaestratti dell'opera di Ugo Volli

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Premetto di essere lontano dal mondo della produzione e dalla pratica progettuale; in quanto filosofo mi qualifico semplicemente come osservatore. La consapevolezza della parzialità del proprio punto di vista è condizione essenziale di ogni riflessione teorica che voglia dirsi oggi filosofica. Ne deriva un certo spirito inevitabilmente critico; per altro la posizione del filosofo è facilitata per il fatto di potersi permettere di negare delle cose con cui gli altri devono lavorare. La prima cosa che vorrei negare qui è l'idea dei decenni, da cui partono molte analisi di tendenza e anche quella di questo ciclo di lezioni. ì chiaro che i decenni non esistono, se non in virtù di una convezione: perché‚ dovrebbero aver sostanza gli anni Ottanta che partono dal 1980 e finiscono nel 1990 e non invece gli anni Ottantacinque, che partirebbero e finirebbero cinque anni dopo? perché‚ i grandi fenomeni dovrebbero succedersi in sincronicità con i decenni, con i secoli, e non con le dozzine, o -diciamo- per gruppi di otto, sessantaquattro, e così via? Questo è certamente un rifiuto che non vale molto in se stesso, perché‚ nessuno sostiene davvero che la vita segua davvero cicli decimali, però è un'avvertenza utile a chi voglia pensare a una giusta scansione temporale degli eventi; quando si parla del XX secolo o degli anni Ottanta, bisogna chiedersi quando cominciano per chi e perché‚, insomma che senso ha affidarsi a una convenzione del genere; e magari forzare un po' consapevolmente i dati cronologici per metterli d'accordo coi fatti, o almeno col senso che intendiamo attribuire loro.Per parlare degli anni Novanta, dunque, che sono quelli che ci interessano in questa sede, bisogna vedere quando finiscono gli anni Ottanta: forse stanno finendo adesso, forse la Guerra del Golfo può essere considerata un buono spartiacque. ì chiaro che quello che ci interessa sono certe trasformazioni della cultura che evidentemente hanno ciclicità scarsa e che è difficile inserire in una periodizzazione schematica. Preferirei dunque dirvi, contro l'aritmetica, che gli anni Settanta incominciano effettivamente nel '68 e probabilmente finiscono nel '78, quando rapirono Aldo Moro, almeno per quanto riguarda l'Italia. Il decennio del grande disordine sotto il cielo e dell'anticonsumismo è quello. Dunque anche gli anni Ottanta iniziano un po' prima della loro cronologia aritmetica, e non sappiamo bene dire oggi se finiscono con la caduta dei regimi dell'Est o con il Golfo, e probabilmente non lo sapremo per un bel po', almeno fino a quando non avremo capito quale delle due cose è più importante, e cioè come saranno davvero gli anni Novanta: la cronologia non dipende solamente dal giudizio sui fatti, è essa stessa giudizio. Uso dei parametri politici perché‚, senza essere materialista o marxista nel senso teorico del termine, credo che le grandi sensibilità collettive vengano comunque determinate da eventi che hanno a che fare col potere. Posto che non sappiamo ancora se gli anni Novanta ci sono già , o quando arriveranno, per non parlare di quando finiranno, ignoriamo dunque anche se siamo già nel Terzo Millennio o no, non possiamo dire se il XX secolo sia già finito. Questa scadenza più larga è di estrema importanza per una valutazione delle tendenze estetiche e del gusto, perché‚ i secoli sono divisioni più solide e effettive dei decenni, e il secolo che si conclude è stato indubbiamente sul piano culturale il tempo delle avanguardie, del linguaggio, dell'afasia, della confusione delle grammatiche; e il XXI che si sta aprendo in questi anni chissà cosa sarà . Vorrei soffermarmi inizialmente su due termini che mi sembrano interessanti e che

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hanno a che fare con il passato, che conosciamo un po' e che forse, per opposizione, possono avere a che fare con il futuro, che conosciamo di meno. I due termini sono moda e linguaggio: parole fondamentali per comprendere il nostro mondo. Noi veniamo da un periodo in cui qualunque cosa nel mondo appariva come un linguaggio, di qualunque cosa si pensava che avesse natura linguistica. Questo è un fenomeno abbastanza strano, su cui vale la pena di riflettere: non sta scritto da nessuna parte che una sedia sia un elemento di linguaggio, non sta scritto da nessuna parte che una giacca e una cravatta, una trasmissione televisiva e un gioco sportivo, una casa e una melodia siano di per sè linguaggio, parola, comunicazione, codice. Noi tendiamo "naturalmente" a trattare queste cose, e praticamente tutti gli altri fenomeni che ci circondano, come linguaggio. Niente di male in questo, naturalmente se sappiamo cosa vogliamo dire, se siamo in grado di cogliere l'elemento metaforico o modellistico implicito in questa universalità del linguistico, soprattutto se siamo in grado di cogliere l'aspetto locale e temporale di questo paradigma, il suo rapporto con una specifica situazione culturale che è quella del nostro tempo. Vale la pena anche qui dunque di interrogarci su cosa intendiamo davvero dicendo delle cose che ci circondano, degli oggetti di design e in particolare di quelli per la casa, che fanno parte di un linguaggio. Possiamo voler dire due cose fondamentali. La prima è che essi comunicano la propria funzione, dicono ciò che sono: vecchia trappola tesa al resto del mondo, per conto dei semiologi, da Roland Barthes, per cui ogni oggetto introdotto in un contesto sociale comunica la sua funzione. L'esempio più classico è quello dell'ombrello che serve sì a ripararsi dalla pioggia, e non a parlarne; ma uscendo con un ombrello, uno comunica anche la sua previsione che piova; e poi se questo ombrello è fatto in una certa maniera può voler anche dire che quel tale è anglofilo, e così via. Tale effetto comunicativo è vero senza dubbio ed è anche senza dubbio generico, cioè accade che qualunque oggetto io porti in giro con me o che io possegga comunica sempre la sua funzione, la sua esistenza, il mio rapporto con lui e può essere soprattutto usato dal punto di vista strategico per ottenere informazioni su di me. Sherlock Holmes, dopotutto, sapeva ricavare moltissime cose da un'orma o da un mozzicone, ma è difficile concluderne per un contenuto comunicativo così ricco di tutte le cose di questo mondo che possono diventare indizi in mano a un investigatore intelligente. Una tale ricchezza informativa delle cose capaci di parlare di sé e di chi è venuto a contatto con loro, l'hanno sempre incontrata senza notarla troppo tutti quelli che se ne sono interessati per una ragione o per l'altra, perché‚ la capacità di trarre informazioni dal mondo è un elemento essenziale della struttura degli esseri viventi; ma essa è venuta di fatto in grande evidenza, e non solo nella teoria, solamente negli ultimi vent'anni, soprattutto in questi fatidici anni Ottanta. La funzione comunicativa e metacomunicativa degli oggetti è stata fortemente privilegiata e tematizzata in quanto tale: cioè si è detto alla gente di produrre, comprare, usare degli oggetti con la consapevolezza che questi sarebbero stati prima di tutto visti come strumenti per comunicare. Per prevenire ogni obiezione all'ipotesi che vi possa essere un uso strategico del senso comunicativo degli oggetti, basta pensare a quegli indiani della California settentrionale che praticano la cerimonia del Potlatch, che consiste in una distruzione competitiva degli oggetti: il Potlatch e una gara a chi spreca più cose: chi

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ne distrugge di più vince e assume i relativi vantaggi sociali. Sembra una grande sciocchezza, ma il Potlach è diventato un grande modello generale dell'antropologia per un certo modo antifunzionale e strategico di usare le cose al di là della loro utilità . Basta leggere un grande classico che analizza la funzione degli oggetti nel mondo contemporaneo come Il consumo opulento di Weblen, dove si studia il modo di vivere dei primi magnati americani di questo secolo (ma basta anche semplicemente guardarsi intorno), per scoprire che l'ostentazione di oggetti inutili e la loro distruzione secondo un ciclo di obsolescenza è una delle funzioni principali che la nostra società assegna alle cose e si spiega semplicemente con la loro capacita di comunicare se stesse, il loro prezzo, e cosi via. C'è un'altra possibilità , la seconda, per cui ha senso dire che gli oggetti costituiscono un linguaggio: un po' più sofisticata e direi più interessante per il nostro discorso. La semiotica ci ha mostrato che tutti gli oggetti codificati per la loro funzione, come per esempio gli oggetti di design della casa che interessano questo ciclo di lezioni, costituiscono un sistema in senso tecnico, cioè si situano ciascuno all'incrocio di un asse paradigmatico e di un asse sintagmatico, un asse della scelta e di un asse della contiguità . Nel linguaggio una semplice frase ha, diciamo per semplificare, un soggetto un verbo e un complemento oggetto; questo allineamento soggetto-verbo-oggetto costituisce l'asse del sintagma; in ogni sezione del sintagma si incontra un paradigma, un asse delle scelte per cui, ad esempio il soggetto posso essere io, pu• essere Vanni Pasca, pu• essere questa sedia o anche il mio telefono; il secondo termine può essere il verbo sedere, il verbo parlare, il verbo mangiare, il verbo suonare, quel che vi pare; e l'oggetto pu• essere scelto tra molti nello stesso modo. Il punto fondamentale è che ogni sistema di tipo linguistico è costituito da una successione canonica di tipi di oggetti i quali sono trascelti in una serie canonica di alternative secondo certe norme opportune. Questo modello, che è molto semplice e molto elementare, si applica con tutta evidenza anche all'arredamento: lo si vede per il fatto che la tipologia di una casa di abitazione qualunque è fatta di un certo numero di ambienti e di oggetti codificati nella loro successione, (con l'aggiunta di alcuni altri facoltativi: come nel linguaggio dove ci sono gli aggettivi e gli avverbi che possono esserci o non esserci, cosi nella casa il tinello può esserci o non esserci, ma è chiaro che la serie cucina-bagno-camera da letto-ecc. è una successione molto precisa e pressoch‚ obbligatoria). All'interno di ognuna di queste grandi sezioni del sintagma abitativo ci sono degli slot più piccoli, gli spazi per gli oggetti (tavolo, sedie, ecc.). Dunque per ognuno di questi luoghi esiste il relativo "parco degli oggetti" che ‚, in definitiva, l'ambito delle scelte possibili con cui si satura quella determinata casella, il suo asse paradigmatico. Con la prima parte del mio intervento sul linguaggio che trattava l'aspetto del linguaggio come comunicazione e in particolare come comunicazione del proprio uso, volevo dire che anch'io credo che questo aspetto di superficie comunicativa degli oggetti esagerata o esasperata, che è venuta fuori con forza negli anni Ottanta, stia in qualche modo decadendo o perdendo evidenza, pur senza sparire. Questo secondo punto mi serve a provare a sofisticare un po' il problema delle previsioni del design degli anni Novanta. Se si accetta infatti il modello del sistema degli oggetti articolato per sintagma e

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paradigma, ne derivano due possibilità di cambiamento: la prima è che in ognuno dei vari paradigmi possibili (nei vari parchi di oggetti possibili) si aggiungano o si tolgano degli elementi, o cambi lo stile con cui questi elementi vengono via via creati e distrutti, cioè si creino altre scelte possibili nell'asse del paradigma; la seconda è che si creino invece degli oggetti del tutto nuovi, delle nuove caselle nell'asse del sintagma e che queste richiedano a loro volta che venga prodotto interamente, o riadattato, un paradigma di oggetti che soddisfi tale slot. Questo punto merita di essere sottolineato perché‚ probabilmente, forse non i designer e i progettisti ma certamente le persone comuni hanno la sensazione che -se non l'ambito degli oggetti esistenti, evidentemente variabile,- almeno l'ambito delle tipologie degli oggetti esistenti sia fortemente stabile. Non solo, ma tendono a figurarsi che la struttura del sintagma abitativo, cioè quella griglia in cui i vari oggetti d'uso si inseriscono sia grosso modo naturale cioè transculturale, metastorico o addirittura universale. Eppure basta pensarci un attimo per capire che tale supposizione tacita è sbagliata: basta pensare a una casa giapponese tradizionale rispetto a una casa italiana e si vede molto chiaramente che non solo cambiano i paradigmi, cioè i parchi degli oggetti, ma si modificano profondamente anche le tipologie degli oggetti possibili, cioè cambia la forma del sintagma. La mia impressione e che ciò che sta accadendo con vertiginosa velocità nella nostra società , nella nostra cultura, in particolare nella nostra cultura degli oggetti, sia soprattutto una tale trasformazione in profondità , vale a dire che alle modificazioni del paradigma si assommano le modificazioni del sintagma, cioè non solo si creano nuove versioni di certi tipi di oggetti, ma -quel che è più interessante- nascono nuovi tipi di oggetti secondo nuove funzioni, nuovi accorpamenti di funzioni, nuove modalità di consumo connesse alla tecnologia - e tutto questo avviene in maniera abbastanza insospettata, senza una riflessione o un progetto, senza soprattutto che qualcuno sappia immaginare in anticipo i ritmi e i temi di questi cambiamenti. Si parla tanto di innovazione, ma nessuno dei tanti celebrati futurologi ha saputo prevedere il fax: in realtà il fax -come il personal computer, la segreteria telefonica, il forno a microonde e tanti altri esempi possibili- è esattamente il tipo di cosa, il tipo di fenomeno che vorrei sottolineare parlando di nuovi spazi che si vengono a creare nello schema sintagmatico dell'abitare (in questo caso dell'ufficio). Non sto facendo l'elogio delle nuove tecnologie, delle magnifiche sorti e progressive del nostro sistema produttivo, sto ponendovi il problema della debolezza di un modo di vedere le cose miope, che parlando del cambiamento del design tende a pensare più a variazioni stilistiche, a modi tutto sommato futili di ornamentazione, a stili di disegno nel senso banale del termine, a giochini di immagine, senza badare a come, lentamente ma sicuramente, cambia il nostro concetto di quello che è necessario e possibile dentro a una casa. Credo che uno sguardo alle statistiche degli elettrodomestici presenti nelle case italiane negli anni Settanta, Ottanta, e Novanta, sia molto più significativo per riflettere sui mutamenti del design di ogni disputa stilistica sul postmoderno. ì evidente che, nell'ambito di cui stavamo parlando prima, cioè gli oggetti come i fax e i telefoni cellulari, ma anche i forni a microonde, gli hi-fi, i videoregistratori e in generale tutte le numerosissime nuove funzioni, ci sono molte possibili tipologie di

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oggetti che si presentano via via. ì altrettanto chiaro che nel tempo fra queste tipologie avviene una selezione molto severa il cui risultato dipende solo in parte dalla volontà del progettista o dell'industria, ed è decisa invece da una specie di tacita votazione col portafoglio da aprte del pubblico, dalla risposta della gente che individua dei bisogni (concreti o di immagine, non importa) che non sono chiaramente percepibili a priori. Sfido chiunque per esempio ad aver previsto come sono andate, tra le mille invenzioni e possibilità , le variazioni nel parco dei nuovi oggetti per cucinare; cioè perché‚ e come un certo strumento abbia perduto e un altro tipo di oggetto e di tecnologia abbia prevalso sulle altre, perché‚ -diciamo- stia prevalendo il forno a microonde sul forno a vapore o la pentola a pressione sulle batterie "dietetiche" in rame. Lo stesso discorso vale per la contrapposizione fra decodificatore televisivo, antenna satellitare e videoregistratore; idrogetto e doccia a vapore, cambio automatico e cambio manuale, letto ad acqua e letto rigido - per citare solo qualche esempio. ì un tema, quella della selezione delle tipologie del nostro parco degli oggetti, che io trova molto affascinante dal punto di vista antropologico e progettuale assieme. Vi si afferma infatti un criterio che non è semplicemente la pura utilità tecnologica, n‚ il marketing puro e semplice (stiamo parlando di tipologie, non delle marche concorrenti o dei singoli oggetti) ma il cambiamento deriva qui da un apprezzamento collettivo di compatibilità tra gli oggetti e la cultura materiale preesistente - un argomento su cui tra l'altro io personalmente non conosco studi empirici. In senso positivo e operativo tutto questo discorso invita a fare attenzione alle modificazioni dello schema del sintagma abitativo, a badare ai nuovi spazi nella tipologia. ì di qui, e per imitazione di questi processi, che passano molte modificazioni nel design anche di oggetti appartenenti a tipologie antiche. La fonte dell'innovazione non è la superficie delle cose ma il gioco del sistema. Infatti in una condizione sistematica non accade nulla in un certo punto della rete paradigmatica e sintagmatica che non si ripercuota, in misura maggiore o minore su ogni altro punto: gli oggetti antichi sono modificati da quelli nuovi più che dalla genialità di qualunque designer. Per capire meglio questo discorso bisogna far ricorso a un altro concetto capitale della linguistica, che è stato applicato molto al di là del campo del linguaggio: sto parlando dell'arbitrarietà . Detto alla buona, per quanto riguarda le parole, arbitrarietà vuol dire che non esiste una ragione precisa per cui il gatto si chiami "gatto", invece che "chat" come in francese o "cat" all'inglese, o invece che qualunque altro suono vi possa venire in mente. Entro certi limiti è facile proiettare sugli oggetti questa nozione di arbitrarietà - a parte naturalmente i condizionamenti tecnologici, che però in qualche misura si ritrovano anche nei limiti della voce umana, e a parte la comodità d'uso, che pure si ritrova anche nella parola, per esempio nella conservazione di certi legami etimologici o nell'esistenza di regole sistematiche per formare aggettivi, avverbi e così via. Bisogna capire però che l'arbitrarietà non consiste solo nel fatto che il gatto potrebbe chiamarsi "cane", per modo di dire, o "leone", o "elefante", o qualunque altro suono. Non c'è solo una convenzione libera sui suoni associati a un certo oggetto. L'arbitrarietà del linguaggio è molto più profonda, riguarda anche il modo stesso in cui sono definiti i significati che questi

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suoni convenzionali debbono trasmettere: la cosa più interessante è che il modo in cui il mondo è ritagliato, cioè il modo in cui noi dividiamo i cani dai ghepardi, o le poltrone dalle sedie e queste dai puff è a sua volta largamente arbitrario. Detto in termini di design: non è solo arbitrario, entro certi limiti abbastanza ristretti ma reali, il disegno di tutti gli oggetti, è anche arbitraria la categorizzazione di questi oggetti, la definizione stessa da cui parte il design. Il fatto che nella nostra cultura gli oggetti per sedere siano divisi secondo certe categorie piuttosto che certe altre (quelle per esempio caratteristiche della cultura araba, di quella giapponese, o di quella europea di tre secoli fa) implica certe scelte di disegno piuttosto che certe altre. ì chiaro che anche questo tipo di tipologie, non solo quelle legate alla tecnologia, sono in grande trasformazione, cioè tutto il nostro modo di classificare (e quindi di progettare) gli oggetti è in grande trasformazione, se non altro per il fatto che la contiguità comunicativa delle culture del nostro pianeta è sempre più intensa e più facile e che quindi si hanno dei fenomeni imponenti d'importazione di tipologie di oggetti, di esportazione e di ibridazione. Uno degli esempi più chiari della complessità di questi fenomeni, con scambi di culture, innovazioni tecnologici, paradigmi contrapposti in concorrenza, è il campo degli oggetti per dormire: futon e letti ad acqua, materassi a molli e assi anatomiche, "sistemi integrati" con varie tecnologie e divani/letto, letti a castello e a scomparsa... Questo processo di ridefinizione continua implica dei cambiamenti che non sono mai semplicemente locali: questo è un altro punto fondamentale, cui ho appena accennato prima. Nel sistema degli oggetti, che non è semplicemente la somma dei suoi elementi, una modificazione sull'asse del sintagma ha facilmente un rimbalzo sull'asse del paradigma, cioè il cambiamento aggiusta una rete elastica di tipologie in cui ogni singola casella che si muove influenza più o meno fortemente le altre. Infatti in definitiva il senso preciso di ogni posizione della rete, di ogni elemento tipologico, è definito più dalla negazione dei suoi vicini che dai suoi contenuti positivi. Che cosa sia una sedia e che cosa una poltrona, un divano, un puff, uno sgabello... è chiarito soprattutto da una rete di opposizioni reciproche. Se una sedia acquista braccioli e imbottiture, la definizione della poltrona ne verrà sottilmente cambiata e così via. Le tipologie degli oggetti, come le parole cui corrispondono, hanno un contenuto oppositivo, prima che autonomo.Vorrei sottolineare un ultimo tema che riprenderò più avanti rispetto a questo argomento: tutto ciò di cui abbiamo parlato è frutto di fenomeni in parte inevitabili e incontrollabili; ma di fatto nella nostra società questi fenomeni sono oggetti di attenzione e di manipolazione da parte del marketing, e prima ancora sono oggetto di progettazione, e di tentativi di previsione, anche se in realtà sono largamente imprevedibili. Voglio dire che è molto difficile capire, ed ancora più difficile prevedere, se una certa modificazione del sistema degli oggetti o degli spazi ci possa essere o no, se una certa innovazione tipologica avrà successo o meno. Due esempi sono lampanti a questo proposito: pensate ai letti ad acqua, che hanno un successo strepitoso da molti anni in America e in Italia non sono passati, e pensate alle automobili con il cambio automatico, dove la linea di frontiera è analoga. Altre divisioni sono più sottili: pensate al diverso modo di intendere lo stesso oggetto di consumo in culture diverse, per esempio la birra o il gabinetto. Voglio dire ci sono

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dei fattori culturali complessi e difficili da determinare che influiscono su queste modificazioni facendo accettare, rifiutare, rimandare certi cambiamenti; e che essi dipendono molto fortemente -questa è un'affermazione che vorrei sottolineare- dall' autonomia del consumatore finale, dall'utente: un fattore sempre più importante che è stato spesso sottovalutato. Chiunque fosse in grado non dico di progettare o di provocare, ma anche solo semplicemente di prevedere queste modificazioni, farebbe un passo importantissimo; di fatto gli uffici studi, gli uffici marketing, le pubblicità cercano di lavorare in questo senso, ma ci riescono abbastanza poco. La regola è quindi autonomia, capacita di risposta, e non direttività , non centralità , non subordinazione e gerarchia nelle innovazioni e nei cambiamenti del sistema degli oggetti. Ogni discorso che si proponga di produrre previsioni anche su un settore limitato, come è senza dubbio il design del mobile per gli anni Novanta, deve fare i conti non solo e non tanto con quello che sarà progettato, prodotto e messo sul mercato, ma soprattutto con le risposte della gente, che si trovano certo automaticamente in sintonia con quello che si fa e si propone e che sono invece, io credo, largamente in via di autonomizzarsi e di gestire le proprie scelte alla maniera del bricolage, montandole cioè in modo autonomo. Non sto dicendo che questo sia necessariamente un bene, cioè che finalmente abbiamo un pubblico più intelligente e maturo, capace di fare scelte indipendenti dalle seduzioni del marketing: sarebbe un'utopia. Dico semplicemente che è sempre più difficile da parte di qualunque opinion maker, o qualunque opinion leader, o qualunque azienda, vendere o consigliare l'intera sezione di un parco degli oggetti, o se si vuole un intero sintagma oggettuale. Vale a dire che tutto quel che noi vediamo nelle case, addosso alla gente, negli uffici, ecc., sempre più difficilmente è oggetto di una progettazione integrata o globale esterna, è sempre meno sistema; la formulazione del singolo sintagma -se vogliamo usare questa terminologia- oppure del singolo complesso, della singola attualizzazione del parco degli oggetti è sempre più opera di bricolage da parte di chi la usa, e non di progettazione. Per richiamarsi a una famosa opposizione di L‚vi Strauss, la nostra è oggi di nuovo una cultura del bricolage e non dell'ingegneria. Questa è una sorgente di debolezza nella figura, per esempio, dell'architetto, perché‚ ne viene un indebolimento della progettazione complessiva della abitazione o dello studio, e un aumento di forza -sto parlando proprio di rapporti di forza- da parte del cliente. Una tendenza di questo tipo si realizza diversamente nelle varie circostanze, però mi sembra che ci sia una tendenza indubitabile in questo senso; e credo che essa andrebbe studiata con attenzione. Forse assistiamo ai primi sintomi di una reazione all'ideologia della specializzazione, della professionalità che è stata caratteristica dell'ultimo secolo; e la gente comune - ognuno di noi cioè come persona comune fuori dal suo specifico campo di intervento- sta riprendendo un certo dominio della propria vita, grazie alla più vasta distribuzione di strumenti tecnici e concettuali.Passo bruscamente al mio secondo tema che però c'entra molto con quanto vi ho appena detto: la moda. Si tende in genere a identificare la moda con l'abbigliamento, mentre io vorrei distinguere con chiarezza questi termini. La moda non è semplicemente il vestimentario, il parco degli indumenti, n‚ è un suo vertice, per così dire la sua sezione di lusso o emancipata; e neppure come si potrebbe sostenere il

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design di questi oggetti. La moda è piuttosto un certo regime di trasformazione caratteristico del parco degli oggetti dell'abbigliamento, ma per nulla affatto esclusivo per esso, anzi molto largamente diffuso nella nostra cultura. Mi spiego meglio: la moda non è semplicemente tutto quello che fanno Armani, Versace, Valentino e i loro simili; è invece il modo regolato secondo cui nella cultura occidentale cambiano i gusti, i modelli di riferimento, i consumi, nell'ambito prima di tutto dell'abbigliamento. Cioè la moda è una certa tecnica, o un certo regime, che produce questi cambiamenti a una velocità e secondo un ritmo che non è giustificata funzionalmente o economicamente per il consumatore, ma per il produttore sì, e li produce secondo una modalità che ha degli aspetti normativi di tipo estetico. La moda essenzialmente quel meccanismo per cui si dice che quest'anno va, si porta, si usa quella cosa lì, mentre la cosa che andava, che si portava, che si usava l'anno scorso non va più bene, anche se non ha perduto la propria funzionalità in senso materiale e senza, magari, che sia stata neppure consumata. Dunque la moda ‚, dal mio punto di vista e per l'analisi che vi propongo, un certo meccanismo di indicizzazione al tempo del gusto, del consumo, del dover essere . Da questo punto di vista la moda è strettamente connessa alla nostra tradizione culturale; nelle grandi società e culture classiche non c'è moda, anche se ci sono status symbol, se ci sono distinzioni vestimentarie, se per esempio la toga la potevano portare solo i senatori. Però costoro vestivano la stessa toga sia ai tempi dei re di Roma che a quelli del tardo Impero; in Egitto le cose andavano alla stessa maniera estremamente costante e così anche nelle grandi civiltà orientali: i simboli di status nell'abbigliamento non fanno di per sé moda, anzi sono universali. ì il loro cambiamento obbligatorio a costituire la moda. La moda è insomma un'invenzione dell'Occidente ed in particolare di quel periodo cruciale della nostra storia che va dal Quattrocento al Seicento e nel quale si forma per molti versi la civiltà contemporanea, con la costruzione della scienza, i primi esempi di stato moderno, la rottura dell'unità religiosa che implica la laicità dello stato e così via. Vi risparmio delle analisi più approfondite, che se volete però troverete nel mio libro "Contro la moda" (Feltrinelli 1988), per dirvi che il problema della moda, come ve l'ho delineato, è soprattutto uno: che cosa fa funzionare questa macchinetta? e chiaro che questo regime di cambiamento obbligatorio del gusto si è fortemente estesa nel corso degli anni e in particolare nel caso del nostro secolo; è evidente, per esempio, che un sistema di marketing che consiste nel cambiamento, nell'obsolescenza controllata dell'estetica degli oggetti, è stato fortemente modellato sul sistema della moda: se per esempio guardiamo alle automobili americane con un marketing impostato su modelli annuali che cambiavano piccoli particolari secondo una certa deriva, capaci di segnare un'indicizzazione temporale che è anche un criterio di valore, il rapporto con il sistema delle sfilate nell'abbigliamento è chiaro. L'aspetto interessante di tutta questa faccenda è come cambia il parco degli oggetti, perché‚, chi comanda il mutamento. A questo proposito vorrei semplicemente indicarvi due modelli, quello classico e quello che secondo me riguarda i nostri anni, perché‚ essi, insieme, mi permetteranno di fare delle proiezioni sull'avvenire. Il modello classico, che è esaminato dai sociologi e dai filosofi della moda fin dalla fine del secolo scorso, è

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quello che viene definito a goccia: l'idea è che la società sia come una piramide, che in cima alla piramide ci sia una sorgente, la fonte del gusto -la corte, il re, quel che vi pare- e che da questa sorgente emergano dei comportamenti, dei gusti, delle scelte che poi scenderanno pian piano per i livelli sociali, per imitazione. Quel che fa il re e la sua famiglia, la corte lo imita subito, poi anche i nobili di campagna si adeguano, quindi i borghesi con pretese cercano anch'essi di impadronirsi delle nuove regole: se avete presente il "Borghese gentiluomo" di Moli‚re vi trovate una satira penetrante. Fino a che a un certo punto il re si trova i suoi lacchè vestiti come lui, si scoccia e cambia; ed è a questo punto che emerge un'altra moda, che a sua volta cola giù per la piramide e cosi via. Il meccanismo è delineato in maniera molto secca, molto schematica ma l'idea è questa. Badate che questo meccanismo non vale solo per l'abbigliamento, ma fin dai tempi in cui incomincia il fenomeno, e cioè dal '400-'500 esso è dominante almeno sull'architettura e sugli stili dell'arredamento: non a caso un sacco di tipi di mobili si chiamano con i nomi dei re di Francia. Tale fenomeno implica che questo meccanismo molto facilmente si pu• applicare con maggiore o minore esattezza a un vasto gruppo tipo di mutamenti tipologici. Noi non viviamo più in una società che ha un vertice; da molto tempo non solo non c'è un vertice politico, sociale, di gusto, unificato e complessivo come poteva essere una corte, ma non c'è più neanche un vertice di puro gusto come potevano essere nella moda i grandi sarti classici della Haute Couture, diciamo più o meno fino a Coco Chanel, gli stilisti classici. Ci troviamo in una situazione molto più complessa in cui gli input al sistema delle imitazioni arrivano da molte parti, dalle comunicazioni di massa, dal sistema del potere, dagli innovatori professionisti, dai designer della moda, dall'estero, da quella che Alberoni chiama élite senza potere, cioè i calciatori, gli attori, le cosiddette sottoculture o gruppi marginali e così via. Questi stimoli si espandono nel corpo sociale secondo un modello anarchico o virulento, in cui eventualmente hanno maggiore capacita e maggiore presa situazioni di tipo marginale, esotistico, di sottoculture giovanili: è l'assenza di potere che affascina, oggi. Uno che oggi sta qui in mezzo a tanti modelli contraddittori in realtà si regola come può e come vuole, magari con due linee di guida, uno stile di riferimento e una specie di grammatica, fornita di asse sintagmatico e di asse paradigmatico, molto classica e molto banale. Per capire questo punto, pensate a come è costituita in termini banali una casa: più o meno avrà una sala da pranzo, che avrà un tavolo, con un numero di sedie che sta tra 4 e 6, avrà una lampada e magari un divano e una televisione, cioè un sistema di oggetti che più banale non si può . Questa banalità però è una grammatica, e su questa base si modula uno stile che è a questo punto pura superficie, pura decorazione, falso movimento.Dunque c'è una sostanziale conservazione e un'apparente libertà che si esprime in un'apparente caduta della grammatica. Voglio dire che dentro queste sovrapposizioni di onde che creano, come tutte le onde che si sovrappongono, sistemi secondari di rifrazione e cosi via, uno è libero di modulare come gli pare e piace la sua superficie purché sia in grado di specificare in qualche modo una logica, purch‚, se volete porre la questione in altri termini, costui sia in grado di usare delle virgolette, di citare qualcosa, sia pure se stesso. Così torniamo al tema dell'autonomia del bricolage: il comportamento concreto della gente che oggi si mette su una casa in realtà

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assomiglia molto a questa situazione della moda: si trova una serie di modelli che vanno dalle riviste tipo AD alla televisione con la casa dei personaggi di Dallas, dal percolare dei gusti secondo le gerarchie di prestigio nella società , fino alla proposta dei negozi. Costui alla fine compone un suo sintagma nella grande maggioranza mettendo insieme degli oggetti sulla base dei nostri caratteri nazionali tradizionali, ma che molto spesso testimonia una grande ignoranza della grammatica vera dell'arredo, un conservatorismo di fondo sporcato da accostamenti impropri ed errori di sintassi. Mi spiego di nuovo con un esempio di abbigliamento che potrete facilmente proiettare sull'asse dell'arredamento. Ogni tanto si vede in televisione o sui giornali della gente che, pensando di essere molto elegante, si sposa in smoking, senza sapere che lo smoking è un abito da sera per definizione e non si pu• portare prima del tramonto. Però costoro pensano di essere eleganti... Non solo, se continuano finiranno anche per aver ragione perché‚ creeranno norma e avverrà che ci si sposerà di regola con lo smoking, qualcuno farà un manuale e spiegherà che esiste una tradizione di questo tipo. Il modo in cui vengono composti questi testi oggettuali che sono le nostre case molto spesso è simile all'abitudine di sposarsi con lo smoking; vengono cioè attualizzate certe tipologie che vengono rispettate sì, come anche lo smoking ha la giacca e così via, ma fuori dal loro contesto "naturale": vengono messe assieme, per esempio, dei mobili di Aiazzone uso fratino con delle lampade finto moderniste che imitano l'imitazione di quella esposta al M.O.M.A. di New York. Credo che con questa idea di autonomia degradata da parte del consumatore finale (in realtà più o meno degradata perché‚ anche ognuno di noi consumatori "colti" in realtà compone il suo testo personale con molta attenzione, studiando delle dissonanze accuratamente misurate, "giuste") si definisca bene la tendenza forte degli anni Novanta. Non so se gli oggetti saranno maieutici come diceva Morace, ma certamente i consumatori saranno bricoleur, con o senza cultura, con o senza consapevolezza. Qui si pone il grande problema dei falsi: non c'è solo il problema delle cose di buon prezzo, molto decorate, tipo Swatch; c'è anche il problema che ai diversi livelli di cultura degli oggetti si possono comprare la falsa Lacoste o il falso Vuitton o il falso mobile di design o anche il falso mobile di falso design, con diversi obiettivi. A un certo stadio si pensa a una promozione sociale; ad un altro livello uno può mettere apposta una falsa Lacoste, la più falsa possibile, perché‚ lo diverte smascherare il gioco del marchio e del capo firmato. Credo che questo tipo di bricolage più o meno sofisticato in cui i vari livelli si sovrapporranno non sarà mai facile capire se il gioco sia più o meno autoironico, più o meno fra virgolette, sia una tendenza molto forte, in qualche modo imbattibile oggi, per due ragioni. La prima è la rottura della vecchia tradizione grammaticale colta nell'arredamento, nell'abbigliamento e in molti altri codici: un processo che viene dal fatto che la nostra società ha conosciuto una forte promozione di massa che ha spezzato il filo delle grammatiche tradizionali. Voglio dire che chi di noi ha avuto dei nonni borghesi probabilmente avrà avuto delle indicazioni su come deve essere un salotto o su come deve essere accostata una cravatta ad una camicia, regole che derivavano da una certa sintassi generale, certamente discutibile, ma che è la sintassi tradizionale della nostra cultura materiale

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dominante. La maggior parte dei consumatori del nostro paese non ha avuto dei nonni borghesi, per fortuna, perché‚ questo significa che la gente si è fortemente elevata rispetto alla condizione di tre generazioni fa; ma di conseguenza la trasmissione dei codici culturali è stata poco mediata, è passata soprattutto per via di superficie: si sono imitati gli effetti senza conoscere le regole. Di conseguenza nel territorio sociale non esiste più una sintassi condivisa, e questo vuoto di sintassi condivisa non pu• essere nemmeno una rottura colta di quella tradizionale, perché‚ una tale polemica o sperimentazione presuppone quello che dovrebbe andare a rompere. Quindi bisogna rassegnarsi, da questo punto di vista, per tutto quello che riguarda il parco degli oggetti compreso in primo luogo nell'arredamento, a una situazione in cui mancano le grammatiche alla Donna Letizia (incidentalmente proprio le rubriche e i libri di etichetta alla Donna Letizia o Lina Sotis denunciano un vuoto di sintassi autenticamente condivisa).Il secondo punto, (che credo invece non sia "colpa" dei consumatori, ma colpa nostra, degli intellettuali) consiste nel fatto che gli anni Ottanta sono stati gli anni della saturazione, in cui la densità delle innovazioni, vere e false, e soprattutto delle innovazioni dell'ornamentazione, della superficie, delle apparenze, è stata tale da dare la sensazione che la qualità consistesse semplicemente nella visibilità di un'intenzione ornamentale. Se mi scusate la parentesi, vorrei dirvi che questa illusione, che è una grave degradazione della nostra cultura, è del tutto evidente in quest'aula: se voi guardate questo spazio, ai verdini e ai giallini che lo decorano per l'appunto "facendo design", e notate che però essa ha un'acustica e una visibilità indecorosa, potete capire che cosa intendo. Ecco, io credo che gli anni Ottanta in architettura siano stati per lo più gli anni di questi giallini e di questi verdini, sostituiti a un'autentica qualità del progetto. Sto dicendo che c'è stata una generale sottolineatura del fatto che qualunque cosa si poteva fare, anche la più ridicola e scomoda, purch‚ si vedesse che c'era un'intenzione di decorazione. Al contrario del vecchio motto di Loos, l'assenza di decorazione era delitto, tutto il resto non contava. Questa tendenza ha portato ad una specie di inflazione semiotica, coincidendo con quel discorso che facevo all'inizio sul linguaggio degli oggetti come volontà di comunicare se stessi, che è stato l'elemento dominante del decennio. Spesso uso una metafora per analizzare questo stato di cose ed è una metafora purtroppo di moda, di tipo ecologico: come noi viviamo, ahimè , sommersi dai rifiuti materiali che produciamo e ci ritroviamo a respirare i gas di scarico delle nostre macchine, perché‚ evidentemente siamo poco capaci di gestire questo aspetto del problema input/output della nostra cultura materiale, così in maniera perfettamente simmetrica noi viviamo progressivamente sommersi da rifiuti semiotici. La nostra semiosfera, il nostro spazio di segni, di immagini, di parole, in cui viviamo esattamente come viviamo nell'ambiente fisico, è stata sottoposta a uno sfruttamento altrettanto sistematico della nostra biosfera. Il nostro immaginario è strutturato oggi in conseguenza al fatto di essere sommerso da jingles pubblicitari che ci impediscono di sentire una sinfonia di Beethoven senza pensare agli yogurt, ci troviamo travolti da tempi di percezione degli spot che ci impediscono di vedere. Tale processo è arrivato ad un punto tale da infirmare seriamente la possibilità di una tipologia degli oggetti che non sia sovrastimolata: essendo il nostro ambiente

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semiotico ipertrofico, come si dice dei laghi che contengono troppi elementi nutritivi e per questo "soffocano", esso impone in una certa misura una logica della comunicazione che è quella dell'eccesso comunicativo. Sono i più svariati luoghi collettivi e non un'inesistente vertice della piramide sociale che oggi diffondono moda, moda anche di tipologie degli oggetti e non solo di abiti e pettinature; ma molti di questi luoghi si sono forniti di altoparlante e, un po' come e successo alle radio "libere" a suo tempo, questi altoparlanti sono diventati per la forza della concorrenza sempre più grandi e sempre più potenti, in maniera tale che l'aspetto fondamentale del discorso degli oggetti e diventato un discorso di appeal, di tipo enfatico, di aggressione violenta: parte dei fenomeni di cosiddetto postmoderno che si sono verificati negli anni Ottanta, derivano soprattutto da questa situazione in cui la concorrenza impone l'uso di altoparlanti sempre più potenti. Il risultato di questo processo va in direzione di una perdita di controllo da parte di chi parla, da parte di chi produce e di chi progetta: una situazione di saturazione semiotica del mondo degli oggetti alla quale il consumatore reagisce con il bricolage, con un'autonomia che facilmente è priva di qualità e di cultura. Il bricolage è una forma di aggiustamento personale, di composizione personale, che non riconosce o cerca di mettere in corto circuito le regole del gioco dell'ipertrofia comunicativa. Da questa analisi deriva la mia percezione per le tendenze degli anni Novanta: la prima è una forte innovazione nella struttura sintagmatico, ve lo dicevo all'inizio, per quanto riguarda il parco degli oggetti e in particolare l'applicazione anche solo come gadget di tecnologie "intelligenti"; la seconda è quella della perdita di significato e della perdita soprattutto di egemonia da parte di chi progetta rispetto a chi riceve, consuma, usa, compera, gli oggetti. La terza tendenza infine a me sembra la più importante, anche perché‚ non voglio essere pessimista, e mi pare che questa situazione abbia stancato un pochino tutti. Credo cioè che questo stato di crisi, di confusione linguistica, di gioco sfrenato delle apparenza che si uccidono l'un l'altra, questa situazione di sostituzione della visibilità della superficie alla qualità dell'oggetto, stia perdendo il proprio fascino. Vorrei molto credere che la quarta fase di Morace arriverà , stia per arrivare, cioè che ci sia comunque una voglia di avere oggetti caratterizzati non tanto dalla loro funzionalità quanto almeno da una corretta relazione segnaletica tra funzionalità e ornamento; la conseguenza di ciò , non so se questo sia positivo o negativo, è che nella grande altalena tra barocchismo e classicismo abbiamo forse superato una fase barocca o neobarocca, come dice il mio amico Calabrese, e ci stiamo forse riavvicinando a una fase forse classicista o neoclassicista. Il che non vuol dire che i caratteri stilistici che verranno nei prossimi anni debbano essere classicisti. Credo semplicemente che quella classicista sia un'epoca che riconosce che ci sono delle grammatiche, e che tiene alle proprie grammatiche. Vorrei approfondire questo punto. In termini linguistici, c'è un vecchio assioma comunicativo in cui sostanzialmente si dice che l'informazione di un messaggio consiste nella sua imprevedibilità , o almeno nella sua novità : quello che rende informativo un discorso è il fatto che la sua forma in qualche modo sorprende chi lo riceve. Quest'assunzione si giustifica anche tecnicamente con la definizione d'informazione, cosi come viene data dalla teoria matematica dell'informazione, come

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il negativo del logaritmo del numero delle scelte alternative a un certo atto comunicativo. Questa idea di informazione come imprevedibilità è stata sfruttata molto intensamente dall'arte contemporanea, a partire da Duchamp, ed è emersa con forza, secondo me, nella cultura architettonica italiana all'inizio degli anni Ottanta, dove c'è stata una forte voglia di fare informazione. In questo caso si è scelto di "strillare" per ottenere un forte tasso di sorpresa. Lo stile, al contrario, è una serie di regole che diminuisce la possibilità di sorprendere: è chiaro che la forma precostituita del sonetto diminuisce la libertà del poeta e che l'ordine convenzionale corinzio diminuisce quella dell'architetto; ma lo stile ha anche alcuni grossi vantaggi, cioè esclude alcune cose e ciò risulta molto opportuno per delle ragioni di linguaggio, o almeno è uno dei poli fra cui si muove il linguaggio. Tra informazione e stile c'è un equilibrio dinamico, un po' lo stesso che esiste fra Barocco e Classico; tutta la nostra società si sta spostando in questa bilancia dalla parte del classico: questa è almeno la mia impressione, tutti i settori creativi e informativi si stanno inclinando dalla parte dello stile rispetto a quello dell'informazione. Tale processo è molto evidente nel nostro abbigliamento, nel modo in cui oggi si fa narrativa: dovunque è quasi scomparsa la ricerca linguistica pura, il che si può considerare una scelta di marketing molto precisa. A modo loro, architetti che sono sembrati a lungo "strillare" secondo un progetto barocco, come Aldo Rossi, appaiono oggi invece artisti che coltivavano uno stile diverso da quello dominante, ed usando uno stile non potevano fare certe cose, avevano le loro interdizioni personali, che magari coprivano l'are dominante nel periodo razionalista. Non dico che una cosa sia bene e l'altra sia male, ma che è opportuno guardare con attenzione al tasso di informazione delle imprese artistiche. Spesso si punta a aumentarlo con operazioni clamorose di pura visibilità apparentemente senza regole; ma questa strategia ha un difetto: se si ripete perde fortemente la sua caratteristica, può diventare a sua volta stile e magari stile senza profondità . In ogni caso bisogna fare attenzione che se si ripete solo la superficie più esteriore lo stile che ne deriva riesce banale, povero. E' difficile capire se la rigrammaticalizzazione che si profila in questo momento sia effetto di tale inevitabile "riflusso" o corrisponda all'esigenza vera di una regola del gusto. Ma certamente il problema in questo momento è quello di fare stile in maniera non banale, non superficiale, cioè di costruire in senso proprio una grammatica . Queste sono delle impressioni certamente fondate su un'osservazione parziale e soggettiva; la mia sensazione è comunque che ci sia una specie di rinata, ricostituita voglia di grammaticalità . Badate che la grammaticalità non è semplicemente un sistema di formazione degli enunciati, non è un sistema per formare dei discorsi e degli oggetti: va considerato piuttosto un sistema per scartarne alcuni. Dunque quando io parlo di una tendenza neoclassica come ritorno alla grammaticalità intendo una tendenza in cui dovrebbero ricostituirsi dei confini e delle esclusioni grammaticali. Quindi non è affatto detto che questa sia di per se una tendenza positiva, può voler anche dire semplicemente che questo è un momento in cui si frena l'innovazione, l'evoluzione; ammesso che la tendenza ci sia, essa si può anche leggere da questo punto di vista, come vittoria del perbenismo e della conservazione estetica; e ovviamente che accada davvero una cosa del genere, in un mondo comunicativo così votato all' apparenza dell'innovazione è una previsione discutibile

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e controverle. Però se si ricrea a un qualche livello una piramide di gusto, una struttura grammaticale del progetto, questo senza dubbio vorrà dire che ci saranno delle cose da non fare, delle interdizioni. Che questa tendenza ci sia o no, che profondità abbia, se effettivamente assumerà le forme che vado dicendo, è qualche cosa che potremo sapere quando intorno al 2000 ci troveremo di parlare di come sono andati gli anni Novanta e magari ci interrogheremo su come andrà il nuovo decennio, il nuovo secolo e anche il nuovo millennio.