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Ugo Volli L'EFFETTO DI INVISIBILE PIACERE E STORIA 1. In relazione all'idea di un' arte invisibile o dell'invisibile in questo saggio mi porrò due problemi distinti: che cosa significa e come cambia l'opposizione fra visibile e invisibile nella nostra cultura; e come si configura, rispetto a opere del genere quel piacere del testo di cui parlava Roland Barthes e che certamente sta alla base di ogni esperienza estetica. 2. Che cosa sia visibile, cioè che cosa sia vedere, sembra la cosa più banale del mondo. Quando siamo sicuri di una cosa, diciamo di averla vista coi nostri occhi; quando incontriamo qualcuno, lo vediamo, e se qualcosa ci piace, la vediamo bene; se invece non la gradiamo o non ci crediamo, la vediamo male, a rischio di farci attribuire il malocchio. A partire dai Greci, la cultura occidentale ha privilegiato il visibile come paradigma della conoscenza: da parole come oida, idea, eidos, connessi al vedere non solo etimologicamente ma anche narrativamente (nel gran mito epistemologico del Fedro le anime si distinguono per quanto riescono a contemplare le idee), dalla theoria fino all'evidenza cartesiana fino alle immagini del mondo storicistiche e alla forma logica degli enunciati di Wittgenstein, non vi quasi mai stato dubbio sull' egemonia della visione 1 nella tradizione occidentale, contrastata quasi solo da una resistenza ebraica. Se infatti Eraclito dice (frammento 101° dell'edizione Diels Kranz) che "gli occhi sono testimoni più fidati delle orecchie", nel Deutoronomio si legge, a proposito del momento supremo della Rivelazione del Sinai(Dt, 4, 12): voi udivate il suono delle parole ma non vedevate alcuna figura, vi era soltanto una voce." Non solo la Rivelazione, ma anche la Creazione è segnata dalla dialettica della voce e del vedere: dieci volte nel capitolo 1 della Genesi Dio "dice" la sua parola creatrice e sette volte, dopo aver detto, "vede" il risultato e lo giudica buono. Che il privilegio di un canale sensoriale sull'altro non sia una preferenza astratta di gusto, ma di una scelta con risvolti concreti, lo si vede nei versetti immediatamente successivi (Deuteronomio 4, 15-19): "Poiché dunque non vedeste alcuna figura, quando il Signore vi parlò sull'Orev dal fuoco, state bene in guardia per la vostra vita perché non vi corrompiate e non vi facciate l'immagine scolpita di qualche idolo, la figura di maschio o femmina, la figura di qualche animale, la figura di un uccello che vola nei cieli, la figura di una bestia che striscia nel suolo, la figura di un pesce che vive nelle acque sotto la terra". Al di là di ogni considerazione teologica, è evidente qui che il privilegio di un canale sensoriale sull'altro implica un giudizio sulle forme culturali e comunicative. La ragione è semplice e fondamentale. In generale è un errore pensare gli organi di senso come "finestre" che si limitano a ricevere ciò che è "là fuori" così com'è. Fisiologi, psicologi e neururobiologi hanno dimostrato largamente che i colori che noi percepiamo, per fare 1 Per una ricognizione complessiva di questo tema, , il testo di riferimento è l'antologia a cura di David Michael Levin, Modernity and the egemony of Vision, California University Press, 1993 1

Ugo Volli L'Effetto Invisibile Di Piacere e Storia

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saggi sull'arte e di estetica

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Ugo Volli

L'EFFETTO DI INVISIBILEPIACERE E STORIA

1.In relazione all'idea di un'arte invisibile o dell'invisibile in questo

saggio mi porrò due problemi distinti: che cosa significa e come cambia l'opposizione fra visibile e invisibile nella nostra cultura; e come si configura, rispetto a opere del genere quel piacere del testo di cui parlava Roland Barthes e che certamente sta alla base di ogni esperienza estetica.

2. Che cosa sia visibile, cioè che cosa sia vedere, sembra la cosa più

banale del mondo. Quando siamo sicuri di una cosa, diciamo di averla vista coi nostri occhi; quando incontriamo qualcuno, lo vediamo, e se qualcosa ci piace, la vediamo bene; se invece non la gradiamo o non ci crediamo, la vediamo male, a rischio di farci attribuire il malocchio.

A partire dai Greci, la cultura occidentale ha privilegiato il visibile come paradigma della conoscenza: da parole come oida, idea, eidos, connessi al vedere non solo etimologicamente ma anche narrativamente (nel gran mito epistemologico del Fedro le anime si distinguono per quanto riescono a contemplare le idee), dalla theoria fino all'evidenza cartesiana fino alle immagini del mondo storicistiche e alla forma logica degli enunciati di Wittgenstein, non vi quasi mai stato dubbio sull'egemonia della visione1

nella tradizione occidentale, contrastata quasi solo da una resistenza ebraica. Se infatti Eraclito dice (frammento 101° dell'edizione Diels Kranz) che "gli occhi sono testimoni più fidati delle orecchie", nel Deutoronomio si legge, a proposito del momento supremo della Rivelazione del Sinai(Dt, 4, 12): voi udivate il suono delle parole ma non vedevate alcuna figura, vi era soltanto una voce." Non solo la Rivelazione, ma anche la Creazione è segnata dalla dialettica della voce e del vedere: dieci volte nel capitolo 1 della Genesi Dio "dice" la sua parola creatrice e sette volte, dopo aver detto, "vede" il risultato e lo giudica buono.

Che il privilegio di un canale sensoriale sull'altro non sia una preferenza astratta di gusto, ma di una scelta con risvolti concreti, lo si vede nei versetti immediatamente successivi (Deuteronomio 4, 15-19): "Poiché dunque non vedeste alcuna figura, quando il Signore vi parlò sull'Orev dal fuoco, state bene in guardia per la vostra vita perché non vi corrompiate e non vi facciate l'immagine scolpita di qualche idolo, la figura di maschio o femmina, la figura di qualche animale, la figura di un uccello che vola nei cieli, la figura di una bestia che striscia nel suolo, la figura di un pesce che vive nelle acque sotto la terra".

Al di là di ogni considerazione teologica, è evidente qui che il privilegio di un canale sensoriale sull'altro implica un giudizio sulle forme culturali e comunicative. La ragione è semplice e fondamentale. In generale è un errore pensare gli organi di senso come "finestre" che si limitano a ricevere ciò che è "là fuori" così com'è. Fisiologi, psicologi e neururobiologi hanno dimostrato largamente che i colori che noi percepiamo, per fare

1 Per una ricognizione complessiva di questo tema, , il testo di riferimento è l'antologia a cura di David Michael Levin, Modernity and the egemony of Vision, California University Press, 1993

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l'esempio più noto, non sono nelle cose, ma rispecchiano in maniera molto idiosincratica le loro proprietà di riflessione luminosa, in dipendenza della costituzione dei nostri occhi (i tre tipi di recettori per il colore nella nostra specie hanno picchi di sensibilità a certe frequenze diverse per esempio da quelle degli uccelli, che di recettori ne hanno quattro tipi, e dalla combinazione di questi stimoli il nostro cervello si inventa una sensazione unitaria di colore, che per di più viene aggiustata in riferimento alla luminosità dell'ambiente, sicché noi vediamo lo stesso rosso di un vestito illuminato dalla luce solare o da quella elettrica, anche se lo spettro effettivo della nostra percezione è assai diverso nei due casi: noi dunque spesso vediamo quel che sappiamo.

Ma c'è di più. Fin dai tempi delle primissime tribù umane, di cui abbiamo solo qualche traccia archeologica, il nostro mondo non è solo l'ambiente naturale - se vogliamo essere estremisti, l'ambiente reale in cui ci muoviamo -, ma anche quello che noi predisponiamo perché venga percepito. I dipinti sulle caverne e le più antiche pitture rupestri ci esibiscono questa funzione: sono fatte per produrre una visibilità artificiale, culturale.Per far vedere quello che non c'è, producendo stimolazioni artificiali dei nostri organi di senso al fine di produrre in noi certi significati o referenti. E ancora più radicalmente il linguaggio produce stimoli auditivi artificiali, che sono prodotti con attività virtuosistiche della lingua e della glottide in vista di ciò che questi suoni possono suggerirci, farci pensare, sentire, comprendere, su una base che i linguisti hanno definito "arbitraria".

E' facile trovare analoghe prove di una sensibilità artificiale anche per quanto riguarda gli altri organi di senso: cibi per il gusto, profumi per l'odorato, superfici gradevoli per il tatto. Col procedere della civiltà queste stimolazioni artificiali sono divenute nella maggior parte dei casi più importanti per gli esseri umani delle sensazioni naturali: ascoltiamo più musica che canto degli uccelli, vediamo più quadri e film e fotografie che paesaggi e così via. Bisogna però tenere conto del fatto che queste diverse produzioni sensoriali hanno formati, grammatiche e anche semantiche proprie a ciascuno, cioè che i canali sensoriali non sono affatto indifferenti ai significati (o piuttosto, come vedremo, alla modalità dei significati) che veicolano, almeno nel loro funzionamento artificiale.

3. Per tornare al nostro argomento centrale: il visibile non è solo ciò che

noi siamo biologicamente evoluti per vedere (anche se non come semplice specchio della realtà, ma come sua rielaborazione adattiva). La maggior parte o almeno la parte più significativa del visibile consiste in ciò che ogni società produce al fine di farlo vedere. Di questa produzione, che si è enormemente incrementata nel corso del tempo, si dà una storia (e un'antropologia). La storia del visibile è dunque la storia dei dispositivi (materiali, sociali e culturali, mentali) che permettono producono e regolano la percezione del visibile nel tempo. Il caso principale dei dispositivi sociali che controllano il visibile è il linguaggio. Se pure l'immagine che si proietta sulla retina di un oggetto ugualmente presentato è la stessa e dunque il segnale in ingresso al cervello è il medesimo, la sua elaborazione è completamente diversa a seconda che sia disponibile o meno un prototipo cognitivo di tale oggetto, che spesso si identifica con un nome. I nostri bisnonni non avrebbero riconosciuto e quindi neppure completamente visto

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un cellulare, più di quanto Giulio Cesare avrebbe potuto identificare il volante di un'automobile proiettata per magia ai tempi suoi. Il campo su cui queste idee si sono sperimentate di più con la pratica è quello dei colori, che sono nominati in maniera molto diversa nelle diverse culture. Ma anche i fenomeni naturali, dagli stati della neve alle piante agli animali, sono classificati, raggruppati, riconosciuti e dunque visti in maniera diversa nelle diverse culture. Non solo i semiologi, ma anche psicologi, linguisti e filosofi analitici come Quine hanno riflettuto sulle conseguenza profonde dell'"indeterminatezza" della traduzione che rende idiosincratica alla cultura ogni ontologia ingenua e investe la visione.

Per accennare solo a un secondo campo di determinazione sociale del visibile, è necessario riflettere al fatto che la visione non è mai semplicemente un atto cognitivo puro. Al contrario essa è sempre assiologicamente marcata. Il visibile è sempre desiderabile o ributtante, interdetto oppure consigliato, rilassante o inquietante, eccetera. Queste caratteristiche, che sono costitutive di sfere come l'estetica, l'etica e la religione subiscono una profonda determinazione sociale. L'interdetto sulla visione della sfera sessuale (che naturalmente ha molto a che fare con la sua desiderabilità e dunque con la costituzione della pornografia) è espressa nella Bibbia da una formula standard piuttosto enigmatica: "non scoprirai la nudità di" (tuo padre, tua zia ecc.), che è sviluppata narrativamente nell'episodio dei figli di Noè nel libro della Genesi: senza soffermarsi qui a precisare il significato pratico di questa formula, è evidente che vi è iscritta un'invisibilità prescritta anche se non materiale, assai diffusa anche in altri campi, che però si costituisce in innumerevoli dispositivi materiali e sociali che riguardano il pudore e la reverenza: dagli abiti e in particolare da oggetti come il velo e il perizoma – lontanissimi fra loro ma uniti dalla funzione di non far vedere ciò che non deve essere visto in quanto sessuale –; dall'iconostasi ortodossa al confessionale alla tenda che cela l'ingresso dell'armadio in cui sono custoditi i libri sacri ebraici; dal sipario al panopticum; dalla riservatezza dei bagni comuni alla pubblicità delle toilettes regali nel cerimoniale del Re Sole. Vi è una politica del visibile e dell'invisibile, con profonde implicazioni collettive come ci hanno insegnato Foucault e Meyrowitz2.

4.I dispositivi materiali della visibilità sono di due tipi, inizialmente ben

distinti anche se soggetti oggi ai generali processi di convergenza che rimescolano tutte le distinzioni nel grande crogiuolo del digitale. Vi sono protesi della visione (strumenti che amplificano la possibilità di vedere) e simulacri del visibile (oggetti che simulano gli effetti della percezione. I primi hanno una storia relativamente recente, datando dal medioevo gli occhiali e dal rinascimento microscopi e telescopi. Al confine fra i primi e i secondi si situano gli specchi e gli altri strumenti di riflessione, dall'acqua calma di Narciso alla superficie della pupilla che colpì così tanto Platone suscitandogli originalissimi pensieri sul soggetto3. Del secondo tipo fanno parte le immagini artificiali scolpite, dipinte, realizzate per via chimica (fotografia, cinema) o elettronica.

2 Al di là del senso del luogo, trad. it. Baskerville, Bologna, 19923 Alcibiade primo 132d-134b.

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Il primo tipo di dispositivi ha il compito di far vedere ciò che non sarebbe visibile: per malattia nel caso degli occhiali e in maniera più interessante per dimensione o lontananza nel caso di telescopi e microscopi. La nostra modernità è profondamente determinata dal bisogno di riuscire a vedere l'invisibile che ha tanta parte nell'impresa scientifica: le pratiche anatomiche per esempio, le esplorazioni, lo scavo delle rovine archeologiche e dei fossili, i dispositivi che negli esperimenti servono a rendere visibili effetti come la gravità o l'elettromagnetismo, i prismi che scompongono la luce, ecc sono tutte forme di recupero della vista che si aggiungono alle protesi più classiche. Ma anche nel mondo antico si conoscono dei dispositivi di visione che costituiscono complesse protesi dello sguardo: per fare solo un esempio, pensiamo ai teatri greci, che permettono a un larghissimo pubblico di assistere allo spettacolo raddoppiando e amplificando in un certo senso la struttura dell'occhio.

Per quanto riguarda i simulacri del visibile, si tratta di immagini molto diverse, dalle mappe terrestri e celesti ai dipinti, ma anche a quelle pratiche architettoniche note già nell'antichità che servono a produrre certi effetti di visione. E' noto, per fare solo un esempio, che il Partenone fu costruito con piccole deformazione della pura forma rettangolare per compensare le deformazioni prospettiche. Un calcolo del visibile è sotteso da tutte le grandi architetture monumentali antiche e moderne. Un altro aspetto di grande interesse è costituito dalla tecniche (o piuttosto, per dirla con Cassirer dalle "forme simboliche") che vengono costruite dentro le rappresentazioni per realizzare il simulacro della visione. Il caso più evidente è quella della prospettiva: che riproduce certamente o ancor meglio oggettiva certi meccanismi della visione, ma semplificandoli molto (eliminando la binocularità, la dimensione cromatica ecc.) Altri casi recuperano questi aspetti, per esempio l'uso del cromatismo e delle sfumature per rendere la profondità a partire da Leonardo ecc.

Va sottolineata una acquisizione della semiotica contemporanea:4 ogni immagine costituisce un meccanismo comunicativo che non implica solo un oggetto virtuale in uno spazio diegetico o rappresentativo (il "guardato"). Anche se nell'immagine non è rappresentata, vi compare però sempre anche una certa posizione, non solo fisica ma anche morale ecc. da cui si guarda (il "guardante" di Eugeni che spesso è chiamato "attante osservatore"). Questo sguardo che genera virtualmente l'immagine può essere impersonale in molte immagini pre-prospettiche (ma non in tutte); con la prospettiva tende a personalizzarsi, assume un luogo preciso nello spazio, una distanza dall'oggetto, un'inclinazione caratteristica. Viene insomma attribuita a un occhio che può coincidere fisicamente (e moralmente) con quello dell'autentico spettatore in carne e ossa (per esempio nel caso di certi affreschi sulle cupole fortemente scorciati verso il basso per riprendere la posizione dello sguardo degli spettatori che si trovano verticalmente sotto il dipinto. Ma in altri casi l'attante osservatore ha la capacità di portare virtualmente con sé lo spettatore vero e di trasportarlo in luoghi dove non potrebbe essere. Anche questo effetto così sfruttato dal cinema e della televisione, è una visione dell'invisibile – solo che il genitivo in questo caso non è oggettivo ma soggettivo, invisibile non è ciò che è visto ma chi vede.

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4 Cfr. Ruggero Eugeni, Analisi semiotica delle immagini, Isu Università Cattolica, Milano1999

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Un passo ulteriore nella direzione della visione dell'invisibile consiste nella rappresentazione di cose che l'occhio umano non potrebbe vedere in linea di principio. All'inizio, ma massicciamente ancora oggi, vi sono le rappresentazioni "artistiche" di luoghi e cose che non si potrebbero vedere: che rappresentano lo spaccato di un vulcano o la superficie di Giove, l'interno di una cellula o le orbite degli elettroni intorno al nucleo di un atomo. Parte di queste immagini sono semplici trasposizioni di quel che appare sfruttando gli strumenti-protesi di cui abbiamo parlato prima: immagini del microscopio e del telescopio, disegnate prima dell'invenzione della macchina fotografica e spesso per chiarezza, anche dopo, se no riprodotte con tecnologia chimica e elettronica. Bisogna però notare che in questo processo di traduzione verso la visibilità dell'invisibile intervengono presto dei "buoni trucchi" che trasformano anche l'oggetto per farlo vedere: la biologia cellulare per svilupparsi non ha bisogno solo di microscopi sempre più perfetti e potenti, ma anche di tinture che differenziano strutture della cellula altrimenti indistinguibili; i telescopi filtrano la luce con schermi, la concentrano con lunghe esposizioni fotografiche, compensano i movimenti dell'atmosfera e la rotazione terrestre spostando e deformando gli specchi riflettenti.

All'inizio del Novecento l'invenzione della radiografia apre un'era nuova: diventa possibile vedere un invisibile prima non sospettato sfruttando certe proprietà fisiche della materia. E' una protesi della visione, secondo la nostra distinzione di prima, che arriva però a risultati che non sono simulacri di una visione possibile, perché il loro meccanismo di ricezione si situa fuori dallo spettro limitato della luce visibile. Questo percorso di espansione dei limiti del visibile attraverso dispositivi tecnologici che riportano alla visione fenomeni di altro ordine si sviluppa drammaticamente nel corso del secolo scorso: radar e sonar, spettroscopia, interferometria, camere a nebbia telescopi che esplorano radiazioni elettromagnetiche lontane dal visibile, risonanze magnetiche, Pet sono solo gli esempi più noti di un fenomeno molto generale: i dati, in particolare quelli che riguardano fenomeni spaziali, vengono spesso rappresentati in forma di pseudo-immagini. Noi siamo ormai abituati a "vedere" fenomeni invisibili come le temperature, le precipitazioni, i gradienti gravitazionali, la presenza di determinati elementi chimici ecc., tanto da non riuscire spesso a renderci conto che si tratta di elaborazioni visive di dati che hanno una natura sostanzialmente numerica. La possibilità, garantita dal computer di elaborare grandi masse di dati e di simulare immagini senza originali come in certi videogames ha definitivamente staccato le immagini da un supporto reale. Costruzioni estremamente complesse come Second life o Sims funzionano nel mondo del visibile come i grandi cicli romanzeschi in quello delle parole: cattedrali finzionali.

In realtà esistevano dei precedenti a questa visualizzazione dell'invisibile in "falsi colori". Si pensi per esempio alle cartine di geografia "fisica" in cui le altitudini e le profondità marine erano segnate con tinte gradualmente diverse. Ma il punto è che progressivamente nel Novecento queste immagini, prodotte automaticamente e con l'ausilio dell'elaborazione elettronica hanno assunto lo statuto di immagini vere, quasi-fotografie che riporterebbero la realtà "così com'è", alla stessa stregua dell'occhio o anche meglio. Se il processo è corretto e se esiste una chiara spiegazione della pertinenza dell'immagine, cioè dei criteri di rappresentazione di forme,

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colori, eventuali effetti tridimensionali, le cose stanno certamente così – anche se la possibilità di manipolazione delle credenze, cioè di uso delle immagine per "dimostrare" quel che non contengono si è molto ampliata. Ma dal punto di vista semiotico questo comporta una riflessione sulla "verosimiglianza" delle immagini. Dato che in realtà anche la fotografia riduce drasticamente la complessità del reale (si pensi alla bidimensionalità o per esempio al bianco e nero) e la filtra e organizza attraverso un'ottica che non è affatto naturale (ma è studiata per realizzare, per esempio, effetti prospettici, certe profondità di campo, certe deformazioni come quelle dovute alle lenti grandangolari) anche le immagini "tradizionali" in realtà selezionano certi aspetti del reale che riproducono, al fine di ottenere dei risultati utili – il primo dei quali è di sembrarci "vere", cioè di simulare lo sguardo. Ma lo stesso, a guadar bene, vale anche per i nostri organi di senso, che non ci danno affatto un accesso immediato e totale al mondo, ma lo filtrano secondo certi limiti: "vediamo" le onde elettromagnetiche di un segmento molto piccolo dello spettro (non gli ultravioletti, gli infrarossi ecc.), "sentiamo" le vibrazioni dell'aria di frequenza fra i 10 e i 20 mila hertz (non gli ultrasuoni ecc.), gustiamo una combinazione di quattro "sapori", cioè tipi di sostanze chimiche, per cui abbiamo i recettori in bocca ecc. E' stata l'evoluzione naturale a selezionare per noi queste sensibilità. Ma dato che i colori, per esempio, sono meno nel mondo che nell'elaborazione nostro cervello sugli stimoli retinici, non possiamo dire semplicemente "vero" quel che vediamo. Dobbiamo dire invece che si tratta di un modello biologicamente adeguato, che provoca in noi un forte "effetto di realtà".

Il microscopio elettronico attraverso il quale possiamo percepire le opere presentate in questa mostra rappresenta uno sviluppo di questa logica. Il suo regime di visibilità è convenzionale, anche se corrisponde effettivamente a certe caratteristiche della materia che è stata manipolata dagli artisti. Questa mostra può dunque essere considerata in un certo senso un esperimento estremo. La capacità delle immagini artificiali di produrre "effetti di realtà" analoghi a quelli delle immagini "naturali" non viene impiegata per veicolare informazioni sul mondo o per verificare applicazioni tecniche a livello microscopico. Al contrario, essa è fine a se stessa, costituisce una kantiana "finalità senza scopo" o se si vuole mette in atto quella funzione comunicativa che Roman Jakobson chiamava "poetica" e che consiste in un messaggio costruito per esibire la propria stessa organizzazione. In questo senso possiamo parlare di arte invisibile: perché si tratta di una trasposizione di finalità. Le tecniche usate per rendere visibili gli aspetti del mondo che vanno oltre la nostra sensibilità sono sfruttati per richiamarci alla mente in maniera concreta questo stesso processo.

6.E' questo il momento in cui possiamo brevemente porci il problema

del piacere relativo a questa pratica che attira l'attenzione sulla visibilità dell'invisibile. Nella tradizione estetica dominante in Europa da duecento anni almeno, dopo la scomunica kantiana, la nozione di piacere artistico ha cattivo corso. E però è chiaro che, se non nella teoria, almeno nelle pratiche del collezionismo, delle commissioni, delle mostre e del consumo il piacere dell'arte ha un posto centrale. Chi ha sottratto all'esilio teorico questo problema è stato Roland Barthes. Nel suo celebre saggio del '73,5 Barthes

5 Le plaisir du texte, Seuil, Paris

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distingueva fra il domestico e borghese plaisir, quello dei polizieschi ben costruiti, dei film d'azione, delle commedie ben costruite, dei quadri rappresentativi, della musica orecchiabile, dall'inquietante e inafferrabile joussance ("godimento" in italiano) dei romanzi che non finiscono o non si comprendono interamente della novecentesca "tradizione del nuovo", dell'arte non rappresentativa, della dodecafonia, ma anche – probabilmente – delle infinite narrazioni seriali che caratterizzano i prodotti dell'industria culturale.

Se prendiamo in considerazione gli oggetti esposti in questa mostra e in genere l'idea di un'arte invisibile è evidente che non possiamo situarli in quell'ambito di gusto della percezione (si tratti dei dettagli "perfetti" di una pittura fiamminga o dell'euforico disordine di un quadro informale) che fanno il piacere del testo pittorico. Ci troviamo in questo caso in quella zona comunicativa in cui l'oggetto della rappresentazione è posto ed è tolto allo stesso tempo (è posto per essere tolto, è tolto per come è posto) che caratterizza quella che probabilmente è la corrente principale dell'arte contemporanea almeno dai tempi di Duchamp. Siamo cioè in una zona "perversa", in cui la percezione è sollecitata ma impedita e l'impossibilità della visione diretta costituisce una ragione di seduzione/sedizione, provocazione e rifiuto, insomma un gioco intorno alle pre-condizioni stesse della fruizione di un oggetto come rappresentazione (e a maggior ragione come rappresentazione intenzionale secondo la modalità socialmente condizionata dell'"artistico"). Per questa ragione il gusto di queste opere è godimento e come tale sempre potenziale, sempre incompiuto/incompleto, sempre interrogativo. Almeno fino a che regge la risorsa necessaria a ogni godimento (non a ogni piacere): la disposizione a interrogarsi e a mettersi in gioco, l'attenzione e la curiosità, la meraviglia – origine delle filosofia, della scienza e anche del "godimento" artistico.

* Ugo VolliUniversità di Torino

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