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Una Meravigliosa Bugia - McGuire

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Erin è all'ultimo anno di liceo e da sempre si sente diversa. Perché al contrario dei suoi compagni non ha una bella macchina, non veste alla moda, non va alle feste. Perché Erin è cresciuta da sola, con una madre che non riesce a prendersi cura di lei. Il suo unico desiderio è quello di fuggire. Fuggire da quella città, da quella scuola, dagli altri ragazzi che non fanno altro che criticarla. Fuggire e ricominciare da zero. Ma un giorno nella gelateria dove lavora, entrano due occhi verdi che Erin conosce bene. Appartengono a Weston il ragazzo più popolare del liceo. Weston che non ha paura di nessuno e ottiene sempre quello che vuole. Nessuna riesce a resistergli e ora all'improvviso sembra accorgersi proprio di lei. Lei che si è sempre sentita inadeguata e imperfetta. Erin non ha dubbi, non può cadere nella trappola di quello sguardo. Da un tipo così bisogna stare il più lontano possibile. È la scelta sbagliata. Eppure bastano solo poche ore passate a parlare per scoprire che dietro l'immagine di ragazzo forte e invincibile, si nasconde un animo pieno di sogni. Sogni che paiono irrealizzabili come quelli di Erin. Weston è il solo che comprende le sue insicurezze e le sue paure. Il solo che la fa sentire protetta, al sicuro. Ma lasciarsi andare non è facile. Soprattutto ora che una notizia inaspettata ha cambiato ogni cosa. Perché la vita può essere tutta una bugia. Per Erin permettere a qualcuno di avvicinarsi tanto da non avere più segreti è un'impresa ardua. Quasi impossibile. Una meravigliosa bugia è il primo libro di una nuova trilogia, una nuova appassionante storia firmata Jamie Mcguire, l'autrice idolo di migliaia di lettori. Dopo lo straordinario successo di Uno splendido disastro, Il mio disastro sei tu, Un disastro è per sempre e Uno splendido sbaglio, la regina delle classifiche italiane torna con due personaggi indimenticabili: Erin e Weston. Preparatevi a incontrare i nuovi Abby e Travis. La stessa unicità e lo stesso tormento caratterizzano il loro amore. Perché nessun ostacolo è insormontabile quando il cuore ha fatto la sua scelta.

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Presentazione

Non bisogna essere perfetti pervivere un amore perfetto. Erin èall’ultimo anno di liceo e da sempre sisente diversa. Perché al contrario deisuoi compagni non ha una bellamacchina, non veste alla moda, non vaalle feste. Perché Erin è cresciuta dasola, con una madre che non riesce aprendersi cura di lei. Il suo unicodesiderio è quello di fuggire. Fuggire daquella città, da quella scuola, dagli altriragazzi che non fanno altro che

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criticarla. Fuggire e ricominciare dazero. Ma un giorno nella gelateria dovelavora entrano due occhi verdi che Erinconosce bene. Appartengono a Weston,il ragazzo più popolare del liceo.Weston che non ha paura di nessuno eottiene sempre quello che vuole.Nessuna riesce a resistergli e oraall’improvviso sembra accorgersiproprio di lei. Lei che si è sempresentita inadeguata e imperfetta. Erin nonha dubbi, non può cadere nella trappoladi quello sguardo. Da un tipo cosìbisogna stare il più lontano possibile. Èla scelta sbagliata. Eppure bastano solopoche ore passate a parlare per scoprireche dietro l’immagine di ragazzo forte e

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invincibile si nasconde un animo pienodi sogni. Sogni che paiono irrealizzabilicome quelli di Erin. Weston è il solo checomprende le sue insicurezze e le suepaure. Il solo che la fa sentire protetta,al sicuro. Ma lasciarsi andare non èfacile. Soprattutto ora che una notiziainaspettata ha cambiato ogni cosa.Perché la vita può essere tutta una bugia.Per Erin permettere a qualcuno diavvicinarsi tanto da non avere piùsegreti è un’impresa ardua. Quasiimpossibile. Una meravigliosa bugia èil primo libro di una nuova trilogia, unanuova appassionante storia firmataJamie McGuire, l’autrice idolo dimigliaia di lettori. Dopo lo straordinario

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successo di Uno splendido disastro, Ilmio disastro sei tu, Un disastro è persempre e Uno splendido sbaglio, laregina delle classifiche italiane tornacon due personaggi indimenticabili: Erine Weston. Preparatevi a incontrare inuovi Abby e Travis. La stessa unicità elo stesso tormento caratterizzano il loroamore. Perché nessun ostacolo èinsormontabile quando il cuore ha fattola sua scelta.

Jamie McGuire vive in Oklahoma con ilmarito e i figli. I suoi romanzi entranoregolarmente nei bestseller del «NewYork Times». Con lo straordinariosuccesso di Uno splendido disastro –

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ora in procinto di diventare un film –, Ilmio disastro sei tu, Un disastro è persempre e Uno splendido sbaglio haconquistato anche le classifiche italiane.Ora è tornata con una nuova trilogia:Una meravigliosa bugia, Un magnificoequivoco, Un’incredibile follia.

Jamie McGuire è autrice delle serie:UNO SPLENDIDO DISASTRO1 – Uno splendido disastro2 – Il mio disastro sei tu3 – Un disastro è per sempre4 – Uno splendido sbaglio

LA STORIA DI ERIN E WESTON1 – Una meravigliosa bugia2 – Un magnifico equivoco

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3 – Un’incredibile follia

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NARRATORI MODERNI

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@garzantilibri

www.illibraio.it

In copertina: © Sara K ByrnePhotography / Stocksy. Art Direction:

ushadesign

Traduzione dall’inglese diAdria Tissoni

Titolo originale dell’opera:Happenstance (part one)

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© 2015 by Jamie McGuire

ISBN 978-88-11-14271-3

© 2015, Garzanti s.r.l., MilanoGruppo editoriale Mauri Spagnol

Prima edizione digitale: 2015Quest'opera è protetta dalla Legge sul

diritto d'autore.È vietata ogni duplicazione, anche

parziale, non autorizzata.

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A Lori Bretch

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1.

«Va’ a casa. Spegni le luci. Eammazzati.»

Dopo le parole pronunciate da ErinMasterson, Erin Alderman mi guardòtorva. Nei suoi splendidi occhi castano-ambrati c’era odio puro. Capeggiava ungruppo di nove cheerleader dall’altraparte di una finestrella rettangolare. Ilvetro tuttavia non era l’unica barriera tranoi.

Tutte fissarono il mio grembiule neromacchiato di frappè e di crema al

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cioccolato, poi si scambiaronoun’occhiata ridacchiando. Si stavanogodendo la scena, ma nessuna miguardava dritta in faccia.

Erin Masterson, amica del cuore diErin Alderman nonché capitana inseconda della squadra di cheerleader,reggeva il Banana Split Blizzard che leavevo appena preparato, lo sguardovendicativo. Anche lei era ben fatta eaveva lunghi capelli fluenti come quellidell’altra Erin, però castani anzichédorati. «Avevo detto con le noci. Hai uncompito semplice: mettere il gelato inuna coppetta, in un bicchiere o in uncono e combinare gli ingredienti. Se adiciotto anni non sei capace di svolgere

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un lavoro a salario minimo al DairyQueen, come pensi di cavartela nellavita adulta? Dovresti farla finita ora,Erin, e morire con dignità.»

Erin Masterson non stava parlandoalla sua migliore amica bensì a me, ErinEaster, la terza Erin dell’ultimo anno.Noi tre non eravamo sempre statenemiche. Anzi, all’asilo e in primaelementare eravamo inseparabili, tantoche insegnanti e genitori ci avevano datoun soprannome per non fare confusione.Erin Alderman era Alder, ErinMasterson Sonny. Il mio nomignolo erasemplice: Easter. In comune nonavevamo solo i nomi, ma anche il giornodel compleanno: il 4 maggio. A

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quell’epoca Alder e Sonny però, finitala scuola, tornavano a casa con i lorogenitori, soci del country club, futuricapi massoni e membridell’associazione insegnanti-genitori, iocon mia madre, poco più che ventenne, enon avevo nessuno, neanche un padre,che mi aiutasse.

Il nostro rapporto tuttavia eracambiato drasticamente in quintaelementare quando, per ragioni che nonho ancora capito bene, ero diventata illoro bersaglio preferito. Ora, all’ultimoanno delle superiori, in genere cercavodi evitarle, invece loro adoravanopresentarsi al Dairy Queen dovelavoravo il fine settimana e quasi tutti i

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giorni dopo la scuola.Sollevai il passavivande e allungai la

mano. «Scusami. Dammelo, te lorifaccio.»

Frankie mi scostò con uno spintone,strappò il bicchiere di mano a Sonny,tolse la cucchiaiata di gelato allanocciola con la granella di arachidi e lagettò nei rifiuti. Aggiunse cinque o seinoci e glielo restituì. «Non spreco unintero bicchiere di gelato perché tuamadre non ti ha insegnato ad affrontarele delusioni. Ora muovi le chiappe»,disse con un cenno del capo.

«Riferirò alla mamma quello chepensi delle sue capacità genitoriali,Frances», ribatté Sonny in tono

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velenoso, premurandosi di chiamarlacon il suo vero nome, che Frankiedetestava. «Con quella cucciolata che tiritrovi, tu sei di certo un’esperta.»

Frankie sorrise, educata. «Cucciolataè un termine che si usa solo per glianimali, Masterson. Nessuno, a parte tuamadre, chiama i figli così.»

Le due Erin la guardarono incagnesco, poi il gruppo se ne andòcompatto.

«Mi dispiace», dissi osservando lecheerleader attraversare veloci lastrada, galvanizzate dallo scontro.

Frankie si accigliò e si mise una manosul fianco. «Perché ti scusi? Te l’hodetto centinaia di volte e te lo ripeto

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ancora: smetti di incassare tutto quelloche ti fanno quelle arpie. Così le aizzisoltanto. Ignorare bulle del genere nonserve, credimi. Lo so.»

«Però mancano solo tre mesi»,replicai lavandomi le mani appiccicosedi latte e zucchero.

Frankie fece un sospiro e guardò ilsoffitto. «Ricordo la consegna deldiploma. È stata una delle serate piùbelle della mia vita. Così tanta libertàche aspettava solo di essere goduta!Avevo tutto davanti a me: l’estate, ilcollege, il mio ventunesimocompleanno...» Lo sguardo sognante lesvanì dagli occhi e iniziò a pulire ilbanco. «Una notte con Shane è bastata a

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cancellare ogni cosa. E adesso, setteanni dopo, faccio ancora lo stessolavoro di quando ero alle superiori.»Scosse la testa e rise, accanendosi su unpezzetto di cioccolato secco che nonvoleva venir via dal banco. «Eppure nonscambierei i miei bambini con niente almondo.»

Piegai un angolo della bocca in unsorriso e la osservai mentre ripensavaalle decisioni che l’avevano indotta arestare al Dairy Queen. Si ritenevafortunata ad avere un lavoro. Dopo chela compagnia petrolifera aveva chiuso ibattenti per trasferirsi altrove, in unacittadina in difficoltà come la nostra eradifficile trovare un impiego decente,

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quindi un posto al Dairy Queen andavapiù che bene.

Squillò il telefono e Frankie rispose.«No, Keaton, non puoi mangiare il burrodi arachidi dal vasetto. Perché lo dicoio. Se stai morendo di fame, mangia unabanana. Allora non stai morendo difame! Ho detto di no, e basta. Passami lanonna. Ciao, mamma. Okay. Comesempre. E tu? Bene. No. Kendra hadanza alle sei. Kyler ha T-ball allesette.» Sorrise. «D’accordo. Anch’io tivoglio bene. Ciao.» Riagganciò e sivoltò verso di me, scimmiottando la miaespressione perplessa.

«Te ne sei perso uno?» chiesi.«No. Grazie a Dio, il piccolo dorme»,

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rispose lei ridacchiando.Frankie riprese a strofinare il banco e

io pulii il disastro che avevo combinatopreparando il gelato di Sonny. Il DairyQueen aveva sede in uno degli edificipiù piccoli e vecchi di quel minuscolopuntino sulla carta dell’Oklahomachiamato Blackwell. I proprietari, Cecile Patty, erano felicissimi che la gentedelle altre città si fermasse a scattarefoto della loro inconfondibile palazzinain stile anni Cinquanta. I clientipotevano ordinare alle due finestredavanti o, senza nemmeno scenderedalla macchina, sul lato sud. Io eFrankie avevamo a malapena spazio permuoverci e dopo le partite di baseball o

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nelle settimane di fiera, quando c’era lacalca, spesso ci urtavamo. Una panchinasolitaria all’ombra su un latodell’edificio era a disposizione di chidesiderava fermarsi a mangiare un cono,ma di solito restava libera.

«Oh, cielo. È finito l’allenamento!»esclamò Frankie guardando sfrecciare leauto e i furgoni dei giocatori di baseball.Entrarono in massa al DQ eparcheggiarono. Una decina di ragazzisudati saltarono giù e attraversarono lospiazzo asfaltato, diretti alla miafinestra. Frankie aprì la sua e siformarono due file.

Weston Gates dovette chinarsi perguardarmi. I suoi occhi incrociarono i

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miei al di là di una matassa di capellicastani arruffati, ancora bagnati disudore. Sulla T-shirt grigia scuraspiccava la scritta BLACKWELLMAROONS, con le lettere rovinate dailavaggi dopo quattro anni nella squadradi football, basket e baseball dellascuola. Anche suo padre era stato unatleta alla Blackwell, mentre la madre ela sorella maggiore, Whitney, avevanoun passato di capo cheerleader. AdessoWhitney era al secondo anno diuniversità alla Duke, dove un giorno sisarebbe laureata in legge, e tornava acasa di rado. Non la conoscevo bene,ma aveva occhi splendidi e gentili,proprio come Weston.

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«Dammi quello che vuoi, Erin. È tuttobuono», disse lui con un sorriso timido.

«Hai appena detto che è buona,Wes?» lo riprese Brady Beck. «Comefai a saperlo? Non credevo chefrequentassi i bassifondi.»

Gli altri ragazzi risero sotto i baffi efecero versi idioti.

Weston che, accaldato perl’allenamento, aveva già le guance rossecome se qualcuno lo avesseschiaffeggiato, in quell’istante divennepaonazzo. Quel colorito misemaggiormente in risalto gli occhi verdesmeraldo. Era dalle elementari checercavo di non guardarli, e da quandoAlder lo aveva adocchiato, in terza

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media, i miei sforzi si eranointensificati.

«Ignorali, Erin. Sono dei coglioni.»Mentre parlava fece un colpo di tosse esi scostò.

Gli preparai un cono maxi affogatoalla fragola, perché sapevo che era ilsuo preferito. Presi i soldi e lo vidilasciare il resto nella mia caraffa diplastica delle mance.

«Grazie», disse leccandolo mentretornava al suo furgone.

I suoi compagni non furono altrettantoeducati e la maggior parte di loro non miguardò neanche in faccia. In ogni caso,ci ero abituata. Ero cresciuta con unamadre che aveva visto più volte

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l’interno di una cella, e gli altri genitoripreferivano che i loro ragazzi girasseroalla larga dalla figlia di Gina Easter, perevitare che li traviasse. Lei, tuttavia, nonaveva sempre fatto una vita cosìscombinata. Era stata la reginetta dellafesta degli ex studenti alla Blackwell nel1995. Lo sapevo solo perché avevovisto per caso le foto. Era splendida,con la sua frangia bionda tirata di lato ele guance piene, da ragazza sana, cheaccentuavano il taglio a mandorla deigrandi occhi castani.

Come Frankie era rimasta incinta daragazza ma a differenza sua, quando erastata costretta a rinunciare ai proprisogni per una figlia imprevista, aveva

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lasciato che il rancore avesse la meglioe si era data all’alcol e all’erba. Poi, viavia che gli anni aggiungevano delusionea delusione, qualsiasi droga andavabene purché le facesse dimenticare ladonna che avrebbe potuto essere. Nonmi sarebbe importato più di tanto sequesto fosse servito a placare la suarabbia, che invece si ingigantiva di serain sera con l’aiuto di una confezione diKeystone Light.

E all’ora di chiusura del Dairy Queen,quando Frankie spegneva le luci epronunciava la sua frase preferita,trasalivo sapendo di dover tornare acasa da Gina.

«Adiós bitchachos!»

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«Non scordarti che domani dopo lascuola ho la riunione dell’ultimo anno,quindi arriverò un po’ più tardi.»

«Me lo ricordo», rispose Frankieafferrando la borsa e le chiavi. «Vuoi unpassaggio?» domandò tenendomi apertala porta.

Scossi la testa. Me lo chiedeva tuttele sere, e io le dicevo sempre di no,motivo per cui non si metteva adiscutere. Vivevo a soli cinque isolatidal DQ, ed era quasi primavera.

La ghiaia scricchiolava sotto lescarpe mentre percorrevo la strada buia.Solo qualche zona della città aveva imarciapiedi, e la via più breve perraggiungere casa mia ne era sprovvista.

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Passò qualche auto, ma per il resto eraun giovedì tranquillo. Non c’era iltraffico tipico delle sere delle funzioniin chiesa o delle partite. Il giovedì era ilmio giorno preferito per tornare a casa apiedi.

Salii i gradini di calcestruzzo delportico e la zanzariera cigolò quando laaprii. Sentendo la musica al di là dellaporta indugiai qualche istante sullasoglia, in modo da prepararmipsicologicamente a qualsiasi cosa miattendesse. Poi, entrando, notai che insoggiorno non c’era nessuno. Miprecipitai in camera mia e mi chiusidentro.

La musica proveniva dalla stanza di

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mia madre, in fondo al corridoio.Appena messo piede in casa avevosentito odore d’erba, perciòprobabilmente lei era a letto a fumare ea rilassarsi, il che era semprepreferibile agli accessi di rabbia diquando era sbronza.

Sciolsi facilmente i nodi allentati delgrembiule e mi tolsi il resto degli abitigettandoli nel cesto già pieno. Dalmomento che di solito la sera ero troppostanca per fare il bucato, ammucchiavo ivestiti sporchi finché non mi decidevo aportarli in una lavanderia automaticaalcuni isolati a sud del Dairy Queen. Colbuio quel posto mi dava i brividi, quindipreferivo andarci il sabato nel primo

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pomeriggio. A quell’ora Gina erasveglia, e io avevo una buona scusa peruscire di casa presto.

Mi infilai un’enorme maglietta nerasbiadita con la scritta OAKLANDRAIDERS. Supponevo che fosse di miopadre ma non ne ero sicura. Potevaanche essere una delle tante cose cheGina aveva comprato nel negoziodell’usato. Però per qualche ragione mipiaceva pensare che appartenesse a lui –chiunque egli fosse – e indossandolaavevo l’impressione che l’edificioinfestato dagli scarafaggi dovevivevamo diventasse un po’ più simile auna casa.

Mi sedetti sul tappeto verde, che una

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volta doveva essere stato a pelo lungoma che con gli anni si era schiacciato eassomigliava più alla pelle di unorrendo animale, per finire gli esercizidi algebra. Una volta terminato,sgattaiolai in bagno a lavarmi la faccia ei denti, accompagnata dalle paroleattutite dei Soul Asylum. Gina dovevaessere fatta. Runaway Train era il suobrano preferito quando riusciva aprocurarsi dieci dollari d’erba.

Tornata nella mia camera, mi sedettisul bordo del letto e mi guardai allospecchio sopra la cassettiera, che cometutto il resto a casa nostra arrivava dalnegozio dell’usato. Lo specchio tremavaogni volta che qualcuno camminava

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nella stanza, e gran parte dei cassetti delmobile non si aprivano completamente,però svolgevano la loro funzione, e a mebastava. Spazzolai i capelli castaniscostandoli dal volto fino a districareogni ciocca, poi mi feci la coda.

Le vecchie molle del letto cigolaronoquando m’infilai sotto le coperte. Ilventilatore da soffitto ruotava lentamenteconciliandomi il sonno, mentre lamusica di Gina filtrava attraverso lepareti. Feci un profondo respiro.L’indomani mi attendeva una lungagiornata. La riunione dell’ultimo annoera un impegno inderogabile, ma avevopaura di andarci. In genere evitavo quelgenere di appuntamenti scolastici in

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modo da risparmiarmi le umiliazioni acui mi sottoponevano le altre Erin. Allemedie avevo imparato che qualsiasitentativo di socializzare non valeva gliinevitabili scherni e il bullismo che neconseguivano. Talvolta gli insegnantiintervenivano, ma nella maggior partedei casi non facevano nulla. Per le dueErin, Brady Beck e alcuni loro amicic’era solo una cosa più stimolante chederidermi: farmi piangere. Era quello illoro obiettivo, e più opponevoresistenza più si mettevano d’impegno.Ecco perché negli ultimi quattro anni miero concentrata unicamente sulla scuola,sul lavoro e su me stessa. Avevo vintouna borsa di studio, e grazie a quella e

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alla rateazione della retta avrei tagliato iponti con Blackwell, le Erin, Brady eGina.

Mi allungai e tirai la cordicella dellalampada. Per quanto Sonny desiderassecon tutto il cuore che lo facessi, dopoavere spento la luce non mi sarei uccisa.Avrei invece riposato risparmiando leforze per affrontare un’altra giornataterribile. L’indomani sarei stata un po’più vicina a quella libertà che Frankieaveva tanto sognato.

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2.

Mezz’ora prima che suonasse lacampanella mi misi lo zaino in spalla epartii per la mia camminata mattutina. LaBlackwell High School distava pochichilometri da casa mia, quindi, a menoche non piovesse, andarci a piedi nonera poi tanto male. Anche se i momentidi tranquillità fra Gina e la scuola eranoproprio quelli che mi godevo di più, nonmi sarebbero mancati. Non mi sarebbemancato niente di Blackwell tranneFrankie, i suoi bambini con il moccio al

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naso e forse gli occhi verdi di Weston.Il campus della Oklahoma State

University si trovava a circa un’ora distrada, a Stillwater. Era abbastanzapiccolo, perciò non era necessario averela macchina, e con i mezzi pubblici sareipotuta andare ovunque nella zona. Peròdovevo trovare il sistema per arrivarci.La lettera di accettazione era pervenutaper posta un paio di settimane prima eavevo festeggiato da sola, saltando digioia in cucina. Gina non lo sapeva. Nonlo avevo detto neanche a Frankie. Perscaramanzia.

Mezzo isolato prima della scuola ilcielo si oscurò e cominciò a cadere unapioggia fredda. Mi misi a correre per

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evitare d’inzupparmi completamente eattirare ancora di più l’attenzione. Icapelli fradici davano già abbastanzanell’occhio.

Una volta entrata, andai dritta nelbagno dell’ala est. Era vicino agli ufficie sapevo che veniva utilizzato dagliinsegnanti. Infatti vi trovai la signoraPyles che si stava asciugando le manisotto il getto d’aria calda.

Mi salutò con un sorriso ma nonappena vide che ero tutta bagnatacambiò espressione. «Oh, Erin!»esclamò e mi porse subito qualchesalvietta di carta. «Non sapevi che oggisarebbe piovuto?»

Scossi la testa. «Me lo sentivo ma

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speravo di arrivare prima cheiniziasse.»

Mi aiutò a togliermi lo zaino, poiprese il mio giubbotto e lo mise sottol’asciugatore. «Ti ho dato il mio numeroun’infinità di volte. Perché non mi haichiamato?»

Scrollai le spalle. «Mi piacecamminare.»

«La prossima volta che le previsionidaranno pioggia prima di scuola, mitroverai parcheggiata davanti a casatua», replicò, accigliata.

«La prego, non lo faccia. Metterebbein imbarazzo Gina. Non ne sarebbecontenta.»

«Non importa.»

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Premetti il pulsante d’argento e michinai sotto il getto d’aria calda. «Mirestano ancora soltanto pochi mesi. Nonne vale la pena.»

La signora Pyles scosse la testa, gliocchi azzurri chiari colmi di tristezza.«Non ho fatto abbastanza per te, vero?»

«Ha fatto molto. Ci vediamo inclasse», risposi lasciandola sola inbagno.

La signora Pyles aveva a cuore i suoistudenti e più volte mi aveva chiesto sea casa andasse tutto bene. Dovevaessere frustrante per lei. Gina aveva uncaratteraccio e quando beveva diventavaaggressiva; qualche volta i servizisociali erano intervenuti, ma non erano

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mai riusciti a trovare una ragioneabbastanza valida per salvarmi. Lasignora Pyles sembrava sempre dimalumore il giorno dopo che unassistente sociale aveva fatto una visitaa sorpresa a casa mia. Ero convinta chefosse lei a denunciare Gina ma nonvolevo chiederglielo. Non m’importava,e in ogni caso nessuno dovrebbe esserecostretto a dare spiegazioni per avertentato di proteggere un altro essereumano.

Alla prima ora avevo lezione dibiologia con la signora Merit, assieme aBrady Beck. Quattro studenti sedevanoai rispettivi posti attorno ai tavolirotondi. Sui piani neri erano incisi

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iniziali, segni più, cuori,l’abbreviazione UA, ultimo anno,seguita dalle date, a partire dal 1973,nonché vari disegni sconci.

Raggiunsi il tavolo centrale e da lìosservai gli altri studenti che arrivavanoalla spicciolata. Brady e il suo amicoBrendan si precipitarono dentro pocoprima che suonasse la campanella e sisistemarono ai loro posti con un ghignoda stronzi sulla faccia. Erano entrambial tavolo d’angolo. All’inizio dell’annoBrady si era scambiato di posto conAndrew per potermi stare di fronte e,muovendo solo le labbra, indirizzarmiinsulti come “puttana” o “zoccola”. Avolte lo diceva a voce alta, ma la

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signora Merit non era fra gli insegnantiche prendevano le mie parti contro ibulli.

Quando il trillo acuto dellacampanella s’interruppe, laprofessoressa rivolse loro un sorrisoseccato e si accinse a iniziare la lezione.

Seduta dirimpetto a me c’era SaraGlenn. Diventava loquace solo perriferire gli ultimi pettegolezzi sul mioconto, come per esempio quando alezione di igiene Brian Grand avevadichiarato che ero ripugnante perchéindossavo ogni giorno gli stessi jeanslerci.

Ne avevo due paia praticamenteidentici, comprati al negozio dell’usato,

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e mi era capitato di sporcarli entrambinel giro di due giorni e di non avere iltempo di portarli alla lavanderiaautomatica. Brian se n’era accorto, e nonavevo nemmeno potuto replicare perchéaveva detto la verità.

«Erin», bisbigliò Sara posando igomiti sul tavolo e allungandosi verso dime. «Ho sentito che ti hanno licenziatodal Dairy Queen perché hai sputato nelgelato di Sonny. Dicono che tu abbial’AIDS e che volessi trasmetterglieloper dispetto.»

«L’AIDS. Questa è nuova», risposiscarabocchiando sul quaderno.

«Allora non è vero?»«No.»

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«Quale parte non lo è?»«Tutto quanto.»Sara parve soddisfatta e tornò a

guardare l’insegnante.«Ragazzi, tra quindici giorni

inizieranno le vacanze di primavera»,stava dicendo la signora Merit. «Siavvicina la verifica di metà trimestre. Lasettimana prossima vi porterò delmateriale per l’esame. Dategliun’occhiata.»

Il materiale a cui alludeva era insostanza l’elenco di domande e rispostedella verifica, anche se formulate inmodo lievemente diverso. Malgrado inteoria quello fosse un corso avanzato dibiologia, per essere promossi bastava

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studiare a memoria, quindi non mi stupìche Sara non sapesse che il virusdell’HIV non si trasmette con la saliva.Il fatto che una percentuale significativadi ragazze della nostra classe fosserimasta incinta ben prima di diplomarsiprovava che la conoscenza dellabiologia di base non era considerataprioritaria. O forse solo che alle festeattorno ai falò nei pressi della DiversionDam non c’erano molti modi dioccupare il tempo, a parte ubriacarsi efare sesso.

La pausa pranzo arrivò e passò. Allaquinta ora avevo igiene, la materia chemi piaceva meno, assieme alle Erin.Alla terza ora avevo fatto calcolo con

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Alder, che però senza le sue socie nonmi rivolgeva la parola. Alla lezioned’igiene c’era anche Brady, ma di solitomi lasciava in pace per tormentareAnnie Black, una studentessa del terzoanno, dolce e straordinariamenteintelligente, colpita da paralisicerebrale. Tutte le volte che passava incorridoio, Brady la scimmiottava. Pochituttavia lo riprendevano, facendoglipresente quanto fosse rivoltante, perchéapparteneva a una delle famiglie piùricche di Blackwell e i suoi erano unpilastro della comunità. Il padre, Brett,aveva donato centinaia di migliaia didollari alla Blackwell e la madre, Lynn,era un’invasata che si metteva a strillare

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con la sua buona amica, lasovrintendente scolastica, tutte le volteche qualcuno osava ricordare al figlio leregole o le buone maniere. Diconseguenza gli insegnanti cercavano diignorare le pagliacciate di Brady che,nonostante fosse stato colto con le maninel sacco a danneggiare la scuola, abere, a marinare le lezioni e a fare ilbullo con decine di studenti, non era maistato punito. Era lui la mela marcia dellanostra cittadina.

Mi sedetti al banco e attesi. Eravenerdì, perciò il professor Morris nonci fece lavorare molto. Di solito cichiedeva di cercare la definizione diqualche parola o ci assegnava delle

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letture. E quando non eravamo moltoimpegnati, le Erin si tenevano occupatecon me. Sarebbe stato facile ignorarle seWeston non fosse stato seduto proprioalle mie spalle. Non so perché, ma insua presenza le loro frecciate misembravano più umilianti.

«Bene, fannulloni. Prendete un libro eleggete. Grazie a Dio è venerdì.»

Non erano passati neanche dieciminuti quando sentii qualcunomormorare il mio nome... o almeno cosìmi sembrò. Pochi secondi dopo lo udiidi nuovo, più forte, e riconobbi la vocedi Sonny. Stava cercando di attirare lamia attenzione. Non osai voltarmi. Ognisperanza di comprendere le parole della

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pagina che avevo davanti svanì. Milimitai a fissarne una augurandomi chel’insegnante non si accorgesse di niente.

In quel momento il professor Morrisalzò la testa e annuì guardando in fondoalla classe. «Sì?»

Sonny abbassò la mano e si mise bendritta sulla sedia, con un’espressionecompiaciuta sul volto. «Mi chiedevoquale fosse la politica dell’istituto aproposito dell’AIDS.»

«A cosa ti riferisci?» domandò lui.«Se uno studente risultasse positivo al

test dell’HIV, cosa farebbe la scuola perproteggere gli altri?»

«Perché lo chiedi?» Il lampo dicuriosità negli occhi del professore

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svanì. Si era chiaramente reso conto cheErin aveva in mente qualcosa.

«Oggi ho sentito dire che unastudentessa è HIV positiva e sono tuttiagitati.»

«Perché?»«Perché è contagiosa, e nessuno ha

voglia di morire per colpa di unazoccola e della sua vita sregolata.»

«Vita sregolata», ripeté il professore,impassibile. «Posso spiegarti indettaglio la politica dell’istituto altermine della settima ora, se vuoi.»

«Sarò impegnata con le cheerleader»,replicò Erin, seccata perché il suo pianonon aveva funzionato. «Sono sicura chetutta la classe si sentirebbe sollevata se

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ne parlassimo adesso.»L’insegnante sospirò. «Ritengo più

probabile che tu stia contribuendo aspargere voci crudeli.»

Ci fu un coro di risatine soffocate.«Così mi offende!» ribatté Erin. «Lei

cos’è, me lo può ripetere? Unkarmologo?»

Il professor Morris ridacchiò. «Unkinesiologo.»

«È quello che ho detto. Tuttipenserebbero che un insegnante di igienepossa comprendere le miepreoccupazioni.»

«Il buon senso mi suggerisce ilcontrario», rispose Morris senza esitare.«Leggi il libro e basta chiacchiere.»

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Il suo perspicace commento mirisparmiò ulteriori derisioni, ma lariunione dopo la scuola sarebbe statamolto meno piacevole.

«Cosa leggi?» chiese una voceprofonda.

Udii a malapena la domanda diWeston ma sollevai il libro quel tanto dapermettergli di vederlo.

Lui annuì aspettando che parlassi. Dalmomento che rimasi in silenzio, mirivolse un sorriso e fece per appoggiarsiallo schienale.

«E tu?» domandai.Weston si protese all’istante

sollevando il suo libro.«Piers Anthony?»

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Lui si schiarì la voce per soffocareuna risata e sorrise di nuovo. «Mi piacequello che scrive.»

«Approvo», dissi annuendo.«Bene», mormorò. «La cosa mi

rinfranca.» Qualche istante dopo siavvicinò di nuovo per bisbigliarmiall’orecchio: «Perché a lezione d’artenon mi parli mai?».

Alla settima ora seguivamo arteinsieme. Aspettavo con ansia quelmomento per tutto il giorno, perché c’eraWeston ma soprattutto perché nonc’erano elementi come le Erin e Brady.Ci impegnavamo tutti seriamente ed eral’unica occasione in cui potevo essereme stessa.

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«Perché ho da fare, semplice.»«Oggi avrai da fare?»«Probabilmente.»«Be’, forse sarò fortunato e ti

prenderai una pausa.»Mi voltai per nascondere il sorriso,

ma prima mi diedi una rapida occhiataalle spalle e colsi il familiare sguardod’odio di Alder. “Puttana”, mi dissemuovendo solo le labbra.

Alla fine dell’ultima ora misi i librinell’armadietto e m’incamminailentamente verso l’edificio est. L’euforiadei cinquanta minuti trascorsi conWeston alla lezione d’arte svanì passodopo passo. Temevo l’accoglienza che

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avrei ricevuto non appena varcata lasoglia.

Brady e Brendan erano seduti suibanchi, alcuni studenti mandavanomessaggi o si connettevano ai socialnetwork con il cellulare; le Erinavevano già preso posto in puntistrategici dell’aula, in modo da avere difronte tutti gli altri. La signora Hunter,l’insegnante di inglese nonchél’assistente degli studenti dell’ultimoanno, non era ancora arrivata. Merda.

«Che ci fai qui?» esordì Alder. Nonrisposi, ma per le Erin il mio silenzionon era mai un deterrente. «Nessuno èinteressato al tuo parere.»

Mi sedetti in fondo, vicino alla porta,

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sperando che la signora Hunter nontardasse.

Sonny le diede manforte. «Puoi ancheandartene. Non ce ne frega un cazzo diquello che hai da dire.»

«È una riunione obbligatoria», milimitai a farle notare. «Perciò non me nevado.»

«Lo farai se ti costringerò io», ribattélei alzandosi.

«Siediti», dissi.L’irritazione di Sonny si tramutò in

indignazione e poi in rabbia. «Cos’haidetto?»

La fissai dritto negli occhi. «Io resto.Siediti.»

Weston spostava lo sguardo da me

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alle Erin. Quando Sonny mi si avvicinò,si alzò. A giudicare dalla sua faccia erastupito lui stesso della propria reazione.

Sonny lo squadrò, palesementedisgustata. «Che cosa fai, Wes?»

Weston piegò per un istante la testa dilato, fece un respiro e batté le palpebre,a disagio per essersi intromesso. «È unariunione obbligatoria. Non ha sensotormentarla. Probabilmente preferirebbenon essere qui.»

«Weston!» esclamò Alder, stupita.Lui si spruzzò in gola un po’ di

medicinale con l’inalatore fissando lasua ragazza negli occhi. «Lasciala inpace.»

Le due Erin restarono a bocca aperta.

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In quel momento la signora Hunter entròdi corsa e si rivolse all’uditorio. «Checosa mi sono persa?»

Weston si sedette e Sonny fece lostesso.

«Niente», brontolò lei.«Bene, allora iniziamo», annunciò la

professoressa con il fiato corto. «Chivuol presiedere l’assemblea dell’ultimoanno?»

Il sollievo che mi pervase accentuòulteriormente la mia emotività. Tuttaviariuscii a trattenere le lacrime,determinata a non piangere davanti aloro. Per quel giorno sarebbero rimastidelusi.

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3.

«Che stronze!» esclamò Frankieosservando il gelato uscire dallamacchina. «Non posso credere cheSonny ti abbia preso di mira in quelmodo. Cosa credeva di fare? Niente,ovviamente!»

«Parli con me?» chiesi, divertita.«Vorrei tanto parlare con quelle

decerebrate, tesoro!»Scoppiai a ridere e scossi la testa

lasciando che le pale del mixerfacessero il loro dovere con l’M&M

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Blizzard che stavo preparando. QuandoFrankie mi aveva insegnato il mestiere,mi aveva spiegato che era un po’ comefare una sega a un uomo. Il paragone nonmi era perfettamente chiaro, ma ungiorno avrei reso qualcuno molto felice.

Frankie aveva dieci clienti in attesaquando l’avevo raggiunta dopo lariunione, e da quel momento non cifermammo un istante. Le sere delvenerdì erano sempre frenetiche, ma lacosa non le impedì di lanciarsi in unatirata sul mio scontro con Sonny.

Si mise la mano sul fianco e appoggiòtutto il peso su una gamba. «Sono cosìfiera di te. Davvero, penso che per laprima volta tu ti sia fatta valere. Non è

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così?»«Non lo so. A essere sincera le ho

semplicemente detto che sarei rimasta.»«E di posare quel suo culo da stronza

sulla sedia.» Arricciò il naso. «È questoil pezzo forte.»

Al tramonto il ritmo rallentò un po’.Non appena l’ultima auto uscì dalparcheggio iniziai a pulire il disastroche avevamo combinato, perché prima,fra un’ondata di clienti e l’altra, noneravamo riuscite a riordinare né aprestare attenzione a ciò che facevamo.

Un furgone arrivò veloce e capiisubito di chi fosse. Weston Gates eral’unico in città ad avere uno Chevyrosso ciliegia con le sospensioni rialzate

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e i cerchioni da rockstar. Saltò giù e siavvicinò alla mia finestra. Era sudato,ancora con le scarpette da baseball aipiedi, ed era solo.

«Ciao.»«Ciao», dissi lanciando un’occhiata a

Frankie. «Cosa ti do?»Weston mi fissò per un istante.«Stai bene?» chiesi.Lui batté le palpebre. «Sì. Sì»,

rispose scrollando le spalle. «E tu?»Le scrollai a mia volta. «Tutto a

posto. Ti preparo qualcosa?»«Solo un... quello che vuoi.»Gli preparai un Hawaiian Blizzard e

lui pagò, sempre con uno sguardoansioso negli occhi. «Mi dispiace per

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oggi.»Scossi la testa come per invitarlo a

lasciar perdere.«Avrei dovuto dire qualcosa prima.»«Sì, dieci anni fa», ironizzò Frankie.Weston annuì e tornò al furgone ma

con passo esitante, come se fosse tentatodi aggiungere qualcosa.

Frankie sospirò. «Non avrei dovutoaggredirlo. Sembra un bravo ragazzo.»

«Lo è», convenni, senza smettere diguardarlo mentre saliva e chiudeva laportiera.

«È stata una cosa... strana.»«Sì. Mi chiedo perché lo abbia fatto.»

Osservai il furgone immettersi sullastrada principale e sorrisi.

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«Penso che tu gli piaccia.»Il sorriso svanì all’istante. «Cosa te

lo fa credere dopo quel discorsoassurdo?»

Lei alzò le spalle. «Sono stata anch’ioalle superiori.»

Finimmo il turno e chiudemmo ilnegozio. Frankie mi offrì un passaggio eio rifiutai, avviandomi verso casa. Disolito camminavo rasente i giardinidelle abitazioni per evitare di essereinvestita. Era la strada principale e ilvenerdì sera tutti si ritrovavano ai campida baseball, situati dalla parte oppostarispetto al Dairy Queen. Il mio rientroconsisteva nel mettere un piede dietrol’altro facendo il possibile per non

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morire.A un isolato dalla meta sentii un

motore familiare andare su di giridall’altra parte della via. Alzai losguardo e vidi lo Chevy rosso diWeston. Aveva il finestrino abbassato eavanzava lento accanto a me. Ancorauna volta era solo.

«Ciao», disse appoggiando il gomitosulla portiera.

Non risposi.«Cosa fai?» mi domandò con un

sorriso.«Cosa ti sembra che faccia?» replicai

sforzandomi di non sorridere comequando se n’era andato dal DQ.

«Mi sembra che tu stia andando a

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casa. Hai programmi per stasera?»Lo guardai socchiudendo gli occhi.

Sapeva che non ne avevo.«Ti va di uscire?»«I tuoi amici non sono ai campi da

baseball?» Conoscevo già la risposta.Ci andavano ogni venerdì e sabato sera,a meno che non ci fosse una festa.Quello che in realtà volevo sapere eraperché fosse lì con me invece di esserecon loro.

«Ho detto che ero stanco e chetornavo a casa.»

«E invece non lo sei?»«Be’... più che altro sono annoiato.

Poi però ti ho visto...»Abbassai lo sguardo. «Non sono

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vestita in modo adatto per uscire.»«Stai parlando con uno che va pazzo

per il gelato. Credi che mi dia fastidiose ne sei coperta?»

Scoppiai a ridere.«Dai!» fece Weston con un sorriso

reso perfetto dall’apparecchio che si eratolto solo l’estate prima. «Se vuoi,posso anche mettermi a supplicare.»

«Non ce n’è bisogno», mormorai.«Cosa?»«Va bene! Solo... lascia che mi

cambi», dissi ridacchiando.«Affare fatto!»«Parcheggia pure qui. Torno fra un

secondo.» Eravamo a mezzo isolato dacasa mia, ma non volevo che le marmitte

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rumorose del suo Chevy attirasserol’attenzione di Gina.

Imponendomi di non correre, arrivai adestinazione, salii i due gradini delportico e aprii la porta. Per abitudinetesi le orecchie sperando di sentire iSoul Asylum ma non fui così fortunata.Entrai e vidi Gina seduta sul divano divelluto dorato pieno di macchie delsoggiorno. Per terra, accanto ai suoipiedi, c’era una confezione aperta diKeystone Light. Non alzò nemmeno losguardo.

Andai dritta in camera, gettai lo zainoper terra e mi tolsi il grembiule. Gliabiti che indossavo sul lavoropuzzavano inevitabilmente di unto,

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perciò me li levai. Infilai una magliettanera, un paio di shorts di cotone grigi, leinfradito e afferrai la borsa. Essendo ilgiorno prima del bucato, il mio secondopaio di jeans era per terra, macchiato disciroppo al cioccolato, perciò,nonostante facesse un po’ freddo, glishorts erano l’unica cosa pulita cheavessi.

Chiusi piano la porta e cercai di nonfarmi vedere da Gina. Lei tuttavia minotò e si alzò.

«Dove diavolo stai andando?» chiese.«A fare un giro. Torno fra un po’.»Lei sprofondò di nuovo tra i cuscini

del divano. «Prendimi le sigarette.»Annuii e mi precipitai verso la porta.

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Avrebbe perso i sensi prima del miorientro e non si sarebbe ricordata dellarichiesta. Purtroppo l’avevo capito solodopo avere sprecato più di cento dollariper comprarle da fumare.

Mi fermai in giardino, aspettandomiquasi di non trovare più lo Chevy diWeston, invece eccolo là, nel puntoesatto in cui gli avevo detto diparcheggiarlo. Lui si illuminò e mi fececenno con la mano. Mentre miavvicinavo al furgone, si chinò e tirò lamaniglia per aprire la portiera.

«Arrampicati!» mi incitò con unsorriso dolce.

Non stava scherzando. Dovettiaggrapparmi alla portiera e salire sul

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predellino per raggiungere il sedile.Rimbalzai sulla pelle nera e chiusi laportiera. «Uau», esclamai.

«Non farti impressionare troppo. Eradi mio padre.»

«Meglio di niente», scherzai.«Dove vuoi andare?»«Qualsiasi posto va bene», risposi

sorridendo.Weston bevve un sorso della sua

Cherry Icee maxi con la cannuccia,dopodiché partimmo, percorrendo lestrade di Blackwell piene di buche e dirattoppi con la Chance Anderson Band atutto volume. Nel giro di cinque minutiavevamo superato i confini della città.Weston rallentò in cima a un cavalcavia

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sulla I-35 e guardammo i fari dellemacchine e dei camion scorrere sotto dinoi, in direzione nord e sud.

Aprii la portiera e mi avvicinai albordo. In campagna i cavalcavia nonavevano il parapetto: il calcestruzzo tiarrivava alla vita, e oltre a quello c’erasolo il buon senso. Un vento freddo miaccarezzò il viso. Mi girai, non del tuttostupita di vedere dei fulmini crepitarefra le nubi che si stavano ammassando anord.

«Adoro il modo in cui i temporalirisucchiano l’aria», dissi.

Weston finì la sua Icee e la cannucciaprodusse un forte risucchio a contattocon la plastica del bicchiere. «Io adoro

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semplicemente i temporali.»«Allora... hai intenzione di dirmelo?»

chiesi.Lui non riusciva a distogliere lo

sguardo dal temporale. «Dirti cosa?»«Perché mi hai portato qui?»Alzò le spalle. Stava mordicchiando

la cannuccia, un gesto che trovaistranamente affascinante. «Perché no?»

«C’è un’infinità di perché no. Io peròti stavo chiedendo l’unico perché sì.»

«Perché te l’ho chiesto?»Scoppiai a ridere e abbassai lo

sguardo. «Okay, se è così che vuoigiocartela.»

«Non voglio giocarmi un bel niente.Voglio solo stare seduto qui con te a

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guardare il temporale che arriva, senzatutte quelle chiacchiere su chi fa cosa esu dove tizio o caio andranno al college.Che te ne pare?»

Annuii. «Mi sta bene.»Weston mi raggiunse, abbassò la

sponda posteriore dello Chevy e saltò suallungandomi una mano. «Allora?Forza.»

Lasciai che mi aiutasse a salire sulpianale e mi sedetti accanto a lui con legambe penzoloni.

Indicò con un cenno alle nostre spalle.«Ho da bere in quel frigo portatile.»

Scossi la testa. «Io non bevo.»«No, intendo Fanta Orange e roba del

genere. Credo di avere un paio di

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Cherry Coke e una Mountain Dew.»«E come faccio a scegliere? Sono le

mie bibite preferite.»Lui sorrise e allungò un braccio dietro

di sé. «Anche le mie. Te ne prendo una.»Pescò nel ghiaccio ormai sciolto edestrasse una lattina verde. «Il vincitoreè... la Mountain Dew. Devi esserefortunata.»

Aprii la lattina. «Finora no. Grazie.»«Forse le cose cambieranno per

entrambi.»«Non ti senti fortunato?» domandai.Weston rifletté per un istante. «Tu sei

l’ultima persona a cui dovrei parlare deimiei problemi.»

«Ah, grazie!»

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«Volevo solo dire che mi riterrestiuno stupido, perché neanche siavvicinano all’inferno che vivi tu.»

Alzai le spalle. «Non va tanto male.»«Se dovessi sopportarlo tutti i giorni,

non ce la farei. Sei maledettamente tosta,Erin Easter.»

Appoggiò il braccio sul ginocchio e ilmento sul pugno, fissandomi. I jeans nongli coprivano del tutto gli stivali dacowboy e la felpa con cappuccio eralogora. D’un tratto non mi sembrò piùcosì irraggiungibile.

Un fulmine a nord si riflesse nei suoiocchi e restammo tutti e due senza fiato.

«Quello sì che era tosto», esclamò.«Peccato che fosse così lontano.»

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«Peccato. Per fortuna. È lo stesso.»«Cosa significa?» chiese sorridendo.«La signora Pyles mi ha raccontato

un’antica parabola cinese che riguardaun vecchio contadino taoista. Ci pensospesso.»

«Sentiamola.»«Non me la ricordo alla lettera.»«Dimmela con parole tue.»Feci un respiro. «Un giorno l’unico

cavallo che il contadino possedevamorì. Senza quella bestia, l’uomo nonsapeva come arare i campi. Tutti gliabitanti del villaggio andarono amanifestargli la loro solidarietà per lasfortuna che l’aveva colpito.“Vedremo”, rispose il contadino. Una

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settimana dopo suo figlio si imbatté inuna mandria di cavalli selvaggi e riuscìa portarne a casa due. La gente si stupìdi tanta fortuna. “Vedremo”, disse dinuovo il contadino. Il figlio, mentrecercava di domare uno dei cavalli,cadde e si fratturò entrambe le gambe. Ilmedico del villaggio dichiarò che nonavrebbe mai più camminato. Gli abitantidel villaggio andarono a far visita alcontadino per consolarlo, dal momentoche quello era l’unico figlio che aveva.“Vedremo”, ripeté questi. Poco dopo unaguerra devastò la zona. Tutti i ragazzi insalute del villaggio furono chiamati allearmi. Il figlio del contadino fu l’unico arestare a casa. Nessun ragazzo tra quelli

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che partirono fece mai ritorno.»«Uau.»«Già. L’ho sentita in prima liceo e mi

è sempre rimasta dentro.»«Mi piace. È... appropriata.»Inarcai un sopracciglio.Weston sogghignò e io anche. Un

tuono echeggiò tutt’intorno a noi e ilvento s’intensificò.

Lui alzò il mento. «Sento odore dipioggia.» In quell’istante il suo cellularetrillò. Diede un’occhiata e lo ricacciònella tasca della felpa.

Bevvi un sorso di Mountain Dew.«Erin?» m’informai.

«Sì.»«Non mi sei mai sembrato...»

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«Il suo tipo?»«Già», dissi ridacchiando e scuotendo

la testa. «Per niente.»«Suppongo di no. Ma ai miei piace

l’idea.»«Oh.»«Sì. Loro esprimono un sacco di

preferenze.» Si stese con un bracciosotto la testa per guardare il cielo.

Lo imitai notando che l’unica chiazzadi sereno era proprio sopra di noi.«Devi rientrare fra poco?»

«No. E tu?»«No.»Weston fece un respiro profondo, poi

restammo distesi là per moltissimotempo. Nessuno dei due sentì il bisogno

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di riempire il silenzio mentreosservavamo le nubi tempestoseavanzare lentamente e oscurare le stelle.

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4.

Entrando in aula per la terza ora, mibloccai. Vidi un volto familiare, con mitiocchi azzurri che mi fissavano e labbraperfettamente truccate. «Ciao, vienipure.»

Julianne Alderman era in piedi dietrola scrivania del signor Barrows, intentaa riordinare nervosamente alcune carte.«Oh, cielo. Non sono molto brava inqueste cose.»

Mi limitai a osservarla mentre glialtri studenti andavano a sedersi ai

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banchi. Non la notarono quasi, troppoimpegnati a parlare e ridererumorosamente.

«Che diamine... cosa fai qui?»domandò Alder, immobile sulla sogliacon un’espressione sbalordita.

Julianne sorrise. «Ovviamenteavevano un disperato bisogno di unasupplente.»

Alder alzò gli occhi al cielo,raggiunse veloce il suo posto e sisedette. «È così maledettamenteimbarazzante. Madre santa. Gesù.»

«Erin», la riprese Julianne, malgradonel suo sguardo non ci fosse neanche unbriciolo di rabbia. Al suo posto, Ginami sarebbe saltata addosso.

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I lucidi capelli castani ondeggiavanomentre Julianne camminava per la classedistribuendo i fogli. Da bambinaimmaginavo come dovesse esserecrescere con una madre come lei. AHalloween Alder arrivava a scuola conuno splendido costume da principessafatto in casa, con tanto di cappello rosaa punta e di nastro che pendeva dallasommità. Sam e Julianne andavano atutte le partite a cui faceva dacheerleader per sostenerla, con unaspilla sulla giacca che la ritraeva, e peril sedicesimo compleanno le avevanocomprato una lucente Honda Accordnuova che lei detestava. Non si rendevaconto di quanto fosse fortunata a poter

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dare per scontate tutte quelle cose e nonle veniva in mente che tanti altri nonfossero oggetto dello stesso amore edelle stesse attenzioni, perciò non glienevolevo... anche se mi sarebbe piaciuto.

Julianne si sedette sulla sedia delsignor Barrows e sorrise. Avevamo uncolorito simile, lo stesso volto a formadi cuore, capelli scuri e occhi azzurri,quindi speravo che, arrivata alla sua età,sarei stata altrettanto bella e giovanile.

«Cos’è?» si lagnò Alder.«Il vostro compito», rispose Julianne.

«Il signor Barrows ha detto che sapevategià tutto, pertanto datevi da fare, ragazzi.Dovete terminarlo entro la fine dellalezione. Non potete portarlo a casa.»

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Brontolarono tutti tranne lasottoscritta e Julianne batté le palpebre,scontenta di essere impopolare.

«Dio, è così imbarazzante», esclamòAlder, fremente di rabbia.

Julianne sfoderò un sorriso dolce maoffeso. «Mi dispiace, tesoro. Avevanobisogno del mio aiuto.»

Alla quinta ora Alder era sul punto diesplodere. I ragazzi la tormentavanodicendole quanto fosse figa sua madre,le ragazze chiedendole perché facesseda supplente. Prima della nascita diAlder Julianne lavorava come assistentenell’ambulatorio del dottor Shuart, madopo aver lasciato la figlia al nido unsolo giorno aveva deciso di fare la

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mamma a tempo pieno. O almeno così sidiceva. Sam era il chirurgo di Blackwelle vivevano in una casa con sei stanze daletto nella stessa strada dei Weston,dietro l’angolo.

«Cos’è quest’odore?» chiese a vocealta Sonny dal fondo della classe.

Era il tormentone del giorno. Avevanoattaccato alla prima ora, quando Bradysentendo una puzza acre di sostanzechimiche proveniente dalle nuove scortedella signora Merit aveva sostenuto chearrivasse dalle mie parti intime. Da quelmomento ogni volta che mi incrociava incorridoio faceva una gran scena, e glialtri gli andavano dietro.

Il pensiero di ritrovarli tutti all’ora di

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igiene avrebbe potuto distruggermi,invece per qualche motivo le loroprovocazioni non mi snervavano comeal solito.

«Bleah!» esclamò Brady. «Di nuovo?Che diavolo è? È tutto il giorno che losento.»

«Forse sei tu», replicò Westongirandosi.

Continuai a guardare davanti.Il professor Morris si voltò dando le

spalle alla lavagna. «C’è qualcheproblema?»

Tutti fecero di no con la testa.Dal fondo si udì un conato soffocato e

poi un altro ancora. L’insegnante si voltòdi nuovo.

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«Mi scusi, professore, ma non la sentequesta puzza?» domandò Sonny.

«No», rispose Morris guardandosiattorno perplesso. «Puzza di cosa?»Annusò e scoppiarono tutti a ridere. Ilprofessore tuttavia non era affattodivertito. «O prestate attenzione allalezione o uscite», urlò indicando laporta.

La classe ammutolì.«Sì, coglioni», mormorò Weston.Morris si girò di scatto e lo fissò.

«Che cos’hai detto, Gates?»Weston deglutì. «Ho detto: “Sì,

coglioni”.»Il professore spostò il peso sull’altra

gamba, preparandosi a dirgliene quattro.

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«E chi sarebbero i coglioni a cui tiriferisci?»

«Si tratta di Brady, signore, e dichiunque senta odori inesistenti.»

Morris esitò e tornò a voltarsi.«Fottiti, rotto in culo», disse

sottovoce Brady.«Succhiami il cazzo, Beck!» ribatté

Weston alzandosi.«Bene, ora basta!» tuonò Morris.La signora Pyles entrò con gli occhi

sgranati. «Va tutto bene qui?»Morris guardò in cagnesco Brady e

Weston. «Uscite dalla mia classe, tutti edue, subito.»

Weston afferrò lo zaino e se ne andò,infuriato.

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Brady sollevò le mani. «Io nonc’entro. Perché mi butta fuori?»

«Esci, Brady!»«Ma non ho fatto niente! È una

sciocchezza! Lo chieda a chiunque!»Morris guardò la Pyles. «Signora

Pyles, vuole per favore accompagnare ilsignor Beck fuori dalla mia classe primache perda le staffe?»

Lei lo fissò per un istante e poi siavvicinò a Brady. «D’accordo. Brady.Andiamo.»

«Non mi tocchi, cazzo!» protestò lui,la voce quasi ridotta a un gemito.

«Brady Beck, alzati da quella sedia oquant’è vero Iddio darò una mano alprofessor Morris a trascinarti fuori di

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peso! Alzati! Adesso!»Brady si appoggiò allo schienale, e a

quel punto la signora Pyles si chinò su dilui. Non l’avevo mai vista tantoinfuriata. Dopo un attimo di sconcerto,Brady raccolse in fretta le sue cose e siprecipitò fuori.

«Avrete notizie dai miei genitori.»«Diamine, non vedo l’ora», replicò

impassibile il professor Morris. «Oratorniamo ai muscoli facciali.»

Sprofondai sulla sedia, sentendomidieci paia d’occhi sulla nuca.

Durante la settima ora continuai aguardare sospirando il banco vuoto diWeston. Non avevo bisogno che misalvasse e quel comportamento gli stava

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causando problemi. Non capivo perchéd’un tratto avesse deciso ditrasformarmi nella sua causa, ma erapericoloso per entrambi.

Alla fine della giornata, avviandomiall’uscita della scuola, notai Brady,Brendan, Andrew e le Erin sull’angoloche di solito attraversavo, accanto alleloro auto parcheggiate in fila, una dietrol’altra. Mai una volta da quandoavevano preso la patente si eranoritrovati lì, e sapevo che le Erin eranogià in ritardo per l’allenamento con lecheerleader. Mi stavano aspettando.

Mi rifiutai di cambiare strada perrecarmi al Dairy Queen e avvicinandomisollevai il mento, guardando dritto

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davanti a me.«Ehi», fece Sonny. «Dobbiamo

parlare.»«Non ho niente da dirvi», replicai

stringendo gli spallacci neri di nylondello zaino con tanta forza da farmi malealle dita.

Alder sfoderò un sorrisetto furbo.«Forse tu no, ma noi abbiamo moltecose da dirti.»

Brady mi afferrò per un braccio e micostrinse a voltarmi. «Non fare lastronza. Lasciala parlare.»

Mi liberai con uno strattone e, nelmomento stesso in cui le Erin siavvicinarono, un enorme furgone rossoci affiancò salendo con la ruota destra

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sul marciapiede.La portiera del guidatore sbatté,

Weston girò di corsa attorno al cofano esi mise tra la mano di Brady e il miobraccio. «Cosa fai, amico?» chiese.

Brady assunse un’aria seria. «Cosafaccio? Cos’hai che non va? Perché mirompi le palle per questa zoccola?»

«Lasciala in pace, amico», lo ammonìWeston cercando di mantenere un tonopacato.

«Weston», disse Alder allungandosiper toccargli le dita. Sembrava unosplendido serpente velenoso mentre glisi avvinghiava al fianco e si alzava inpunta di piedi per baciarlo sull’angolodella bocca.

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Dovetti reprimere un’ondataimprovvisa di nausea.

Weston si scostò. «Va’, Easter», dissecon calma da sopra una spalla.

Feci dietrofront e proseguii senzavoltarmi indietro. Per i cinque isolatiseguenti cercai di scacciare dalla mentel’immagine rivoltante delle labbratossiche di Erin su Weston. Era risaputoche nessuno dei due aveva avuto altrestorie prima, ma cercavo di nonpensarci: negli ultimi cinque anni eroriuscita a cogliere in anticipo tutti isegnali delle loro effusioni in pubblico.

Entrai nel Dairy Queen dal retro e miallacciai il grembiule mentreraggiungevo la parte anteriore del

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locale.«Ehi, piccola! Com’è andata la

giornata?» domandò Frankie chiudendola finestra dopo che l’ultimo cliente sen’era andato.

«Weston mi ha difeso e si è fattobuttare fuori dalla classe. Le Erin ealcuni ragazzi mi hanno aspettato fuoridalla scuola.»

«Caspita! Aspetta... cosa?»«Hai sentito», dissi incrociando le

braccia e appoggiandomi con il sedereal banco.

Un minivan entrò nel parcheggio esubito dopo ne uscirono diversibambini. La mamma si avvicinò alla miafinestra con un’aria già esausta. Presi

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tutti i loro ordini, tre dei qualicambiarono durante la lavorazione, e liservii. Dopo, si formarono due file a cuicontinuarono ad aggiungersi personefino al calare della sera, perciò io eFrankie non avemmo molto tempo perparlare. Quando terminarono gliallenamenti di baseball, il furgone diWeston imboccò la strada principalesenza fare sosta al DQ. Nessun giocatoresi fermò.

Pulimmo, chiudemmo il negozio euscimmo.

«Un passaggio?» chiese Frankie ma sibloccò su due piedi.

Esattamente di fronte alla portaposteriore il grosso Chevy rosso di

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Weston torreggiava su di noi. Lui sorrisedietro il volante. «Hai voglia di fare ungiro?»

Frankie mi fissò, supplicandomi conlo sguardo di accettare.

Annuii e Weston scomparve: si erachinato per aprirmi la portiera. Mentregiravo attorno al furgone, non potei farea meno di notare il sorriso svenevole diFrankie. Salii e chiusi lo sportello.

«Scusami per prima», dissi. «Ti hopiantato in asso e ho lasciato che liaffrontassi da solo.»

«Smettila. Non devi scusarti con me.»Rimasi in silenzio, e lui inserì la

marcia e partì. Percorse la strada versocasa mia, ma una volta arrivati proseguì

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uscendo dalla città. Sapevo doveeravamo diretti ed ero contenta. Era piùpiacevole che tornare a casa, andare ascuola o persino al Dairy Queen. Eral’unico posto in cui potevo rilassarmi estare in pace.

Il motore dello Chevy tacquelasciando che il silenzio della notte ciavvolgesse. Weston aprì la portiera,andò alla sponda posteriore e l’abbassò.Stavolta mi aspettò a salire e mi porse lamano.

Fissai le sue dita. Erano lunghe, conle unghie rosicchiate fino alla carne.«Non sono... un’incapace.»

«Oh, lo so. Pensavo solo chemeritassi un trattamento speciale.»

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Guardai la sua mano tesa.Weston scrollò le spalle. «Permettimi

di essere gentile con te.»Lasciai che mi aiutasse a salire, poi

lo osservai mentre saltava su e si sedevaaccanto a me.

«Oh», fece allungandosi per aprire ilfrigorifero portatile. Mi passò una FantaOrange e pescò una Cherry Coke per sé.

«Grazie.» Bevvi un sorso.«Cos’hanno detto i tuoi di quello che èsuccesso oggi?»

«Non lo sanno.»«Che vuoi dire? La scuola non li ha

chiamati?«Non ha chiamato i genitori di Brady,

quindi non ha chiamato neanche i miei.»

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Sospirai. «Be’, sono contenta. Alloraimmagino che non ti abbiano neanchepunito.»

«No.»Annuii. «Chissà perché te l’ho

chiesto.»Lui fece una risata senza allegria.

«Quando sono arrivato a casa, dopo gliallenamenti, ho trovato mio padre conuna lettera dell’università in mano.Aveva un sorriso che gli andava da unorecchio all’altro. Mi è venuta voglia divomitare.»

«Perché?»«Perché era della sua alma mater, la

Duke University. Non mi fraintendere, èuna buona università. Mia sorella adora

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stare là.»«Allora qual è il problema?»«Nell’altra mano aveva la lettera

dell’Art Institute di Dallas.» Aspettaiche bevesse un sorso di Cherry Coke.«Non sapeva che avessi fatto domanda,e ogni giorno cercavo di arrivare a casaprima di lui per controllare la posta, inmodo che non lo scoprisse.»

«Oggi però non ci sei riuscito perchései rimasto con me su quell’angolo.»

«No», disse scuotendo la testa. «Nonè colpa tua. Comunque non ne haneanche fatto parola. Non glieneimportava niente. Era troppo su di giriper la borsa di studio di football, eanche se non l’avessi ottenuta aveva

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comunque già deciso. Non contavaneppure che avessi presentato unadomanda a sua insaputa.»

«Cosa farai?»Weston prese un foglio appallottolato

dalla tasca del giubbotto della scuola.«L’ho ripescata dal cestino dei rifiuti.»

«Ci andrai?» chiesi con gli occhi chebrillavano.

Lui fissò la lettera. «Mi sono fatto ilculo per preparare la domanda.»

«Non mi hai risposto.»Mi guardò. «Tu che dici? I miei non

mi aiuteranno con le tasse né tanto menocon l’appartamento.»

«Allora trova un lavoro. Non sarestiil primo al mondo a farlo.»

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«L’idea non mi fa paura. È solo che...sarebbe un grosso schiaffo per i miei. Èun bel problema.»

«È la tua vita.» Sapevo che eranoparole banali, ma non per questo eranomeno vere. «Cosa diresti se ora avessitrent’anni?»

«Se fossi seduto in un ufficio ascartabellare scartoffie legali,probabilmente mi maledirei.»

Alzai le spalle e guardai il cielo. «Misembra che tu conosca già la risposta.»

«C’è differenza tra volere e dovere,no?»

«Sì. Dovresti fare quello che vuoi.»Weston mi sorrise e io incrociai il suo

sguardo. Mi studiò per un attimo, poi mi

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fissò le labbra. «Profumi di gelato.»Rimasi letteralmente senza parole. «E

allora?»«Mi chiedo solo se tu abbia anche

quel sapore.»Non seppi cosa dire e dopo un istante

scoppiai in una fragorosa risata.Lui sorrise di nuovo. «Cosa c’è di

così divertente?»Non riuscivo a frenare quell’orrenda

risata che saliva dalla gola. Era come seaspettasse da una vita di sgorgarmi dallelabbra. Gli occhi mi si inumidirono eanche Weston iniziò a ridacchiare.

«Cavolo!» esclamò fregandosi lanuca. «Sono contento che sia buio.»

«Perché?» domandai asciugandomi

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gli occhi.«Perché in questo momento devo

essere rosso come un peperone.»Gli diedi una gomitata. «Non sentirti

in imbarazzo. Se due settimane faqualcuno mi avesse avvertito che miavresti detto una cosa del genere, avreipensato che fosse fuori di testa.»

«Due settimane fa avresti voluto che tibaciassi?»

Riuscii solo a lanciargli un’occhiatadi sbieco, poi abbassai lo sguardo suimiei piedi penzoloni. «No.»

«No?»«Per la stessa ragione per cui non

voglio che mi baci ora.»Dal lampo nei suoi occhi mi resi

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conto che aveva capito. «Alder.»«Sì», dissi stringendo le labbra. Lui

annuì, riconoscendo che avevo ragione.«Stasera c’è qualcosa in programma allaDiversion Dam?» domandai, ansiosa dicambiare argomento.

Weston appoggiò la schiena e piegò lebraccia dietro la testa. «Non lo so e nonmi importa.»

Mi avvicinai a lui, e guardando lestelle iniziammo a ricordare il periododelle elementari, l’antipatia per lasignora Turner e tutto ciò che facevaparte del nostro mondo, a eccezione diErin Alderman.

«Ti mancheranno le superiori? Vogliodire, a te immagino di sì. Qui sei come

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un dio.»Lui scoppiò a ridere ma poco dopo

assunse un’espressione affranta. «Il diodell’inferno è il demonio. Non è un grancomplimento.»

«Touché.» Dondolai le gambesentendo il vento fresco primaverilepenetrare attraverso la stoffa sottile deipantaloncini. Faceva abbastanza caldoper gli insetti, che frinivano e ronzavanonell’erba. Ascoltai la loro sinfonia, ilnostro piccolo concerto privato.

Finimmo le bibite, Weston schiacciòle lattine con le sue mani robuste e legettò dietro di noi. Mi aiutò a scendere,mi accompagnò e aprì la portiera. Saliie mi sedetti.

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Lui mi guardò. «Fai qualcosa durantele vacanze di primavera?»

Scossi la testa.«I miei vanno a sciare con il gruppo

della chiesa. Io sarei dovuto andare aSouth Padre con Alder, Brady e buonaparte della squadra di football e dellecheerleader, ma ho deciso dirinunciare.»

Mi accigliai, confusa.Weston aveva un’aria chiaramente

divertita quando si appoggiò allaportiera e mi guardò con il suo dolcesorriso perfetto. «Resterò qui.»

«I tuoi non s’incazzeranno?»«Capiranno. Inoltre ho diciotto anni.

Non c’è molto che possano fare.»

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«Alder non capirà.»«La cosa non mi preoccupa.»Lo scrutai, sospettosa. «Mi lascerai

fuori da questa faccenda, vero?»«Sì, Easter. Non ti darò in pasto ai

leoni.»«Voglio solo ricordarti che tra

qualche mese me ne andrò. Non sonoabbastanza pazza da credere che tufaccia tutto questo per me, ma se anchesolo...»

«E se invece fosse così? Se facessitutto questo per te?»

«Ti chiederei perché. Perché d’untratto ti interessi a me?»

«Chi dice che sia successo d’untratto?»

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Cercai di restare impassibile,concentrandomi sulle parole che stavoper pronunciare. «Weston, sei un ragazzosimpatico. Mentirei se dicessi che nonmi piaci. Ma presto leverò le tende daquesto posto», affermai con convinzione.

Lui chiuse la portiera, si avviòlentamente dall’altra parte e rimaseaccanto alla sua per almeno un minuto.Quando infine salì e mise in moto,dovette alzare la voce per sovrastare ilrombo delle marmitte dello Chevy.«Anch’io.»

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5.

«Posso parlarti un attimo? Ma... non aquesta finestra.» Weston mi stavasupplicando con i suoi grandi occhicolor smeraldo. Era da una settimanache, non appena poteva, mi guardavacosì nei corridoi e in classe, quandoavevamo lezione insieme. Sapevo chevoleva dirmi qualcosa, ma tra noi si eracreata una situazione strana dopo che miaveva riaccompagnato a casa diversesere prima.

Diedi un’occhiata a Frankie. Lei

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increspò le labbra e mi indicò la portaposteriore.

«Sì... sì, puoi ehm... passare dadietro.»

Mi girai e andai nel retro, con tutti imuscoli tesi. Aprii la porta e lui entrò.Restammo soli nella dispensa, sotto leforti luci a fluorescenza che miimbruttivano terribilmente, in mezzo allescatole di sciroppi e glasse, con lostrano odore dello scarico che aleggiavanell’aria. All’inizio Weston rimase insilenzio e il mio sguardo vagò fissandotutto fuorché lui, in attesa che parlasse.

«Sono un coglione», esordì infineaggrottando la fronte.

«Cosa?»

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«Anzi, peggio di un coglione. Sono uncodardo. Avrei dovuto dire qualcosamolto tempo fa. Quando hai tenuto testaalle Erin, io... credo di aver ritrovato lepalle in quel momento. Sono cosìmalvagie, e non volevo essere trattato inquel modo ma... sono ragazze. Ragazzeadolescenti. Mi vergogno di aver avutotanta paura da non riuscire a dire niente,soprattutto a Brady. Che razza dicoglione permette a un coglione delgenere di parlare a una donna come luifa con te? Lo detesto. L’ho detestato peranni ma ho cercato di ignorarlo.»

Scossi la testa. Brady, Brendan e leErin mi avevano detto un paio di cosequella settimana, ma nulla di insolito.

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Non capivo che cosa lo avesse messotanto in agitazione. «È tutto a posto. Nonmi aspetto che tu...»

«Lo so. È tutta la settimana che cipenso. Tutto il mese. Non lascerò che néloro né chiunque altro ti trattino piùcosì.»

Non sapevo che espressione avessi,ma lui s’innervosì all’improvviso.

«Cosa c’è?»«Non so... voglio dire... non mi hai

ancora spiegato perché.»Weston sospirò. «Manca poco più di

un mese al diploma e loro ti torturanodalle elementari. Non posso tornareindietro, ma voglio rimediare.»

«È questa la tua motivazione? D’un

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tratto hai scoperto di avere unacoscienza?»

Weston trasalì. «Cavolo.»Incrociai le braccia. «Frankie ha una

bella fila laggiù, quindi arriviamo aldunque. È come se tu fossi diventatoun’altra persona. Ti sei rivoltato controtutti i tuoi amici e ora frequenti me,anche se non mi avevi quasi più rivoltola parola dai tempi dell’asilo. Penso diavere il diritto di sapere perché.»

«Ho parlato il più possibile con te.»«Il più possibile?»Lui si scostò per tossire. «Non volevo

dire questo.»«Non ho bisogno che mi salvi,

Weston. Me la cavo da sola da tanto.

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Non sono un caso umano.»«Non ho mai detto che lo fossi»,

replicò, accigliato.«Probabilmente staremmo tutti e due

meglio se tu riprendessi la tua vita e milasciassi stare.»

Sussultò, come se le mie parole loavessero ferito. «Stronzate. Non è quelloche provi veramente. No?»

«Non so cosa provo.»«Neanch’io», ammise ansimando.

Prese l’inalatore dalla tasca e si spruzzòun po’ di farmaco. Dopo qualche istantericominciò a parlare, stavolta in tonopiù calmo. «Non so cosa voglio farenella vita. E ho la sensazione... lasensazione che tu sia l’unica persona al

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mondo a non aspettarsi che lo sappia.Ma so per certo che non ero contentodella piega che aveva preso la mia vitafinché quella sera sei salita sul miofurgone. Non ho idea di che diavolo stofacendo, Erin, sto... improvvisando.Speravo che anche tu volessi farlo, conme.»

A dispetto di tutti i pensieri negativiche mi passavano per la testa, sorrisi.

Weston mi attirò lentamente contro ilsuo petto e mi abbracciò. I suoi muscolierano morbidi e nello stesso tempo sodi,la mia testa si annidava perfettamentenell’incavo del suo collo. Restammocosì per quella che mi parve un’eternità.Era sudato ma non aveva un cattivo

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odore. Avrebbe anche potuto puzzarecome quella sostanza misteriosa chefermentava nello scarico del pavimento,e mi sarebbe andato bene lo stesso.

«È meglio che torni di là», dissitenendo la guancia premuta contro il suopetto. Con il mio metro e sessanta, eropiù bassa di lui di oltre una testa eincredibilmente consapevole delle suedita sulla schiena, che mi premevano lecostole. Non eravamo mai stati cosìvicini, anche se tante volte mi eroimmaginata la sensazione che avreiprovato.

Si scostò. «Ci vediamo dopo?»«Devo finire i compiti.»«Portali con te.»

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Mi sistemai i capelli dietrol’orecchio. «Penso che si possa fare, acondizione che mi lasci in pace e mipermetta di terminarli.»

«Non ti accorgerai neanche della miapresenza.»

Se ne andò e, quando la porta sirichiuse alle sue spalle, mi precipitaidall’altra parte e per poco non travolsiFrankie.

Weston raggiunse il furgone, salì e siallontanò velocemente, fermandosi soloun attimo prima di immettersi sullastrada principale.

Frankie mi guardò, in attesa. «Allora,è diventato il tuo principe azzurro?»chiese poi.

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Assunsi un’aria disgustata. «No. Gliho detto che non ho bisogno di esseresalvata. E tu dovresti saperlo.»

Sulle sue labbra comparve un sorrisofurbo. «Ma è piacevole essere difese.»

Mi sforzai di rimanere seria, anche senegli ultimi tempi mi costava fatica.

«Mi piace», disse Frankie. «E piaceanche a te, seppure in modocompletamente diverso.»

«Hai un’immaginazione moltofervida», commentai con una smorfia.

«Sei diversa da quando ha iniziato agirarti attorno.»

«Non so cosa intendi», ribatteialzando gli occhi al cielo e afferrando lostraccio più vicino.

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«Be’, non lo odi.»Strofinai il lavandino senza prestare

attenzione a quello che facevo. «Nonoggi.»

Quando chiudemmo il Dairy Queen euscimmo dalla porta di servizio, ilfurgone rosso non era parcheggiato sulretro né altrove.

«Credevo aveste programmi»,osservò Frankie.

Alzai le spalle.«Vuoi un passaggio?»Scossi la testa e mi incamminai verso

casa. Una volta arrivata, toccai lamaniglia della zanzariera sporca,aspettandomi di sentire il motore dello

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Chevy, ma non udii nulla. Dalle paretifiltrava la musica dei Soul Asylum e nefui lieta. Se dovevo buttar giù il fattoche Weston mi avesse dato buca, per lomeno mi sarei risparmiata di affrontareGina.

Entrai e andai dritta in camera mia,sentendomi più sola del solito. D’untratto bussarono energicamente allaporta e tesi l’orecchio per capire chifosse. Pochi secondi dopo Gina apparvesulla soglia della mia stanza, con ilmascara tutto sbavato e gli occhi lucidi evitrei. Indossava ancora il grembiule delsupermercato, la targhetta con il nomeche pendeva, storta, dalla polo bianca.

«Ti cercano.» Aveva un’aria confusa

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quanto la mia.Annuii, mi alzai e mi diressi nell’atrio

bloccandomi a metà strada. In piedisulla porta c’era Weston. Teneva le maniinfilate nelle tasche del giubbotto dellascuola, di lana bordeaux con una grossaB di ciniglia profilata di biancoapplicata a sinistra, completamentericoperto dalle lettere che si eraconquistato nel corso della carrierasportiva, soprattutto sulle maniche dipelle. Non avevo mai voluto portare ilgiubbotto della scuola ed era stranovedere qualcuno che lo indossava nelmio soggiorno.

Gina era in piedi al mio fianco e loguardava inebetita. Si grattò il braccio,

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poi lo indicò con un cenno. «Chi è?»Lui le tese la mano. «Weston Gates,

signora. Sono un amico di Erin.»Gina esitò ma alla fine gliela strinse.

«Vai da qualche parte?» domandòguardandomi.

Annuii.«Erin mi dà una mano con i compiti»,

disse lui, mentendo con grandedisinvoltura, come se fosse abituato afarlo.

«Oh!» esclamò Gina, soddisfatta.Probabilmente per lei quellaspiegazione aveva un senso, perché nonconcepiva che un tipo come WestonGates potesse volere qualcos’altro dame.

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Mi precipitai in camera a cambiarmie a prendere le mie cose, poi lo feciuscire in fretta. Una volta sul furgone,sospirai. «Vorrei che non l’avessi fatto.Preferivo che non vedessi casa mia.»

«Perché?»«È sporca. Puzza.»«L’unica puzza che ho sentito è quella

d’erba. Tua mamma è fatta», osservòdivertito. Quando si rese conto che ionon lo ero, mi sfiorò l’avambraccio.«Ehi, è una casa, Erin. Non vedo ilproblema. Non m’importa dove vivi.»

«È umiliante», replicai asciugandomiuna lacrima. «Non dovevi vederla.»

Weston mise in moto il furgone con lamascella contratta. «Non volevo farti

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piangere, Erin. Mi dispiace. Pensavoche sarebbe stato più carino venirti aprendere a casa anziché al DQ. Pensavodi presentarmi a tua madre.»

«Non è mia madre», dissi guardandodal finestrino.

«Eh?»«Si chiama Gina.»«Sei stata adottata?»«No ma...» Lo fissai. «Hai mai la

sensazione di appartenere a un altroposto?»

«Continuamente», ammise con un’ariasfinita.

«Non mi sono mai sentita sua figlia,neanche da piccola.»

«Forse per com’è fatta? Non sembra

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molto materna.»«No.»«Allora è logico che tu ti senta così.»Non stavamo andando fuori città come

al solito. Eravamo diretti a sud, in unazona residenziale di medici e avvocati.Quando eravamo alle medie, i genitoridi Weston avevano costruito una villaenorme in quel quartiere. Imboccò ilvialetto di casa sua e superò l’arco cheimmetteva in uno dei garage.

Quando spense il motore, scossi latesta. «Io lì non ci entro.»

«Oh, piantala!» Weston premette ilpulsante che apriva la saracinesca.Balzò giù, sbatté la portiera, girò sveltoattorno al furgone e aprì la mia con un

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ampio sorriso. Non mi mossi e luis’incupì all’istante. «Non fare labambina.»

Scesi lentamente, lo seguii nel garagee poi oltre una porta. La casa era buia,ma c’era un televisore acceso daqualche parte. La luce azzurra divennepiù intensa via via che ci avvicinavamoalla cucina.

«Weston?» disse una donna.«Sono tornato, mamma», rispose lui.

Mi tolse lo zaino dalle spalle e lo posòsul banco.

«Weston, cosa fai?» chiesi fra i denti,sempre più arrabbiata.

Sua madre entrò in cucina. Avevaincredibili occhi verdi messi in risalto

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dalle mèche e dall’ovale del viso. Erachiaro a chi assomigliasse Weston. Sibloccò, sorpresa di vedermi. Sareivoluta scomparire sotto il banco. «Chi èquesta ragazza?» domandò con fintaallegria.

«Erin Easter.» Lui mi guardò. «Questaè mia mamma, Veronica.»

«Piacere di conoscerla», dissi convoce strozzata.

Veronica mi squadrò da capo a piedirestando palesemente indifferente. Mistudiò con occhio critico, come se fossiun parassita che si era intrufolato in casasua e bisognava sterminare.

Weston parve non accorgersene. Aprìla dispensa, afferrò un sacchetto di

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tortillas chips, un vasetto di salsa e duebanane, poi prese due lattine fredde diCherry Coke dal frigo. «Andiamo disotto.»

«Weston...» iniziò a dire Veronica.«’Notte, mamma.» Lui mi spinse

verso una porta in fondo al corridoio.Afferrai lo zaino e camminai

lentamente, non sapendo dove andare.«Per di qua», fece Weston.Aprii la porta e lui mi superò,

schiacciando con il gomito uninterruttore e illuminando una rampa discale che scendeva al piano inferiore.Quando arrivammo in fondo, entrammoin una grande stanza con alcuni divani,un paio di televisori, un impianto per

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console, un angolo bar con lavandino,vari attrezzi da palestra, un tavolo dabiliardo e uno da air hockey.

Quel locale era più grande di casamia.

«Uau», feci a bassa voce, lasciandomiguidare sul divano.

«Questo è il mio spazio. Quaggiù cilasceranno in pace. Svitò il tappo delbarattolo di salsa e aprì il pacchetto ditortillas chips. «Hai fame?»

«Prenderò una banana», risposiindicandola.

Me la lanciò. «Aspetterò.»«Cosa?»«Che tu finisca i compiti. Intanto

cercherò un film da vedere insieme.»

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Lo osservai premere i tasti deltelecomando senza guardarli, accendereil decoder e passare in rassegna i filmon demand. Presi il libro di testo. Unfoglietto sporgeva dalla pagina che miserviva e mi misi all’opera perrispondere alle nove domande che mirestavano. Impiegai solo quindici minuti,durante i quali lui rimase in silenzio,come promesso.

Quando chiusi il libro e lo rimisinello zaino, tornò a dedicarsi a me conentusiasmo. «Preferisci vedere Triplotuono o La casa scura sulla collina?»

«Mi sembrano entrambi interessanti.»«Triplo tuono senz’altro.» Premette

un tasto sul telecomando e lo schermo

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divenne nero per un attimo. Selezionòalcune altre opzioni, dopodiché il filminiziò, aprendosi con l’immagine di unuomo sudato che correva nel deserto persopravvivere.

A metà pellicola, Weston eraappoggiato al cuscino del divano, i piediincrociati, le scarpe numero quarantaseiposate sull’ottomana che fungeva ancheda tavolino. Io invece avevo non pochedifficoltà a rilassarmi.

Lui guardò me, il televisore e poiancora me.

«Cosa c’è?»«Sei così tesa. Vuoi che ti riporti a

casa?»«È solo che... tua madre non deve

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essere molto contenta che io sia qui. Eio...»

Il suo cellulare trillò. Sul displaycomparve il nome di Alder. Westonlesse il messaggio in meno di unsecondo e rispose fulmineo.

«E se tua mamma dicesse ad Alderche sono stata qui?»

«Non lo farà.»«Come fai a esserne certo?»«L’ultima cosa che vuole è che Alder

se la prenda con me. Si immagina già lacaterva di nipotini Gates-Alderman.»

Feci una smorfia disgustata. «Forsedovresti portarmi a casa.»

«Perché? Non ti piace il film?»«Non dovrei essere qui. Hai una

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ragazza e noi...»«Ci comportiamo in modo subdolo?»

terminò lui con un sorriso dolce.«Bene.» Prese il telefono.

«Che cosa fai?» domandai mentredigitava un messaggio.

«Rompo con Alder.»

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6.

Gli strappai di mano il cellulare.«Vuoi forse trasformare la mia vita in uninferno?»

«No. Ma tu mi dici che non vuoi starecon me per via di una ragazza che nonmi piace neanche... È una faccenda chesi sistema facilmente.»

«Perché saresti rimasto con una chenon ti piace per cinque anni?»

Weston scrollò le spalle. «Per farequalcosa, immagino. Non è brutta.»

«No», replicai sospirando. «Per

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niente. In questo momento sembri ungrandissimo coglione.»

«Dobbiamo proprio parlarne?»«No, puoi semplicemente riportarmi a

casa.»Lui si raddrizzò con un gemito e si

girò verso di me. «I miei sono sposati davent’anni e non si piacciono veramente.»Tacque e quando capì che non erosoddisfatta aggiunse: «All’inizio Aldermi piaceva, anche se non ho maiapprovato il modo in cui tratta lepersone e te in particolare. Quando leparlavo di te, sembrava trattarti ancorapeggio. Ma ogni volta che pensavo dimollarla, mi scoraggiavo all’idea dellatragedia che sapevo sarebbe scoppiata».

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«Cinque anni sono tanti», commentai.«Non dirlo a me.»«Quindi aspetterai di partire per il

college?»«Il piano era quello, ma adesso

voglio farlo prima.» Si chinò verso dime e io mi scostai. «Vuoi davvero chefaccia tutto come da manuale, giusto?»osservò sbuffando.

«Non voglio che tu faccia un belniente», risposi restituendogli iltelefono.

«Mi fai perdere il film.»Guardai il televisore. «È in pausa.»«Oh, sì!» esclamò lui con un sorriso

premendo un pulsante. Seguì un’ondatadi violenza, accompagnata da grida,

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spari e rumore di elicotteri in volo.Weston si rimise comodo e io lo imitai.Guardò il telefono che teneva ancora inmano. «Comunque, qual è il tuonumero?»

«Non ho un cellulare.»«Il fisso?»«No.»Si accigliò continuando a fissare lo

schermo. «Ti piace uscire con me?»Non ero sicura di aver sentito bene.

«Sì...»«Non lo dici solo perché non hai

nessun altro con cui uscire, vero?»«Qualcuno ce l’ho.»«Frankie?»«Sì.»

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«E se io non stessi con Alder? Tu...»Continuava a fissare la tivù.

«Io cosa?»«Mi permetteresti di baciarti?»«Non lo so. Forse. Ma non sono

sicura che ti piacerebbe.»A quel punto si voltò verso di me.

«Perché?»«Non ho molta esperienza. Anzi, non

ne ho per niente.» Mi sentii avvampare.Preferivo essere sincera, ma non erasempre facile.

«Non hai mai baciato nessuno.» Eraun’affermazione piuttosto che unadomanda.

«E allora?»Mi fissò le labbra, dopodiché tornò a

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guardare davanti a sé. «Sono disponibilein qualsiasi momento se vuoi farepratica.» Cercava di mantenereun’espressione impassibile ma non ciriusciva molto bene, perché un angolodella sua bocca continuava a incurvarsiverso l’alto.

«Io non voglio fare pratica. Voglio unprimo bacio vero, e non da un ragazzoche tradisce la sua fidanzata.»

Si adombrò. «Ti ho detto che l’avreilasciata. Non hai voluto.»

«Non avremmo mai un attimo di pace.A scuola andrebbero tutti fuori di testa, eanche tua madre.»

«Per questo non vuoi che la lasci? O èperché non vuoi stare con me?»

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Tacqui e l’aria nella stanza divennedensa, soffocante. D’un tratto ebbidifficoltà a respirare. Weston si agitò inattesa che rispondessi.

«Già all’asilo ti trovavo incredibile»,confessai.

Mi lanciò un’occhiata furtiva, poisorrise. «Davvero?»

«Davvero.»«Anch’io», disse in tono dolce e

agitato, lo sguardo fisso sul televisore.Annuii. Guardammo il resto del film

in silenzio.Quando terminò, Weston si rimise il

giubbotto, prese il mio zaino e salimmodi sopra. Recuperate le chiavi delfurgone dal banco della cucina, uscimmo

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nell’aria fredda della sera. Lui si tolse ilgiubbotto e me lo mise sulle spalle, poimi aiutò a salire sullo Chevy, ma primache avesse il tempo di girare attorno alfurgone i suoi lo raggiunsero.

La conversazione parve subito tesa eWeston continuava a lanciarmi occhiatefurtive. A un certo punto mise le manisui fianchi e iniziò a spostarenervosamente il peso da un piedeall’altro. Stava per infuriarsi. Quantoavrei voluto che i finestrini non fosseroelettrici, per poter abbassare il vetro esentire quello che si dicevano!

Alla fine i suoi gli voltarono le spallee rientrarono. Lui tornò al furgone.

«Scusami», disse.

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«Non preoccuparti.»«No, è stato fottutamente maleducato

mettersi a discutere davanti a te.Avrebbero potuto aspettare.»

«Cos’hanno detto?»Weston scosse la testa e uscì in

retromarcia dal vialetto. Quando siimmise sulla strada, gli sfiorai le dita.Lui le intrecciò con le mie.

«Cos’hanno detto, Weston?»Sospirò. «Sono preoccupati per la

mia nuova amica. Ritengono inopportunoche passi del tempo da solo con te pervia di Alder.»

«Hanno ragione.»Mi strinse le dita. «Non posso

rinunciare a te ora. Quando siamo

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insieme, provo un grande senso di pace.Vorrei essere in grado di spiegarmimeglio. È come quando da piccoloindossi un pigiama nuovo dopo il bagnoe ti infili a letto con le lenzuola freschedi bucato. È questo che provo standocon te.»

Inarcai le sopracciglia e feci unsorriso sorpreso e riconoscente. «È lacosa più bella che mi abbiano maidetto.»

«Non dovrebbe essere così. Sei tantobuona, Erin. Tu non meriti di esseretrattata in quel modo e non so neancheperché lo facciano.»

«Neanch’io lo so. Un giorno hannosmesso di parlarmi e poi il silenzio si è

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trasformato in rabbia.»«È così strano, non capisco.»Lo Chevy imboccò il mio vialetto di

ghiaia e Weston si fermò.Mi appoggiai allo schienale e mi

allungai. «Manca un solo giorno allevacanze, e poi restano cinque settimaneprima del diploma. Dopodiché niente ditutto ciò avrà più importanza.»

«Tu vai... al ballo?»Scoppiai in una risata acuta, che

suonò strana alle mie stesse orecchie.«No», risposi.

«Ci verresti con me?»«Ci andrai con Alder.»«Non gliel’ho ancora chiesto. Tutti

presumono semplicemente che ci

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andremo insieme, compresa lei.»«Io...» Scossi la testa sentendomi

sopraffatta dall’emozione. «Non ho unvestito. Non saprei neanche dovetrovarlo. E non ho i soldi...»

«Okay, non agitarti. Pensaci. Sevorrai andarci, ci inventeremoqualcosa.»

Deglutii. «Sei tu a mettermi inagitazione. Non so che cosa provo neiconfronti di tutto questo.»

Weston mi sollevò la mano e sfiorò lemie dita con le labbra. «Improvvisiamoe basta, ricordi?»

Tirai la maniglia e saltai fuorisull’erba. Feci per togliermi il giubbottoe lui si accigliò.

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«Tienilo tu.»Lo gettai nel furgone. «Ce l’ho un

giubbotto, grazie.»«Ma non uno che ha il mio odore»,

rispose lui con un sorriso furbo.«Hai paura che ti dimentichi dall’oggi

al domani?» scherzai.«Che dimentichi il sottoscritto?

Escluso», ribatté indicandosi.Mi salutò con un cenno della mano e

io entrai in casa, ancora ridendo. Erabuia e silenziosa. Raggiunsi piano la miastanza, posai lo zaino sulla moquette eandai dritta a letto. Ero troppo stancaper farmi una doccia e persino perspazzolarmi i capelli. Volevo solo staredistesa tra le lenzuola e ripensare a

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quello che mi aveva detto Weston. Eracome un sogno dal quale ben prestoinevitabilmente mi sarei svegliata.Sarebbe successo qualcosa che avrebbefatto crollare tutto, perché cose delgenere a me non capitavano.

Puntai la sveglia mezz’ora prima delsolito, dopodiché mi rilassai.L’indomani era venerdì, l’ultimo giornodi scuola prima delle vacanze diprimavera. Mi aspettavano una settimanadi pausa dalle Erin e ben nove giorni enove sere con Weston, in cui avremmofatto quello che volevamo. Stavadiventando il mio migliore amico, e nonsolo perché era l’unico che mi filasse.Avevamo davvero molto in comune,

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dalla musica all’arte, alla passione per iprimi tre episodi di Guerre stellari.

Sentii gli occhi farsi pesanti e miaddormentai con la sua voce profonda earmoniosa che mi echeggiava nellamente, parlandomi di pigiami e dilenzuola.

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7.

Venerdì mattina uscii di casa e vidi unSUV bianco parcheggiato accanto almarciapiede. La signora Pyles abbassòil finestrino e mi salutò.

«Ti avevo detto che sarei venuta!»esclamò con un ampio sorriso sul volto.

Guardai il cielo. Le nubi erano grigie,il selciato e l’erba bagnati, ma nonpioveva più. «Penso di poter andare apiedi.»

«Pioverà a tratti per tutto il giorno,Easter. Salta su.»

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Mi girai per controllare di nuovo cheGina non mi stesse osservando dallaporta, dopodiché raggiunsi svelta l’auto.

«Allacciati la cintura», disse lasignora Pyles mettendo in moto.

«Per piacere, possiamo fare infretta?» domandai, sentendo un clicall’altezza del fianco quando la cinturascattò.

Lei partì e qualche istante dopo sifermò a uno stop. Un pick-up blu centròin pieno la pozzanghera che si formavasempre all’incrocio spruzzando acquadappertutto.

«Se fossi stata là, ora sarestifradicia», osservò la professoressascuotendo la testa.

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«Grazie», dissi rosicchiandomiun’unghia.

Proseguì e dopo un isolato si fermò aun altro stop. Guardai il Dairy Queenbuio, con il parcheggio vuoto. Se avessecontinuato a piovere, non avremmoavuto molto lavoro dopo la scuola.Proprio mentre facevo quellaconsiderazione, dal cielo cominciaronoa cadere alcune gocce.

La signora Pyles girò a destra versola scuola. I capelli biondi le sfioraronole spalle quando si protese per azionarei tergicristalli. «Hai programmi per levacanze di primavera?» s’informò.

«Non direi.»«Non vai a South Padre con gli altri

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ragazzi dell’ultimo anno?» La guardai disbieco e lei sorrise, imbarazzata. «Honotato che frequenti Weston Gates.Pensavo che magari ci saresti andata conlui. Lo speravo.»

«Lo ha notato?» chiesi sentendo ilcuore accelerare i battiti. Credevo chefossimo stati attenti. Weston avevainiziato a difendermi in classe, mapensavo che nessuno sapesse che cifrequentavamo.

La signora Pyles mi rivolse quel suosorriso dolce. «Io e Veronica Gatessiamo nell’associazione di beneficenzadella chiesa. Di recente ha parlato unpo’ di voi due, tutto qui. Solo con me.»

«Senz’altro non vuole che lo si

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sappia.»«Non intende creare problemi.»«Per Weston e Alder.»Parcheggiammo nel posteggio degli

insegnanti e a quel punto la signoraPyles si voltò verso di me. «È un bravoragazzo.»

Attesi, immaginando che mi avrebbedetto di stare lontano da lui o qualcosadi altrettanto offensivo.

«Tu sì che sai come sceglierli»,affermò strizzandomi l’occhio. Scese echiuse la portiera.

Dopo aver rimuginato brevementesulle sue parole e provato per mezzosecondo un senso di gratitudine, scesianch’io e mi affrettai a raggiungerla. Ci

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incamminammo restando all’asciuttosotto il suo ombrello. Lei puntò iltelecomando verso il SUV, che si chiusecon un flebile bip.

Alle elementari, prima di rendermiconto del fatto che a sedici anni nonavrei avuto una macchina, fantasticavosui modelli che mi piacevano di più. Aprescindere dalla marca, dovevanoavere un dispositivo di apertura adistanza. Tenere in mano il telecomandocon le chiavi tintinnanti mi sembrava unacosa davvero fantastica! A diciassetteanni avevo fatto la patente, sebbene soloper avere un documento d’identità:comprare un’auto era un’impresaimpossibile, e io avrei affrontato

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un’impresa impossibile alla volta,partendo da quella di raggiungere inqualche modo il campus della OSU.Anche se fossi stata costretta a mettermiin viaggio a piedi, ci sarei arrivata.Forse se Weston non fosse stato già aDallas o alla Duke, avrebbe potutodarmi un passaggio.

Quel pensiero mi confortò mentrepercorrevo il lungo corridoiofiancheggiato dagli armadietti diretta aquelli isolati nel centro del passaggio,accanto alla biblioteca. Avevo chiestospecificamente un armadietto in quelpunto perché, malgrado fosse lontanodagli altri degli studenti dell’ultimoanno, la biblioteca aveva una parete di

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vetro e la signora Boesch, labibliotecaria, dava sempre un’occhiatatra una lezione e l’altra.

Presi i libri dallo zaino e lo appesi aun gancio. Il sole del mattino che entravadalle finestre della scuola sparìall’improvviso. Guardai alla mia destrae vidi Weston appoggiato all’armadiettoaccanto al mio.

«Che fai stasera dopo il lavoro?»Alzai le spalle.«Andiamo a mangiare qualcosa a Los

Potros.»Mi guardai attorno e annuii.Lui fece un sorriso radioso e si

allontanò, senza sforzarsi minimamentedi nascondere la nostra conversazione.

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Chiusi l’armadietto e Sara Glenn mifissò con i suoi grandi occhi scuri.

«Ti scopi Weston Gates?» chiese.La guardai torva, con l’aria indignata.

Per quale ragione alla gente di provinciabastava veder parlare due persone disesso opposto per saltare subito a quellaconclusione? «No.»

«Allora cosa succede? Ti ha appenainvitato a cena. Perché ti porta fuori?»

«Non mi ha invitato a cena. Haisentito male», risposi. Tecnicamente eravero. Non mi aveva invitato.

«Invece ho sentito benissimo», sibilòSara. «Lo dirò ad Alder.»

«Fa’ pure. Non ti crederà e poipenserà che stai cercando di dividerli

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per provarci con lui.»Sara rifletté per un attimo e, persa

ogni sicurezza, si allontanò.Feci un respiro profondo e proseguii

verso l’aula con le mani tremanti e ilcuore che minacciava di schizzarmifuori dal petto. Quell’improvviso guizzodi coraggio era scaturito dal profondo,da un luogo di cui non conoscevonemmeno l’esistenza. L’idea che Sarapotesse rovinarmi quel briciolo difelicità mi aveva gettato nelladisperazione al punto di indurmi a fareun azzrdo che io stessa trovavospaventoso.

Erano tutti troppo eccitati allaprospettiva di andare a South Padre per

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tormentarmi. Arrivata alla settima ora,per quanto mi sembrasse strano conclusiche era stata una bella giornata.

Quando Weston accostò il suosgabello al mio banco, mi sentii in predaa un misto di nausea ed esaltazione.

«Guarda un po’», disse. Il suo lavoro,grande quanto un poster, era steso sultavolo. Lo osservai con un sorrisoincontenibile. Ritraeva una ragazza cheguardava dalla finestra, con il volto inombra tranne gli occhi azzurri vivi.Aveva le ginocchia al petto e dalle ditale pendeva una collanina, un cuored’argento con delle incisioni lungo ibordi. Nel centro spiccava la scrittaPER CASO.

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«È straordinario», mormorai. «È cosìcarina.» Mi sarebbe piaciuto sfiorarlacon le dita ma non volevo crearesbavature nel carboncino.

«Sei tu.»Lo guardai, sconvolta. Lavorava a

quel disegno da tre mesi. Aggrottai lafronte e scossi la testa, scettica. «Sei ungran bugiardo.»

«È la pura verità.»«Siete pronti a mostrare i vostri

lavori finali?» domandò la signora Cupentrando disinvolta in aula, con untailleur e uno scialle nero. «So che visiete impegnati moltissimo. Negli anniscorsi avete portato a casa i vostrilavori, li avete incorniciati, regalati o ne

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avete fatto quello che volevate.Quest’anno vi chiedo di più. Prendendoesempio da Faulkner, un artista deveimparare a distruggere le sue opere.»Sospirò. «Per i vostri lavori finali vichiederò questo.» Prese il dipinto diShannon LaBlue e lo strappò in due nelsenso della lunghezza. La cartalacerandosi produsse un forte rumore enoi restammo tutti di sasso.

Shannon si guardò attorno a boccaaperta, non sapendo cosa fare.

La signora Cup si avvicinò a ZachSkidmore, seduto accanto a me.«Allora?»

«Parla sul serio? Pensavo che questodovesse rappresentare il lavoro di tutti

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gli anni alle superiori. Mi sono sbattutoparecchio per realizzarlo, signora Cup.»

«Sarà il tuo voto finale.»Zach guardò il pavimento per un

attimo ed espirò dal naso. Poi prese ilsuo disegno, uno splendido paesaggio, elo strappò a metà. Sussultammo tutti,come se si fosse tagliato i polsi.

L’insegnante si mise davanti al miobanco. Avevo lavorato molto a quelcarboncino che ritraeva un corridoiobuio tappezzato di quadri vittoriani.Fece un rumore orrendo quando lo ruppiin due.

La signora Cup raggiunse Weston. Ilsuo disegno era ancora sul mio tavolo.

«Weston.»

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«È crudele.»«È una lezione. Non tutte le lezioni

sono facili. Anzi, le migliori, quelle dacui apprendete di più, sono le piùdifficili.»

«Non ho intenzione di farlo», disse luispostandosi lievemente sullo sgabello eproteggendo quel mio ritratto tenero eaffettuoso.

«È il tuo voto finale, Weston. Questoè il vero obiettivo.»

Lui si alzò, prese il disegno e loarrotolò con cura. «Allora immagino dinon essere passato.» Uscì dall’aula e siincamminò in corridoio verso ilparcheggio.

La signora Cup scosse la testa e si

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avvicinò allo studente successivo, anchelui inorridito.

«Eri tu?» chiese Frankie, vagamentesbigottita.

Assentii.«Un progetto a cui si è dedicato per

tre mesi... ed eri tu?»«Ero io.»«Caspita. E si è fatto bocciare

all’esame di arte pur di tenerlo. È... ètoccante, direi.»

«È stato quello che ho pensatoanch’io, ma non so se ho interpretatobene il suo gesto.»

«E come avresti potuto fraintenderlo?È così romantico che potrei morire qui,

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all’istante!» Frankie si piegò quasi indue fingendo di singhiozzare in modotutt’altro che decoroso.

«Ma è orribile!» esclamai cercandodi soffocare un sorriso.

«È cooosì bello! Oh, non riesco atrattenermi...»

«Piantala», dissi versando unacucchiaiata di M&M nella coppa allavaniglia che avevo appena preparato.

Lei si raddrizzò. «Scusami, ho avutoun attimo di follia.»

Porsi l’M&M Blizzard a unabambina, che poi si scostò. Fu allora chevidi la cliente successiva: Alder. Avevagli occhi rossi ed era più che incazzata.

«Che stai combinando?» chiese con la

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voce già rotta.«Stavamo solo scherzando. Cosa ti

preparo?»«Fanculo, sai di che parlo, Easter»,

replicò lei, fremente di rabbia.La mia mente si affannò a trovare una

risposta, ma Alder non aveva intenzionedi litigare. Era venuta da sola, il che erainconsueto per le Erin.

Inclinò leggermente la testa,spazientita dal mio silenzio.«Rispondimi. E non fingere di essereinnocente. Sappiamo tutte e due quelloche sta succedendo.»

Frankie mi si piazzò accanto. «Stalavorando, Alder. Potete discuterne piùtardi.»

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«No, non posso», ribatté lei con gliocchi velati di lacrime. «Perché tramezz’ora parto per South Padre. Ci sareidovuta andare con Weston, ma d’untratto lui ha deciso che non vuole venire,perciò vado con Sonny. Spiegamiperché, Easter.»

«Non posso parlare a nome suo.»«Be’, qualcuno dovrà farlo. L’unica

cosa che ha detto è che tra noi nonfunzionava.»

«Ti ha lasciato?»Alder posò le mani sul piccolo

davanzale della finestra, con i palmiall’ingiù. «È quello che volevi, no?»

«Non direi.» Era la verità. Non misarei mai aspettata che Weston la

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lasciasse.«Non aveva tempo di spiegarmi i

dettagli perché stava andando a PoncaCity a far incorniciare uno stupidodisegno.»

Rimasi senza fiato. «Lui... cosa?»«Quindi me lo puoi dire, Easter.

Perché mi stai facendo questo?»«Scusa», risposi sentendo affiorare la

stessa rabbia che avevo provato conSara. «Perché io ti farei qualcosa?»

«Mi ha tradito? Ho il diritto disaperlo.»

Frankie si mise una mano sul fianco.«Se ti ha lasciato, che importanza puòavere?»

Alder la fissò. «Oh, tu non

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t’impicciare e preoccupati piuttosto disfornare un altro pupo, Frankie.»

Frankie mi scostò lentamente e sichinò. «Ti consiglio di andartene ora, senon vuoi partire non solo senza il tuoragazzo, ma anche con un occhio nero.»

Lei sbuffò e fece per allontanarsi, poisi bloccò e tornò indietro. «Sta’ inguardia, Easter. Quando tornerò, saràmio compito renderti la vita tantoinsopportabile che non potrai piùmettere piede a scuola. Pensi che siastata cattiva con te? Non hai ancoravisto niente.»

«Ha tutta l’aria di una minaccia»,osservò Frankie guardandola consospetto.

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Lei sorrise, ma non l’avevo mai vistacosì vulnerabile. «Io non minaccio. Lestavo solo dando un’idea di quelle chesaranno le prossime cinque settimanedella sua vita.»

«Per l’appunto», replicò Frankie.«Ho intenzione di godermi le vacanze

di primavera. Dovresti fare altrettanto.»«Stanne certa», dissi sollevando il

mento.Alder mi lanciò un’occhiata da gelare

il sangue nelle vene e tornò alla suaHonda.

«Uuuh! Le hai messo un po’ di pepe alculo», commentò Frankie, piuttosto su digiri per lo scontro.

Mi appoggiai con il sedere al banco.

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«Dice sul serio. Quando tornerà, sarà uninferno.»

«E che t’importa?» ribatté leistrizzandomi l’occhio. «Hai Weston.»

«Non ho Weston.»«Fa incorniciare il tuo ritratto. È

decisamente cotto.»«È tutto molto strano. Dalla prima

elementare le cose sono sempre andateallo stesso modo, giorno dopo giorno.La mia situazione peggioravacostantemente, e invece adesso è... nonlo so.»

«Fantastico?»«Diverso.»Frankie annuì. Un SUV entrò nel

parcheggio e ne saltarono fuori quattro

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ragazzini, seguiti dalla madre che tenevain braccio il più piccolo. Ci rimettemmoal lavoro.

Mi sentivo ancora più eccitataall’idea delle vacanze. Se avessi dovutopagarne le conseguenze, avrei fatto inmodo di godermi ogni istante.

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8.

Il furgone di Weston era fermoproprio dietro il Dairy Queen. Come senon fosse stato già abbastanza raggiante,gli portai un cono maxi affogato allaciliegia. Il suo sorriso si allargò da unorecchio all’altro.

«Posso andare a casa a cambiarmi?»domandai.

«No. Voglio mostrarti una cosa.»Andammo da lui. Le finestre della

villa erano buie e, quando premette ilpulsante per aprire la saracinesca del

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garage, notai che la macchina dei suoinon c’era. Nonostante fosse iniziato ilweekend, la cittadina sembravaabbandonata. Con gli studentidell’ultimo anno e anche molte famigliein vacanza, Blackwell sarebbe rimastasonnolenta per una settimana. Erasempre così.

«I tuoi sono già partiti?» m’informai.Weston annuì. «Stamattina.»«Come hanno reagito sapendo che

saresti restato a casa?»Mi tenne aperta la porta e io entrai in

corridoio. «È stato un po’ strano»,rispose. «Erano perplessi, e la mammasi è agitata per Alder, eppuresembravano anche sollevati. Credo che

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mi abbiano lasciato in pace perché hodiciotto anni, anche se non smetterannomai di preoccuparsi per me.»

«È logico.»«Mi hanno chiesto se volessi andare a

sciare, ma è la prima vacanza che fannosolo con adulti da quando mi hannoavuto, quindi sono stati contenti quandoho detto di no.»

Sogghignai. La sua vita mi sembravacosì affascinante! Il legame che avevacon i genitori, il fatto che si capissero esi preoccupassero a vicenda erano cosea me del tutto estranee. Ma soprattuttoapprezzavo il loro equilibrio e lacapacità che avevano di affrontare iproblemi senza urlare.

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Ci avvicinammo alla scala achiocciola, lui accese la luce e iniziò asalire, e io lo seguii. La balaustra era dilegno lucido e ferro battuto. Amavo casasua. Era così pulita e arredata con tantacura che sarebbe stata degna di unservizio fotografico per una rivista didesign. Appesi alla parete color argillac’erano foto sue e della sorellamaggiore Whitney, da soli o insiemedalle elementari all’ultimo anno dellesuperiori.

Giunti in cima, Weston imboccò unaltro corridoio e aprì l’ultima porta asinistra invitandomi a entrare con unampio gesto del braccio. La stanza erabuia, ma non appena vi misi piede lui

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accese la luce e potei vedere il suo letto,la cassettiera e la scrivania. Come nelresto della casa, anche lì era tuttorassettato, pulito e profumato. Latrapunta blu notte era infilata sotto icuscini, senza una sola piega. Lascrivania era ordinata e senza ungranello di polvere, con il computernuovo di zecca spento.

Sul piano c’era il carboncino che miritraeva, racchiuso in una cornice nera,apparentemente fatta di corda. Non siintonava, a dire il vero, con il letto dilegno marrone e gli altri mobili dellastanza.

«Che ne dici?»In quel momento mi resi conto di

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avere la bocca aperta e la richiusi discatto.

Weston aggrottò la fronte. «Sonoandato da Hobby Lobby a Ponca a farloincorniciare. Non era la cornice chedesideravo, ma avrebbero dovutoordinarla e io volevo mostrartelo oggi.Non potevo aspettare.»

«Davvero non passerai arte?»Lui scrollò le spalle. «E chi se ne

frega? Tu cosa dici?»«L’Art Institute di Dallas potrebbe

crearti problemi se non passi.»Incurvò le spalle. «Non andrò a

Dallas, Erin.»«Perché no?»«Ho cercato di parlarne con i miei ma

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non sono riuscito a guardarli negli occhie a dirglielo.»

«Ci vuoi andare?»Weston allargò le braccia e le lasciò

ricadere sulle cosce. «Sì.»«Allora ci andrai. Troveremo il

modo, anche se dovessi tenerti per manoquando glielo dirai. Ti vogliono bene,Weston, e soprattutto desiderano che tusia felice, no?»

Annuì lentamente. «Ma...»«Niente ma. Troveremo il modo.»Mi studiò per un istante. «Ti piace la

cornice?»«Mi piacciono sia la cornice sia il

disegno, però ancora non capisco perchétu abbia deciso di usare me come

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soggetto del tuo lavoro finale.» Leultime parole rimasero sospesenell’aria. «Questo sono? Un soggetto?»

Weston sembrò deluso dalla domanda.«Non sapevo che cosa avrei realizzato.Ho semplicemente iniziato a disegnare edopo una settimana mi sono reso contoche lei», disse indicando il disegno,«era te e poi, mentre le dedicavo altrotempo per renderla perfetta, ho capitocos’era successo.» Fece alcuni passiverso di me fino a trovarsi tanto vicinoche dovetti sollevare gli occhi perguardarlo in faccia. «Quando pensiabbastanza a qualcosa, cominci asognarlo. E quando sogni abbastanzaqualcosa, devi solo augurarti che si

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realizzi.» Sospirò. «Io penso sempre ate, Erin. Erano anni che volevo parlarti,ma la sola idea di farlo mi metteva inagitazione. Non sapevo cosa dire nécome avresti reagito. E poi temevo cheavresti creduto che stessi dando unamano ad Alder a tormentarti. So che hoscelto un momento del cazzo perché tuttie due stiamo per prendere direzionidiverse, ma sono diventato molto bravoad amarti a distanza.»

Mi ero sempre strenuamente sforzatadi non piangere davanti a nessuno, tantoche per un istante caddi in preda alpanico quando gli occhi mi siinumidirono e mi sgorgò la primalacrima. Me l’asciugai in fretta.

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Lui mi prese il viso tra i pollici e sichinò sussurrandomi: «Posso baciarti?».

Annuii lentamente sentendo unascossa in tutto il corpo, in attesa divivere quella nuova esperienza.

Weston si avvicinò ancora, chiuse gliocchi e premette le labbra sulle mie.Erano così morbide e calde! Poi leschiuse e io lo imitai. Avevo vistoabbastanza baci in televisione da saperecome funzionava, perciò cercai dimantenere le labbra rilassate e dimuovermi insieme a lui. Sentii la sualingua in bocca che giocava con la mia.Sapeva di glassa alla ciliegia e didentifricio, una combinazionestranamente fantastica. Le sue mani si

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abbassarono dalla mascella al collo,alle spalle. Le sue dita mi premevano lapelle mentre lui mi attiravadelicatamente verso di sé.

Proprio quando credevo che sareisvenuta per asfissia, lo sentii respirarelievemente dal naso e feci lo stesso. Nonavevo la più pallida idea di comecomportarmi, perciò lo imitavo.

Quando Weston si scostò, per poconon caddi in avanti perché non eroancora pronta a staccarmi da lui.

«Uau», esclamò fissandomi.«È stato così brutto?»Lui scosse la testa. «No, affatto. Ma è

meglio che ci fermiamo.» Si sedette sulletto e fece un respiro profondo

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fregandosi la nuca. «Dammi... solo unminuto», disse, lo sguardo fisso sulpavimento.

Mi avvicinai e mi buttai tra le suebraccia. Lui sbatté contro il materasso eio premetti la mia bocca sulla sua. Miattirò a sé emettendo un gemito quandole nostre lingue si intrecciarono dinuovo. Restammo avvinghiati senzaquasi respirare e nell’ora successivaoccupammo ogni centimetro del suogrande letto matrimoniale.

Alla fine Weston lasciò cadere latesta sul cuscino, pur continuando astringermi fra le braccia. Ero stesa inparte sopra di lui, sul fianco, con unagamba sulla sua. «Già così domani

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mattina starò male. Dobbiamofermarci.»

«Perché starai male?»Weston tacque cercando un modo

gentile per rispondermi. «Mi sento uncoglione a spiegartelo. Sembrerà chevoglia far leva sul senso di colpa perindurti a... sai. E non ho mai avutointenzione di darti il primo bacio e fartiperdere la verginità nella stessa notte.»

«Alludi alla frustrazione sessuale?»Lui restò senza fiato e poco dopo

scoppiò in una risata fragorosa. Quandosi riprese, avvicinò le mie dita alla suabocca e le baciò. «Sì.»

«Non sono del tutto sprovveduta. Soparecchie cose, anche se non le ho

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sperimentate di persona.»«Una cosa che forse non sai è che non

sto tradendo Alder. L’ho mollata oggi.»«Invece lo so.»Spostò la testa sul cuscino per

guardarmi in faccia. «Come?»«È venuta al DQ. Era piuttosto

arrabbiata.»«Ti ha trattato male?» chiese Weston

con la mascella contratta, impaziente disentire la mia risposta.

«Mi tratta sempre male, ma ha dettoche al suo ritorno le cose peggiorerannonotevolmente.»

Lui distolse lo sguardo e un attimodopo mi fissò di nuovo. «Non lasceròpiù che ti feriscano, Erin. Non avere

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paura di loro.»«Non ne ho.»Si accigliò. «Sono solo cinque

settimane. Possiamo farcela.»Lo baciai, brevemente e con dolcezza,

e annuii. «Sei tu che mi preoccupi. Nonci sei abituato.»

«Sono più felice di quanto non fossida tempo. Potranno trattarci di merda ascuola ma non possono rovinare quelloche abbiamo.»

Gli appoggiai la testa sul petto eascoltai il battito del suo cuore.Rallentava sempre più di minuto inminuto; alla fine il suo respiro si feceprofondo e regolare. Alzai lo sguardo evidi che aveva gli occhi chiusi. Teneva

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la mano rilassata sulla mia schiena. Gliposai di nuovo la testa sul petto,accoccolandomi contro il suo fianco enell’incavo del collo. Weston mi attirò asé e a quel punto mi addormentai.

Sulle prime non sentii il trillo, ma nonappena Weston cercò di sciogliersi condelicatezza dal mio abbraccio misvegliai.

«Mi dispiace», bisbigliò. «Sono lequattro del mattino. Torna a dormire.»

«Cosa succede?» chiesi fregandomigli occhi.

«Non lo so. Qualcuno mi stabersagliando di messaggi.» Nelmomento stesso in cui lo afferrò e lo

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staccò dal caricabatteria, il telefonoprese a suonare. «Cazzo, è mia madre.Pronto?»

Riuscivo a sentire la voce acuta edisperata di Veronica.

«No, calmati, mamma. Te l’ho detto.Sono a Blackwell. Sono rimasto qui,ricordi? Mamma, smettila di piangere.Cosa succede?»

Udii una voce profonda e capii cheera quella di Peter, suo padre.

Weston si massaggiò la faccia, con gliocchi sgranati. «Merda, ne sei sicuro?Chi te l’ha detto?» Tacque e rimase inascolto. «Oh, cavolo. Tutte e due? Ionon... Gesù. No, non tornate. Sto bene.Sì, ne sono certo. Voi cercate di

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distrarvi. Sono a casa, al sicuro nel mioletto. Okay. Vi voglio bene.» Conclusela telefonata e mi guardò.

«Cosa c’è? Stanno bene?»«Sì, loro stanno bene. Si tratta delle

Erin. Mentre andavano a South Padre,Alder si è addormentata al volante, oqualcosa del genere, e ha sbandato.Hanno fatto un frontale contro uncamion. Sono morte.»

«Sono...morte?» ripetei, incredula.Weston si sfregò di nuovo la faccia.

«Sono morte. Sonny e Alder sonomorte.» Aveva gli occhi sbarrati e labocca spalancata.

Restammo a lungo seduti in silenzio.A un certo punto lui afferrò il telefono e

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si mise a controllare i messaggi. Sospiròe scosse la testa. «La notizia si sta giàdiffondendo», m’informò posando ilcellulare. «Devo portarti a casa?»

«Come vuoi. Se preferisci stare solo,posso tornare a piedi. Se no resto qui.»

Weston mi attirò a sé e si appoggiò aicuscini, ma non dormimmo.

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9.

Il funerale congiunto si tenne il sabatoseguente. Non ci andai perché non misembrava il caso, ma dopo Weston sifermò al Dairy Queen per aggiornarmi.Mi disse che sia i genitori di Sonny siaSam e Julianne sembravano reggerebene, si sostenevano a vicenda. Midescrisse la cerimonia, le musiche e ipresenti, però aveva un’aria persa.

«Perché non vai?» suggerì Frankie.«Oggi ha bisogno di te.»

«Io...» Guardai Weston. «Vuoi che mi

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prenda una giornata libera?»Lui aveva un aspetto pietoso. «Sì, ti

prego.»Mi tolsi il grembiule e lo gettai sul

banco. «Grazie, Frankie.»Lei mi strizzò l’occhio ma aveva

un’espressione triste.Uscii dalla porta posteriore e mi

ritrovai all’istante fra le braccia diWeston, che sprofondò la testa nel miocollo. Rimasi abbracciata a lui a lungo enon appena feci per scostarmi mi siaggrappò, perciò lo strinsi ancora dipiù.

Quando infine si rilassò, mi porse lechiavi. «Ti va di guidare?»

Restai di sasso. «L’ho fatto solo a

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scuola guida, ed è stato più di un annofa.»

«Te la caverai.» Aprì la portiera e miaiutò a salire sul sedile, girò sveltoattorno al furgone e si sistemò al miofianco.

Nervosa, misi in moto, spinsi inavanti il sedile e regolai gli specchietticercando di ricordare tutto quello cheavevo imparato sulla guida. Premetti ilpedale del freno, misi il cambio nellaposizione DRIVE e partii. Mi fermaiall’imbocco della strada principale,prima di uscire dal parcheggio. «Dovevuoi andare?»

«In qualsiasi posto. Basta che vai.»Mi prese la mano tra le sue. Mentre

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svoltavo a destra e lasciavo la città,appoggiò la testa al sedile.

Non parlammo molto e io guidaifinché sul cruscotto si accese la lucedella riserva. Avevamo viaggiato perun’ora in direzione sud fino a Stillwater.

Weston mi indicò la stazione diservizio più vicina e mi mostrò comefare benzina. «Hai fame?» chiese.

«Un po’.»«Okay. Prendo delle patatine e un

calzone o qualcosa del genere. MountainDew?»

Annuii. «Grazie.»Riagganciò la pompa e corse

all’interno della stazione. Restai là, nonsapendo dove salire. Quando tornò, mi

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guardò, perplesso. «Cosa fai, tesoro?»La parola che gli era uscita dalle

labbra mi fece dimenticare i mieipropositi, dove mi trovavo e persino chifossi. Avevo sentito altre coppie usaretermini affettuosi e alcune madri dire«tesoro» ai figli, ma nessuno mi avevamai chiamato se non col mio nome o conqualche altro epiteto colorito. Mi erosempre domandata cosa avrei provato sequalcuno che mi amava si fosse rivolto ame usando un appellativo così dolce esemplice, e Weston Gates l’avevaappena fatto.

Cercai di dire qualcosa ma non ciriuscii.

«Vuoi che guidi io?» domandò lui.

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Vedendo che non rispondevo si avvicinòun po’ di più. «Stai bene?»

Corsi da lui, gli gettai le braccia alcollo, gli saltai addosso, cingendogli lavita con le gambe, e lo baciai conpassione.

Weston ricambiò. I sacchetti cheaveva in mano scricchiolarono quandomi abbracciò. Non appena mi scostai,sorrise. «Questo per cos’era?»

«Non lo so. Dovevo farlo e basta.»«Dovresti seguire di più l’istinto»,

commentò dandomi un altro bacio.Mi chiese di guidare e, cinque ore

dopo aver lasciato il lavoro, entrai nelvialetto di Gina. C’erano due auto dellapolizia e un’altra blu scuro con il

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simbolo del dipartimento dei servizisociali dell’Oklahoma su entrambe leportiere.

«Oddio!» esclamai voltandomi versodi lui. «Non so cosa sia successo, madevi andare.»

Weston scosse la testa.«Assolutamente no. Affronteremo tuttoinsieme, ricordi?»

Sentii le lacrime bruciarmi gli occhi.«Te ne sono grata, davvero, ma èumiliante. Non voglio che tu senta quelloche hanno da dirmi.»

«E cosa ti diranno?»«Non lo so. Ma non devi sentire.»Weston esitò e mi prese delicatamente

la mano. «Ti picchia?» Scossi la testa e

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lui sospirò, sollevato. «Quando capiraiche non ti giudico, Erin? Amo tutto di te,da sempre.» Mi strinse la mano.«Lasciami venire con te, ti prego.»

Annuii, spensi il motore e ciavviammo verso casa mia, mano nellamano. Entrammo e trovammo Gina suldivano, con la faccia inespressiva. Dueagenti di polizia erano in piedi a lato euna donna le sedeva accanto. Mi sorrise.

«Ciao, Erin. Mi chiamo Kay Rains esono del dipartimento dei servizisociali. Siamo qui per una questione cheriguarda la morte di Erin Alderman.»

«Okay...» Ero totalmente confusa.Pensavano che io c’entrassi qualcosacon la sua morte?

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Notando il mio nervosismo, la donnasorrise. «È tutto a posto, Erin. Nonpreoccuparti.»

«Allora perché c’è la polizia?»domandò Weston continuando astringermi la mano.

«Non intendevamo spaventarti», midisse Kay. «È la prassi. Abbiamobisogno che tu venga in ospedale connoi. È necessario eseguire delleanalisi.»

Mi accigliai. «Di che genere? Cos’haa che fare tutto questo con me?»

Kay si alzò. «Per Erin Alderman èstata richiesta l’autopsia. I risultati sonoarrivati ieri sera e i genitori hanno dellerichieste. Se potessimo prelevarti un

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campione di sangue, riusciremmo achiarire tutto.»

«Un campione di sangue? Ancora nonci avete detto in che modo è coinvoltaErin», osservò Weston.

Kay sospirò. «Il referto ha dimostratoche Erin Alderman non è la figliabiologica di Sam e Julianne Alderman.Per Erin Masterson è tutto nella norma.Tu sei l’unica altra ragazza natanell’ospedale di Blackwell il 4 maggio.Anzi, a parte le due decedute, sei l’unicaa essere nata lì nell’arco di tre giorni.»

«Sta dicendo che credete che ErinAlderman sia la figlia di Gina Easter edErin quella di Sam e Julianne?»domandò Weston. Non appena ebbe

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pronunciato l’ultima parola restammoentrambi senza fiato.

Kay toccò il ginocchio di Gina, perquanto non desse segno di esseresconvolta. «Purtroppo è quello chesospettiamo.»

Io e Weston ci guardammo a boccaaperta.

«Ti... uh... ti accompagno io», si offrìlui.

Annuii.«Gliela riporteremo presto, signora

Easter.»Gina fece un cenno con la testa e

uscimmo tutti.Le mie scarpe scricchiolarono sulla

ghiaia mentre ci avvicinavamo al

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furgone. Weston aprì la portiera e misollevò senza alcuno sforzo. Mi fissòdritto negli occhi. «Sta succedendodavvero?» domandò.

Scossi la testa, senza parole.Si mise al volante, e seguimmo l’auto

dei servizi sociali e quelle della poliziafino all’ospedale. Fummo accompagnatial laboratorio e fatti accomodare nellasala d’attesa. Weston mi teneva la mano.Io fissavo il pavimento di piastrellebianche, incapace di parlare e dipensare. Il mio cervello parevabloccato, come se non volesse neancheconsiderare le possibili implicazioni diciò che stava accadendo.

«Erin Easter», chiamò il tecnico. Mi

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alzai, imitata da Weston.«Solo lei, per favore», disse Kay.Gli feci un cenno e lui si risedette.Il tecnico mi condusse in una piccola

stanza con numerosi armadietti e unbanco. Mise un lungo laccio di gomma ealcune provette su un vassoio colorargento accanto a me. Distolsi losguardo mentre m’infilava l’ago nelbraccio, poi lo sentii muoversi quasiimpercettibilmente per sostituire leprovette. Alla fine estrasse l’ago, mipremette un batuffolo di cotone sulbraccio e lo fissò con una specie dicerotto appiccicoso di colore rosa.

Quando uscii, trovai Weston in piedinella sala d’attesa, fra l’assistente

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sociale e gli agenti di polizia.«E adesso?» chiesi.Kay mi rivolse un sorriso dolce e

rassicurante porgendomi il suo bigliettoda visita. «Adesso aspettiamo. Diqualsiasi cosa tu abbia bisogno,chiamami sul cellulare. È scritto sulbiglietto. Mi metterò in contatto con tenon appena avremo i risultati.»

«Oh, io non ho un...»Weston prese il biglietto e digitò il

numero sul suo cellulare. «Fatto», dissepremendo il pulsante di chiamata.

Il telefono di Kay prese a squillare.Lei lo pescò dalla borsa e guardò loschermo.

«Sono io», spiegò Weston. «Può

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contattare Erin a questo numero.»Kay e gli agenti ci precedettero lungo

il corridoio in direzione del parcheggioe se ne andarono prima ancora che cifossimo allacciati le cinture.

«Tu... tu pensi che sia possibile? CheGina non sia mia...» Il solo fatto dipronunciare quelle parole mi lasciòsenza fiato. La mia mente si bloccò dinuovo, rifiutandosi di considerarequell’eventualità.

Weston intrecciò le sue dita con lemie. Non so perché mai il mio destinofosse cambiato così drasticamente, madoveva trattarsi di un intervento divino.Se Weston non fosse stato seduto al miofianco a tenermi la mano con

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quell’espressione rassicurante,probabilmente sarei crollata.

«Penso che ora vieni a casa con me,ecco cosa penso. Ci mettiamo in tuta,mangiamo un po’ di porcherie eguardiamo tutti i film che riusciamo avedere in una notte.»

Le mie labbra si piegarono in unsorriso. Era molto simile a quello cheavevamo fatto durante tutte le vacanze diprimavera ed era proprio ciò di cuiavevo bisogno. Poi il sorriso svanì.«Dovrei andare a casa? A parlare conGina?»

«Ti va di farlo?»Scossi la testa. «Non ne verrebbe

fuori niente di buono, quindi credo di

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no.»Weston svoltò a sud e percorse la

Tredicesima, diretto a casa sua. Negliultimi nove giorni avevo passato granparte del tempo al Dairy Queen o da lui.Gina non aveva fatto domande né miaveva rivolto la parola. Non che milamentassi. Quella era stata la settimanamigliore della mia vita e più di unavolta avevo pensato che non mi sarebbedispiaciuto affatto se fosse durata persempre.

Entrato in garage, Weston spense ilmotore e premette il pulsante perchiudere la saracinesca. Percorremmo ilcorridoio e trovammo Peter e Veronicaseduti al tavolo. Lui indossava un abito

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grigio scuro con una cravatta nera, leiuno splendido vestito nero con unacintura in tinta.

Veronica si alzò e s’incamminò sulpavimento di piastrelle con le scarpeche ticchettavano a ogni passo.Abbracciò il figlio a lungo, poi lo lasciòandare e si asciugò il naso con unfazzolettino. «Dove sei stato?» Non eraarrabbiata, solo psicologicamentesvuotata e mi osservò con più curiositàdi prima.

«Più che altro siamo stati in giro inmacchina ma siamo appena tornatidal...» Weston mi guardò, aspettando ilpermesso di continuare.

«Dall’ospedale», terminai per lui.

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«Mi hanno chiesto un campione disangue.»

Weston mi prese per mano.«Dall’autopsia è venuto fuori che Aldernon è la figlia biologica di Sam eJulianne.»

I suoi genitori non parvero sorpresi.«Abbiamo sentito», disse Veronica.«È vero?» chiese Peter. «Sam e

Julianne se ne sono appena andati.»«Sul serio?» feci.Veronica tirò su con il naso. «Hanno

sofferto da matti e ora non trovano pace.Non so se sono solo sfinita o... Ha gliocchi di Julianne, Peter, non credi?»

Lui scosse la testa. «Veronica, nonalimentare le speranze di questa

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ragazza.»«Alimentare le mie speranze? Come

se stessi per vincere una specie dipremio? Credete davvero che sarebbeuna bella cosa per me?» replicai,accigliandomi.

Veronica e Peter si scambiaronoun’occhiata, poi guardarono Weston einfine me. «Sam e Julianne sono duepersone splendide, Erin. Se fosse tuttovero, avresti una nuova famigliastraordinaria con cui stare.»

«Se fosse vero, significherebbe chemi sono persa diciotto anni con loro.Non so se augurarmi che lo sia. Per me eper loro.»

Veronica incrociò le braccia al petto e

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Peter la strinse a sé. Era strano perchéerano l’esatto riflesso di me e Weston.

Peter annuì. «Hai ragione, Erin. È unasituazione terribile per tutti voi. Cidispiace tanto.»

Scossi la testa. «No, dispiace a me. Èstata una giornata così lunga...»

«Certo, tesoro.» Veronica si sciolsedall’abbraccio del marito, si avvicinò ame e mi strinse.

Lanciai un’occhiata a Weston, chestava osservando sua madre con unosguardo in parte di riconoscenza, inparte di sollievo.

Veronica si scostò con un sorriso.«Andiamo di sotto», disse Weston. Mi

prese per mano e mi condusse nel

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seminterrato.Ci sedemmo sul divano, poi lui

afferrò il telecomando e premette il tastodi accensione del televisore. Nonappena lo schermo si illuminò, selezionòil primo film dell’elenco. Ci mettemmocomodi. Nessuno dei due sentiva ilbisogno di analizzare in dettaglioquant’era successo nell’ultimasettimana, o meglio nell’ultimo mese.Eravamo passati entrambi dalla tristezzaalla felicità nel modo più bizzarro esventurato possibile.

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10.

L’aula era silenziosa quando, allaprima ora, andai a sedermi al banco. Imiei compagni avevano lo sguardorivolto per terra ma non appena entraimi fissarono in cagnesco e iniziaronosubito a mormorare. Era tutto nuovo enon sapevo cosa aspettarmi, il che mispaventava molto di più rispetto aprima, quando le Erin erano vive.

Per la prima volta in diciotto anni erol’unica Erin. Non c’era più bisogno disoprannomi e non dovevo fingere di non

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notare Weston quando entrava in classe,eppure questo non mutò i sentimentidegli altri nei miei confronti. Bradysocchiuse gli occhi, con le parole odioseche intendeva dirmi già sulla punta dellalingua.

Suonò la campana, ma la signoraMerit non parlò. Si udì invece il crepitiodegli altoparlanti e poco dopo la vocedel preside Bringham.

«Buongiorno a tutti voi. Come sapete,durante le vacanze di primaveraabbiamo perso due studentesse moltobrillanti, Erin Alderman ed ErinMasterson. Osserveremo due minuti disilenzio perché possiate pregare perloro e le loro famiglie, se lo desiderate,

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o riflettere.»Gli altoparlanti tacquero e restammo

tutti seduti a fissare il pavimento. Nonero l’unica persona che le Erin avevanospietatamente preso di mira né l’unica aprovare un senso di sollievo anziché diperdita. Ma, ovunque si trovassero ora,mi augurai che fossero libere dalrancore che le aveva indotte atormentare gli altri e potessero starebene con sé stesse.

«Grazie», disse infine il presideBringham, e la comunicaziones’interruppe.

«Mi è stato chiesto di informarvi che,se aveste bisogno di parlare conqualcuno di quanto è successo a Sonny e

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Alder, per tutta la settimana alcunipsicologi saranno a vostra disposizioneper aiutarvi a capire ed elaborare ciòche provate. Ora per favore aprite illibro a pagina 188», ci comunicò lasignora Merit.

Notai che la maggior parte deglistudenti rimase silenziosa per tutto ilgiorno. Di tanto in tanto una cheerleaderdava in escandescenze nella zona degliarmadietti. Dopo l’accesso di pianto diChrissy alla fine della seconda ora,sembravano fare a gara a chi era piùisterica. Durante l’ora di igiene Bradyera rimasto seduto fra due banchi vuotie, malgrado lo avessi sorpreso più voltea guardare torvo me e Weston, non

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aveva aperto bocca.A lezione d’arte la signora Cup

chiamò Weston alla cattedra e parlaronopacatamente a lungo. Tutto sembròconcludersi bene, ma la conversazionesi protrasse per buona parte dell’ora,perciò l’insegnante riuscì a stento aragguagliarci sull’ultimo lavoro: dare uncontributo al murale nel centro diBlackwell. La signora Boyer avevainaugurato quella tradizione prima delpensionamento e lei, che ne aveva presoil posto, la teneva viva. Il nostrocompito era aggiungere piccoliparticolari, o nella maggior parte deicasi riempire le fessure che si creavanonei mattoni o ritoccare le parti che

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durante l’anno si erano scolorite.«Preparatevi», annunciò. «Domanilavoreremo al murale. Ricordatevi diportare con voi l’occorrente. Torneretedirettamente a scuola alle quindici etrenta.»

Weston si sedette sul suo sgabello,dietro il mio banco. «Ha ancoraintenzione di bocciarti?» mormorai.

Lui scosse la testa sforzandosi di nonsorridere.

In quel momento due ragazzecomparvero sulla soglia e bussarono.«Signora Cup, il preside Bringhamchiede di Erin Easter.»

«Certo», disse l’insegnante facendomicenno di raccogliere le mie cose.

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«Ha detto che deve andare subito dalui», precisò una delle due.

Presi la mia roba e Weston mi toccò ilbraccio. «Vuoi che venga con te?»

«Me la cavo da sola.»Lui si accigliò. «Mi fa piacere

accompagnarti.»Sorrisi. «Ti preoccupi troppo. Non

c’è bisogno che tu mi protegga, Weston.»«E chi l’ha detto?» replicò. «Ti

aspetto nell’atrio.»«Farai tardi all’allenamento. Va’

pure.»Mi guardò mentre prendevo lo zaino e

seguivo le ragazze in corridoio.Superammo il gruppo di armadietticollocati nel centro della mensa e

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girammo a sinistra, dirette agli uffici.Ero passata di lì neanche un paio disettimane prima, tutta fradicia. Ora lavita mi sembrava completamente diversae avevo la sensazione che sarebbecambiata ancora.

Entrai in segreteria, dove trovai KayRains in piedi insieme a un agente dipolizia, al preside Bringham e allapsicologa, la signora Rogers. Alcunistudenti e insegnanti gironzolavano ostavano seduti nella fila di sedie accantoalla porta, in attesa. Forse di me o diqualsiasi cosa stesse per succedere.

«Perché non andiamo nel mioufficio?» propose Bringham. «Credo siameglio.»

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Il nostro gruppetto lo seguì. Kay miinvitò a prendere posto su una delle duesedie davanti alla scrivania, poi sisedette anche lei. Il preside si accomodòa propria volta e giunse le mani davantia sé.

«Erin, so che ti hanno fatto un’analisidel sangue. Ne conosci il motivo?»

Annuii.«Vorrei che non ti agitassi. Mi rendo

conto che qui ci sono parecchie persone,ma è solo una formalità. La signoraRains ha avuto i risultati ed è venuta aspiegarteli.»

«Con un agente di polizia?» chiesi.Kay fece una risatina. «Lo so, è

brutto, ma lo abbiamo ritenuto opportuno

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dato che ci troviamo in una scuola e chepotrebbero scatenarsi violente reazioniemotive... Anche a me sembra un po’eccessivo. Dato che hai diciott’anni eche la signora Easter ha chiesto che tiinformassimo a scuola se i risultatifossero stati di un certo tipo, siamovenuti qui.»

«Non voglio essere sgarbata, mapossiamo arrivare al dunque? Facciotardi al lavoro», intervenni.

Kay batté le palpebre. «Certo,scusami», disse agitandosi sulla sedia.«Erin, in base ai risultati delle analisieffettuate su tutte e tre voi ragazze,siamo giunti alla conclusione che ilgiorno in cui sei nata c’è stato uno

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scambio di neonati in ospedale. Aquanto pare, la defunta signorina ErinAlderman è stata data agli Alderman e tualla signora Easter... per errore.»

La signora Rogers si spostò di latoincrociando il mio sguardo. «Quello chestiamo cercando di dire, Erin, è che seifiglia di Sam e Julianne Alderman.Adesso hai diciott’anni, quindi non soche cosa significhi questo per te, ma gliAlderman sono stati informati evorrebbero tanto parlarti non appena tisentirai pronta.»

«Lo sanno?»Lei annuì e sorrise. «E sono

desiderosi di discuterne con te, se seid’accordo. Sanno che è un grosso shock

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e non vogliono farti pressioni.»«Dov’è Gina?» domandai.Kay guardò la signora Rogers e poi

me. «Ha deciso di non presenziare aquest’incontro. Come ti ho già detto,anche lei è stata informata.»

Riflettei per qualche istante mentretutti nella stanza aspettavano la miareazione. Guardai, corrucciata, ilpreside Bringham. «Posso andare?»

«Certo. So che per te è un fattosconvolgente. Io e la signora Rogerssiamo disponibili a parlarne quando tela sentirai.»

La psicologa si inginocchiò davanti ame. «Se hai domande, legali o di altrogenere, sarò felice di aiutarti, Erin. Non

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esitare a chiedere.»Mi alzai e presi lo zaino. «Grazie. Lo

apprezzo molto, ma ora devo andare allavoro.»

L’agente di polizia si scostò e aprì laporta. Uscii cercando di ignorare ladecina d’occhi che mi fissavano. Varcaila porta laterale e trovai il furgone diWeston sotto la tettoia davanti allarotonda della scuola. Quando lo superai,lui saltò giù e mi rincorse. «Checos’hanno detto?» Non risposi e tiraidritto, ma lui mi si parò davanti.

Battei le palpebre.«Erin. Cos’hanno detto?»«Che Gina Easter non è mia madre e

Julianne Alderman sì.»

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Lui si raddrizzò e distolse lo sguardo,perso nei suoi pensieri. «Caspita. Staibene?» domandò tornando a guardarmidi nuovo negli occhi.

«Ho bisogno di camminare.»«Sicura? Non vuoi che

t’accompagni?»Feci un respiro profondo. «Non

cammino da un po’ e in questo momentoho un gran bisogno di muovermi.»

Weston annuì. Lo superai,concentrandomi sul compito di mettereun piede davanti all’altro finché nonraggiunsi il familiare spiazzo asfaltatodel Dairy Queen. Spalancai la porta e miinfilai il grembiule cercando di fare ilpiù in fretta possibile per raggiungere la

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mia postazione.Frankie stava assaggiando una sua

creazione, appoggiata al banco.«Credevo che oggi non saresti venuta.»

«Scusami, avevo un appuntamento.»«Con Weston?»«No», risposi, accigliata.«Quando sei arrivata, ti stava

seguendo col furgone a tre metri didistanza, poi si è diretto ai campi dabaseball. Lo hai scaricato?»

«A dire il vero noi... non... stiamoproprio insieme.»

«Allora lo hai scaricato?»«No.»«Che genere di appuntamento avevi?»«Con il preside, la psicologa e

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un’assistente sociale.»«Perché?»«Non capisco perché siano stati

coinvolti i servizi sociali. In realtà nonsanno cosa fare.»

«A che proposito?»«Quando... Alder è morta... le hanno

fatto alcuni esami ed è emerso qualcosadi strano. Per Sonny, invece, i risultatierano a posto. Allora mi hanno chiestoun campione di sangue.»

«Sono un po’ confusa, ma confido nelfatto che chiarirai tutto fra poco»,osservò Frankie prendendo unacucchiaiata di gelato.

«Così, oggi dopo la scuola mi hannodetto che Gina non è mia madre.»

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«Cosa?» esclamò Frankieraddrizzandosi, con la bocca ancorapiena di gelato.

«E Gina non c’era neanche. Vogliodire... mi hanno assicurato di averlainformata, perciò lo sa, ma ha chiestoche me lo comunicassero a scuola. Nonvoleva essere presente quandol’avrebbero fatto. Quindi non so se devoandare a prendere la mia roba, se ho unposto dove vivere o...»

Frankie mi attirò a sé e mi cinse conle braccia. In quel momento mi resiconto che stavo singhiozzando.

«Piccola mia», disse lei cullandomi.Poi si scostò e mi prese il viso tra lemani. «Cosa fai qui? Non puoi lavorare

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in queste condizioni.»«Non so dove andare.»Frankie mi strinse ancora,

sussurrandomi parole dolci come fannotutte le mamme. Tutte tranne Gina, chenon si sapeva a cosa fosse piùindifferente: al fatto di aver allevato lafiglia di un’altra o alla morte della suavera figlia.

Non c’era molto traffico: pochepersone avevano voglia di gelato perchéservimmo solo due clienti prima dellafine degli allenamenti, e di entrambi sioccupò Frankie.

«Verrà dritto qui. Scommetto cheaveva la testa altrove e moriva dallavoglia di vederti», osservò.

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Mi rosicchiai l’unghia del pollicefissando lo Chevy rosso parcheggiatodall’altra parte della strada. «No, nondopo che l’ho trattato in quel modo.»

«Tesoro, se non arriva a capire chehai subito lo shock più grande della tuavita, allora non merita di vederti.»

La portiera del guidatore si aprì e sirichiuse sbattendo, poi il furgone partì inretromarcia, fece velocementeinversione e volò fino a raggiungere ilDairy Queen. Corsi alla porta sul retroche Weston aveva già aperto.

Spiccai praticamente un balzo e lui miprese fra le braccia. Lasciò che lostringessi fin quasi a togliergli il fiato,poi iniziò a bisbigliarmi parole dolci

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come aveva fatto prima Frankie, e io miresi conto di essere di nuovo in lacrime.

Frankie era in piedi sulla soglia e mifissava come se fossi in punto di morte.«Porta a casa questa ragazza, Weston.»

«Io non ho... una casa», strillai.«Ti porto a casa con me», disse lui.

Mi lasciò andare un attimo, poi mi presein braccio e mi depose sul furgone. Udiila voce attutita di Frankie dire qualcosae Weston risponderle; si abbracciaronoe poco dopo lui si sistemò al posto diguida.

Mi tenne saldamente per mano duranteil tragitto verso casa e anche quandoentrammo. Mi condusse subito di sotto emi guardò mentre mi sedevo sul divano.

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«Vado di sopra a prendere da bere e...cosa vuoi mangiare?»

«A dire il vero, non mi va niente.»Sospirò e annuì. «Capisco.» Premette

un tasto sul telecomando, avviò l’ultimofilm della lista e risalì di corsa le scale.Fui contenta che avesse acceso iltelevisore prima di andare e non miavesse lasciata sola con i miei pensieri.

Meno di due minuti dopo era sedutoaccanto a me e stava sistemando varipacchetti sul tavolino, compresa unascatola di fazzolettini. Aprì una bottigliadi Fanta e me la porse.

«Ho pensato che non avessi bisognodi caffeina.»

Mi tremava la mano quando accostai

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la bottiglia alle labbra e bevvi un sorso.Weston la prese e la posò sul tavolino.Mi appoggiai a lui e sprofondai tra lesue braccia.

«Dimmi cosa posso fare per aiutarti astare meglio, Erin», mormoròavvicinandomi le labbra alla tempia.

«Questo», risposi, «solo questo.»

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11.

Alle cinque e trenta la saracinesca delgarage ronzò sopra di noi. La udimmoaprirsi e chiudersi, e altri rumorisegnalarono l’arrivo dei genitori diWeston. Poco dopo sentimmo il cigoliodella porta d’ingresso e dei passi sullescale.

Io e Weston non ci muovemmo. Petere Veronica ci raggiunsero e si sedetterosulle due poltrone reclinabili ai lati deltavolino. Peter appoggiò i gomiti sulleginocchia e giunse le mani,

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ricordandomi il preside poco prima chemi dessero la notizia.

«Abbiamo saputo», disse con vocebassa e calma.

Veronica si protese verso di me, conuno sguardo comprensivo negli occhi.«Io e Peter ne abbiamo discusso e,quando sarai pronta, vorremmo offrirtiqualche consiglio legale. Abbiamoparlato anche con Sam e JulianneAlderman, che sperano di avere uncolloquio con te non appena lo vorrai.»

«Tipo quando?» domandai, sempreappoggiata a Weston. Probabilmente miconsideravano pigra e sgarbata, ma eroemotivamente e fisicamente esausta.

«Vivono dietro l’angolo», intervenne

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Peter. «Ci stanno aspettando. Voglionosolo essere certi che tu stia bene. Nondevi vederli per forza stasera.»

Di sopra una porta sbatté e dei passirisuonarono pesanti in cucina.«Veronica?» chiamò una vocefemminile. Sembrava disperata.

Peter corse su per le scale, si udì unadiscussione pacata, poi diverse personescesero nella stanza di Weston, dovenessuno in teoria avrebbe dovutodisturbarci. Quando vedemmo Sam eJulianne sulla soglia, ci alzammo.

Peter aveva il respiro affannoso.«Julianne, non penso sia una buonaidea», la ammonì.

Julianne aveva gli occhi tutti

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arrossati. Si diresse verso di me, ma ilmarito la bloccò.

«Julianne!»Lei si portò le mani al petto. «Mi

dispiace tanto. So che hai avuto unagiornata terribile. Volevo solo... Anchela mia è stata così... A dire la verità hopassato una settimana tremenda, e...»Una lacrima le rigò la guancia. «Hosentito che la scuola non ti ha dato ilsupporto necessario e dovevoaccertarmi che tu stessi bene. Soloquesto.»

Mi avvicinai a loro, ai miei genitori.Mi guardavano imbambolati, come sefossi una pietra preziosa. Sam cingevaper le spalle Julianne che, chinata in

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avanti, allungò le mani e poi le chiuse apugno, chiaramente combattuta fraquello che desiderava e quello chedoveva fare. La voce le si ruppe quandoriprese a parlare. «Ti darebbe fastidiose... mi piacerebbe abbracciarti, se seid’accordo. Non voglio turbarti.»

Mi fissarono tutti in attesa dellarisposta.

Annuii in modo impercettibile, al cheJulianne si protese verso di me e miabbracciò. Tremava, scossa daisinghiozzi.

«Julianne, tesoro», la supplicò Sam.«Non spaventarla, ti prego.»

Lo guardai al di sopra della spalla dilei. «Va tutto bene. Lasciala sfogare.»

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Le labbra di Sam presero a tremare, eanche lui si avvicinò, teso ed esitante,per toccarmi la spalla. Le lacrime glirigarono le guance e la sua bocca sipiegò in un sorriso mentre osservava lamoglie che mi stringeva piangendo.

Un’ora dopo eravamo tutti di sopra,seduti a tavola attorno a un vassoiocontenente i resti di cracker e formaggio,a una bottiglia di vino vuota e a una dadue litri di Fanta Orange da cui mancaval’equivalente di due bicchieri. Peter eVeronica stavano parlando della vacanzain montagna e del fatto che lui non fosseuno sciatore tanto in gamba come sicredeva.

Era bello ridere, ascoltarli parlare,

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conoscerli meglio. Non riuscivo asmettere di guardarli. Veronica avevaragione. Avevo gli occhi di Julianne. Eper la prima volta associai me stessaalla bellezza, perché avevo semprepensato che la signora Alderman fossebella, dentro e fuori. Da Sam avevoinvece preso l’altra metà del viso: illabbro superiore a M, quello inferiorecarnoso e anche il mento. Mi chiesi sestessero pensando le stesse cose di me ose qualcuno le avesse mai pensate.

Julianne si allungò sul tavolo e miafferrò le mani. «Ti chiederai che razzadi madre sono per non essermi accortadi niente. Ero l’assistente di un medico,santo cielo! Ma dopo che ti avevano

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portata via per farti il bagno,gliel’avevo detto che mi avevanorestituito la bambina sbagliata. Losapevo. Loro però sostenevano che erosolo stanca, che avevo gli ormoni insubbuglio. E poi negli anni altre madrimi hanno confessato di aver avuto lestesse paure, con tutte le storie che sisentono.»

«Julianne, è ora di lasciar riposareErin. Domani ha scuola.»

Lei si portò la mano al pettoarmeggiando con i bottoni dellacamicetta di seta, poi prese a tremare.«Io... non so se lei... vuoi...»

«Perché non resta qui per la notte?»propose Veronica. «Ovviamente

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chiameremo la signora Easter el’avvertiremo che si ferma da noi.»

«Non abbiamo il telefono», dissi. «Ea lei in realtà non... Non penso che miaspetti.»

Julianne parve sconvolta.«Ci sono ancora dei vestiti di

Whitney. Puoi prenderli», aggiunseVeronica.

«Vuoi restare qui?» domandòJulianne.

«Mi farebbe piacere», risposi,travolta da un’altra ondata d’emozioni.

Sam si alzò e invitò Julianne a fare lostesso. Lei non voleva andarsene, ma ilmarito la esortò e alla fine cedette, nonsenza avermi prima abbracciato di

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nuovo.Quando la porta si chiuse, Weston,

Veronica, Peter e io restammo insoggiorno a guardarci.

«Erin, puoi sistemarti nella stanza diWhitney. È una soluzione un po’... fuoridagli schemi, ma credo che sia la cosamigliore finché tu, Sam e Julianne nonavrete deciso il da farsi. Dal punto divista legale la questione non è chiara,perché sei maggiorenne. Ma nonpreoccuparti, sei la figlia di Sam eJulianne. Qualsiasi decisione tu prenda,ti appoggeranno. Weston, mostrale lastanza e lascia che vada a riposare. Haavuto una giornata lunga.»

Lui annuì e mi condusse per mano su

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per le scale. La stanza di Whitney eradalla parte opposta del corridoiorispetto alla sua. Aveva un bagnoenorme con la vasca, la doccia e unarmadio che andava dal pavimento alsoffitto pieno di asciugamani grandi emorbidi. Lui controllò che ci fossero ilsapone e lo shampoo. «Se vuoi, domanipossiamo passare da Gina a prenderequalsiasi altra cosa ti serva.»

Feci un cenno d’assenso.Tornammo in camera e Weston scostò

la trapunta. «Lenzuola pulite», disse.Aprì la cabina armadio. «Vestiti, e ancheparecchi.» Tirò un cassetto del mobile.«Camicie da notte e pigiami, alcuni diseta perché Whitney è una gran diva.

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Lascia pure gli abiti sporchi nel cesto.Lila li laverà domani, quando arriverà.Sono piuttosto sicuro che Whitneytenesse cosmetici, elastici per capelli eroba del genere nei cassetti sotto illavandino.»

«Sì», confermò Veronica entrandonella stanza. Mi diede uno spazzolinonuovo, un tubetto di dentifricio e undeodorante stick. «Peter si lamentasempre che compro troppa roba.Stasera, signorina, mi hai fattoguadagnare punti in una discussione cheva avanti da vent’anni.»

«Vorrei trovare il modo diringraziarvi. Mi spiace...»

«Sciocchezze», tagliò corto Veronica

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indugiando sulla soglia con la manosulla maniglia. «Sistemeremo tutto.Cerca di riposare. Ci vediamo domanimattina, Wes?»

Lui mi diede un bacetto e seguì lamadre in corridoio. Entrai nelgigantesco bagno, tutto bianco eluccicante, e mi svestii davanti allospecchio. Mi feci una lunga doccia caldaprovando tutti i tipi di shampoo,balsamo e schiume detergenti per il visoche riuscii a trovare. Quando ebbi finito,profumavo come se fossi appena uscitada un salone di bellezza. Avevo la pelleluminosa come le piastrelle di marmo.Mi sembrava di essere Julia Roberts inPretty Woman.

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Mi avvolsi in un asciugamanomorbido, mi pettinai e notai quanto ilcolore dei miei capelli fosse simile aquello di Julianne. Pescai una camiciada notte dal cassetto, la indossai em’infilai nel grande letto matrimoniale.Le molle non cigolarono quando mistesi. Non sapevo neanche se ilmaterasso di Whitney le avesse:ricordava un enorme cuscino imbottitodi gommapiuma. Appoggiai la testa sulguanciale e allungai al massimo legambe, senza tuttavia riuscire araggiungere il bordo, avvolta dallasontuosa trapunta morbidissima.

Mi girai su un fianco e spensi la luce.Prima che mi fossi sistemata bene sotto

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le coperte, la porta si aprì e Westonsgattaiolò dentro. «Dormi?» chiese.

«No.»Si inginocchiò accanto al letto. «Sei

comoda?»«Più di quanto non lo sia mai stata.»«Ti serve altro prima che vada in

branda?»Scossi la testa.«Non so se riuscirò a dormire

sapendo che sei in fondo al corridoio.»«E tu provaci», risposi sorridendo.Ridacchiò e si chinò per baciarmi

meglio di quanto avesse potuto fare inpresenza di sua madre. Poi si avviòverso la porta. «Starai bene», dissevoltandosi. «Questa è solo una delle

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cose che affronteremo insieme.»«Lo so.» Mi sarei dovuta sentire ben

più spaventata: in fondo ero unadiciottenne che aveva appena scopertodi essere stata cresciuta da una donnache non era sua madre, ma in quelmomento mi sembrava di avere unpiccolo esercito dalla mia.

Il mattino seguente quando arrivai ascuola mi parve di entrare in un’altradimensione. Come sempre mi fissavanotutti, ma stavolta con curiosità. Durantela prima ora Brady mi lanciò un paio diocchiate in cui non colsi alcuna tracciadi disgusto. Persino gli insegnanti miguardavano in modo diverso. Era come

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se la Erin che se n’era andata il giornoprima fosse stata rimpiazzata daqualcun’altra.

Nessuno, neanche Brady, mi chiamòEaster. Se si rivolgevano a me, michiamavano Erin. Per la prima volta insette anni nessuno mi disse una solaparola cattiva o mi lanciò occhiatacce.Ero sicura che lo avrebbero fatto da unmomento all’altro, che qualcuno miavrebbe provocato, ma non accadde. Peril resto della settimana le cose andarononello stesso modo e venerdì la tensioneche provavo ogni volta che entravo inclasse era svanita. Non mi aspettavo piùche qualcuno mi insultasse o milanciasse palle di carta. E i miei

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pensieri erano interamente concentrati suWeston, Sam e Julianne. Erano venutiogni giorno a cena dai Gates e lo stessoavrebbero fatto quella sera, ma stavoltasentivo che era importante.

Il pomeriggio Weston miaccompagnava al Dairy Queen eattraversava la strada per andare agliallenamenti. Lila mi lavava un paio dijeans ogni sera, così potevo metterlinello zaino e cambiarmi sul lavoro. Nonvolevo rovinare i vestiti di Whitney.Molti erano squisitamente femminili ecostosi. Le sue scarpe erano di mezzonumero troppo grandi ma non milamentavo. Era la prima volta che avevoqualcosa di decente, per giunta firmato.

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Io e Frankie parlavamo dei suoi figli,ma soprattutto le raccontavo della mianuova casa e della mia nuova vita.Sorrideva spesso ascoltandomi e sapevoche era felice per me, eppure nei suoiocchi c’era una vena di tristezza che nonriuscivo a decifrare.

Tutti i giorni Weston faceva un salto atrovarmi dopo gli allenamenti e quandofinivo tornava a prendermi. Martedì serapassammo da Gina. Ero incerta se usarela mia chiave, e alla fine decisi dibussare. Quando lei non rispose, entrai.I Soul Asylum erano al massimo volume;corsi in camera mia e in bagno,recuperai ciò che pensavo potesseservirmi – lo spazzolino, il rasoio, i

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pochi trucchi che possedevo, labiancheria intima e il blocco deglischizzi – e lasciai tutto il resto.

Quella sera dovevo cambiarmi infretta se volevo scendere di sotto intempo per l’arrivo di Sam e Julianne,perciò, nel momento stesso in cuiWeston entrò nel garage, lasciai la suamano e schizzai su per le scale.

Quarantacinque minuti dopo riemersilavata, depilata e profumata. Weston eraseduto sul primo gradino della scala, inattesa. Quando uscii dalla stanza diWhitney, si alzò. Gli sorrisi, ma lui nonricambiò.

«Cosa c’è?»«Niente.» A quel punto si sforzò di

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sorridere e mi diede un bacio sullaguancia, dopodiché scendemmo insieme.

Peter e Veronica stavanoapparecchiando la tavola mentre Sam eJulianne scoperchiavano i piatti diportata e li disponevano al centro.

Non appena mi videro s’illuminaronoe mi vennero incontro per abbracciarmi.Una volta seduti a tavola, noiraccontammo la nostra giornata. Cirivolsero domande precise sugli impegniscolastici e vollero sapere la nostraopinione su certe politiche dell’istituto.Potevano sembrare semplicichiacchiere, ma Sam e Julianne sidimostravano sinceramente interessati eascoltavano con attenzione ogni parola.

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Terminata la cheesecake alcioccolato, Julianne entrò in agitazione.In un momento in cui la conversazionelanguiva, Sam le prese la mano e gliocchi le si velarono di lacrime.

«Erin», disse Sam, «io e Julianneabbiamo parlato a lungo questasettimana e, anche se sappiamo che èaccaduto tutto molto in fretta, vogliamochiederti se ti farebbe piacere stare danoi... finché non andrai al college o avivere per conto tuo. Abbiamo un belpo’ di tempo da recuperare e saremmofelici di stare insieme, come unafamiglia.»

Spostai lo sguardo da lui a lei. Mifissavano entrambi con un’aria

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disperata.«Avrai la tua stanza», proseguì

Julianne. «Ti abbiamo già preso il letto,la cassettiera e le lenzuola, ma abbiamopensato che avresti preferito sceglierepersonalmente la trapunta e altre cose,perciò ti abbiamo lasciato qualchecatalogo.» Alzò una mano. «Non stodando per scontato che verrai a viverecon noi. È solo... be’, non devi pensareche ti daremo la stanza di Alder. Avraila tua camera, i tuoi abiti e le tue cose.»

Sam si protese leggermentesistemandosi gli occhiali. «Non devidecidere stasera. Sappi che la propostaè sempre valida. Questo fine settimananon abbiamo programmi, in caso tu

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desideri, be’, trasferirti, ma comunquenon vogliamo farti pressione.»

«D’accordo, penso che sia una bellacosa», dissi.

«Davvero?» esclamò Julianne,sconvolta.

Annuii.Lei batté le mani eccitata, poi si

alzarono entrambi e vennero adabbracciarmi. Veronica e Peter sicongratularono e ci stringemmo tutti,pieni di gioia, tranne Weston.

Mi sedetti vicino a lui. «Va tuttobene?» chiesi.

«Sentirò la tua mancanza ognigiorno», rispose.

«Weston, tesoro, sarà in fondo alla

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strada», osservò ridendo Veronica.«Lo so», ammise, sempre infelice.«Non le ruberemo troppo tempo»,

cercò di rassicurarlo Julianne.«Prometto che ti lasceremo spazio perstare con lei.»

L’idea sembrò rallegrarlo un po’ e aquel punto mi prese per mano.

Sam e Julianne tornarono ai loroposti.

«Allora credo che potremo iniziaredomani. Non ho molte cose da portarecon me», dissi con una scrollata dispalle.

«Perfetto», replicò Julianne.«Penseremo noi a tutto. Se c’è qualcosache ti serve e che non abbiamo, faccelo

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sapere.»«Allora... a domani?» disse Sam

alzando il bicchiere quasi vuoto. Glialtri lo imitarono mentre io e Westonbrindavamo con la nostra Cherry Coke.

«A domani!» esclamammo tuttiall’unisono.

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12.

Sam e Julianne tornarono a casa,ansiosi di occuparsi degli ultimipreparativi prima del trasloco delgiorno seguente. Peter e Veronica siritirarono in camera loro e Weston michiese di fare un giro in macchina. Citenemmo per mano mentreraggiungevamo il suo posto preferito, ilcavalcavia, e anche quando cistendemmo sul pianale a guardare lestelle.

«Sono un po’ nervoso. Ti ho appena

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conquistata e finora ti ho avuta tutta perme», disse avvicinandosi per baciarmi icapelli.

Mi abbandonai, appoggiandogli latesta sul braccio. «Sarò dietro l’angolo eavrò sempre bisogno di un passaggio perandare a scuola il mattino. Non pensoche cambierà molto.»

«Non lo so. Avete diciott’anni darecuperare, e sarei un gran coglione sefossi geloso del fatto che dedichi deltempo a conoscere i tuoi genitori. Ho lasensazione di dovermi fare da parte manon mi va.»

«Non voglio che ti faccia da parte»,replicai riflettendo sulle sue ultimeparole. «I miei genitori. Uau. È...

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semplicemente pazzesco. Continuo apensare che un giorno mi sveglierò o chequalcuno mi dirà che è stato uno scherzocrudele.»

«Uno scherzo crudele? Hai appenavinto alla lotteria. Non solo a scuolahanno smesso di tormentarti, ma haicome genitori due delle persone miglioridella città.»

«Non mi sembra giusto festeggiare.»«Non li hai rubati, Erin. Sono tuoi. Un

po’ come il sottoscritto.»Lo guardai e al chiaro di luna riuscii a

scorgere il suo incredibile sorriso. «Ètroppa fortuna in un colpo solo per unache non ne ha mai avuta in vita sua. Hola sensazione che d’un tratto potrei

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perdere tutto.»«Io non vado da nessuna parte, te lo

prometto.»Mi girai su un fianco e mi appoggiai a

lui avvicinando le labbra alle sue. Erauna sera fredda, ma nel petto sentivo uncalore che si diffuse in tutto il corpo.Anche Weston lo percepì, perché mipremette le dita sulla pelle ed emisequel gemito che amavo tanto. Mi scostaida lui mordicchiandomi il labbro, un po’nervosa per quanto stavo per fare.

Mi sedetti e mi sfilai la maglietta.Weston non si mosse finché non feci perslacciarmi il reggiseno; a quel punto sitirò su e mi afferrò le braccia. Mi baciòe parlò sfiorandomi le labbra.

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«Cosa fai?» mormorò. Aveva gliocchi chiusi, ma ogni muscolo del suocorpo era teso per lo sforzo dicontrollarsi.

«Cosa ti sembra che faccia?»«Non qui.»«Cosa?»«Non voglio che la tua prima volta sia

sul pianale del mio furgone.»«Perché no? I miei ricordi più belli

sono qui.»Rifletté per un istante e quando lo

baciai ricambiò con passione. Fecescorrere le dita lungo il mio collo eabbassò le spalline del reggiseno. Nonappena questo cadde accanto a noi sulpianale, si tolse la maglietta e mi attirò a

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sé. Il contatto del mio seno nudo controil suo petto caldo mi provocò un fremitotra le cosce, e fui io allora a gemere.

Weston mi fece sdraiare, mi sbottonò ijeans e li sfilò posandoli sul mucchio divestiti. Poco dopo eravamo entrambicompletamente nudi, e d’un tratto lui fusopra di me, la bocca sulla mia, pellecontro pelle.

Strinsi i suoi fianchi tra le coscementre si metteva il preservativo, maquando fu pronto si bloccò. «Seisicura?» chiese. «Voglio dire,assolutamente sicura? Se mi dici“aspetta”, lo farò.»

Lo afferrai per il fondoschiena e lospinsi contro di me. Sprofondò la faccia

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nel mio collo e mi penetrò lentamente,con delicatezza. Fui contenta che non mistesse baciando perché riuscivo aconcentrarmi solo su quello sgradevolebruciore. Qualche minuto dopo tuttavia inostri corpi parvero adattarsi allaperfezione e mi rilassai. Weston posò lelabbra sulle mie e passammo ore atoccarci e ad assaporare a vicenda inostri corpi.

Poco prima dell’alba Weston crollò almio fianco. Allungò la mano verso latasca dei jeans per prendere l’inalatoree spruzzarsi un po’ di farmaco, poi mifissò, esausto e felice. Ci stendemmo aguardare le stelle. Mi baciò sulla fronte,poi frugò di nuovo nelle tasche dei

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jeans, da cui stavolta estrasse unascatoletta nera lunga. «Ti ho preso unacosa.»

«Perché?»«Per il tuo compleanno.»«Il mio compleanno è in maggio»,

obiettai.«È un regalo di compleanno

anomalo», disse lui sogghignando.«Volevo aspettare il diploma, ma non cisono riuscito. Adesso è il momentoperfetto.»

La scatola scricchiolò quando laaprii. Dentro c’era un cuore d’argento.Era quasi identico a quello delcarboncino, con tanto di scritta PERCASO al centro. Restai senza fiato.

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«Ti piace?» chiese.«Se mi piace? È la stessa collana,

vero?»«Te ne sei ricordata», osservò,

raggiante.«Certo che sì. Come hai fatto a

trovarla?»Ci mettemmo entrambi a sedere.

Weston la prese e me la allacciò alcollo. «Ho delle conoscenze. Sono unapersona ben introdotta, sai.»

«Lo so», risposi abbracciandolo.«Non pensavo che quando te l’avessi

vista al collo non avresti avuto altroaddosso. È decisamente un’emozione inpiù.»

Ridacchiai.

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Guardò il cuore e poi me. «È perfetto,come la ragazza alla finestra.»

«Lei non è perfetta», obiettai.«Lo è per me.» Mi sfiorò le labbra

con le sue, ma proprio quando iniziavodi nuovo a sentire quel brivido caldo intutto il corpo si scostò. «Sarà megliovestirci e tornare a casa per dormirealmeno qualche ora. Oggi devitraslocare.»

«Trasloco dagli Alderman», dissi,pensando a voce alta.

«Tu sei una Alderman.»Scossi la testa, assolutamente

incredula. «Se ci penso troppo, mis’incasina il cervello.»

Weston mi aiutò a scendere dal

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pianale e a salire sul sedile. Iniziavo aconsiderarlo il mio posto, e mi piaceva.Riaccompagnandomi a casa, mi tenneper mano e io mi sentii serena sapendoche me ne sarei sì andata quel giorno,ma sarei stata a poche case di distanza.

Weston notò che ero assorta nei mieipensieri e mi strinse la mano. «Nonarrovellarti troppo. Le cose sono quelleche sono.»

Toccai la collana che stava allaperfezione nell’incavo tra le clavicole emi domandai cosa avrei provato aessere Erin Alderman.

«Ed è successo per caso», mormorai.

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SOMMARIO

1.2.3.4.5.6.7.8.9.10.11.12.

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