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UNA VITA PER MIO PADRE, GIOVANNINO GUARESCHI GIULIANO GUARESCHI DIABASIS Figlio d’arte e figlio primogenito naturale Giuliano Montagna è emigrato in Australia a 19 anni, nel 1961, nel sogno − impossibile in Italia − di esercitare come il padre la professione di giornali- sta. Dopo un’intera vita passata nel desiderio di morire con quel cognome, il suo cognome, Giuliano Montagna ritorna in Italia Giuliano Guareschi, giornalista e scrittore. Ne fanno fede il DNA, giudice biologico e legale (era il “lontano” dicembre del 2008), e questo libro. La prima edizione costituita dalla sola prima parte di questo vo- lume ha ricevuto il Premio Mario Soldati (settore Critica e Gior- nalismo) nel 2004. 15,00 GIULIANO GUARESCHI UNA VITA PER MIO PADRE , GIOVANNINO GUARESCHI cop_guareschi_manu_def.indd 1 9-04-2009 11:14:33

Una vita per mio padre

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La nuova edizione dell'esauritissima autobiografia Mio padre Giovannino Guareschi. Dal Po all'Australia inseguendo un sogno, riproposta assieme al racconto dell'avvenuto riconoscimento di Giuliano Montagna come figlio primogenito di Giovannino alle cronache australiane della Croce del Sud. Giuliano Montagna racconta la sua storia, dall'infanzia a Parma con la madre Luisa e i nonni all'impiego in Barilla, fino alla direzione del quotidiano di Sydney in lingua italiana, «La fiamma». Il racconto ripercorre il cammino di un uomo alla ricerca della propria identità per riappacificarsi con se stesso e con il padre. Un uomo lacerato, fra due patrie fisiche – Italia e Australia – e due patrie dell'anima: se stesso e il padre, l'altro sé in cui riconoscersi.

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Figlio d’arte e fi glio primogenito naturale Giuliano Montagna è emigrato in Australia a 19 anni, nel 1961, nel sogno − impossibile in Italia − di esercitare come il padre la professione di giornali-sta. Dopo un’intera vita passata nel desiderio di morire con quel cognome, il suo cognome, Giuliano Montagna ritorna in Italia Giuliano Guareschi, giornalista e scrittore. Ne fanno fede il DNA, giudice biologico e legale (era il “lontano” dicembre del 2008), e questo libro.

La prima edizione costituita dalla sola prima parte di questo vo-lume ha ricevuto il Premio Mario Soldati (settore Critica e Gior-nalismo) nel 2004.

€ 15,00

GIULIANO GUARESCHIGIULIANO GUARESCHI

UNA VITA PER MIO PADRE,GIOVANNINO GUARESCHI

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Topolino Transports Internationaux Routiers

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Cura redazionaleGianluca Grassi e Alessandro Scansani

Progetto grafico e copertinaBosioAssociati, Savigliano (CN)

ISBN 978-88-8103-545-8

© 2009 Edizioni Diabasisvia Emilia S. Stefano 54 I-42100 Reggio Emilia Italiatelefono 0039.0522.432727 fax 0039.0522.434047

[email protected] www.diabasis.it

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D I A B A S I S

Giuliano Guareschi Montagna

Una vita per mio padre Giovannino Guareschi

Nuova edizione accresciutadi un epilogo, La forza del destino, e delle Cronache australiane

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A mia madre Luisa

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Itaca

Quando ti metterai in viaggio per Itaca devi augurarti che la strada sia lungafertile in avventure e in esperienze.I Lestrigoni e i Ciclopi o la furia di Nettuno non temere,non sarà questo il genere d’incontri se il pensiero resta alto e un sentimento fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.In Ciclopi e Lestrigoni, non certo né nell’irato Nettuno incapperaise non li porti dentrose l’anima non te li mette contro

Devi augurarti che la strada sia lunga.Che i mattini d’estate siano tantiquando nei porti – finalmente, e con che gioia – toccherai terra tu per la prima volta:negli empori fenici indugia e acquista madreperle coralli ebano e ambretutta merce fina, anche profumi penetranti d’ogni sorta, più profumi inebrianti che puoi,va in molte città egizieimpara una quantità di cose dai dotti.

Sempre devi avere in mente Itaca – raggiungerla sia il pensiero costante.Soprattutto, non affrettare il viaggio; fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchiometta piede sull’isola, tu, ricco dei tesori accumulati per stradasenza aspettarti ricchezze da Itaca.

Itaca ti ha dato il bel viaggio,senza di lei mai ti saresti messo in viaggio: che cos’altro ti aspetti?

E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso.Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addossogià tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.

Costantinos Kavafis

(Da: Settantacinque poesie, Einaudi 1992, trad. e cura di Nelo Risi, Margherita Dalmati)

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PRIMA PARTE

Mio padre Giovannino GuareschiDal Po all’Australia inseguendo un sogno

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Una speranza lunga una vita

Sono tornato a casa inseguendo una speranza: diventare lapersona che sono. Un giornalista che ha avuto fortuna in Au-stralia nel mestiere al quale inconsapevolmente mi aveva vo-tato mio padre, scrittore famoso. I suoi protagonisti hannoanimato libri e film divorati in ogni angolo del mondo. Qua-le desiderio poteva scaldare un figlio se non l’avventura del-l’imitazione? Papà aveva cercato di spegnere la mia voglia diimboccare la “strada tribolata”: diceva così.

Una sera, in automobile, prima che lasciassi la mia picco-la città, ha raccontato di trappole e delusioni in agguato neicorridoi di ogni giornale. E il sapermi lontano dagli affetti lopreoccupava. Voleva che cambiassi idea. Da lui ho ereditatola testa dura e sono partito. Eccomi di ritorno.

Stasera la mia terrazza si affaccia sulla cupola illuminatadella Steccata: protegge nuvole e angeli del Parmigianino. ASydney sfogliavo libri che ne riproducevano l’incanto e im-malinconivano la nostalgia. Adesso posso allungare la mano,quasi sfiorarli. Ma una nostalgia più profonda resiste in fondoal cuore.

Quanto tempo è passato dal ruvido addio a mio padre, ep-pure la memoria raccolta nei fogli sui quali ho appena scrit-to la parola fine, ribadisce silenziosamente un desiderio chepuò sembrare effimero, come la vanità, ma resta il tormentodella vita.

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Vorrei che sulla tomba fosse scritto il mio vero nome, Giu-liano Guareschi.

Montagna era solo il marito gentile di una ragazza che avent’anni aveva avuto un bambino da un aspirante giornali-sta poco più grande di lei e con cui si incontrava per amoredall’età di sedici anni: Giovannino Guareschi, lo scrittore diPeppone e Don Camillo.

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Trenta righe

Sydney, 23 luglio 1968. Il cielo d’inverno è trasparente, mail vento spinge nuvole nere sulla città. “Fra un po’ piove”,penso. E continuo a sfogliare le carte. È giorno di chiusura, leore sono contate. La tipografia aspetta.

Arriva Zadro, il giornalista anziano. Nel 1947 faceva parte del gruppo che ha rimesso al mondo

«La Fiamma», settimanale per gli italiani d’Australia con allespalle una storia lunga un secolo. L’hanno fondato i missio-nari cappuccini. Oggi è un quotidiano.

Quel mattino mette sul tavolo dieci foglietti. Zadro passa la notte ad ascoltare in cuffia le informazioni che

arrivano da Roma, perché la Rai – ancora nel ’68 – consideraval’Australia periferia dell’Africa, sulla quale erano puntate le an-tenne di chissà quale impero perduto. Bisognava rubare vociche tremavano lontano. Niente di speciale, briciole di infor-mazioni. Le novità non c’erano mai: un po’ di politica, il delit-to passionale. Sport e scandali veniali. Gli intrighi sociali si la-vavano in casa. Gli italiani “di fuori” non dovevano sapere qua-li ombre e quali mani agitavano i palazzi della madre patria.

Quel mattino, il mio cuore si è fermato davanti al titoloscritto in fretta da Zadro con la biro: “Guareschi”, seguito dacinque righe.

Era morto la notte, al mare. Anch’io mi fermo, mentre un sospiro mi trema sulle labbra.Leggo e rileggo cercando di non cambiare espressione. Gli

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altri che pigiano i tasti nella stessa stanza non si accorgonodella commozione che mi sgrana gli occhi. Mormoro qualco-sa rileggendo l’appunto per l’articolo da scrivere: “Morto…”

Sillabo la notizia, sorpreso, disperato: una parola ha portatovia mio padre. Nessuno sospetta il dolore che allaga il mio cuore.

In quel momento entra il direttore, Evasio Costanzo. Gli passo il foglietto. “Roba tua”, risponde. “Vieni da Parma, scrivi trenta righe.

Affettuose, mi raccomando. Quando ancora non lavoravi connoi, Guareschi ci ha permesso di pubblicare a puntate il librodi Don Camillo. Gli italo-australiani lo hanno incontrato sul-le nostre pagine prima che uscisse il film.”

Raccomanda di essere affettuoso. Scuoto la testa. Sono letrenta righe più difficili della mia vita.

Non riesco a pensare. Non mi rassegno ad accettare chel’inseguimento cominciato da ragazzo possa essere finito conle poche parole di una nota interna su un pezzo di carta. Hovoglia di prendere il telefono, dire qualcosa a qualcuno. Solomia moglie sa il segreto che mi ostino a seppellire in un silen-zioso dolore. Il tempo lo aveva rattrappito, cancellato mai.

Mi guardo attorno. Gli altri scrivono e i tavoli sono talmen-te vicini che mi pare impossibile – se telefono – non udire lemie parole. Per anni ho represso il desiderio di far sapere chisono davvero. Ed ecco la notizia che rimescola le carte. Sentoche non è ancora il momento di raccontare l’altra verità.

Scendo in strada e da una cabina chiamo casa.“Si è fatto vivo qualcuno dall’Italia?”Lo so che è un’illusione. Nessuno ha mai chiamato per dir-

mi di mio padre. Perché mai qualcuno dovrebbe farlo ora, peravvertirmi che ha smesso di respirare?

“Perché me lo chiedi?”Sento la meraviglia di Giancarla, mia moglie. Le spiego, e la telefonata diventa strana. Giancarla resta in

silenzio, io non parlo. Abbiamo immaginato tante volte, fra

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di noi, come “il figlio australiano” dovesse ripresentarsi al pa-dre nell’apologia di un ritorno: l’automobile grande, gli arti-coli dei giornali, le onorificenze di Sydney e i collari dell’am-basciata italiana. Di colpo i sogni sono finiti. La voce di Gian-carla è un sussurro tagliato da una frattura:

“Vai al funerale?”“A cosa serve? Resto.”Quando era vivo ci siamo incontrati di nascosto, adesso che

non c’è più sono stanco di giocare con i segreti.La notizia della scomparsa di Giovannino Guareschi chiu-

de il sipario di una pantomima incominciata tanti anni prima,il 20 agosto 1933, in un borgo della vecchia Parma: ombreumide di piccole case lontane dalla Bassa di Peppone e donCamillo, distanti dalla villa che mio padre fece costruire dopoi suoi trionfi. A lui piaceva l’erba sulla porta di casa.

Io sono nato in un posto diverso: Borgo Schizzati. Mio pa-dre abitava in Borgo del Gesso, soffitta larga tre passi, porto-ne di fianco alla vetrina di una macelleria senza sfarzo, che ven-deva carne di cavallo: due quarti appesi alla parete e avvolti inlenzuola bianche, per difenderli dagli attacchi delle mosche.

Quando è venuto al mondo (è il suo racconto) l’evento erastato salutato dai comizianti socialisti raccolti nella piazza diFontanelle, un paese che non è proprio paese e non fa nep-pure comune; solo una frazione con tradizioni sindacali radi-cate nelle rivolte contadine.

Nella casa di fronte era da poco arrivato un altro bambino,figlio della fornaia, cugina dei miei nonni. L’avevano battezza-to Pietro. Nell’oscurità di una campagna lontana dalle luci del-la città, cominciava per Pietro Bianchi l’avventura di critico ci-nematografico, talmente bravo da incantare Milano e Venezia,se il suo nome è stato onorato con il premio assegnato dalla cri-tica. La notizia che mio padre aveva aperto gli occhi ha fatica-to, quel giorno, ad attraversare la piazza e a infilare la porta dicasa Bianchi. Sul palco i comizianti invitavano allo sciopero.

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E la gente si agitava, troppo spaventata per cogliere la felicitàdella nascita di un altro bambino. Nelle piazze di quell’Italiacontadina risuonavano ovunque imprecazioni simili alle vociche animavano il paese raccolto, quel mattino, sotto l’argine.Nel frastuono era impossibile immaginare come il destino didue cugini si sarebbe legato a una comune passione: scrivere.

Mio padre aveva suo padre che girava i paesi con un proiet-tore e tanti film: ombre proiettate su lenzuola sistemate nelleaie di paese, dalla primavera alla prima nebbia.

Pietrino Bianchi ha cominciato ad amare il cinema così.Se lui è venuto al mondo nel teatro rumoroso che in fondo

ha sempre accompagnato la sua fantasia di scrittore, la mianascita è stata accolta in modo diverso: come uno scherzo im-previsto e penoso del destino.

La vita al «Corriere Emiliano», il quotidiano dove Guare-schi lavorava (cioè la vecchia «Gazzetta di Parma», alla qua-le il fascismo aveva cambiato nome) si dimostrava interessan-te e carica di promesse. Costava fatica lavorare a un giornalee, per alleggerire gli affanni, in redazione e in tipografia glischerzi erano all’ordine del giorno. Spesso si inventavano no-tizie per il piacere di fare una risata. Fra le notizie brevi del 20agosto 1933, nella rubrica “Una culla” il «Corriere Emiliano»faceva sapere, in modo canzonatorio, ma forse davvero trop-po pesante: “La casa del nostro carissimo amico e compagnodi lavoro dottor Nino Guareschi è stata allietata dalla nascitadi un superbo maschietto che fa onore ai genitori. Gli hannoimposto il nome augurale di Primo. Speriamo che per NinoGuareschi sia il primo di una serie lunga e felice”.

Ho ricopiato queste poche righe da uno dei tanti libri che ac-compagnano le ricorrenti linee d’ombra della mia malinconia:Giovannino Guareschi, una storia italiana di Alessandro Gnoc-chi. Gnocchi apre pieghe che sembrano minori nell’economiadi una vita; ma ogni biografia lo richiede, proprio perché “le vo-ci marginali di qualunque storia rivelano realtà a volte sconvol-

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genti”. Lo scrive Musil nell’Uomo senza qualità. Per lungo tem-po mi sono sentito senza qualità, sotto la maschera che coprivala mia vera storia. E tutto iniziò proprio con il “gioco” goliardi-co di quell’articolo: il mio mondo piccolo, in una piccola città.

Nato la mezzanotte del 20 agosto, il giornale già lo annun-ciava: com’era possibile?

Fra le voci raccolte, spuntano le confidenze dei compagnidi lavoro del «Corriere Emiliano». Quel giorno mio padre eranervoso. A qualcuno ha spiegato perché. Scapolo e squattri-nato, stava per mettere al mondo un bambino. E mentre an-nunciava quella prossima nascita, la crudeltà ironica di amicida sempre fedeli è esplosa in una risata.

“Dai, non prendertela. Succede a questa età…” Sulle carte dell’anagrafe mi chiamo Giuliano Alberto Mi-

chele. Tre nomi, un solo cognome, quello di mia madre: Carta.Il nome del padre era brevissimo, ma pesante come una con-danna: N.N., etichetta che, nella tradizione delle donne sedot-te e abbandonate di un’altra Italia, indicava il figlio del pecca-to. N.N. l’ho ricevuto come una scomoda eredità. Poi mia ma-dre Luisa si è sposata e, per regalo di un cortese patrigno, hoguadagnato l’altro cognome: Montagna. Nessuno faceva piùdomande, ma il cambiamento non è stato semplice. Tante ama-rezze fra le scartoffie del Comune e della scuola. Mancava sem-pre qualcosa. Eppure non me ne sono quasi accorto, anche senon sapevo spiegarmi le facce lunghe che mi circondavano,quando la burocrazia faceva ripartire da zero ogni speranza.

Ai bambini non si racconta mai.È stato solo l’inizio della mia ricerca. Di quel periodo è rimasto come segno un piccolo, muto te-

stimone materiale. Quando ero ragazzo, e ancora ignoravo iretroscena della mia vita, non capivo una certa mania di miamadre: la sorprendevo ogni tanto lisciare con le mani, quasifosse un bambino, il primo corredo che mi aveva vestito.

“Guarda com’è bello…”, ripeteva.

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Era bello, sì, ma quante volte glielo avevo sentito dire! Fin-ché una sera, alzando gli occhi dal quaderno dei compiti, hochiesto tanto per farle piacere:

“Dove l’hai comprato?”, “Te l’hanno regalato?”, “Chi?” “Un signore molto importante per me, e anche per te. Un

giorno te ne dirò il nome.” Un amico della «Gazzetta» aveva consegnato il pacco a mia

madre, pochi giorni dopo la nascita. Una zia raccontava chemia madre aveva pianto, mentre il giovane signore le parlavasottovoce in un angolo della stanza. Più tardi ho saputo chiera quel signore: Alessandro Minardi, un giornalista che nonavrebbe più lasciato mio padre fino all’ultimo «Candido» del-l’editore Rizzoli, in piazza Carlo Erba, a Milano.

Mia madre non mi aveva detto tutto. L’ho saputo solo an-ni dopo.

Quando sono nato avevo una cugina grande, Mina Nardi,di tredici anni. Quel giorno in casa c’era anche lei e ricorda diaver visto il commesso di un negozio consegnare a mia madrelo scatolone con un corredino da neonato e, più tardi, arriva-re Guareschi con la sua Topolino “per controllare”.

Si è affacciato, e ha chiesto se avevano portato il suo rega-lo. Mina lo conosceva bene. Aveva tredici anni e accompa-gnava mia madre, all’epoca non ancora maggiorenne, agli in-contri segreti nel solaio di Borgo del Gesso. Lo ricorda co-me un grande stanzone diviso in due da una tenda; poi la li-breria, la scrivania fatta da un’asse che ne incrociava altredue, libri e giornali accatastati dovunque.

Mina andava dietro la tenda ad aspettare la cugina e ascolta-va. Una volta sentì la voce di Guareschi che supplicava: “Nondevi sposarti. Aspetta, vieni a Milano. Là aggiusteremo tutto”.

Quando, al ritorno, Luisa le chiese se aveva sentito, Minanon poté negare.

I suoi ricordi per me sembravano non finire mai. “Guareschi veniva a Parma, e dormiva all’Albergo Buton,

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un simbolo a quei tempi per i viaggiatori che potevano spen-dere. Quasi in piazza. Luisa gli scriveva dei bigliettini che la-sciava al portiere, poi tornava a prendere la risposta. A volteli portava mia sorella Tina. Tina era molto curiosa e, se si fos-se trovata nella soffitta, avrebbe sicuramente anche sbirciatotra i buchi della tenda. Consegnava i messaggi al portiere e sisedeva ad aspettare. Voleva vederlo”.

In casa si parlava spesso di Guareschi. Tanto. Di lui le pia-cevano, a lei piccina, gli occhi e gli enormi baffi. Guareschileggeva. Chiedeva al portiere un foglio per la risposta.

“Ecco, salutami Luisa.” E si affrettava verso la piazza.I messaggi a volte la riempivano di gioia, a volte la faceva-

no piangere. “Ascoltavo le confidenze di Luisa – ricorda ancora Mina –

mentre ne parlava con la sua amica del cuore. Lavoravano as-sieme alla fabbrica di scarpe. Poi l’altra ragazza si è sposata enon l’abbiamo più vista. Luisa mi ha raccontato che anche leiha avuto un bambino. È cresciuto ed è diventato lo scrittoreAlberto Bevilacqua.”

Mina è convinta che mia madre volesse “solo dare un co-gnome al bambino, subito, a tutti i costi: e ha sposato la primabrava persona che le girava attorno”.

La verità nascosta nelle abitudini di una famiglia normalemi ha raggiunto, fra reticenze e silenzi, solo molti anni fa,quando stavo per diventare uomo. Dietro il mio N.N. c’eraun nome. La domanda non smetteva di battere. “Chi è?”

Lo sguardo del nonno sfiorava il giornale che stavo sfo-gliando. Leggevo tantissimo. Adoravo i settimanali.

“Un giorno lo saprai, ma qualche volta già parli di lui.” “Di lui?” Ripassavo a memoria i volti di chi girava attorno alla nostra

casa. Impossibile immaginarlo. Ercolino era il nonno materno, l’unico nonno che ha ac-

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compagnato la mia vita, perché i genitori del padre putativonon hanno mai voluto vedermi: figlio della colpa senza sa-perlo; ma loro sapevano.

“Ne parlo?”, insistevo. “A quale proposito?” Volevo sapere, ma ritornava il silenzio. Il nome restava nel-

le pieghe di una volontà negata, di una memoria che non pos-sedevo. Finalmente un giorno Ercolino me l’ha detto, e la ri-velazione mi ha stordito. Certo! Conoscevo bene quel nome.

Ero giovane, e fui eccitato all’idea di essere figlio di un uomoimportante, anche se lontano ancora, a quel tempo, dal suc-cesso di Don Camillo. Eppure amareggiato: perché mi avevabuttato via così? Il tormento mi impediva di conservare il se-greto con le persone care. La vita me lo ha insegnato in Austra-lia: non è consigliabile aprire a tutti il libro che ogni personanasconde in fondo al suo cuore. La meraviglia è stata scoprire– una confidenza per volta – che lo sapevano in tanti. Lo sape-vano anche i miei veri nonni paterni, che abitavano a Marore,poco lontano dal mio borgo: campagna a due passi dalla città.

Il tempo, un foglio alla volta, mi ha riconsegnato dalla vo-ce di Mina questa strana storia, che è la mia storia. Io non po-tevo ricordarla: ero troppo piccolo.

Mina mi portava a prendere aria sullo stradone, il viale de-gli ippocastani che allora era all’interno della città, in ore stra-ne, me ne rendo conto adesso. A volte uscivo di casa al matti-no presto, a volte quando suonava mezzogiorno. E sempre asederci sulla stessa panchina. La madre di mio padre (il sognoinseguito di mio padre) si chiamava Flaminia Maghenzani efaceva la maestra in città. Scendeva dalla corriera di Marore ametà del viale e camminava verso la scuola.

“Sorrideva da lontano. Si chinava su di te: ‘Posso prender-lo in braccio?’ Infilava le dita fra i riccioli biondi. ‘Vien vogliadi mangiarlo…’ Tu ti spaventavi a quelle parole, e la maestrascoppiava a ridere. ‘Sto scherzando, sciocchino!’ Un mattinoha chiesto la tua foto.”

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Dopo una settimana Luisa gliel’ha portata.Mi aveva accompagnato dal fotografo. Non volevo star fer-

mo. E lei mi sgridava.Mina aveva detto a mia madre: “A me sembra troppo ben

vestito”; ma Luisa le aveva risposto che “alle maestre piac-ciono così”.

Ho scoperto questa nonna leggendo il «Corrierino delle fa-miglie». Nell’Australia lontana. Ho scritto a mia madre:“L’hai conosciuta?” Mi ha risposto: “L’hai conosciuta anchetu”, senza aggiungere altro.

Sono tornato al funerale di mia madre due anni fa. In quell’occasione Mina mi ha chiesto: “Chissà dove avrà

messo la foto. Quella foto tua di allora, troppo ben vestito,che conservo forte tra i ricordi”.

Il pensiero mi tormentava. Ho ripreso il libro di mio pa-dre, sperando di sapere qualcosa di più di lei. Nel raccontoDiploma della signora maestra, protagonista è la medagliad’oro che il Ministero dell’Educazione ha spedito alla nonna,con l’elogio di un diploma per i suoi quarant’anni di inse-gnamento. Solo che il diploma è arrivato quando la nonnaera già morta. E mio padre si è arrabbiato nel suo modo: unpo’ furioso, un po’ commosso.

“Mi hai insegnato a vivere e a morire, ma io sono il tuo peg-gior scolaro. Io adesso sono il tuo Franti, quello che faceva pian-gere la madre… stai tranquilla, signora maestra, non ti preoc-cupare per me… metterò il diploma in cornice e lo appenderòal muro al quale è appoggiato il mio tavolo di lavoro. E ogni tan-to lo guarderò. Finché avrò negli occhi un po’ di quella luce chetu mi hai dato approfittando di un giorno di vacanza.”

È tutto ciò che so della nonna, che accarezzava con tene-rezza il suo segreto sul viale di Marore.

A volte mi guardo allo specchio, e mi piace pensare che for-se un po’ di quella luce è arrivata anche a me.

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Incontri clandestini

Dopo il primo incontro con mio padre, in quella Milanobollente, ne sono seguiti altri a Parma, nella casa di un vecchiosignore, Giancarlo Minuti, piccolo, elegante. Suonava la chi-tarra e raccontava storie divertenti. Malgrado fosse più matu-ro di mio padre, erano diventati amici nella città ancora spen-sierata di prima della guerra.

“Che cosa mai poteva legarli?” mi chiedevo. Forse a Giovannino piacevano i racconti di quel tipo, che

aveva vissuto a Parigi, proprietario di un ristorante famoso,con la nostalgia di Parma ed era tornato assieme alla sorella.Dopo l’emigrazione e il lavoro duro, pensava di poter final-mente godere i suoi risparmi in una vita agiata. Invece la suagenerosità rasentava la scelleratezza. Non aveva fiuto per gliaffari e non conosceva la parsimonia. Svanita in poco tempola ricchezza, ha incominciato a cercarla di nuovo dove potevae dove trovava: maître negli alberghi di Salso, gestore di ri-storanti e caffè. Però l’abitudine all’accoglienza degli amicinon è mai cambiata. Mio padre veniva da Milano e lui aprivale bottiglie che aveva tenuto da parte.

Minuti “sapeva”, Giovannino gliene aveva parlato. E ungiorno, mentre mio padre gli raccontava di un nostro incon-tro, forse con l’impaccio degli appuntamenti clandestini, Mi-nuti gli ha detto: “Perché non vi vedete a casa mia?”

Nella sua casa viveva la nipote Giancarla, ancora una bam-bina. Sarebbe diventata mia moglie. Con l’eccitazione della

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novità per i racconti che ascoltava, in un angolo della stanza,è stata un testimone silenzioso, ma attentissimo. E proprio dalei un giorno, dai suoi ricordi narrati della bambina che erastata, ho ascoltato i pezzi mancanti della mia vita. A restituir-ne la trama.

Avevo dieci anni, la prima volta che Giuliano è entrato in ca-sa mia, nel primo incontro segreto col padre. Mi incuriosivanoi preparativi della nonna sempre così partecipe dell’evento: cro-state di marmellata che cuocevano nel forno, granatine di ghiac-cio e amarena. La nonna rideva, guardando Giuliano. Magro,biondo, terribilmente introverso: sempre silenzioso. I suoi occhinon perdevano un solo attimo l’ospite venuto da Milano. Ride-va delle battute che Nino distribuiva con allegria, per le qualitutti pendevamo dalle sue labbra.

Poi se ne andavano: prima usciva Giuliano, poi il padre.Ascoltavo i commenti dei nonni, un po’ indecifrabili per unabambina. Capivo che parlavano per allusioni, temendo che lamia innocenza potesse tradirli: magari una chiacchiera, mentregiocavo con le amiche.

Intanto gli anni diventavano duri. Giuliano aveva interrottogli studi per lavorare dove capitava, fino a quando è venuto ilposto alla Barilla. Un giorno torno da scuola e trovo due gior-nalisti che stanno parlando col nonno:

“È vero, signor Minuti, ciò che si dice in città? che Guareschiha un figlio illegittimo? Lei dovrebbe saperlo e sapere chi è. Co-sì amici come siete…”

Quel mattino ammirai insospettabili qualità di recitazionedel nonno.

“È la prima volta che lo sento. Provate a domandarlo a lui.Se è come voi dite, lui di sicuro lo sa. A me purtroppo non ne hamai parlato.”

Ma la politica cercava uno scoop contro Guareschi, e i gior-nalisti non si sono arresi. Sono andati dalla madre di Giuliano,

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prima che potessimo avvisarla. Il nonno era agitato: “Devo an-darle a parlare…”. Al suo ritorno sorrideva.

“Gran donna…”, raccontava a mia nonna: “Ha tenuto la boc-ca chiusa”.

Io mi incuriosii: perché lo aveva fatto? Per non mettere neiguai un uomo che aveva amato e che adesso ogni tanto può in-contrare il suo Giuliano, mi venne da rispondere. E per nonmettere in piazza l’uomo che l’aveva sposata e che aveva rico-nosciuto il bambino.

“Povera donna” il nonno si amareggiava, “ha incontrato l’uo-mo giusto nel momento sbagliato…”

Gli anni passavano anche per me bambina. Incominciavo a guardare Giuliano con altri occhi. E mi chie-

devo: se il padre non fosse ricco e famoso, la ricerca di Giulianosarebbe stata la stessa? Quando l’ho conosciuto meglio, ho ca-pito quell’angoscia dell’identità cancellata, di come un figlio ab-bandonato passi la vita a cercare gli occhi dei genitori.

Guardavo padre e figlio seduta su uno sgabello nascostonell’angolo del salotto. La nonna entrava e usciva con le cro-state e i bicchieri del vino bianco. Lo sgabello foderato di pel-le è il solo pezzo di casa che avevo fatto arrivare in Australia,quando tutti se n’erano andati. Un reperto traballante, ma an-che l’ultimo cimelio di un’infanzia perduta. Il giorno in cui hodeciso di liberarmene, perché non c’era più posto per quel pez-zo di legno nella nuova casa australiana, l’ho fatto piangendo.Mi stavo separando da un pezzo importante della mia vita. Losgabello sul quale ascoltavo, leggevo e spesso piangevo, cometutti gli adolescenti; ma anche lo sgabello che era stato un te-stimone muto di questa storia che è diventata la mia storia.

Quando la porta si chiudeva e restavano soli, nonno e nonnadiscutevano. La nonna insisteva: “Deve riconoscerlo”. Il non-no rispondeva che esiste una responsabilità anche verso noi stes-si, il rispetto per i nostri sentimenti. Quando una storia finisce,finisce. E la vita deve continuare, così come abbiamo desidera-

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to che potesse essere. Nino era poco più di un ragazzo. Comeavrebbe potuto andare a Milano con una moglie bambina e unfiglio appena nato? La nonna non si arrendeva.

Dal canto suo Luisa non avrebbe mai accettato di dare al fi-glio un cognome, senza essersi sposata.

Ogni volta che Nino e il ragazzo tornavano, guardavo Giu-liano. Non staccava gli occhi da lui. Beveva ogni sua parola: “Perimparare…”.

Quando ci incontravamo per strada, anche noi facevamo icarbonari. Un po’ lontani dagli altri per non lasciar trapelare idiscorsi.

“Farò il giornalista come mio padre.”Giuliano non aveva dubbi. Forse mi ha incantato così. Neppure aveva dubbi quando guardava suo padre. E l’im-

possibilità di dire quella certezza, e quel bisogno, sarebbe statol’altro rovello della sua vita.

C’è anche un piccolo ricordo di Nino che mi riguarda. Quan-do si girava verso di me, sorrideva intimidendomi con una pa-rola che i nonni hanno dovuto spiegarmi: “la nostra piccola Pa-sionaria”. Ho poi scoperto che usava quel nomignolo per le altrebambine della sua vita.

Un giorno Giuliano ci venne a salutare: andava in Australia.Dell’Australia sapevo solo ciò che raccontavano i libri di scuola.I canguri, le pecore, la lana.

Giuliano mi scriveva. Una volta gli ho risposto: “Va bene”, esono partita. Lasciavo tante cose: le risate nel passeggio con leamiche, l’opera al loggione, gli affetti, le amicizie… Quel viag-gio tagliava ogni cosa. Era il ragazzo del quale pensavo di esse-re innamorata. Giuliano, non Clotilde, era ormai il destino, perme. Una sera mi aveva detto: “Domani ti regalo l’anello”. “Me-glio la bicicletta” ho risposto. “Serve di più”.

Autoironia affettuosa imparata insieme. Venuta forse dalontano.

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Minardi, l’amico

Quando Alessandro Minardi, amico e braccio destro dimio padre (più di un braccio destro) ha bussato alla mia por-ta di Borgo Felino, non ero in casa.

Quella mattina a Milano, e poi ogni volta nella casa delnonno di Giancarla, mio padre aveva continuato a ripetere:“Qualsiasi cosa ti serva, scrivi a Minardi. E lui mi farà averele lettere”.

Ogni tanto Minardi mi mandava un assegno circolare. Solo un assegno, neanche una riga. Quel mattino non mi

ha trovato. “Era venuto a comunicarti una cosa importante”, riferì

mia madre. Qualche giorno prima lui e Nino erano andati a trovare Pie-

tro Barilla. La Barilla dava lavoro a mezza Parma. “Gli hanno chiesto di assumere Giuliano. Non ha detto di

no. Ti vuole parlare. Presentati domani mattina nel suo ufficio.”Alessandro Minardi ha concluso la carriera di direttore al

«Candido» dopo il ritiro di mio padre. Si erano conosciuti po-co più che ragazzi attorno ai tavoli del Caffè Centrale, e divi-devano un appartamento all’ultimo piano di Borgo del Navi-glio: un pezzaccio di casa che entrambi cercavano di renderevivibile con secchi di calce e due scope. La loro vicina di casa,Ninni Borghesi, oggi novantenne, ricorda il tono delle lorovoci e i loro inconfondibili grossi baffoni, prima che Giovan-nino si trasferisse in Borgo del Gesso.

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Incominciava la primavera, si allargavano i tavoli in via Ca-vour. Li frequentavano gli intellettuali parmensi. C’era un pre-te che si chiamava don Drei, modernista sul filo dell’eresia. Amezzogiorno arrivavano Pietro Bianchi, Cesare Zavattini, Atti-lio Bertolucci. Per loro era solo una tappa verso la piazza, doveOtello distribuiva gelati a un altro tipo di cultura. Quella delprofessor Oreste Macrì, esperto di letteratura spagnola, dell’e-ditore Ugo Guandalini emigrato da Modena a Parma, dove siera accorciato il nome: Ugo Guanda. All’ora dell’aperitivo arri-vava dalla vecchia pretura il dottor Ugo Betti: la magistraturaera l’alibi che gli permetteva di scrivere commedie. Minardi liascoltava con ammirazione. A volte cercava di mettere in prati-ca i loro sogni. Bertolucci era tornato da una gita a Venezia colpadre e il fratello – viaggio inaugurale della nuova auto Lamba– con sottobraccio un libro francese: La recherche di MarcelProust. Nessuno in Italia avrebbe pensato di tradurre una storia“dove non succedeva niente”, divisa in volumi con tante pagine.

“Perché non lo facciamo noi?” La proposta scuote Minardi. La pigrizia di Bertolucci e

Bianchi: hanno scritto e riscritto una lunga lettera all’editoreGallimard. Da Parigi arrivò la risposta:

“Chiediamo scusa, ma avete dimenticato di precisare indi-rizzo e ragione sociale della vostra casa editrice”.

Minardi sorrideva quando me lo ha raccontato: “Non potevamo precisarla. Non esisteva. Eravamo solo tre

ragazzi, vent’anni appena passati”. “Nino” scriveva, disegnava, inventava racconti, mentre

Minardi maturava una straordinaria qualità di organizzatore.Gli piaceva disegnare i giornali. Aveva il genio dell’impagi-nazione, gusto raffinatissimo nella scelta dei caratteri tipo-grafici. Il giornale più elegante del dopoguerra era il «Cor-riere del Mattino», poi diventato «Corriere Lombardo»,quotidiano della sera. Minardi ne era redattore capo assiemea un giovane dall’aria lunare: Dino Buzzati.

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Non so se fosse l’amicizia per mio padre, o la simpatia checi ha subito uniti, ma si è sempre dimostrato affettuoso conme. Per parlare con Guareschi dovevo sempre rivolgermi alui, che combinava subito l’incontro.

Non era solo un tramite. Gli chiedevo. Volevo capire chi eradavvero mio padre. I suoi umori, le sue malinconie. A volte melo faceva incontrare. Lo trovavo un po’ teso, distratto. Sapevoche si stava difendendo da qualcosa.

“Forse avrebbe voluto abbracciarti, ma è sempre stato ti-mido…”, mi consolava la mamma.

Mentre marciavo in divisa militare, continuavo a scrivere aMinardi chiedendo informazioni su mio padre. Come sop-portava il carcere? Lui rispondeva con poche parole, sempreal telefono: “Insomma, non è contento…”

Durante una licenza, sono andato a trovare Minardi a Mila-no nella redazione di «Candido». Mi ha portato nel solito caffè.

“Ha ricevuto un torto. Una vigliaccata, una trappola. C’ècascato e non ha voluto opporsi alla sentenza, come avrebbeconsentito la legge.”

Un mattino è entrato in San Francesco, sulle spalle il vecchiozaino portato a casa dalla prigionia in Germania.

“È accusato di due peccati che oggi fanno ridere: un dise-gno che rappresenta il Presidente della Repubblica Luigi Ei-naudi, produttore di un barolo famoso, mentre passa in ras-segna nelle sale del Quirinale, invece dei suoi corazzieri, del-le bottiglie di vino. Poi una lettera falsa, offensiva sugli anni diguerra, pubblicata dal «Candido» del quale era direttore: Al-cide De Gasperi incitava gli inglesi a bombardare Roma. Tuopadre è avvilito e amareggiato per come lo trattano. Non chie-de aiuto a nessuno. Vuole sapere da te che cosa farai”.

Gli racconto l’intenzione di andare in Australia. Minardiaccoglie le mie parole in silenzio.

“È un peccato lasciare la Barilla dopo sette anni. Pietroogni tanto scrive a tuo padre e anche a me, ti stima, gli sei sim-

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patico. Quando Giovannino ha letto la parola ‘simpatico’sembrava contento.”

Un’altra volta, nello stesso caffè, Minardi mi parlò di suofiglio. Voleva fare il fotografo.

“L’educazione all’eleganza e alle immagini comincia neisotterranei dei giornali. Poi si comincia a salire.”

Voleva farmi capire che fare il giornalista richiede umiltà, e,sottotraccia, che il mio viaggio in Australia era inutile. Gli ri-sposi allargando le braccia: “Credo che andrò, perché alla Ba-rilla non c’è il lavoro che sognavo”.

Ho rivisto Minardi l’ultima volta, non molti anni prima del-la sua scomparsa. Ero tornato a Parma per una vacanza. Miha riconosciuto da lontano e mi è venuto incontro con unadelle sue risate rumorose, che avevo imparato a conoscere.

“Chi non muore si rivede…”, sembrava contento. “Faccio il direttore a Bergamo, e tu?” Ora toccava a me essere allegro:“Siamo colleghi. Dirigo «La Fiamma», in Australia, a Sydney.” “Davvero bello incontrare un ragazzo che ha sfidato il pa-

dre e il buonsenso, ma è riuscito a raggiungere il suo sogno.”Volevo sapere della morte di mio padre, ma non ne parla-

va volentieri. Si è immalinconito. Due o tre parole che non ag-giungevano nulla a quanto avevo letto sui giornali.

Ci siamo salutati con la promessa di rivederci. Non l’hopiù visto. La sua morte è arrivata con due righe dell’Ansa edè stato un altro colpo al cuore. Alessandro Minardi aveva vis-suto il mio dramma di figlio alla ricerca del padre più di inogni altra persona vicina a Giovannino Guareschi. Di tutte lecose che mi ero promesso di chiedergli, si è portato via le ri-sposte. Non tutte, per la verità.

Se pure non avevo partecipato al funerale di mio padre, piùtardi ero andato a Roncole a pregare sulla sua tomba. All’u-scita del piccolo cimitero avevo incontrato Minardi.

Lasciati da parte i convenevoli, gli chiedo subito se mio pa-

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dre si era ricordato di me. Minardi scuote la testa: “È succes-so all’improvviso”. Chiedo delle mie lettere e risponde di nonpreoccuparmi: “Le custodisco io, come aveva chiesto Gio-vannino”.

È stata l’ultima volta che abbiamo parlato delle lettere. Minardi è stato il padre putativo in cui mi sono più identi-

ficato, portavoce di mio padre, conpagno di amarezze e disperanze.

Al mio ritorno ho cercato il figlio, Maurizio Minardi, dive-nuto di mestiere fotografo, come quel giorno a Parma Ales-sandro mi aveva detto. Maurizio è simpatico come il padre.Nei cassetti della madre, anche lei scomparsa, aveva trovatobiglietti e lettere di mio padre, oltre alle mie: se posso usare laparola, erano “ordini” che mi riguardavano. Che cosa dovevafare, che cosa doveva dirmi. Maurizio me le ha “fotografate”con quattro parole: “Sono importantissime per te”.

Ho saputo in seguito da Maurizio, con il quale sono rima-sto in amicizia, che le mie lettere erano sparite.

Un’altra ferita. Costituivano il diario della mia lunga speranza, assieme a

tre biglietti di mia madre, i soli che non abbia distrutto, araccontare la mia vita segreta. Anche le speranze, come gliuomini, a volte si affievoliscono fino a morire.

“So che per te erano lettere importanti e bellissime, ma so-no sparite. Le sto cercando nella soffitta di una casa di mon-tagna. Erano lì quando mia madre era viva. Le custodiva lei.Mi ha sempre detto: ‘Appartengono a Giuliano, quando tor-na dobbiamo dargliele. Tuo padre voleva così’”.

Poi tante telefonate. Maurizio Minardi è sempre gentile.“Nella casa di montagna c’erano mia madre e mia sorella. Lasettimana prossima vado a cercarle.”

E le settimane passano.Ora non è più così forte né la speranza né il bisogno di aver-

le. Sono stampate nella mia memoria. Custode inattaccabile.

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Dalla prima, del 1945, quando per rompere il ghiaccio glichiedevo una copia di Italia Provvisoria. In tutto un centinaio,tra lettere e fotografie. Esprimevo i miei desideri e le mie spe-ranze di giovane solo. Fra tutte le altre, una in particolare ri-cordo, scritta a due mani, le mie e quelle di Pietro Barilla, cheinviava al suo amico Guareschi il primo attestato del mio la-voro nello stabilimento. Nulla si è perduto nell’archivio dellamia memoria.

Minardi, che non era molto entusiasta della mia avventuraaustraliana e a cui avevo inviato i primi trafiletti dei miei bre-vi articoli, mi ha risposto dandomi suggerimenti che proba-bilmente rispecchiavamo l’opinione di mio padre. Una lette-ra, l’unica, che conferma indirettamente l’esistenza di tutte lealtre. Conferma di cui io non ho evidentemente bisogno.

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Giuliano Guareschi Montagna

Una vita per mio padre, Giovannino Guareschi

PRIMA PARTE

Mio padre Giovannino Guareschi. Dal Po all’Australia inseguendo un sogno

Una speranza lunga una vita

Trenta righe

Nonno Ercole

Zie e zii

Lo zio Pino Guareschi

Mia madre

Sono Giuliano

Incontri clandestini

Minardi, l’amico

Fernandel

Barilla

Il viaggio

Adelaide

Con Bepi Treviso sotto la Croce del Sud

L’inserimento

L’ultimo incontro

La voce di un “padre di carta”

Il giornale

Ritorno alla base

Dedicato a G. G.

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SECONDA PARTE

Epilogo. La forza del destino

TERZA PARTE

Cronache australiane

Breve lettera a mio padre

Prologo

Gli aborigeni: una nazione e una generazione perdute

Turiddu di Darwin

Il ghost gum tree di Marcon

Australian noir

New Italy. La promessa del paradiso

L’arcobaleno di Bennelong

Il piemontese di Sepik River

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Lunghi e alti trasporti australiani.

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Tenerissimo

racconto di memorie

dai movimenti ironici e dolenti

come onde fra due terre

disappartenute

a entrambe appartenendo

fra un’identità bene guadagnata

e la sottile linea d’ombra

di una paternità difforme

tra un padre e un figlio

che il DNA riunì

per onore anche della madre

questo libro composto

nel carattere Simoncini Garamond

viene stampato in seconda edizione

su carta Arcoprint

delle cartiere Fedrigoni

dalla tipografia Sograte di Città di Castello

per conto di Diabasis

nell’aprile dell’anno

duemila

nove

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TTIR Topolino Transports Internationaux Routiers

Gian Ruggero Manzoni, La banda della croce

Linda Foster, Edmondo Lupieri, Il patto. Un thriller teologico

Barbara Gussoni, Bondville

Umberto Marongiu, Sette modi e mezzo per morire

Marco Truzzi, Caffè Hal, Tel Aviv. Tutto quello che è successoal signor T.B.

Vanni Blengino, Ommi! L’America

Maria Caterina Jacobelli, Una domenica dopo l’altra

Parlami d’Aurelia, in collaborazione con Regione Liguria

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