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Ladri di biciclette è un film italiano del 1948 di Vittorio De Sica (regia, produzione e sceneggiatura), ritenuto tra le massime espressioni del neorealismo cinematografico italiano. Il film, girato con un'ampia partecipazione di attori non professionisti, è basato sul romanzo (1945 ) di Luigi Bartolini adattato al grande schermo da Cesare Zavattini . Trama [modifica ] Roma , secondo dopoguerra : Antonio Ricci (Lamberto Maggiorani ), un disoccupato, trova lavoro come attacchino comunale. Per lavorare, però, deve possedere una bicicletta e la sua è impegnata al Monte di pietà , per cui la moglie, Maria deve impegnare le lenzuola per riscattarla. Sfortunatamente, proprio il primo giorno di lavoro, la bicicletta gli viene rubata mentre incolla un manifesto cinematografico. Antonio rincorre il ladro, ma inutilmente. Andato a denunciare il furto alla polizia , comprende che le forze dell'ordine non potranno aiutarlo nel ritrovare la bicicletta. Tornato a casa disperato e amareggiato, coinvolge nella ricerca un suo compagno di partito che mobiliterà i suoi colleghi netturbini che all'alba, insieme a lui ed a suo figlio Bruno, [1] che pure così piccolo lavora ad un distributore di benzina, andranno a cercarla a Piazza Vittorio prima e a Porta Portese [2] poi, dove tradizionalmente allora, e dicono anche oggi, andavano a finire le cose rubate. Ma non c'è niente da fare, la bicicletta ormai smembrata nelle sue parti non si trova. Per la disperazione Antonio si rivolgerà persino ad una "santona", una sorta di veggente, che accoglie nella sua casa una varia umanità afflitta e disgraziata. Il responso sibillino della santona è quasi una presa giro: «O la trovi subito o non la trovi più». A Porta Portese un vecchio barbone viene visto da Antonio insieme al ladro, che subito si dilegua. Anche il vecchio vuole sfuggire a Maggiorani che lo segue sino ad una mensa dei poveri dove dame di carità della pia borghesia romana distribuiscono minestra e funzioni religiose agli affamati. Antonio costringe il barbone a

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Ladri di biciclette è un film italiano del 1948 di Vittorio De Sica (regia, produzione e sceneggiatura), ritenuto tra le massime espressioni del neorealismo cinematografico italiano.

Il film, girato con un'ampia partecipazione di attori non professionisti, è basato sul romanzo (1945) di Luigi Bartolini adattato al grande schermo da Cesare Zavattini.

Trama [modifica]

Roma, secondo dopoguerra: Antonio Ricci (Lamberto Maggiorani), un disoccupato, trova lavoro come attacchino comunale. Per lavorare, però, deve possedere una bicicletta e la sua è impegnata al Monte di pietà, per cui la moglie, Maria deve impegnare le lenzuola per riscattarla. Sfortunatamente, proprio il primo giorno di lavoro, la bicicletta gli viene rubata mentre incolla un manifesto cinematografico. Antonio rincorre il ladro, ma inutilmente. Andato a denunciare il furto alla polizia, comprende che le forze dell'ordine non potranno aiutarlo nel ritrovare la bicicletta. Tornato a casa disperato e amareggiato, coinvolge nella ricerca un suo compagno di partito che mobiliterà i suoi colleghi netturbini che all'alba, insieme a lui ed a suo figlio Bruno,[1] che pure così piccolo lavora ad un distributore di benzina, andranno a cercarla a Piazza Vittorio prima e a Porta Portese[2] poi, dove tradizionalmente allora, e dicono anche oggi, andavano a finire le cose rubate.

Ma non c'è niente da fare, la bicicletta ormai smembrata nelle sue parti non si trova. Per la disperazione Antonio si rivolgerà persino ad una "santona", una sorta di veggente, che accoglie nella sua casa una varia umanità afflitta e disgraziata. Il responso sibillino della santona è quasi una presa giro: «O la trovi subito o non la trovi più».

A Porta Portese un vecchio barbone viene visto da Antonio insieme al ladro, che subito si dilegua. Anche il vecchio vuole sfuggire a Maggiorani che lo segue sino ad una mensa dei poveri dove dame di carità della pia borghesia romana distribuiscono minestra e funzioni religiose agli affamati. Antonio costringe il barbone a farsi dare il recapito del ladro ma è solo per caso che s'imbatte in lui in un rione malfamato dove tutta la delinquenza locale sostiene il ladro minacciando la vittima del furto. Anche il "buon carabiniere" – figura tipica e popolare dell'uomo giusto e benevolo – chiamato, vista la malaparata per il padre, da Bruno, in mancanza di testimoni, non può fare alcunché per arrestare il ladro.

Stravolti dalla stanchezza Antonio e Bruno aspettano l'autobus per tornare a casa quando il padre vede una bicicletta incustodita che tenterà di rubare ma sarà subito fermato e aggredito dalla folla. Solo il pianto disperato di Bruno, che muove a pietà i presenti, gli eviterà il carcere.

Il film si chiude sul mesto ritorno, mentre si sta facendo notte a Roma, di Bruno che stringe la mano del padre per consolarlo.

La storia del film [modifica]

Dopo l'insuccesso commerciale di Sciuscià presso un pubblico abituato ai film dei "telefoni bianchi" degli anni del ventennio fascista o ai "filmoni" che venivano da Hollywood, De Sica

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volle a tutti i costi realizzare questo secondo film al punto da investire i propri denari nella sua produzione. Del romanzo originale come delle sceneggiature, oltre sei più quella dello stesso De Sica, nel film non è rimasto nulla. Il racconto alla fine sistemato da Cesare Zavattini mostra però la traccia di queste numerose sceneggiature nella serie di quadri che accompagnano la vicenda del protagonista. Sono dei bozzetti che vogliono "realisticamente" mostrare al pubblico la vita italiana dell'immediato dopoguerra. «Un ritorno alla realtà», così avevano detto i critici in occasione della proiezione di "Sciuscià"; una realtà a cui voleva tornare lo stesso De Sica dopo le sue esperienze di attor giovane canterino nei film di Mario Mattoli e Mario Camerini degli anni trenta.

Aveva detto De Sica : «La letteratura ha scoperto da tempo questa dimensione moderna che puntualizza le minime cose, gli stati d'animo considerati troppo comuni. Il cinema ha nella macchina da presa il mezzo più adatto per captarla. La sua sensibilità è di questa natura, e io stesso intendo così il tanto dibattuto realismo» (cfr. “La Fiera letteraria”, 6 febbraio 1948)".

Fu per questo, che il regista nonostante le grande difficoltà a reperire fondi per la realizzazione del film, rifiutò i sostanziosi aiuti dei produttori americani che però avrebbero voluto al posto di Maggiorani addirittura Cary Grant.

L'attrice che interpretò il personaggio di Maria, la moglie del protagonista, fu Lianella Carell, una giovane giornalista e scrittrice romana, che dopo un incontro con De Sica per un'intervista, fu sottoposta ad un provino, dopo il quale la giornalista entrò, in questo modo inaspettato, nel mondo del cinema. In seguito la Carell girerà altri film ma senza la stessa fortuna professionale di quella prima pellicola.

Il pubblico del cinema Metropolitan di Roma non accolse bene il film, anzi rivoleva indietro i soldi del biglietto. Tutt'altra accoglienza alla proiezione del film a Parigi con la presenza di tremila personaggi della cultura internazionale. Entusiasta e commosso, René Clair abbracciò al termine del film De Sica dando il via a quel successo mondiale che ebbe in seguito il film e con i cui proventi il regista riuscì finalmente a pagare i debiti fatti con "Sciuscià".

Critica [modifica]

Il film, girato nel 1948, può essere preso come un termine di riferimento storico per un confronto della realtà sociale della Roma dell'immediato dopoguerra, con quella di oggi, per capirne i difetti e apprezzarla, se possibile, negli aspetti moderni.

Si è scritto unanimemente della grande interpretazione dei due protagonisti (a cui certo contribuì in modo determinante la guida della regia di De Sica) "presi dalla strada", come allora si diceva.

Ma in realtà c'è una terza protagonista nel film che è la città di Roma con i suoi abitanti.[3] È una Roma che, rappresentata nel bianco e nero della pellicola, appare nella sua grandezza non deturpata e resa piccola dall'informe ammasso di veicoli e di varia umanità che oggi la caratterizza. Le sue strade appaiono semivuote, larghe, caratterizzate da una monumentalità oggi scomparsa: le sue vie e le piazze del centro sono libere da quello strato informe di lamiere che nascondono la sua grande architettura. Anche i rioni del centro, quelli allora ancora proletari,

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appaiono belli nella loro struttura, povera e malandata ma che richiama l'aspetto, quasi medioevale, di quelli che erano nelle età passate, i quartieri della città. Persino l'estrema periferia dei palazzoni popolari, ancora più campagna che città, conserva una forma architettonica genuina, contadina che si riflette nelle fattezze e nei modi dei suoi abitanti.(cfr. "Il Cinema, Grande storia Illustrata" op.cit.)

L'estrema povertà del dopoguerra è quasi riscattata da questa originaria autenticità di una città "pulita" nella sua architettura e nella spontanea moralità dei suoi cittadini. L'umanità romana presentata nel film è fatta di gente che, nei suoi vari strati popolari, dai compagni di partito di Maggiorani, ai netturbini, agli stessi malavitosi di quartiere, ai postulanti della santona, alle dame di carità, al "buon carabiniere", si caratterizza per uno spirito di partecipazione solidale con gli altri, non è chiusa nella sua indifferenza, è aperta e genuina come le strade e i palazzi della Roma di "Ladri di biciclette". È ancora un'umanità che, come appare nelle scene corali del film, condivide le sue necessità e miserie.[4]

È un film che va visto oggi per capire le nostre differenze con il passato.

Un'altra protagonista del film è la bicicletta, divenuta da mezzo popolare di trasporto, un elemento vitale di sopravvivenza per il protagonista del film. Le biciclette attraversano tutta la storia del film, appaiono e scompaiono (isolate o in mucchi, integre o fatte a pezzi) come un incubo agli occhi del piccolo Bruno e di suo padre. La bicicletta rappresenta la tentazione che spinge Antonio a rubare, l'esca con cui il pedofilo di Piazza Vittorio attira il piccolo Bruno, la perdita del lavoro e la disperazione finale di una povera famiglia che aveva riposto in quell'umile oggetto tutte le sue speranze di sopravvivenza.[5]

Citazioni in altri film [modifica]

Nel film C'eravamo tanto amati (1974) di Ettore Scola, Nicola Palumbo, il personaggio interpretato da Stefano Satta Flores, insegnante e cinefilo esperto, ammiratore di "Ladri di biciclette", prima litiga con i suoi retrivi superiori per le ingiuste critiche al film scatenate durante un cineforum nella sua Nocera Inferiore, liti che lo costringeranno a lasciare la cattedra: successivamente, selezionato per Lascia o raddoppia?, trasmissione televisiva di quiz condotta da Mike Bongiorno, sbaglia la risposta finale per raccontare l'aneddoto del regista Vittorio De Sica che offende il bambino (Staiola) accusandolo di essere un "ciccarolo" - uno dei miseri personaggi del dopoguerra italiano che per sopravvivere raccoglievano mozziconi di sigarette per ricavarne tabacco da vendere - affinché si offendesse fino alle lacrime, e rendesse verosimile la scena da girare. La domanda del quiz nel film, invece, richiedeva semplicemente l'episodio del film dove il personaggio si mette a piangere "con scottante verismo".[6]

Manifesti e locandine [modifica]

Per l'Italia, la realizzazione dei manifesti e delle locandine, fu affidata al pittore cartellonista Ercole Brini, che dipinse i bozzetti ad acquarello e tempera, in uno stile che potremmo definire "neorealista" molto adatto allo spirito del film.

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Note [modifica]

1. ̂ Bruno era interpretato dal piccolo Enzo Staiola che De Sica trovò nel quartiere popolare romano della Garbatella. Staiola girerà poi circa 80 film con grandi interpreti come Anna Magnani ed Ava Gardner, ma, con il suo naso a patata, con la sua giacchetta sdrucita e più grande di lui, con la sua sciarpetta delle dimensioni di una esigua striscia di stoffa, rimane indimenticabile nella storia del cinema solo per "Ladri di biciclette". È come un controcanto, un'ombra che, sempre all'inseguimento frenetico del padre, quasi dimentico di lui nella sua disperazione, lo accompagna con le sue gambette, per tutto il racconto del film. Bruno è un bambino nei suoi tratti e nelle sue movenze ma non lo è più poiché già condivide il malessere degli adulti.

2. ̂ Antonio e Bruno a Porta Portese vengono sorpresi da un temporale da cui si riparano sotto un cornicione dove arriva un gruppo di seminaristi stranieri, anche loro zuppi d'acqua, che parlano ad alta voce nella loro lingua sotto lo sguardo stupefatto dei due protagonisti meravigliati di quel linguaggio incomprensibile. Tra questi c'è un pretino che non è altri che Sergio Leone, il grande regista degli "spaghetti western".

3. ̂ «Tutta la vita di Roma passa in questo film chiuso nel rigido giro d’un sabato e d’una domenica; tutta la vita della Roma periferica, dai quartieri più miseri a quelli borghesi di Piazza Vittorio: i mercatini di Porta Portese, la Messa del Povero, il Banco dei Pegni, i commissariati, le rive del Tevere, lo Stadio, persino le case più equivoche...(Da Il Tempo, 22 novembre 1948)

4. ̂ «È questo mondo De Sica ha voluto offrire di nuovo alla nostra meditazione e alla nostra emozione; un mondo che non è più quello sconvolto e tragico di Sciuscià, ma che, come quello, è altrettanto disperato ed autentico, altrettanto perentorio nell'esortarci a una solidarietà cui solo l'anima italiana di De Sica poteva dare intenzioni così profondamente italiane.» (Da Il Tempo, 22 novembre 1948)

5. ̂ «La bicicletta di Antonio è rubata insieme con i suoi sogni di una vita migliore...La perdita della bicicletta era una tragedia enorme per Antonio e la sua famiglia, come era analogo per la perdita o la mancanza di qualsiasi elemento essenziale di vita che previene la povertà e la sofferenza.» Da

6. ̂ Corriere della Sera , 8 settembre 1999

Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto è un film del 1970 diretto da Elio Petri ed interpretato da Gian Maria Volontè e Florinda Bolkan, vincitore del Grand Prix Speciale della Giuria al 23º Festival di Cannes e del Premio Oscar al miglior film straniero 1971.

Il giorno stesso della sua promozione al comando dell'ufficio politico della questura, il capo della sezione Omicidi, uomo all'antica e reazionario, assassina la propria bellissima amante nel suo

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appartamento, in via del Tempio nº 1. Il film è realizzato con la tecnica dei flashback nei quali viene rivelato che Augusta Terzi invitava il commissario ad abusare del proprio potere o a narrargli particolari scabrosi cui aveva assistito nelle vesti di poliziotto o, ancora, lo provocava parlandogli di una sua relazione con un giovane "rivoluzionario" che altri non è, poi, che lo studente Pace. Consapevole e contemporaneamente incapace di sostenere il potere che egli stesso incarna, il poliziotto dissemina la scena del delitto di prove e, durante le indagini, alternativamente ricatta, imbecca e depista i colleghi che si occupano del caso. Se in un primo momento ciò che guida il protagonista pare essere l'arroganza di chi confida nella propria insospettabilità, la veridicità di questa convinzione viene via via smentita dai fatti.

Il poliziotto assassino, in virtù della vittoria dell'ordine costituito, finisce per agognare alla propria punizione, che tuttavia gli viene preclusa dal suo potere e dalla sua posizione: l'unico testimone dei fatti, l'anarchico individualista Pace, non vorrà denunciarlo per poterlo ricattare («Un criminale a dirigere la repressione: è perfetto!» esclama durante l'interrogatorio).

Il protagonista oramai deciso sulla sua posizione autopunitiva, consegna una lettera di confessione ai suoi colleghi, e - invocando quale unica attenuante il fatto di essere stato continuativamente preso in giro dalla propria vittima - s'impone gli arresti domiciliari: a casa, nell'attesa del suo arresto ufficiale, si addormenta e sogna di essere costretto dai suoi superiori e colleghi, che analizzano e rifiutano la validità degli indizi e delle prove, a firmare la "confessione della propria innocenza". Al risveglio, con l'arrivo dei pezzi grossi della polizia, lo attende il vero finale che non viene però svelato ed è lasciato in sospeso dal regista. Il film si chiude con l'immagine delle tapparelle che si abbassano nella stanza in cui il protagonista ha appena ricevuto gli inquirenti, mentre sullo schermo appare la citazione di Franz Kafka che chiude il film: «Qualunque impressione faccia su di noi, egli è un servo della legge, quindi appartiene alla legge e sfugge al giudizio umano.»

Colonna sonora [modifica]

La comune predilezione per i timbri espressivi dell'iperbole, del grottesco, dello "straniamento di matrice brechtiana",[1] rendono il connubio tra Elio Petri e il musicista Ennio Morricone uno dei più produttivi, quantitativamente e qualitativamente, del cinema italiano. La colonna sonora di Indagine, che pare aver esercitato una notevole impressione sullo stesso Stanley Kubrick [2] , ne rappresenta, forse, il vertice. Qui, la contaminazione tra ambito classico ed ambito popolaresco (ad esempio il mandolino suonato come fosse un clavicembalo) con gli "inserti ritmicamente imprevedibili del marranzano, del sax soprano e del contrabbasso elettrico"[1] risultano perfettamente funzionali nell'accompagnamento dei moti convulsi della psiche disturbata del protagonista.

Accoglienza [modifica]

Per quanto si trattasse di un film complesso, denso di riferimenti culturali ed artistici (da Bertolt Brecht a Wilhelm Reich, da Karl Marx a Franz Kafka [3] , dal thriller politico all'americana al grottesco [2] ), che furono forse maggiormente recepiti all'estero[4], l'accoglimento del film in Italia fu fortemente condizionato dai recenti avvenimenti politici interni.

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Uscì nelle sale nel gennaio 1970 a ridosso della strage di piazza Fontana, della morte violenta dell'anarchico Giuseppe Pinelli e dell'arresto di Pietro Valpreda. Accompagnato dal divieto ai minori di 16 anni, era in forte odore di un imminente sequestro, richiesto da alcuni dirigenti della questura di Milano, che avevano lasciato la proiezione prima della fine.[2] La sua sola uscita era stata salutata da Giovanni Grazzini, sulle colonne del quotidiano italiano Corriere della Sera come «[...] un importante passo avanti verso una società più adulta, tanto più sicura di sé e della democrazia da potersi permettere di criticare istituti tenuti per sacri [...]».[5] Ugo Pirro ricorda: «Ci avevano detto che saremmo finiti in carcere: era una tale bomba.»[6] Il film, fin dall'inizio, divenne oggetto di confronto politico. L'allora periodico quindicinale Lotta Continua lo elogiò, invitando i lettori a riconoscere nel personaggio interpretato da Gian Maria Volonté la figura del commissario Luigi Calabresi, accusato dal movimento extraparlamentare di essere responsabile della morte di Pinelli.[4]

Sia per la decisione del sostituto procuratore Giovanni Caizzi - lo stesso che successivamente avrebbe prosciolto Il fiore delle Mille e una notte di Pier Paolo Pasolini -, sia per probabili considerazioni di ordine politico[6], il film non fu sequestrato. Comunque l'incombere di questa minaccia e i recenti avvenimenti politici concorsero ad un immediato successo : «L'affluenza del pubblico nelle sale era enorme ed in alcuni casi fu necessario interrompere la circolazione dei veicoli, data la lunghezza delle file alle biglietterie. La gente si accalcava perché non credeva ai propri occhi.»[6] In seguito a tale successo, una parte della critica di sinistra, quella in particolare che faceva riferimento alle riviste Ombre rosse e Quaderni Piacentini,[7] rivolse a questo, come ad altri successivi film di Elio Petri, l'accusa di spettacolarizzare a scopo economico i processi sociali e politici.[2]

Incassi [modifica]

Nel 1970, il film, con un incasso di 1.928.240.000 di lire, si classificò all'ottavo posto tra i film italiani[8], mentre, considerando i più omogenei dati relativi ai film in prima visione in sedici città capozona, nella stagione agosto 1969-luglio 1970, Indagine fu sesto in assoluto con un incasso di 690.191.000 lire.[8]

Critica [modifica]

« Volevo fare un film sulla polizia, ma a modo mio. »

(Elio Petri)

Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto è il primo film di una trilogia (proseguita con La classe operaia va in paradiso del 1971 e La proprietà non è più un furto del 1973), frutto della collaborazione con lo sceneggiatore Ugo Pirro, in cui vengono messi in scena i motivi centrali della vita politica[5], rendendo Elio Petri un bersaglio privilegiato nello scontro critico e politico interno alla sinistra negli anni settanta.[5]

Era stato inizialmente concepito come un'elaborazione del tema dostoevskiano della sfida di un assassino alla giustizia [9] e come una riflessione sui meccanismi psicologici che, a partire dal nostro bisogno interiore di una figura paterna, ci rendono alleati di un potere autoritario e repressivo, «...facendo di tutti noi dei bambini.»[9][10] La valenza più dichiaratamente politica

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venne al film dalla scelta di un commissario di polizia per la parte dell'assassino.[9] La più generale riflessione sui meccanismi del potere e sull'immunità di chi lo esercita, veniva situata nell'Italia repubblicana, in cui per 25 anni la polizia aveva «[...] perpetrato per le strade decine e decine di condanne sommarie contro masse indifese di operai e contadini [...] senza che nessuno avesse [...] mai pagato per tutti questi morti.»[3]

C'eravamo tanto amati è un film italiano del 1974, diretto da Ettore Scola ed interpretato da Stefania Sandrelli, Vittorio Gassman, Nino Manfredi, Stefano Satta Flores, Giovanna Ralli e Aldo Fabrizi.

Tra i più memorabili esempi di commedia all'italiana, rende anche omaggio ad altri generi cinematografici, in virtù della trama che percorre circa 30 anni di storia italiana, e soprattutto attraverso una serie di intuizioni filmiche che pagano dazio a maestri del calibro di Roberto Rossellini e Alain Resnais, includendo anche numerosi omaggi alle altre arti.

Trama [modifica]

Gianni, Antonio e Nicola sono tre partigiani divenuti amici nei giorni della lotta per la liberazione. Dopo la guerra i tre si dividono. Nicola ritorna a Nocera Inferiore ad insegnare, Antonio a Roma dove riprende il lavoro di portantino in un ospedale, Gianni a Pavia per terminare gli studi in giurisprudenza.

Qualche tempo dopo dopo, Gianni e Antonio si ritrovano casualmente in una trattoria di Roma. Gianni è ora un avvocato tirocinante, mentre Antonio si è fidanzato con Luciana, aspirante attrice della provincia udinese ("son di Trasaghis, vicino Peonis") conosciuta in corsia. Gianni è ambizioso, ma con i piedi per terra. Tradisce il suo amico, portandogli via proprio Luciana, ma il suo arrivismo lo porta a cogliere l'occasione di lasciare Luciana per Elide, figlia semianalfabeta di Romolo Catenacci, ex capomastro rude, disonesto e senza scrupoli, nostalgico fascista divenuto ricco palazzinaro. Diventerà anche il suo avvocato, aggirando la legge al fine di proteggerne i loschi affari, ormai parte dei suoi stessi interessi. Elide, nonostante gli sforzi di diventare una persona colta ed elegante per compiacere il marito, trova la morte in un incidente stradale.Abbandonata da Gianni, avuto poi un breve flirt anche con Nicola, Luciana tenta quindi il suicidio, soccorsa in extremis da Antonio, che però respinge, rompendo i legami con i tre amici.Antonio rimane quindi fedele alle sue idee politiche e per queste viene discriminato in ospedale dove combatte le sue battaglie che hanno perso di novità e si devono misurare con gli orizzonti molto più ristretti della vita quotidiana rispetto alle prospettive palingenetiche per le quali aveva rischiato la vita da partigiano. Nicola, insegnante di liceo, ha pretese intellettuali ed è attivo nel cineforum: proprio a causa dei film da lui proposti, tra i quali Ladri di biciclette è la goccia che fa traboccare il vaso, subisce l'ostracismo della classe dirigente locale, filodemocristiana, da sempre avversa ai film del neorealismo. Escluso dall'insegnamento, lascia Nocera Inferiore, e abbandona moglie e figli, per cercare fama a Roma in campo culturale. Tenta anche la fortuna a

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Lascia o raddoppia?, perdendo in extremis il massimo della somma messa in palio, per poi tirare a campare come "vice" per articoli di cinema, assumendo sempre più il ruolo caricaturale dell'intellettuale che da "voce critica e coscienza della nazione" diviene un inutile e misconosciuto orpello della società, un personaggio impegnato in battaglie fini a se stesse e in sterili polemiche

Quindi Antonio rincontra casualmente Gianni e propone una rimpatriata con Nicola. I tre amici si ritrovano a cena nella stessa trattoria di tanti anni prima (Dal re della mezza porzione) e tracciano il bilancio della propria vita. Il solo dei tre che non l'ha sprecata e non se ne deve vergognare, Antonio, riserva una sorpresa agrodolce agli amici di un tempo, accompagnandoli a un presidio notturno presso una scuola dove li fa incontrare con Luciana che, nel frattempo ritrovata e diventata sua moglie, sta in coda per iscrivere i loro due figli. Antonio e Nicola finiscono poi per litigare fino a venire alle mani. Gianni, nel tentativo di assumersi la colpa morale di tutto, prima di andare via, stanco di fare da paciere, perde la propria patente: i due, con Luciana, la ritrovano e gliela riportano al suo indirizzo, scoprendone così la vita agiata che Gianni non aveva avuto il coraggio di rivelare ai due amici.

Commento [modifica]

Il titolo è il verso iniziale di una celebre canzone del 1920, quella Come pioveva che era stato anche un cavallo di battaglia del giovane Vittorio De Sica. Scomparso mentre il film era in montaggio, è ricordato dagli autori con una dedica finale.

Gianni, Antonio e Nicola si innamorano tutti a turno di Luciana e mediante l'amore per lei percorreranno la storia di trent'anni del dopoguerra italiano, vivendone le speranze e le delusioni di un futuro migliore che non si realizzerà come lo avevano sognato ai tempi delle lotte partigiane. Scoperta è l'intenzione degli autori di identificare in Antonio, colui che non svende i propri ideali a costo di emarginazione e sacrifici, il partito comunista dell'epoca, in Nicola i movimenti intellettuali del dopoguerra, privi di base popolare e politicamente inconcludenti.

Gianni rappresenta invece l'idealismo che viene a compromessi con il potere e che a esso si vende per denaro, accusa che allora veniva rivolta dalla sinistra ai partiti che governavano insieme alla Democrazia Cristiana. Luciana, infine, è l'Italia, da tutti e tre amata e da due di loro delusa, che alla fine rimarrà con chi non l'ha mai tradita e cioè Antonio (che non ha tradito neanche i suoi principi).

Sullo sfondo, scenario del trentennio narrato (1945-1974), l'Italia trasformista e democristiana, intrallazzi e villa all'Olgiata compresi, efficacemente impersonata da Aldo Fabrizi, in una delle sue ultime interpretazioni cinematografiche. Romolo Catenacci, per il simbolismo che incarna, assume i caratteri dell'immortalità, a dispetto delle mire di Gianni Perego che vorrebbe diventare erede delle sue fortune. Il film è una fotografia, vista con l'occhio della sinistra dell'epoca (1974), delle occasioni mancate, delle energie sciupate, delle speranze e degli ideali traditi e lascia l'amaro in bocca per ciò che avrebbe potuto essere e non è stato, dove il fallimento dei protagonisti è anche quello di un intero Paese. Tra i propri film, è stato uno dei pochi che Gassman ricordava volentieri.

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L'inizio della storia è filmato in bianco e nero per poi passare al colore nell'ultima inquadratura del primo tempo, in una scena che corrisponde al commiato dei tre protagonisti da Luciana, all'indomani delle prime elezioni del dopoguerra. Il commiato è anche quello dei tre amici l'uno dall'altro, destinati a ritrovarsi solo dopo 25 anni. Il passaggio al colore avviene sull'inquadratura di una Sacra Famiglia dipinta sul selciato da un madonnaro, e simboleggia la rapida e traumatica trasformazione in atto in quel periodo di storia dell'Italia, da paese agricolo e arretrato a paese industriale e moderno. Interpretazione corale, compresi gli attori di seconda fila, sceneggiatura navigata con citazioni appassionate del neorealismo di Vittorio De Sica, ma anche di Federico Fellini mentre gira la scena della Fontana di Trevi de La dolce vita con Marcello Mastroianni: tutti costoro appaiono nel ruolo di loro stessi, al pari di Mike Bongiorno nella ricostruzione di Lascia o raddoppia?. Alla colonna sonora fa spicco il genio di Armando Trovajoli.

Divorzio all'italiana è un film del 1961 diretto da Pietro Germi.[1]

Presentato in concorso al Festival di Cannes 1962, vinse il premio come miglior commedia, e ottenne anche tre nomination all'Oscar vincendo la statuetta per la miglior sceneggiatura originale.

Commento [modifica]

È il film con il quale Pietro Germi, dagli accenti più drammatici e populisti dei suoi primi film, passa a sorpresa alla commedia e alla satira.

Con un classico schema da commedia all'italiana, Germi[2] adatta e trasforma il romanzo drammatico di Giovanni Arpino Un delitto d’onore in un ironico e godibilissimo ritratto della mentalità e delle pulsioni di una certa Sicilia di provincia, soprattutto prendendo di mira con un sarcasmo a volte feroce due situazioni di arretratezza legislativa dell'Italia dell'epoca: la mancanza di una legge sul divorzio (che arriverà solo nel 1970), e soprattutto l'anacronistico articolo 587 del codice penale che regolava il delitto d'onore, che verrà abolito soltanto venti anni dopo[3].

Ne scaturisce una commedia graffiante e gustosa, retta magistralmente da un insuperabile Marcello Mastroianni, da comprimari di ottimo livello, come Leopoldo Trieste e Daniela Rocca, e da una giovane Stefania Sandrelli, che grazie a questo film avrà grande notorietà. Certamente da considerare uno dei migliori film di sempre nel filone della commedia all'italiana, costituirà un modello per molti altri film che negli anni successivi tenteranno di ritrarre ironicamente la mentalità e i costumi dell'Italia meridionale.

Trama [modifica]

Nell'ipotetica città siciliana di Agramonte (Ispica) vive il barone Ferdinando Cefalù, detto Fefè (Marcello Mastroianni). L'uomo è coniugato da dodici anni con l'assillante Rosalia (Daniela Rocca), una donna ormai bruttina ma ardente d'amore per lui. Nel frattempo, è innamorato della

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propria cugina, la sedicenne Angela (Stefania Sandrelli). La legge italiana non ammette il divorzio, ma è ancora previsto il delitto d'onore, un caso di omicidio punito con pena più mite e molto frequente in Sicilia.[4] Fefè tenta allora disperatamente di trovare alla moglie un amante, per poterli sorprendere insieme, ucciderli, usufruire del beneficio del motivo d'onore e - scontata la lieve pena - sposare finalmente l'amata. Non ci riesce, ma la sorte gli viene incontro. In seguito a un litigio con il marito, Rosalia, sentendosi abbandonata, cerca conforto in Carmelo Patanè (Leopoldo Trieste), un suo vecchio spasimante creduto morto in guerra e poi tornato. Fefè, venuto a sapere della vecchia relazione, favorisce gli incontri e spia i potenziali adulteri. Finché un giorno scopre che si sono finalmente dati appuntamento, in occasione dell'arrivo in città del film La dolce vita, che richiama tutto il paese. Il barone va al cinema, ma nel mezzo della proiezione rincasa allo scopo di sorprendere gli amanti. Questi, però, anziché consumare il tradimento fuggono. Venuta a mancare la flagranza, che avrebbe giustificato lo stato d'ira preteso dalla norma sul delitto d'onore, Fefè si finge malato e incapace di reagire. Si attira così il disprezzo di tutti i concittadini, intenzionalmente, per creare condizioni di disonore sufficienti a giustificare lo stesso il suo gesto. Nel frattempo lo zio Calogero (Ugo Torrente), padre di Angela, muore d'infarto scoprendo casualmente la tresca della figlia con il nipote. Al funerale fa la sua apparizione Immacolata, moglie di Patanè, che umilia pubblicamente Ferdinando. Grazie a don Ciccio Matara, boss locale, il barone viene a conoscenza del luogo dove sono nascosti i fuggiaschi. Giunto sul posto, trova Immacolata che ha già vendicato il suo onore uccidendo il marito. Non gli resta allora che fare altrettanto con Rosalia. Condannato a tre anni di carcere, sconta una pena inferiore beneficiando di un'amnistia, e torna infine in paese dove finalmente sposa la bella Angela. Ma, dopo pochi mesi, in viaggio di nozze qualcosa (o meglio qualcuno) mette già in dubbio la felicità dell'unione.

Produzione [modifica]

La sceneggiatura del film fu scritta da Ennio De Concini, Pietro Germi, Alfredo Giannetti e Agenore Incrocci, quest'ultimo non ricordato nei titoli di testa. La città fittizia di Agramonte si identifica nelle scene di massa con Ispica, nella Sicilia sud-orientale. Le scene del cinematografo furono girate nel teatro Bellini di Adrano.

Lavorazione [modifica]

Nella scena in cui Fefè (Marcello Mastroianni) immagina sua moglie Rosalia (Daniela Rocca) che viene inghiottita dalle sabbie mobili, un inconveniente tecnico fece scivolare più giù del previsto la malcapitata attrice, sfiorando di un soffio la tragedia.

Doppiaggio [modifica]

Sia Stefania Sandrelli che Daniela Rocca, furono doppiate da Rita Savagnone

Premi e riconoscimenti [modifica]

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Nel 1963 il film vinse l'Oscar per la migliore sceneggiatura originale e Mastroianni ottenne la nomination come miglior attore e Germi quella come miglior regista.

Nel 1962 il National Board of Review of Motion Pictures l'ha inserito nella lista dei migliori film stranieri dell'anno.

Golden Globe a Mastroianni nel 1963: Best Performance by an Actor in a Motion Picture - Comedy Or Musical

Le location del film [modifica]

Approfondimento fotografico su tutte le location del film sul: Davinotti

Note [modifica]

1. ̂ Parafrasando il titolo di questo film fu coniato il termine Commedia all'italiana che caratterizzò gran parte della produzione cinematografica italiana degli anni sessanta e settanta.

2. ̂ [...]Si trattava ora di convincere Germi, che brancolava nelle incertezze. L’impresa era partita dall’idea di adattare il romanzo di Giovanni Arpino «Un delitto d’onore», ma nel corso delle riunioni di sceneggiatura Ennio De Concini e Alfredo Giannetti avevano messo una pulce nell’orecchio a Germi: quel modo drammatico di proporre l’urgenza di revisionare l’articolo 587 del Codice Rocco, che alleggeriva di molto la responsabilità penale di chi uccide il coniuge per motivi d’onore, rischiava di essere fuori moda rispetto al rapido cambiamento del costume. Perché non trasferirlo, invece, sul piano della commedia? E così fecero...(Tullio Kezich - Il Corriere della Sera - 20 aprile 2003)

3. ̂ «Si può fare una commedia intelligente, lesta, graffiante anche illustrando un articolo (il 587) del codice penale. Se c'è un'arte che nasce dall'indignazione, questo film le appartiene. Moralista risentito, Germi carica qui i suoi livori di un umor nero, di una amara e invelenita buffoneria che trova negli interpreti, soprattutto in Mastroianni, il suo sfogo.» Tratto da Morando Morandini, Il Morandini - Dizionario dei Film, Zanichelli 2007.

4. ̂ Dopo il referendum sul divorzio (1974), dopo la riforma del diritto di famiglia (legge 151/1975), dopo il referendum sull'aborto, le disposizioni sul delitto d'onore sono state abrogate con la legge n. 442 del 5 agosto 1981.

Caratteristiche del neorealismo [modifica]

Ci sono vari aspetti che caratterizzano il neorealismo: i film neorealisti sono generalmente girati con attori non professionisti (sebbene, in certi casi, furono scelti come protagonisti attori famosi, che recitavano per le parti protagoniste spesso contro le proprie abitudini, in un contesto popolato da gente normale piuttosto che da altri attori ingaggiati per la lavorazione).

Le scene sono girate quasi esclusivamente in esterno, per lo più in periferia e in campagna; il soggetto rappresenta la vita di lavoratori e di indigenti, impoveriti dalla guerra. È sempre

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enfatizzata l'immobilità, le trame sono costruite soprattutto su scene di gente normale impegnata in normali attività quotidiane, completamente prive di consapevolezza come normalmente accade con attori dilettanti. I bambini occupano ruoli di grande importanza ma non solo di partecipazione, perché essi riflettono ciò che "dovrebbero fare i grandi".

I film neorealisti proponevano storie contemporanee ispirate a eventi reali e spesso raccontavano la storia recente come Roma città aperta di Roberto Rossellini. Questo film è l'epopea della Resistenza, messa in pratica grazie all'alleanza tra comunisti e cattolici a fianco della popolazione. Ben presto però l'attenzione fu rivolta ai problemi sociali contemporanei, fra questi emerge Ladri di biciclette di Vittorio De Sica, nel film è raccontato il dramma di un operaio, nella narrazione si rappresenta la durezza della vita nel dopoguerra. La denuncia del disagio sociale è ancora più forte nei film Riso amaro di Giuseppe De Santis e La terra trema di Visconti. Tuttavia l'immagine dell'Italia, un paese povero e desolato, che traspariva da questi film infastidiva una certa classe politica. A questo proposito è emblematico l'episodio di Vittorio Mussolini che, dopo aver visto Ossessione di Visconti, era uscito dalla sala urlando Questa non è l'Italia!. Anche la chiesa cattolica condannò molti film per l'anticlericalismo e per come venivano trattati argomenti come il sesso, mentre la sinistra non accettava la visione pessimistica e la mancanza di un'esplicita dichiarazione di fede politica.

Nel 1949 fu emanata una legge, presentata dall'allora sottosegretario allo spettacolo Giulio Andreotti, che doveva sostenere e promuovere la crescita del cinema italiano e al contempo frenare l'avanzata dei film americani ma anche gli imbarazzanti eccessi del neorealismo. A seguito di questa norma, prima di poter ricevere finanziamenti pubblici, la sceneggiatura doveva essere approvata da una commissione statale.[2] Inoltre se si riteneva che un film diffamava l'Italia poteva essere negata la licenza di esportazione, insomma era nata una sorta di censura preventiva.[3]

Režija: Vittorio De SicaScenarij: Vittorio De Sica, Cesare ZavattiniUloge: Lamberto Maggiorani, Enzo Staiola, Lianella Carell, Vittorio Antonucci

Vittorio De Sica je rođen 1901. u Sori (Italija). Odrastao je u Napulju u obitelji niže srednje klase. Djetinjstvo je proveo u Napulju. Školovao se za knjigovođu, a već i prije punoljetnosti pomagao je obitelj radeći kao činovnik. Dvadesetih godina pridružuje se putujućoj kazališnoj skupini Almirante Manzini, poznate dive talijanskog nijemog filma. Veće kazališne uspjehe postiže nakon 1923. godine kada je postao članom kazališta Tatjane Pavlove. Potkraj dvadesetih popularnost mu raste, a 1933. godine osniva i vlastitu kazališnu skupinu u kojoj je glavna zvijezda. Okušava se i kao filmski glumac (prvu ulogu ostvario je kada mu je bilo 16 godina) te od 1931. godine kontinuirano nastupa na filmu. Najčešće u salonskim komedijama, uglađenim melodramama i u tzv. filmovima bijelih telefona glumeći zavodnika. Filmskoj režiji okreće se tokom Drugog svjetskog rata. U početku režira komično sentimentalne filmove te jedan kostimirani - Garibaldinac u samostanu (Un Garibaldino al convento, 1942). Ključan događaj

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redateljske karijere suradnja je sa scenaristom Cesareom Zavattinijem - u njegovom petom filmu Djeca nas gledaju (I Bambini ci Guardano, 1943). Već u toj prvoj fazi jasne su njegove tematske okupacije: simpatija za tzv. malog čovjeka, ljubav prema djeci, balansiranje između tragičnog i humornog te smisao za sitne životne detalje. Osim toga, u radu poseže za neprofesionalnim glumcima i snimanju u prirodnom ambijentu (na stvarnim lokacijama). Sve to savršeno se uklapa u neorealističke tendencije koje nakon Drugog svjetskog rata počinju dominirati talijanskim filmom. De Sica sa četiri remek djela - Čistači cipela (Sciuscia, 1946), Kradljivci bicikla (Ladri di Biciclette, 1948), Čudo u Milanu (Miracolo a Milano, 1951), Umberto D (1952) - postaje najreprezentativniji predstavnik neorealizma. Cesare Zavattini bio je, u svim navedenim filmovima, suradnik na scenariju. Važno je napomenuti da se film Umberto D često naziva i prijelaznim filmom između klasičnog neorealizma i tzv. neorealizma duše. Neorealizam polako jenjava (razdoblje početka pedesetih) te u De Sicinoj redateljskoj karijeri dolazi do krize, ponovno se okreće glumi te ostvaruje nekoliko zapaženih uloga među kojima se posebno izdvajaju nastupi u filmovima Madame de... (1953) i General Della Rovere (1959). Također, popularnost kod publike stječe serijom filmova Kruh, ljubav i... - Kruh, ljubav i fantazija (Pane, amore e fantasia (1953), Kruh, ljubav i ljubomora (Pane, amore e gelosia, 1954). Godine 1954. snima komercijalno uspješni film Zlato Napulja (L'Oro di Napoli, 1954) a godinu dana kasnije Krov (Il tetto), koji je ujedno i njegov posljednji neorealistički film. U kasnijem razdoblju njegovi najznačajniji filmovi su: La Ciociara (1960), Posljednji sud (Il giudizio univerzale, 1961), Brak na talijanski način (Matrimonio all'italiana, 1964), Vrt Finzi-Continijevih (Il Giardino dei Finzi-Contini, 1970), Kratki praznici (Una breve vacanza, 1973). Godine 1974. snima zadnji film Putovanje (Il viaggio). U redateljskoj karijeri De Sica je dobio četiri Oscara. Umro je u Parizu 1974.

Sam film nam priča priču o siromašnom čovjeku Antoniu Ricciu koji pretražuje ulice poslijeratnog Rima u potrazi za svojim ukradenim biciklom koji mu je neophodan za preživljavanje, jer bez njega ne može obavljati tek dobiveni posao, a samim time ni prehraniti obitelj. Naime, u Rimu nakon drugog svjetskog rata je vladala akutna nezaposlenost, a da bi dobio posao ljepitelja plakata Antoniu je potreban bicikl. Zbog toga njegova obitelj prodaje dio svoje "sirotinje". Međutim već prvog radnog dana, Antoniu na očigled, kradljivac ukrade bicikl. U pratnji desetogodišnjeg sina Bruna, Antonio kreće u gotovo beznadnu potragu za kradljivcem...

Remekdjelo talijanskog neorealizma, najznačajnije djelo stvaralačkog tandema De Sica - Zavattini, film je nenadmašan model ondašnjeg tretmana suvremene socijalne tematike, prikazujući uz pomoć prividno nezanimljivog svakidašnjeg incidenta kako se socijalna bijeda odražava na psihu i rezultira kriminalnim činom.

De Sica je i u ovom filmu razvio svoju omiljenu temu, utjecaj negativnih životnih događanja na djecu (kao i u prethodnim filmovima "Djeca nas gledaju" i "Čistači cipela"). U filmu su primjetne i druge komponente koje sublimiraju politiku neorealizma: uz aktualnu glavnu temu i svakidašnje događaje,

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prisutni su i realni ambijenti bez scenografskih intervencija, a glumci su neprofesionalci, tzv. naturščici; protagonista sugestivno tumači radnik sličnog životnog iskustva, Lamberto Maggiorani.

Film je gotovo jednodušno prihvaćen s oduševljenjem, s rijetkim negativnim komentarima; u kapitalističkim zemljama prigovor je bio da daje odviše crnu sliku društvene zbilje, dok se u socijalističkom bloku prigovaralo da i junaku i filmu nedostaje izravniji politički angažman.

Dobio je posebnog Oscara za najbolji strani film (1949.), a u anketi časopisa "Sight & Sound" 1952. godine proglašen je najboljim filmom svih vremena. (izvor: A. Peterlić, HFL, 2003.; imdb)

mangiare la fogliacapire la situazione

essere in rossospendere più di quanto si ha sul conto corrente

essere al verdeessere alla fine delle risorse finanziarie

Essere una spugna. Essere un ubriacone, un bevitore accanito, un