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VENERDÌ SANTO
«PASSIONE DEL SIGNORE» Gv 18,1-19,42; Is 52,13 - 53,12; Sal 30; Eb 4,14-16; 5,7-9
Non vi è Antifona d'inizio; la solenne azione liturgica comincia con la preghiera silenziosa di tutta l'assemblea.
Al posto della Colletta il sacerdote innalza l'Orazione (non si dice Preghiamo) O Dio, che nella passione del Cristo nostro Signore ci hai liberati dalla morte, eredità dell’antico peccato trasmessa a tutto il genere umano, rinnovaci a somiglianza del tuo Figlio; e come abbiamo portato in noi, per la nostra nascita, l’immagine dell’uomo terreno, così per l’azione del tuo Spirito, fa’ che portiamo l’immagine dell’uomo celeste. Per Cristo nostro Signore.
In questo Venerdì Santo nella Liturgia della Chiesa è presente solo la “Parola”; il sacramento tace per far posto all’evento o, meglio, alla contemplazione
dell’avvenimento, il mistero pasquale, che ha permesso la realizzazione di tutti i
sacramenti. Il Figlio di Dio, il Servo sofferente che si fa carico delle colpe dell’intera umanità per redimerla, colui che imparò l’obbedienza dalle cose che patì affinché l’uomo
potesse avere la vita eterna, dona la sua carne martoriata così come aveva annunciato,
e lascia che il suo sangue divenga fonte di vita per tutti; un sacrificio che lo eleva a “sommo sacerdote”, perfetto ed eterno. Oggi il nuovo popolo di Dio, la Chiesa, medita
la Passione del suo Signore, si prostra in adorazione della Croce, commemora la sua
origine dal costato di Cristo, prega e intercede per la salvezza di tutto il mondo; il popolo
di Dio, pur guardando al sacrificio cruento di Gesù, non è condizionato da un lutto inconsolabile, perché vede la prospettiva gloriosa della Risurrezione, quando il Figlio
tornerà nella gioia del Padre. In tale contesto, il racconto della sofferenza di Gesù con
la profezia di Isaia riguardo al servo di JHWH, la preghiera universale per ogni uomo del mondo, l’adorazione della Croce e la comunione eucaristica, sono i quattro momenti nei
quali il fedele celebra la passione del Salvatore e nei quali vive la sua stessa sofferenza
e quella di tutti gli uomini, perché in questo Venerdì Santo si celebra ogni dolore: il dolore del Cristo e quello d’ogni essere umano, come ricorda anche la Liturgia della
“Parola”.
Nella prima lettura, tratta dal libro del Profeta Isaia, non è facile distinguere tra senso collettivo e individuale del Servo sofferente, ma alla luce neotestamentaria egli è
sicuramente Cristo Gesù. Il brano, infatti, rivela l’agire salvifico di Dio che, però, realizza
il suo atto di potenza presentando il suo Servo nella massima umiliazione, tanto che gli uomini non l’accettano perché appare “percosso da Dio”, come avvenne per Gesù; una
sofferenza voluta da Dio per la salvezza dell’intera umanità. Nella seconda lettura, tratta
dalla lettera agli Ebrei, è rievocato il sacerdozio e i sacrifici del tempio, per evidenziare
la grandezza del sacerdozio e del sacrificio di Cristo. Egli, con un atto di estrema umiltà, si è reso in ogni cosa simile ai fratelli; una realtà dovuta dalla sua missione sacerdotale,
che lo rende capace di comprendere i dolori perché è passato attraverso i patimenti e
le sofferenze che lo hanno reso causa di salvezza, sacerdote perfetto. Il brano evangelico riporta la Passione del Signore nella versione di Giovanni, e sottolinea come
lo scandalo della Croce sia il vero e definitivo sacrificio pasquale, che riunisce in un’unica
realtà il popolo della nuova alleanza.
Commenti tratti da: Commenti ai testi biblici - Padre A. Sacchi (Nicodemo.net)
2
PRIMA LETTURA
Dal libro del profeta Isaìa (52,13 - 53,12)
Ecco, il mio servo avrà successo,
sarà onorato, esaltato e innalzato grandemente. Come molti si stupirono di lui
- tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto
e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo -,
così si meraviglieranno di lui molte nazioni;
i re davanti a lui si chiuderanno la bocca,
poiché vedranno un fatto mai a essi raccontato
e comprenderanno ciò che mai avevano udito.
Chi avrebbe creduto al nostro annuncio? A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore?
È cresciuto come un virgulto davanti a lui
e come una radice in terra arida.
Non ha apparenza né bellezza
per attirare i nostri sguardi,
non splendore per poterci piacere.
Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire,
come uno davanti al quale ci si copre la faccia;
era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima.
Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze,
si è addossato i nostri dolori;
e noi lo giudicavamo castigato,
percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per le nostre colpe,
schiacciato per le nostre iniquità.
Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui;
per le sue piaghe noi siamo stati guariti.
Noi tutti eravamo sperduti come un gregge,
ognuno di noi seguiva la sua strada;
il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti.
Maltrattato, si lasciò umiliare
e non aprì la sua bocca;
Commenti tratti da: Commenti ai testi biblici - Padre A. Sacchi (Nicodemo.net)
3
era come agnello condotto al macello,
come pecora muta di fronte ai suoi tosatori,
e non aprì la sua bocca.
Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo;
chi si affligge per la sua posterità?
Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi, per la colpa del mio popolo fu percosso a morte.
Gli si diede sepoltura con gli empi,
con il ricco fu il suo tùmulo,
sebbene non avesse commesso violenza
né vi fosse inganno nella sua bocca.
Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori.
Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo,
si compirà per mezzo suo la volontà del Signore.
Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce
e si sazierà della sua conoscenza;
il giusto mio servo giustificherà molti,
egli si addosserà le loro iniquità.
Perciò io gli darò in premio le moltitudini,
dei potenti egli farà bottino,
perché ha spogliato se stesso fino alla morte
ed è stato annoverato fra gli empi,
mentre egli portava il peccato di molti
e intercedeva per i colpevoli.
Parola di Dio.
Commenti tratti da: Commenti ai testi biblici - Padre A. Sacchi (Nicodemo.net)
4
Is 52,13 - 53,12
Sofferenza e morte del Servo (4° carme)
La seconda parte del libro di Isaia (Is 40-55), chiamata anche Deuteroisaia, contiene
una serie di oracoli rivolti ai giudei esuli in Mesopotamia per annunciare loro la fine
dell’esilio. Nel Deuteroisaia emergono la figura e l’opera di un personaggio misterioso, il «Servo di JHWH», di cui trattano quattro composizioni poetiche, i «Carmi del Servo di
JHWH». Nel quarto carme del Servo di JHWH viene narrata la conclusione del suo
ministero e della sua vita, e al tempo stesso si abbozza una spiegazione della sofferenza. Il brano comprende un oracolo di JHWH (52,13-15), seguito da una lamentazione
collettiva (53,1-10), e poi da un altro oracolo di JHWH (53,11-12).
Oracolo iniziale (52,13-15)
JHWH annuncia che, in contrasto con le sue sofferenze attuali, il Servo sarà un giorno
onorato ed esaltato, anzi avrà un successo tale da far stupire re e nazioni. Lo scopo dell’oracolo, che è chiaramente rivolto agli israeliti, è fornire una chiave di lettura del
brano successivo, nel quale si parla invece della sofferenza e della morte del Servo.
Lamentazione collettiva (53,1-10)
Al termine dell’oracolo divino prende la parola il profeta; egli si fa interprete di un gruppo
di persone che hanno assistito alla tragedia del Servo e la sentono come un evento che
le interpella personalmente. Il brano inizia con una interrogazione retorica: «Chi avrebbe creduto al nostro annuncio? A chi sarebbe stato manifestato il braccio del
Signore?» (v. 1): ciò che sta per essere narrato è tanto straordinario da sembrare
incredibile. Eppure si tratta di un messaggio che viene da Dio e contiene una rivelazione della sua potenza (il «braccio») in favore di Israele, che paradossalmente si manifesta
proprio nell’umiliazione del Servo.
Viene poi descritta l’esperienza fatta dal Servo durante il periodo di attività profetica che ha preceduto la sua tragica fine (vv. 2-3). Con la metafora del «virgulto» l’autore
vuole forse suggerire che al Servo compete la dignità messianica (cfr. Is 11,1; Ger
23,5). Ma direttamente si riferisce alla sua vita stentata nel deserto della sofferenza, che lo ha privato di qualsiasi bellezza o splendore. L’assenza di bellezza esteriore non è
una descrizione del suo aspetto esterno, ma un’immagine con la quale si vuole mettere
in luce il rifiuto che il suo messaggio ha suscitato, descritto nei carmi precedenti in termini di insuccesso e di persecuzione. Coloro in nome dei quali l’autore parla sono
chiaramente i giudei che si trovano in esilio e forse pensano già al ritorno, ma secondo
modalità che non si armonizzano con quelle indicate dal Servo.
La riflessione dell’autore passa poi alle cause di quanto è capitato al Servo (vv. 4-5). In forza della solidarietà che lo legava al gruppo degli esuli, egli ha sperimentato le loro
stesse sofferenze, aggravate però dall’esplodere nei suoi confronti di una violenza piena
di astio immotivato. Vedendo le sofferenze del Servo l’autore e i suoi compagni avevano pensato che egli fosse colpito, castigato da Dio a causa dei suoi peccati. Ma poi hanno
capito che era diventato oggetto di cattiverie e di persecuzioni per essersi fatto solidale
con il gruppo degli esuli, pur dissociandosi dai loro progetti ispirati da sentimenti di rivalsa e di violenza. Di conseguenza la sofferenza che si è abbattuta su di lui era sì un
castigo (correzione), che però era causa di salvezza proprio per coloro che lo
perseguitavano, i quali in forza delle sue piaghe hanno ottenuto la guarigione, cioè hanno superato la loro violenza e ostilità.
Difatti la sofferenza sperimentata dal Servo e da lui accettata con pazienza ha attuato
la riconciliazione con Dio (vv. 6-7). Nel linguaggio biblico il termine «peccato» e i suoi sinonimi vengono spesso usati per indicare non solo la colpa, ma anche le sue
conseguenze (sofferenza e morte). Il Servo ha preso su di sé non tanto le colpe, quanto
piuttosto le conseguenze dell’infedeltà del popolo che, a causa del proprio peccato, era
stato disperso come un gregge senza pastore. Egli si è comportato come un agnello che
Commenti tratti da: Commenti ai testi biblici - Padre A. Sacchi (Nicodemo.net)
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si lascia condurre al macello senza opporre resistenza, come la vittima dei sacrifici:
neppure i maltrattamenti più atroci lo hanno fatto desistere dall’atteggiamento non
violento assunto fin dall’inizio. La vicenda del Servo si conclude in modo tragico (vv. 8-9). Alla fine il Servo è stato
condannato, ucciso e sepolto con gli empi. Tutto ciò è avvenuto non a causa di crimini
commessi da lui, ma «per l’iniquità del popolo». Dal canto suo egli non ha ceduto neppure un istante alla violenza e all’inganno. Il fatto di aver rifiutato la violenza lo ha
portato a essere la prima vittima della violenza altrui.
Con la sua morte però non è stata detta l’ultima parola (v. 10). JHWH ha voluto che il Servo passasse attraverso la sofferenza, ma ha stabilito che, avendo «offerto» se stesso
in «espiazione», viva a lungo e abbia una grande discendenza. La lunga vita promessa
al Servo dopo la sua morte indica il successo della sua opera e la rinascita del popolo. Per mezzo suo infatti si compie la volontà di Dio, cioè la conversione del popolo e il suo
ritorno nella terra promessa. Direttamente non si parla di una glorificazione del Servo
nell’altra vita o una sua risurrezione dopo la morte.
Oracolo conclusivo (vv. 11-12)
Negli ultimi due versetti JHWH riprende la parola per confermare il successo del Servo
(vv. 11-12). Al termine della sua sofferenza, cioè dopo la sua morte, il Servo vedrà (oppure «farà vedere») la luce e si sazierà (oppure «farà saziare») della conoscenza di
JHWH: egli raggiungerà dunque un rapporto pieno con Dio, o meglio condurrà ad esso
tutto il popolo. Egli, il giusto per eccellenza, prendendo su di sé le iniquità dei «molti», vale a dire di tutto il popolo, li renderà giusti, cioè li riconcilierà pienamente con Dio.
Egli riceverà in premio la moltitudine per riunirla e condurla a JHWH, e questo in forza
della solidarietà che lo ha unito fino alla morte con i peccatori.
Il tema centrale di questo carme è quello della sofferenza e della morte del Servo. Sembra accertato che i giudei esuli abbiano svolto un ruolo non indifferente nella sua
uccisione, ma non è detto che ne siano i principali responsabili. Essi infatti hanno reagito
negativamente alla sua predicazione. Egli ha annunciato una strategia non violenta per
fare ritornare il popolo nella Terra, ma i capi non ne hanno voluto sapere. Il Servo muore, ma ottiene con la morte quello che non aveva realizzato in vita.
Il significato della morte del Servo viene normalmente spiegato mediante il concetto di
“espiazione vicaria”, che farebbe di lui la figura di Gesù che muore in croce al nostro posto. Secondo questa interpretazione egli avrebbe svolto il ruolo di vittima sacrificale,
offrendo se stesso in sacrificio al posto del popolo peccatore e attirando su di sé la pena
che spettava ad esso. Questa interpretazione non è corretta perché il concetto stesso di espiazione vicaria non è presente nel mondo biblico, dove il sacrificio è concepito
come un ricordo dell’alleanza; esso ha il potere di purificare il popolo e di riconciliarlo
con Dio in forza non della morte della vittima ma della misericordia infinita di Dio. Nel caso del Servo, si può dire che egli è stato assimilato alla vittima sacrificale in quanto
è stato fedele fino alla fine al progetto di Dio che aveva decretato il ritorno degli esuli.
Egli era perfettamente consapevole che esso si sarebbe attuato non per mezzo della violenza, ma semplicemente perché Dio sarebbe intervenuto con la sua potenza. Proprio
per la sua fede nell’intervento divino egli è diventato il paladino della non violenza attiva.
Questa scelta gli ha provocato la dura reazione di persone non preparate e divise da odi
e rancori inveterati, le quali hanno riversato su di lui le loro tensioni. Egli dunque ha preso su di sé non i peccati del popolo, ma le loro conseguenze. La sofferenza e la morte
del Servo sono la conseguenza dei peccati del popolo con il quale si è reso solidale a
motivo della sua fedeltà verso JHWH. In lui la sofferenza assume così un significato nuovo, diventando il segno dell’amore e della fedeltà indefettibile di Dio e quindi il mezzo
per eccellenza con cui il peccato è eliminato e gli esuli, ormai riconciliati, possono
ritornare nella loro terra.
Commenti tratti da: Commenti ai testi biblici - Padre A. Sacchi (Nicodemo.net)
6
SALMO RESPONSORIALE (Sal 30,2.6.12.13.15-17.25) (31)
Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito.
In te, Signore, mi sono rifugiato,
mai sarò deluso;
difendimi per la tua giustizia.
Alle tue mani affido il mio spirito;
tu mi hai riscattato, Signore, Dio fedele. R/.
Sono il rifiuto dei miei nemici
e persino dei miei vicini,
il terrore dei miei conoscenti;
chi mi vede per strada mi sfugge.
Sono come un morto, lontano dal cuore;
sono come un coccio da gettare. R/.
Ma io confido in te, Signore;
dico: «Tu sei il mio Dio,
i miei giorni sono nelle tue mani».
Liberami dalla mano dei miei nemici
e dai miei persecutori. R/.
Sul tuo servo fa’ splendere il tuo volto,
salvami per la tua misericordia. Siate forti, rendete saldo il vostro cuore,
voi tutti che sperate nel Signore. R/.
SALMO 30 (31)
Supplica fiduciosa nell'afflizione
Il ritornello di questo bellissimo Salmo (Padre, nelle tue mani affido il mio spirito),
secondo l’Evangelista Luca è stato pronunciato da Gesù sulla Croce; è il grido di chi ha riposto tutta la sua fiducia nel Signore ed è cosciente che sarà aiutato. Attorno a lui è
presente l’ostilità e lo scherno degli uomini, persino degli amici più cari lo hanno
abbandonato; nonostante questo egli continua a rifugiarsi nel Signore, l’unico che “tiene nelle sue mani i suoi giorni” e che “farà splendere il volto del suo Servo”. La sua fiducia
è così grande che può incoraggiare anche gli altri (Siate forti, riprendete coraggio, o voi
tutti che sperate nel Signore). Gli studiosi affermano che questa preghiera (inizialmente di lode e di fiducia,
successivamente di dolore per la persecuzione, e infine di gioia di speranza) esprime le
tre virtù fondamentali, e cioè: stare saldi nella fede, sperare sempre, amare il Signore.
Commenti tratti da: Commenti ai testi biblici - Padre A. Sacchi (Nicodemo.net)
7
SECONDA LETTURA
Dalla lettera agli Ebrei (4,14-16; 5,7-9)
Fratelli, poiché abbiamo un sommo sacerdote grande, che è passato
attraverso i cieli, Gesù il Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della fede. Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che
non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato
messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato.
Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per
ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al
momento opportuno.
[Cristo, infatti,] nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e
suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da
morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito. Pur
essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto,
divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono.
Parola di Dio.
CANTO AL VANGELO (Cf. Fil 2,8-9)
Gloria e lode a te, Cristo Signore!
Per noi Cristo si è fatto obbediente fino alla morte
e a una morte di croce.
Per questo Dio lo esaltò
e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome.
Gloria e lode a te, Cristo Signore!
Commenti tratti da: Commenti ai testi biblici - Padre A. Sacchi (Nicodemo.net)
8
Eb 4,14-16; 5,7-9
Gesù sacerdote misericordioso
Nella seconda sezione dello scritto (3,1-5,10) viene affrontato il tema del sommo
sacerdote «misericordioso e fedele», preannunciato in 2,17-18. Gesù può e deve essere considerato come il sommo sacerdote «fedele». Ma Gesù è anche un sommo sacerdote
«misericordioso».
In Eb 4,14 - 5,10 l’autore mostra come la piena solidarietà di Cristo con gli uomini rappresenti un elemento costitutivo del suo sacerdozio. Il testo si può facilmente
dividere in due parti: la prima (4,14-16) ha un evidente carattere esortativo; la seconda
parte contiene invece una descrizione del ruolo e della condizione del sommo sacerdote dell’AT, cui fa seguito l’applicazione a Cristo (5,1-10). La liturgia propone solo la prima
parte e alcuni versetti della seconda.
L’adesione a Cristo sommo sacerdote (Eb 4,14-16)
Il tema di Gesù come un sacerdote degno di fede diventa il punto di partenza di una pressante esortazione: «Poiché abbiamo un sommo sacerdote grande, che è passato
attraverso i cieli, Gesù il Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della fede» (v.
14). Sebbene il sacerdozio di Cristo sia stato consumato sulla croce, esso continua a
esercitarsi ancora oggi nei «cieli», dove egli è penetrato con la sua morte cruenta e ormai siede alla destra della maestà «divina». L’appellativo «Figlio di Dio» è attribuito
qui direttamente al «Gesù» storico, allo scopo di sottolineare ancora una volta il
fondamento del suo ruolo sacerdotale: in quanto Figlio, egli è un sacerdote potente, capace di «salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si accostano a Dio, essendo
egli sempre vivo per intercedere a loro favore» (7,25). In Gesù morto e risorto si è
attuato quel «sacerdozio» di cui le istituzioni cultuali dell’AT erano soltanto un’«ombra»: questa certezza deve spingere il credente a «mantenere salda», cioè a rinnovare e
rinvigorire la sua «professione di fede». Solo così potrà entrare in un rapporto vivo con
lui e godere i frutti della sua mediazione sacerdotale.
All’esortazione iniziale fa seguito una frase esplicativa con cui si esclude una possibile
interpretazione errata del sacerdozio di Cristo (v. 15). La grandezza del sacerdozio di Cristo non esclude, anzi esige che egli sia solidale con la famiglia umana, che deve
rappresentare davanti a Dio: egli infatti è «uomo» in mezzo agli uomini e perciò è
capace di comprendere fino in fondo i loro limiti e i loro peccati. Il verbo «compatire»
non significa semplicemente una qualche partecipazione alla sorte dell’altro, ma una vera e propria consonanza di affetti profondi: è l’amore che spinge a patire con chi
patisce! Gesù ha dimostrato questa sua compassione perché proprio lui, che è e rimane
sempre il «Figlio di Dio», si è assoggettato ai limiti e alle prove comuni della vita, compreso il dramma della morte, come un qualsiasi essere umano.
La solidarietà di Gesù con l’umanità ha però un limite: egli si assimila in tutto alla
condizione umana «escluso il peccato». Si afferma così la perfetta santità di Cristo, che esclude ogni sua partecipazione alla comune situazione di peccato. In realtà questa
prerogativa non diminuisce la sua solidarietà con gli uomini, anzi rappresenta la
condizione indispensabile perché egli possa effettivamente andare loro incontro e salvarli. Un peccatore infatti ha bisogno prima di tutto di essere lui stesso salvato: solo
chi è santo può salvare gli altri. La santità quindi non impedisce a Cristo di essere
totalmente simile a noi: al contrario, gli consente di essere «redentore» in senso pieno, senza limiti di sorta. Inoltre lo costituisce modello della vita nuova, redenta, che tutti i
credenti devono ormai condividere.
Commenti tratti da: Commenti ai testi biblici - Padre A. Sacchi (Nicodemo.net)
9
L’autore conclude con una nuova esortazione (v. 16). L’invito iniziale a mantenere salda
la professione di fede viene qui ripreso sotto forma di richiamo ad accostarsi con piena
fiducia al «trono della grazia», cioè alla presenza del Dio misericordioso. Dopo che Cristo «ha attraversato i cieli», Dio non deve essere più ricercato in un santuario terreno, ma
proprio là dove egli si trova, cioè nel suo santuario celeste. In forza della mediazione di
Cristo i credenti devono ormai sentirsi sicuri che Dio non negherà loro la salvezza e l’aiuto necessario tutte le volte che ne avranno bisogno.
Cristo sommo sacerdote «compassionevole» (Eb 5,7-9)
Nella seconda parte della pericope l’autore mostra come il sacerdozio di Cristo debba
essere compreso specialmente a partire dal suo atteggiamento di solidarietà e compassione nei confronti dei peccatori. A tale scopo egli propone anzitutto una
definizione di sacerdote quale emerge dall’esperienza del popolo ebraico e poi la applica
a Cristo (5,1-10). La liturgia omette la descrizione del sacerdozio levitico e le
affermazioni riguardanti la chiamata di Cristo come sacerdote, proponendo soltanto i versetti riguardanti la sua solidarietà con l’umanità, quale appare dalla sua preghiera
per essere liberato dalla morte: «nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e
suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito» (v. 7). Se è vero infatti che per ottenere il
sommo sacerdozio bisognava essere chiamati, è vero anche che esso era un onore, per
ottenere il quale parecchi erano disposti persino ad affrontare aspre guerre. Il sacerdozio di Cristo invece è tale che neppure l’unico abilitato ad esercitarlo aveva il
desiderio di accedervi perché implicava già in partenza l’identificazione con la vittima, e
quindi la totale offerta di sé al Padre; l’onore certamente sarebbe venuto con l’ingresso nei cieli, ma la via per accedervi passava per la croce. È questo che ha spaventato Cristo
stesso quando stava ormai per raggiungere il culmine della sua opera sacerdotale.
Egli infatti, giunto al termine della sua vita terrena «offrì» a Dio preghiere e suppliche.
Prima che sulla croce, la sua offerta sacrificale ha avuto dunque luogo nell’orto degli
Ulivi, dove ha rivolto al Padre la sua preghiera, accompagnata da «forti grida e lacrime».
Le «preghiere e suppliche con forti grida e lacrime» sono quasi certamente quelle che Cristo ha elevato a Dio durante la sua passione. Nel testo della Passione non si parla di
«forti grida e lacrime», ma solo di una preghiera accorata di Cristo: è chiaro che l’autore
di Ebrei, pur avendo in mente i fatti accaduti nel Getsemani, non si riferisce ai vangeli scritti, ma alla tradizione orale.
Più difficile da spiegare è il significato di «venne esaudito». Se con la sua preghiera Gesù voleva ottenere di essere liberato dalla morte, di fatto non è stato esaudito.
Secondo una interpretazione, l’autore non intenderebbe semplicemente la morte fisica,
ma il tipo di morte affrontata da Cristo. La morte è intesa come lo strumento mediante il quale gli uomini sono tenuti sotto la schiavitù del diavolo, e di conseguenza riguarda
direttamente solo i peccatori. Da questa morte Cristo è stato effettivamente liberato
non solo perché Dio gli ha dato la forza per superare la prova, ma anche e soprattutto perché si è servito della sua morte fisica per eliminare la morte stessa in quanto realtà
collegata con il peccato, trasformandola in un grande gesto di affidamento a Dio.
L’autore fa poi una riflessione: «Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì» (v. 8). L’«obbedienza» che Cristo imparò dalla sua sofferenza consiste nell’adesione
radicale al progetto di Dio, che lo ha guidato nelle scelte decisive della sua vita. La
sottomissione alla volontà del Padre viene presentata spesso nel NT come un aspetto caratteristico del comportamento di Gesù. Ma ciò che la lettera agli Ebrei mette
maggiormente in luce, in piena sintonia con il racconto evangelico della passione, è il
fatto che questa obbedienza non sia stata spontanea e quasi scontata, ma abbia
Commenti tratti da: Commenti ai testi biblici - Padre A. Sacchi (Nicodemo.net)
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richiesto una notevole dose di impegno e di fatica per superare la naturale paura della
morte. L’aspetto più specifico del sacerdozio di Cristo sta quindi nell’accettazione libera,
anche se sofferta, della morte, che certo non è stata voluta dal Padre, ma imposta dalle circostanze concrete della storia.
Dall’esperienza terrena di Cristo l’autore ricava questa conclusione: «Reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (v. 9). Proprio a
causa della sua obbedienza Cristo «fu reso perfetto». Nell’AT l’appellativo di «perfetto»
compete non a Dio, ma all’uomo che adempie tutto ciò che, in campo morale o rituale, è richiesto per poter accedere a Dio. La «perfezione» ottenuta da Cristo non deve però
intendersi in senso morale: essa è piuttosto quella che gli deriva dall’aver raggiunto il
«fine» della sua esistenza terrena, cioè dall’attuazione della salvezza che il Padre aveva progettato di realizzare per mezzo suo in favore degli uomini. L’obbedienza di Cristo ha
come risultato la salvezza eterna di tutti coloro che «gli obbediscono». Obbedire significa
qui accettare la totalità del messaggio di Cristo, ma soprattutto seguire l’esempio che
egli ha offerto a tutti nel suo affidarsi all’amore del Padre, anche quando poteva sembrare che il Padre l’avesse abbandonato.
L’autore della Lettera agli Ebrei si è assunto l’arduo compito di presentare la vicenda
umana di Gesù in termini sacrificali. Il concetto di sacerdozio implica la possibilità di
compiere un’efficace mediazione tra Dio e gli uomini. La mediazione perfetta però esige che il sacerdote sia veramente rappresentativo delle due parti in causa: solidale con Dio
e al tempo stesso con gli uomini. In questo senso Gesù rappresenta il sacerdote ideale,
perché è il «figlio di Dio», ma nello stesso tempo si è fatto simile a noi. La prova più grande, a cui è stato sottoposto Gesù nel suo radicale assimilarsi agli
uomini, è la morte: da essa egli, in quanto Figlio, aveva il diritto di essere esentato, e
invece le è andato incontro coscientemente, pur sentendone la naturale ripugnanza (5,7). Nell’accettazione, pur sofferta, della morte Gesù realizza il massimo di amore
verso Dio e verso gli uomini. Verso Dio tale amore si manifesta in forma di radicale
«obbedienza» (5,8); verso gli uomini assume i caratteri della più totale «condivisione».
Proprio per questa dimensione di amore, totalmente libero e perciò anche estremamente sofferto, la morte di Cristo è presentata come un vero «sacrificio»: la
stessa preghiera, con cui domanda di essere liberato dalla morte, ma al tempo stesso
si affida al Padre, diventa un’offerta sacrificale (5,7). Non stupisce pertanto che il Padre gradisca questa offerta al punto tale da farla rifluire, come dono di salvezza, su tutti gli
uomini (5,9). A questo sacrificio totalmente nuovo e diverso si ricollega il sacerdozio di
Cristo.
Commenti tratti da: Commenti ai testi biblici - Padre A. Sacchi (Nicodemo.net)
11
VANGELO
PASSIONE DI NOSTRO SIGNORE GESÙ CRISTO
SECONDO GIOVANNI
(18,1 -19,42) Catturarono Gesù e lo legarono
In quel tempo, Gesù uscì con i suoi discepoli al di là del torrente Cèdron, dove c’era un giardino, nel quale entrò con i suoi discepoli.
Anche Giuda, il traditore, conosceva quel luogo, perché Gesù spesso
si era trovato là con i suoi discepoli. Giuda dunque vi andò, dopo aver
preso un gruppo di soldati e alcune guardie fornite dai capi dei
sacerdoti e dai farisei, con lanterne, fiaccole e armi. Gesù allora,
sapendo tutto quello che doveva accadergli, si fece innanzi e disse
loro: «Chi cercate?». Gli risposero: «Gesù, il Nazareno». Disse loro
Gesù: «Sono io!». Vi era con loro anche Giuda, il traditore. Appena disse loro «Sono io», indietreggiarono e caddero a terra. Domandò
loro di nuovo: «Chi cercate?». Risposero: «Gesù, il Nazareno». Gesù
replicò: «Vi ho detto: sono io. Se dunque cercate me, lasciate che
questi se ne vadano», perché si compisse la parola che egli aveva
detto: «Non ho perduto nessuno di quelli che mi hai dato». Allora
Simon Pietro, che aveva una spada, la trasse fuori, colpì il servo del
sommo sacerdote e gli tagliò l’orecchio destro. Quel servo si
chiamava Malco. Gesù allora disse a Pietro: «Rimetti la spada nel fodero: il calice che il Padre mi ha dato, non dovrò berlo?».
Lo condussero prima da Anna
Allora i soldati, con il comandante e le guardie dei Giudei, catturarono
Gesù, lo legarono e lo condussero prima da Anna: egli infatti era
suocero di Caifa, che era sommo sacerdote quell’anno. Caifa era quello che aveva consigliato ai Giudei: «È conveniente che un solo
uomo muoia per il popolo». Intanto Simon Pietro seguiva Gesù
insieme a un altro discepolo. Questo discepolo era conosciuto dal
sommo sacerdote ed entrò con Gesù nel cortile del sommo sacerdote.
Pietro invece si fermò fuori, vicino alla porta. Allora quell’altro
discepolo, noto al sommo sacerdote, tornò fuori, parlò alla portinaia
e fece entrare Pietro. E la giovane portinaia disse a Pietro: «Non sei
anche tu uno dei discepoli di quest’uomo?». Egli rispose: «Non lo sono».
Intanto i servi e le guardie avevano acceso un fuoco, perché faceva
freddo, e si scaldavano; anche Pietro stava con loro e si scaldava. Il
sommo sacerdote, dunque, interrogò Gesù riguardo ai suoi discepoli
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e al suo insegnamento. Gesù gli rispose: «Io ho parlato al mondo
apertamente; ho sempre insegnato nella sinagoga e nel tempio, dove
tutti i Giudei si riuniscono, e non ho mai detto nulla di nascosto.
Perché interroghi me? Interroga quelli che hanno udito ciò che ho
detto loro; ecco, essi sanno che cosa ho detto». Appena detto questo,
una delle guardie presenti diede uno schiaffo a Gesù, dicendo: «Così
rispondi al sommo sacerdote?». Gli rispose Gesù: «Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male. Ma se ho parlato bene, perché mi
percuoti?». Allora Anna lo mandò, con le mani legate, a Caifa, il
sommo sacerdote.
Non sei anche tu uno dei suoi discepoli? Non lo sono!
Intanto Simon Pietro stava lì a scaldarsi. Gli dissero: «Non sei anche
tu uno dei suoi discepoli?». Egli lo negò e disse: «Non lo sono». Ma
uno dei servi del sommo sacerdote, parente di quello a cui Pietro
aveva tagliato l’orecchio, disse: «Non ti ho forse visto con lui nel
giardino?». Pietro negò di nuovo, e subito un gallo cantò.
Il mio regno non è di questo mondo
Condussero poi Gesù dalla casa di Caifa nel pretorio. Era l’alba ed
essi non vollero entrare nel pretorio, per non contaminarsi e poter
mangiare la Pasqua. Pilato dunque uscì verso di loro e domandò:
«Che accusa portate contro quest’uomo?». Gli risposero: «Se costui
non fosse un malfattore, non te l’avremmo consegnato». Allora Pilato
disse loro: «Prendetelo voi e giudicatelo secondo la vostra Legge!».
Gli risposero i Giudei: «A noi non è consentito mettere a morte nessuno». Così si compivano le parole che Gesù aveva detto,
indiando di quale morte doveva morire.
Pilato allora rientrò nel pretorio, fece chiamare Gesù e gli disse: «Sei
tu il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti
hanno parlato di me?». Pilato disse: «Sono forse io Giudeo? La tua
gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai
fatto?». Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero
combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno
non è di quaggiù». Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?».
Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per
questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità.
Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce». Gli dice Pilato: «Che
cos’è la verità?».
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E, detto questo, uscì di nuovo verso i Giudei e disse loro: «Io non
trovo in lui colpa alcuna. Vi è tra voi l’usanza che, in occasione della
Pasqua, io rimetta uno in libertà per voi: volete dunque che io rimetta
in libertà per voi il re dei Giudei?». Allora essi gridarono di nuovo:
«Non costui, ma Barabba!». Barabba era un brigante.
Salve, re dei Giudei!
Allora Pilato fece prendere Gesù e lo fece flagellare. E i soldati,
intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo e gli misero
addosso un mantello di porpora. Poi gli si avvicinavano e dicevano:
«Salve, re dei Giudei!». E gli davano schiaffi.
Pilato uscì fuori di nuovo e disse loro: «Ecco, io ve lo conduco fuori,
perché sappiate che non trovo in lui colpa alcuna». Allora Gesù uscì,
portando la corona di spine e il mantello di porpora. E Pilato disse
loro: «Ecco l’uomo!». Come lo videro, i capi dei sacerdoti e le guardie
gridarono: «Crocifiggilo! Crocifiggilo!». Disse loro Pilato: «Prendetelo
voi e crocifiggetelo; io in lui non trovo colpa». Gli risposero i Giudei:
«Noi abbiamo una Legge e secondo la Legge deve morire, perché si
è fatto Figlio di Dio».
All’udire queste parole, Pilato ebbe ancor più paura. Entrò di nuovo
nel pretorio e disse a Gesù: «Di dove sei tu?». Ma Gesù non gli diede
risposta. Gli disse allora Pilato: «Non mi parli? Non sai che ho il potere
di metterti in libertà e il potere di metterti in croce?». Gli rispose
Gesù: «Tu non avresti alcun potere su di me, se ciò non ti fosse stato
dato dall’alto. Per questo chi mi ha consegnato a te ha un peccato
più grande». Via! Via! Crocifiggilo!
Da quel momento Pilato cercava di metterlo in libertà. Ma i Giudei
gridarono: «Se liberi costui, non sei amico di Cesare! Chiunque si fa
re si mette contro Cesare». Udite queste parole, Pilato fece condurre
fuori Gesù e sedette in tribunale, nel luogo chiamato Litòstroto, in ebraico Gabbatà. Era la Parascève della Pasqua, verso mezzogiorno.
Pilato disse ai Giudei: «Ecco il vostro re!». Ma quelli gridarono: «Via!
Via! Crocifiggilo!». Disse loro Pilato: «Metterò in croce il vostro re?».
Risposero i capi dei sacerdoti: «Non abbiamo altro re che Cesare».
Allora lo consegnò loro perché fosse crocifisso.
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Lo crocifissero e con lui altri due
Essi presero Gesù ed egli, portando la croce, si avviò verso il luogo
detto del Cranio, in ebraico Gòlgota, dove lo crocifissero e con lui altri
due, uno da una parte e uno dall’altra, e Gesù in mezzo. Pilato compose anche l’iscrizione e la fece porre sulla croce; vi era scritto:
«Gesù il Nazareno, il re dei Giudei». Molti Giudei lesserò questa
iscrizione, perché il luogo dove Gesù fu crocifisso era vicino alla città;
era scritta in ebraico, in latino e in greco. I capi dei sacerdoti dei
Giudei dissero allora a Pilato: «Non scrivere: “Il re dei Giudei”, ma:
“Costui ha detto: Io sono il re dei Giudei”». Rispose Pilato: «Quel che
ho scritto, ho scritto».
Si sono divisi tra loro le mie vesti
I soldati poi, quando ebbero crocifisso Gesù, presero le sue vesti, ne
fecero quattro parti - una per ciascun soldato -, e la tunica. Ma quella
tunica era senza cuciture, tessuta tutta d’un pezzo da cima a fondo.
Perciò dissero tra loro: «Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi
tocca». Così si compiva la Scrittura, che dice: «Si sono divisi tra loro le mie vesti e sulla mia tunica hanno gettato la sorte». E i soldati
fecero così.
Ecco tuo figlio! Ecco tua madre!
Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre,
Maria madre di Clèopa e Maria di Màgdala. Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre:
«Donna, ecco tuo figlio!». Poi disse al discepolo: «Ecco tua madre!».
E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé. Dopo questo, Gesù,
sapendo che ormai tutto era compiuto, affinché si compisse la
Scrittura, disse: «Ho sete». Vi era lì un vaso pieno di aceto; posero
perciò una spugna, imbevuta di aceto, in cima a una canna e gliela
accostarono alla bocca. Dopo aver preso l’aceto, Gesù disse: «È
compiuto!». E, chinato il capo, consegnò lo spirito. Qui ci si genuflette e si fa una breve pausa.
E subito ne uscì sangue e acqua
Era il giorno della Parascève e i Giudei, perché i corpi non
rimanessero sulla croce durante il sabato - era infatti un giorno
solenne quel sabato -, chiesero a Pilato che fossero spezzate loro le
gambe e fossero portati via. Vennero dunque i soldati e spezzarono
le gambe all’uno e all’altro che erano stati crocifissi insieme con lui.
Venuti però da Gesù, vedendo che era già morto, non gli spezzarono
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le gambe, ma uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito
ne uscì sangue e acqua. Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua
testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi
crediate. Questo infatti avvenne perché si compisse la Scrittura: “Non
gli sarà spezzato alcun osso”. E un altro passo della Scrittura dice
ancora: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto».
Presero il corpo di Gesù e lo avvolsero con teli insieme ad aromi
Dopo questi fatti Giuseppe di Arimatèa, che era discepolo di Gesù,
ma di nascosto, per timore dei Giudei, chiese a Pilato di prendere il
corpo di Gesù. Pilato lo concesse. Allora egli andò e prese il corpo di
Gesù. Vi andò anche Nicodèmo - quello che in precedenza era andato da lui di notte - e portò circa trenta chili di una mistura di mirra e di
àloe. Essi presero allora il corpo di Gesù e lo avvolsero con teli,
insieme ad aromi, come usano fare i Giudei per preparare la
sepoltura. Ora, nel luogo dove era stato crocifisso, vi era un giardino
e nel giardino un sepolcro nuovo, nel quale nessuno era stato ancora
posto. Là dunque, poiché era il giorno della Parascève dei Giudei e
dato che il sepolcro era vicino, posero Gesù.
Parola del Signore.
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Gv 18,1-19,42
La passione del Signore
Nel Libro della gloria (Gv 13-21), in cui si narra la piena manifestazione di Gesù come
Figlio di Dio, Giovanni riporta, subito dopo i discorsi da lui pronunciati nell’ultima cena,
il racconto della sua passione e morte (Gv 18-19), che forma un tutt’uno con essi e con il successivo racconto della risurrezione. In questa parte del vangelo il racconto di
Giovanni scorre parallelo a quello dei sinottici: ciò significa che molto presto si è formata
nella comunità primitiva un’ampia esposizione degli ultimi avvenimenti della vita Gesù, a cui hanno attinto sia i sinottici che Giovanni. È però significativo il fatto che questi
abbia operato una drastica scelta all’interno del materiale tradizionale. Nei sinottici la
«storia della passione» in senso largo inizia con il complotto delle autorità giudaiche contro Gesù, due giorni prima di Pasqua, cioè prima dell’ultima cena; in Giovanni,
invece, esso inizia l’arresto di Gesù.
Si possono distinguere nel racconto quattro unità letterarie:
1) Arresto di Gesù (18, 1-11)
2) Gesù davanti ad Anna e a Caifa (18,12-27) 3) Processo di Gesù davanti a Pilato (18,28-19,16a)
4) Crocifissione, morte e sepoltura di Gesù (19,16b-37)
L’arresto di Gesù (18,1-11)
L’evangelista non presenta dunque Gesù come la vittima di un ignobile complotto, ma
come colui che, dotato di preveggenza divina, si confronta con il potere delle tenebre, costringendolo, con la sua stessa apparizione, a prostrarsi di fronte a lui. È chiaro che
in questa prospettiva non vi è posto per il racconto dell’agonia di Gesù e per il dettaglio
riguardante il bacio di Giuda: colui che attraverso la morte va gloriosamente verso la vittoria non può essere triste e chiedere, anche se solo per un attimo, la sua liberazione,
come pure è impossibile che egli abbia un contatto fisico con il traditore, che appare qui
come il rappresentante per eccellenza del potere delle tenebre. Il rifiuto del ricorso alle armi mostra come Dio non abbia bisogno di esse per compiere le sue opere
meravigliose, mentre la preoccupazione di Gesù per la liberazione dei discepoli indica
come egli stia andando coscientemente incontro alla morte per la loro salvezza.
Gesù davanti a Anna e a Caifa (18,12-27)
Il racconto giovanneo della passione prosegue con la scena della comparsa di Gesù di fronte alle autorità giudaiche.
Secondo Giovanni, diversamente da quanto riferiscono i sinottici, Gesù non è stato
presentato al sinedrio e non ha subìto un vero e proprio processo, ma è stato solo interrogato da Anna, ex sommo sacerdote e suocero di Caifa, che forse svolgeva il ruolo
di capo della polizia del tempio (18,12-14). Caifa non svolge nessun ruolo, se non quello
di consegnare Gesù a Pilato, quando Anna, al termine dell’interrogatorio, glielo invia. Tuttavia la sua comparsa non è senza importanza, in quanto, con le parole dette
precedentemente e qui ricordate (cfr. 11,50: «È meglio che un uomo solo muoia per il
popolo») egli aveva indicato involontariamente il significato degli eventi che si stavano svolgendo.
Nella sua relazione dell’interrogatorio di Gesù Giovanni ha dunque voluto semplicemente
dare spazio alle due risposte date da Gesù, dalle quali risulta la sua autorità divina, che si è rivelata nel suo annuncio pubblico e ufficiale fatto a tutto il popolo. Riferendo lo
schiaffo dato dalla guardia, l’evangelista ha voluto mettere in risalto il rifiuto che il suo
popolo gli ha opposto. Mentre Gesù, interrogato da Anna, si appella coraggiosamente
alla sua predicazione, il portavoce dei discepoli, testimone privilegiato di quanto Gesù
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ha annunciato, interrogato da semplici servi, nega di essere suo discepolo, cioè di aver
mai ascoltato le sue parole. Se al centro del racconto vi è il rifiuto del popolo giudaico,
simboleggiato nello schiaffo della guardia, nella sua cornice vi è il rinnegamento da parte del discepolo più qualificato: sia i giudei che i discepoli, anche se in modi diversi,
fanno dunque parte delle tenebre che circondano Gesù.
Il processo davanti a Pilato (18,28-19,16a)
Caifa, al quale Gesù è stato inviato da Anna al termine dell’interrogatorio, lo consegna immediatamente a Pilato. Ha luogo quindi il processo di fronte all’autorità romana, che
rappresenta per Giovanni la scena centrale della passione. L’episodio viene riletto in
chiave teologica mediante l’introduzione di numerosi dettagli, alcuni dei quali attinti senza dubbio da antiche tradizioni. Il racconto è scandito da un continuo andirivieni di
Pilato, che si muove dall’interno del palazzo, dove si trova Gesù, al suo esterno, dove
si trovano i giudei: costoro infatti, essendo la vigilia di Pasqua, non vogliono entrare in
un luogo abitato da gentili per non contaminarsi (18,28). In base a queste entrate e uscite del governatore il racconto si divide in sette quadri, di cui i primi tre servono a
spiegare la regalità di Gesù (18,29-40), quello centrale descrive la sua intronizzazione
(19,1-3), e gli ultimi tre illustrano la sua presentazione al popolo (19,4-16).
Nei primi tre quadri l’evangelista vuole sottolineare come sia proprio Gesù, tradito dai
suoi e consegnato indifeso nelle mani del più grande potere dell’epoca, a dirigere gli eventi della storia in vista della sua esaltazione sulla croce. Ma più ancora egli vuol far
comprendere come, proprio nel momento del massimo rifiuto oppostogli dal suo popolo,
appare nel modo più chiaro la sua regalità, derivatagli dal fatto di rivelare il Dio fedele, salvatore di Israele e di tutta l’umanità.
Il quarto quadro del processo di fronte a Pilato occupa solo pochi versetti, ma
rappresenta il culmine di tutta la scena. L’intenzione dell’evangelista è quella di mostrare come il processo a Gesù sia culminato,
contro la volontà stessa degli accusatori e del giudice, in una specie di intronizzazione
regale. Ma proprio da questa scena appare chiaro che la regalità così proclamata non si
basa sul potere umano, ma sulla sofferenza accettata come espressione della fedeltà suprema (verità) di Dio e del suo inviato: Gesù appare così come il Servo di JHWH, nel
quale giungono a compimento le speranze collegate sia alla linea regale-messianica che
a quella profetica. Gli ultimi tre quadri del processo (19,4-16) corrispondono a quella che, nelle cerimonia
di intronizzazione regale, era l’apparizione del sovrano in pubblico per ricevere gli
omaggi del popolo e annunciare la sua vittoria sui suoi nemici. Il processo è così concluso. L’evangelista sorvola sul fatto che Pilato abbia pronunciato
la condanna formale di Gesù e si limita a dire che lo ha consegnato per essere crocifisso.
Per lui è importante sottolineare che fino all’ultimo Pilato l’ha presentato come il re dei giudei. A prima vista sembra che egli abbia incaricato i giudei di crocifiggerlo, ma in
realtà ha solo ceduto alle loro richieste. In seguito apparirà che gli esecutori materiali
sono stati i soldati romani. L’evangelista osserva che tutto ciò avvenne verso mezzogiorno (ora sesta), nella vigilia di Pasqua (Parasceve), la festa che commemorava
la liberazione dall’Egitto e la sovranità di Dio su Israele; poco dopo, verso le 15, avrebbe
avuto inizio l’immolazione degli agnelli pasquali: sarà precisamente l’ora in cui Gesù,
secondo la tradizione sinottica, morirà in croce.
Secondo i vangeli sinottici Gesù ha annunciato durante la sua vita terrena la venuta del
regno di Dio e ha compiuto i segni che ne attestavano la presenza, anche se in forma ancora modesta e nascosta. Giovanni invece trascura quasi completamente, durante il
suo racconto della vita pubblica di Gesù, il tema del regno, ma ne fa il motivo dominante
della passione. È chiaro quindi che secondo lui il regno di Dio non è disgiungibile dalla
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persona del re messia. E in effetti Gesù è diventato re soltanto attraverso la sofferenza
e la morte in croce.
Il racconto giovanneo del processo di fronte a Pilato mostra come i giudei, non riconoscendo in Gesù l’inviato di Dio, senza volerlo abbiano fatto sì che egli fosse
solennemente proclamato re addirittura dal rappresentante di Roma che, sebbene
riluttante, ne ha pronunciato la condanna a morte. Essi dunque sono diventati gli strumenti inconsci, anche se colpevoli, di un progetto più grande, che ha come scopo la
piena manifestazione della dignità regale di Gesù. E proprio nel processo di fronte a
Pilato Gesù appare non solo come re, ma anche come il Figlio dell’uomo, il Figlio di Dio e il giudice universale.
Mediante questa strategia narrativa Giovanni vuol far vedere come i titoli di gloria
attribuiti a Gesù non debbano essere intesi secondo criteri umani, ma unicamente nella prospettiva del Servo sofferente di JHWH. In realtà per Gesù, come per tutti coloro che
hanno saputo impegnarsi fino in fondo per il bene del loro prossimo, la vera gloria non
consiste nel dominare sugli altri, ma nel rendere testimonianza alla verità, cioè alla
fedeltà di Dio, fino al limite estremo della morte.
La morte di Gesù (Gv 19,16b-42)
L’avvicinarsi della Pasqua non lascia tempo a ulteriori ripensamenti e formalità. Perciò
alla scena del processo di Gesù fa seguito immediatamente l’esecuzione della sua
condanna. I suoi ultimi momenti sono narrati in sei quadri successivi, a carattere fortemente simbolico: la crocifissione (19,17-22), la divisione dei vestiti (19,23-24), il
dialogo con Maria (19,25-27), la morte di Gesù (19,28-30) e il colpo di lancia (19,31-
37); a conclusione viene narrata la sepoltura di Gesù (19,38-42). Nei cinque quadri che compongono la scena della morte di Gesù l’evangelista ha fatto
risaltare come in essa egli ha attuato fino in fondo il progetto divino, rivelando così la
sua regalità e realizzando la salvezza dell’umanità mediante il dono purificatore dello Spirito. Ora egli vuole far comprendere che questo dono è presente e disponibile nei
sacramenti della chiesa, nella quale si rende visibile e operante l’unità tra tutti gli uomini
realizzata dalla morte di Cristo. Al centro di questa chiesa, formata dai discepoli e da
tutti coloro che crederanno sulla loro parola, vi è Maria, madre, modello e ispiratrice costante nel cammino di fede che trae origine appunto dalla croce di Gesù.
Giovanni ha omesso molti importanti dettagli riportati dai sinottici. Fra questi si possono
ricordare l’agonia di Gesù nel Getsemani, il bacio di Giuda, la fuga dei discepoli, il
processo davanti al sinedrio, gli oltraggi in casa del sommo sacerdote e presso la corte di Erode, gli scherni ai piedi della croce, l’episodio dei ladri crocifissi con Gesù, il suo
grido di sconforto sulla croce e le tenebre al momento della sua morte. Queste omissioni
sono però compensate da numerose aggiunte: lo spavento delle guardie al momento dell’arresto di Gesù, il suo colloquio con Anna e molti dettagli riguardanti il processo di
fronte a Pilato. Giovanni poi è l’unico a menzionare la discussione circa il contenuto
dell’iscrizione da affiggere alla croce, la citazione del Sal 21 a proposito della divisione delle vesti, le parole rivolte a Maria e al discepolo prediletto e infine il colpo di lancia.
La passione di Gesù è raccontata da Giovanni in modo tale da metterne in luce, sulla
linea di quanto aveva già intuito la tradizione più antica, l’intima connessione con la sua risurrezione. In pratica per il quarto evangelista non si tratta di due eventi autonomi,
quasi di due scalini nel cammino di Gesù verso il Padre, ma di due aspetti di un’unica
realtà salvifica. Anzitutto nella passione di Gesù l’evangelista ha visto infatti l’espressione suprema della sua gloria, cioè l’opera per eccellenza di quel Dio che da lui
si è fatto rappresentare per portare a termine la salvezza del suo popolo e di tutta
l’umanità: in altri termini per Giovanni Gesù non è stato glorificato perché è stato
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obbediente fino alla morte di croce, ma ha glorificato Dio ed è stato da lui glorificato
precisamente sulla croce, in quanto espressione suprema di quell’amore che costituisce
la grandezza stessa di Dio e del suo inviato.
È quindi sulla croce che si attua il mistero della salvezza, intesa come rivelazione piena
del rapporto che unisce Gesù al Padre e come coinvolgimento in esso dell’umanità mediante il dono dello Spirito. In altre parole, morte, risurrezione, ascensione al cielo,
intronizzazione alla destra del Padre, dono dello Spirito, tutto trova la sua realizzazione
nell’innalzamento di Gesù sulla croce. L’arresto, l’interrogatorio di Anna, il processo di Pilato, non sono altro che fasi preparatorie, le quali preannunciano e anticipano, come
d’altronde tutta la vita di Gesù, questo momento di gloria e di salvezza