Vergogna, basi neurobiologiche, quadri clinici ed approcci
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Sabato 10 settembre 2011 Lograto, Villa Morando, ore 9.00 Convegno e dibattito pubblico Vergogna, basi neurobiologiche, quadri clinici ed approcci terapeutici organizzato da ASSOCIAZIONE UMA.NA.MENTE __________________________________________________________________________ Espressioni artistiche della vergogna Luigi Tonoli Pietro Canonica, Pudore, 1890 (Museo Pietro Canonica a Villa Borghese)
Vergogna, basi neurobiologiche, quadri clinici ed approcci
parole&vergognaConvegno e dibattito pubblico
organizzato da ASSOCIAZIONE UMA.NA.MENTE
NOTE SULLE ORIGINI DEL CONCETTO DI VERGOGNA.
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La civiltà omerica. L’αδς e l’educazione aristocratica.
Riferendosi alla civiltà omerica (IX sec), nel 1951 Eric Dodds
scrive:
Il bene supremo dell’uomo omerico non sta nel godimento di una
coscienza tranquilla, sta nel possesso della timé, la pubblica
stima. “Perché dovrei combattere, domanda Achille, se nello stesso
pregio (τιµ) sono il codardo e il prode?” La più potente forza
morale nota all’uomo omerico non è il timor di Dio, è il rispetto
dell’opinione pubblica, aids: αδοµαι Τρας, dice Ettore nel momento
risolutivo del suo destino, e va alla morte con gli occhi aperti.
La situazione cui risponde il concetto di ate sorse non soltanto
dall’impulsività dell’uomo omerico, ma anche dalla tensione fra
impulso individuale e pressione del conformismo sociale,
caratteristica delle civiltà di vergogna, ove tutto quel che espone
l’uomo al disprezzo o al ridicolo dei suoi
simili, tutto quel che gli fa “perdere la faccia”, è sentito come
insopportabile. Questo forse spiega perché fossero proiettati sopra
un’operazione divina non soltanto le mancanze morali, come
l’incapacità di Agamennone a dominarsi, ma anche il cattivo affare
di Glauco e l’errore tattico di Automedonte.1
Dodds, scrivendo di rispetto per l’opinione pubblica, fa
riferimento al concetto greco di αδς: il valore semantico del
termine si estende dall’idea di «vergogna» come «riverenza e
rispetto» a quella di «pudore», «verecondia», «modestia»,
«timidezza», «ritrosia». La stessa radice si trova anche nei verbi
αδοµαι e αδοµαι che esprimono l’idea di «vergognarsi di fare una
cosa» e «sentire riverenza e rispetto di fronte a qualcuno o
qualcosa». (Un significato, quello di «temere qualcosa di sacro» e
«aver rispetto», che è presente anche nel verbo latino vrri, da cui
l’italiano vergogna
2.)
Per effetto dell’αδς l’uomo è inibito dal fare il male, ma anche
dal commettere errori che ne ledano l’onore3. Il concetto greco
dunque sintetizza un codice di comportamento che prende forma
dentro un reticolo di relazioni fra il soggetto e la comunità di
appartenenza ed è quindi in stretta connessione con altri
valori.
Innanzitutto con la τιµ, la «pubblica stima», l’«onore». Si gode
della τιµ quando si è data prova di avere una ρετ, una qualità
peculiare che distingue chi la possiede da tutti i suoi simili (può
essere la forza, il coraggio, ma anche l’astuzia, l’intelligenza,
l’eloquenza; per una donna la bellezza e l’abilità nel lavoro
domestico). È anche vero però che l’ρετ esiste se è pubblicamente
riconosciuta, dunque se è accompagnata dalla τιµ. Non avendo il
concetto di coscienza, l’uomo omerico considera il pubblico
riconoscimento garante dell’esistenza dell’ρετ. In conseguenza, una
persona che non gode di onore non ha neppure qualità, né identità,
né ruolo sociale significativo e la sua esistenza ne è
drammaticamente condizionata.
Dunque non esiste ρετ senza τιµ e non esiste τιµ senza ρετ.
Se un eroe omerico si distingue valorosamente in battaglia,
rispettando gli obblighi del rango e dell’identità eroica,
conquista il κλος (la «gloria», soprattutto presso i posteri). Dal
successo in battaglia derivano dunque τιµ e κλος («onore» e
«gloria»), e questo spiega perché i termini χρµα («gioia»,
«diletto») e χρµη («battaglia») siano in stretta parentela
etimologica.
La battaglia è dunque il luogo per eccellenza in cui si manifesta
l’ρετ e l’attribuzione di un premio concreto (ad esempio una parte
del bottino) sancisce il possesso di un’ρετ e il godimento della
τιµ. Il premio del valore mostrato è appunto il bottino e la sua
mancata assegnazione è prova di assenza di τιµ e quindi di ρετ.
Questo spiega la facilità con cui nascono le discordie fra gli eroi
omerici: la gelosia per la propria τιµ scatena ad esempio l’ira di
Achille e di Agamennone (e la portata esistenziale dei valori in
gioco è tale che Achille per il torto subito è disposto a lasciar
morire i suoi compagni).
In questo contesto si spiega anche perché non possono nemmeno
essere concepiti la pietà per i vinti e il rispetto per il cadavere
dello sconfitto.
L’ αδς è alla base dell’educazione aristocratica: obbliga alla
tensione verso l’ideale e, se viene tradito, espone alla νµεσις,
alla punizione, al giusto sdegno che la società prova nei confronti
di chi ha agito vergognosamente.
Esiodo. Il lavoro: l’αδς buona e l’αδς non buona.
Nelle Opere e i giorni di Esiodo (VIII-VII sec.) il concetto di
vergogna compare legato al mondo del lavoro e alla ricerca onesta
del benessere, un compito che ogni uomo deve assumersi accettando –
ed è importante – il posto che la sorte gli ha assegnato. Il
concetto di αδς quindi, a seconda dei risultati raggiunti e a
seconda dei modi con cui sono stati conseguiti, assume accezione
positiva o negativa. In un passo Esiodo, dopo aver celebrato il
lavoro come via necessaria per ottenere il favore degli dei e il
benessere economico e dopo aver condannato l’inattività come
un’onta (νειδος) per l’uomo4, riconosce che esiste anche l’αδς δ οκ
γαθ l’«aidós non buona», quella che designa il senso di inferiorità
di chi è caduto in condizione di indigenza.
αδς δ οκ γαθ κεχρηµνον νδρα κοµζει, αδς, τ νδρας µγα σνεται δ
ννησιν· αδς τοι πρς νολβ, θρσος δ πρς λβ.
(ργα κα µραι, 317-19)
(“Non è una buona vergogna quella che accompagna l’uomo
indigente,
la vergogna che molto danneggia o molto aiuta gli uomini,
la vergogna si aggiunge alla miseria, l’audacia alla
fortuna”)
Nei versi successivi Esiodo torna poi all’accezione positiva di αδς
dichiarando che la ricchezza non data dagli dei, cioè ottenuta non
con il lavoro, ma con l’inganno o la violenza, è frutto di assenza
di αδς (ν- αιδεη, «impudenza»).
[…] ο τε πολλ γνεται, ετ ν δ κρδος νον ξαπατσηι νθρπων, αδ δ τ
ναιδεη κατοπζηι, εα δ µιν µαυροσι θεο, µινθουσι δ οκον νρι τι,
παρον δ τ π χρνον λβος πηδε.
(ργα κα µραι, vv. 322-326)
(“come assai spesso suole accadere, quando il guadagno inganna la
mente
dell'uomo, e allora Sfrontatezza vince Vergogna;
ma allora facilmente l'abbatton gli dèi, distruggon la casa a
quell'uomo, e per poco tempo la fortuna lo segue.”)
In altro passo della stessa opera, racconta il susseguirsi delle
età nella storia dell’uomo: l’ultima, la quinta, quella del ferro,
è caratterizzata da fatiche, affanni5, aspre pene, ma anche da cose
buone, alle cattive mescolate. Poi anche questa stirpe degenererà
senza rimedio e sarà distrutta da Zeus. La desolazione finale sarà
Vergogna e Sdegno (Αδς κα Νµεσις).
κα ττε δ πρς λυµπον π χθονς ερυοδεης λευκοσιν φρεσσι καλυψαµνω χρα
καλν θαντων µετ φλον τον προλιπντ νθρπους Αδς κα Νµεσις τ δ λεψεται
λγεα λυγρ θνητος νθρποισι κακο δ οκ σσεται λκ.
(ργα κα µραι, vv 197-201)
(“Sarà allora che verso l'Olimpo, dalla terra con le sue ampie
strade, da candidi veli coperte le belle persone degli immortali
alla schiera andranno, lasciando i mortali, Vergogna e Sdegno: i
dolori che fanno piangere resteranno
agli uomini e difesa non ci sarà contro il male.”)
In Esiodo dunque la vergogna, come αδς, designa il corretto modo
d’agire, ma anche l’insopportabile condizione di totale indigenza,
come nella miseria e nella desolazione della fine dei tempi.
Callino e Solone. L’αδς come impegno per lo Stato.
Nella poesia elegiaca di Callino (VII sec.) e Solone (VII-VI sec.)
il termine αδς è utilizzato nell’accezione eroica omerica.
Callino è di Efeso, nella Ionia. I Cimmeri e i Treri, orde di
predoni, nel 652 sconfiggono il re della Lidia Gige, ne conquistano
la capitale Sardi e dilagano per le coste dell’Asia Minore. Il
pericolo è imminente e Callino, appellandosi alla vergogna che
muove all’azione, rivolge ai giovani la sua pressante parenesi
perché si rendano finalmente conto della minaccia che incombe sulla
città e affrontino la guerra con coraggio.
fr. 1 Μχρις τε κατκεισθε; κτ λκιµον ξετε θυµν, νοι; οδ αδεσθ
µφιπερικτονας δε λην µεθιντες; ν ερνηι δ δοκετε σθαι, τρ πλεµος
γααν πασαν χει.
(“Fino a quando sarete oziosi? Quando avrete un animo forte,
o giovani? Non provate vergogna, così neghittosi, dei vostri
vicini? Stare seduti in tempo di pace voi sembrate, ma la guerra
possiede l’intero paese.”)
Solone, eletto arconte di Atene nel 594, avvia vaste riforme
sociali e difende con orgoglio il proprio operato. L’αδς (nella
forma verbale αδοµαι) è in relazione con il κλος (la «gloria»)6
che, come in Esiodo, è espressione di un retto operare e di un
brillante risultato (Non si è lontani dall’antica idea dello
stretto rapporto tra vergogna e onore.)
fr. 32. ε δ gς (fhsin) ejfeismhn patrdoς, turanndoς d ka bhς
meilcou o kajqhymhn minaς ka kataiscuvnaς kloς, odn aidomai: plon
gr de niksein dokw pntaς nqrpouς.
(“Se risparmiai la patria,
se alla tirannide non volsi l’animo né all’amara violenza,
macchiando e disonorando la mia fama,
non mi vergogno: così, credo, sarò superiore a tutti gli
uomini.”)
Sofocle ed Euripide. L’αδς come timore del ridicolo e angoscia di
vergogna.
Nella tragedia di Sofocle e di Euripide (V sec.) il termine αδς
designa l’azione eroica. L’intreccio τιµ, αδς e κλος si trova, ad
esempio, nell’Aiace di Sofocle: il protagonista è convinto di
essere il degno erede delle armi di Achille in virtù del suo valore
guerriero e della sua forza. Deluso, accecato da Atena, credendo di
infierire sugli Achei, ne massacra i buoi e i montoni. Poi tornato
in sé non sopporta la vergogna e decide di riscattare il suo onore
e la sua reputazione con il suicidio, e si trafigge con la spada
ottenuta in dono da Ettore. Il suicidio è un modo per far conoscere
il proprio onore e la morte eroica procura un grande onore, κλος,
che è anche l’unica forma conosciuta di immortalità: grande è colui
che come grande è ricordato per le sue gesta eroiche.
Ma particolarmente significativo in questa sede è l’accento posto
sul tema della derisione. È insopportabile per gli eroi della
tragedia il timore dello scherno, di amici e nemici.
Antigone è talmente preoccupata di non essere derisa che interpreta
come scherno le parole che il coro le rivolge con intento
consolatorio:
οµοι γελµαι. τ µε, πρς θεν πατρων. οκ οχοµναν βρζεις, λλ πφαντον;
πλις, πλεως πολυκτµονες νδρες:
(vv. 839-841)
(“Ahimé sono derisa. Perché, per/gli dei patrii,/non mi oltraggi
quando sono sparita,/ma mentre sono visibile?”)
Per Medea il dolore più insopportabile è non ricevere l'onore (τιµ)
dovuto al suo valore (ρετ) di donna:
σ δ οκ µελλες τµ τιµσας λχη τερπνν διξειν βοτον γγελν µο
(vv. 1354-1355)
(“tu non dovevi, disonorato il mio letto, vivere una vita felice
irridendomi”)
Medea non sopporta il ridicolo e ad esso preferisce la fama di
responsabile di atroci delitti, macchiatasi del sangue dei suoi
stessi figli.
Μη. µακρν ν ξτεινα τοσδ ναντον λγοισιν, ε µ Ζες πατρ πστατο ο ξ µο
ππονθας ο τ εργσω σ δ οκ µελλες τµ τιµσας λχη τερπνν διξειν βοτον
γγελν µο οδ τραννος οδ σο προσθες γµους Κρων νατε τσδ µ κβαλεν
χθονς. πρς τατα κα λαιναν, ε βοληι, κλει κα Σκλλαν Τυρσηνν ικησεν
πδον τς σς γρ ς χρν καρδας νθηψµην.
(vv. 1351-1361)
(“Molto avrei da replicare alle tue parole, se Zeus padre non
sapesse cosa ho fatto io per te e cosa hai fatto tu contro di me.
Non
dovevi, in spregio al mio letto, riservarti per il domani
un'esistenza di felicità, ridendo alle mie spalle; e neppure lei,
la principessa. E il re Creonte, che ti ha preparato queste nozze,
non doveva cacciarmi dal paese senza pagarne le conseguenze.
Perciò, chiamami pure leonessa, se ti fa piacere [, e Scilla, il
mostro che abita nel vasto Tirreno]; io ti ho colpito al cuore; è
i] contraccambio che meritavi.”)
Medea, come Antigone, è spinta ad agire senza cedimenti dal timore
di vergogna, che è già – dicono gli esperti - una forma di
vergogna, appunto l’angoscia di vergogna
7, l’angoscia che nasce per qualcosa che sta per succedere.
L’azione che ne consegue è spesso un misto di eroismo, di ferocia e
di irrazionalità8.
Racconta Medea. Tutti lo sanno, anche i compagni della nave Argo: è
lei che ha salvato la vita a Giàsone, quando fu mandato ad
aggiogare i tori che spirano fuoco e a seminare il campo della
morte. Lei ha ucciso il drago insonne che custodiva il vello d'oro
nel groviglio delle sue molte spire.
Lei ha tradito il padre, per seguire Giasone a Iolco, dando retta
all’impulso non alla ragione. Lei ha ucciso Pelìa servendosi delle
sue figlie. E Giasone, dopo aver avuto tutto questo, la tradisce,
trovandosi un'altra moglie, quando già aveva avuto figli da
Medea.
L’eroina umiliata teme la derisione che metterà in pericolo la sua
identità e la sua reazione difensiva non si ferma di fronte
all’efferatezza. Medea, come Achille, non ha paura di provocare
l’altrui rovina pur di salvare il proprio onore. Quando Giasone in
uno degli ultimi versi della tragedia si rivolge a Medea
chiedendole se ha ucciso i figli (cosa che lei ha effettivamente
fatto), lei risponde
Σ γε πηµανουσ. (v. 1398)
“Per tormentare te”
Platone. Ασχνη e αδς. Disonore e reazione al disonore.
Nell’Eutifrone e nell’Apologia di Platone (V-IV sec.) è
particolarmente significativa la declinazione del concetto di
vergogna in termini formati sulla radice αδ- (come αδς di cui si è
finora parlato) e sulla radice ασχ- (presente in ασχνη, ασχνοµαι…).
Se la radice αδ- indica essenzialmente il “rispetto” (come nel
verbo latino aestumare, “stimare, apprezzare, valutare”), la radice
ασχ- designa principalmente la “vergogna” (per azione passata o
possibile), intesa come “onta”, “disonore”, “offesa”, “ingiuria”.
La radice ασχ- dunque indica il tipo di vergogna che riguarda
qualcosa che può o sta per accadere o il tipo di vergogna relativo
a qualcosa che è già accaduto. La radice αδ- designa invece un
atteggiamento reattivo che cerca di impedire la vergogna dei due
precedenti tipi9. Ciascuna delle due radici naturalmente comprende
anche il significato dell’altra, ma con proporzione di peso
invertita.
In questo senso si può capire la connessione fra vergogna e paura
nell’Eutifrone. Ragionando sull’affermazione di un antico poeta,
identificato dalla critica con Stàsino di Cipro10, Socrate afferma:
«Dove è vergogna, lí è paura». Il termine usato è αδς, a confermare
l’accezione di «atteggiamento reattivo alla vergogna come
disonore».
Σωκρτης Οκ ρ ρθς χει λγειν «να γρ δος νθα κα αδς,» λλ να µν αδς νθα
κα δος, ο µντοι να γε δος πανταχο αδς π πλον γρ οµαι δος αδος.
µριον γρ αδς δους σπερ ριθµο περιττν, στε οχ ναπερ ριθµς νθα κα
περιττν, να δ περιττν νθα κα ριθµς. πηι γρ που νν γε;
(Εθφρων, 12 C)
(“SOCRATE Ma dove è vergogna, lí sí è paura; chi si vergogna e
arrossisce di qualche cosa, non teme d’averci a fare una
figuraccia? Dunque non sta bene dire, dove è paura, è vergogna; ma
sí dove è vergogna, lí è paura. E davvero non dovunque è paura è
vergogna, ché l’una piú si stende largamente che l’altra, e la
paura è parte della vergogna, come il pari è del numero: ché
dovunque è il pari c’è sempre il numero, e dovunque è il numero non
ci è sempre il pari. E or mi tieni dietro, ora?”)
Nell’Apologia Socrate immagina che gli venga chiesto se non si
vergogni di aver agito in modo da suscitare sdegno e dunque
pubblica condanna (cioè νµεσις). Il verbo utilizzato ha radice ασχ-
perché l’azione in giudizio è già avvenuta.
σως ν ον εποι τις. «ετ οκ ασχνηι, Σκρατες, τοιοτον πιτδευµα
πιτηδεσας ξ ο κινδυνεεις νυν ποθανεν;»
(Απολογα Σωκρτους, 28b)
(“Ma, a questo punto, qualcuno potrebbe dirmi: «Non ti vergogni,
Socrate, di avere svolto un’attività per la quale, ora,
corri il rischio di morire?»”)
All’ipotetica obiezione Socrate risponde che un uomo di merito non
calcola il rischio di morte, ma, soppesata la giustizia e l’onestà
dell’azione da intraprendere, procede saldamente secondo il proprio
disegno, consapevole che l’onore dipende dall’attuazione coerente
del progetto. Indirettamente Socrate supera anche la concezione
della vergogna come dipendente dalla pubblica opinione o
stima.
Nel Simposio Alcibiade descrive gli effetti prodotti dai discorsi
di Socrate:
πρς τοτον µνον νθρπων, οκ ν τις οοιτο ν µο νεναι, τ ασχνεσθαι
ντινον: γ δ τοτον µνον ασχνοµαι. σνοιδα γρ µαυτ ντιλγειν µν ο
δυναµν ς ο δε ποιεν οτος κελεει, πειδν δ πλθω, ττηµν τς τιµς τς π
τν πολλν. δραπετεω ον ατν κα φεγω, κα ταν δω, ασχνοµαι τ µολογηµνα.
κα πολλκις µν δως ν δοιµι ατν µ ντα ν νθρποις: ε δ α τοτο γνοιτο, ε
οδα τι πολ µεζον ν χθοµην, στε οκ χω τι χρσωµαι τοτ τ νθρπ.
(Συµποσον, 216b - 216c)
(“Soltanto davanti a quest’uomo io ho provato una cosa che nessuno
mi sospetterebbe: quella di vergognarmi. Davanti
a lui solo, io mi vergogno, perché riconosco che non ho la forza di
contraddirlo, di oppormi a quello che mi dice di
fare, ma poi, appena mi allontano da lui, ecco che mi lascio
nuovamente prendere dal favore popolare; così lo evito e
lo fuggo e quando lo vedo, solo a pensare a tutte le cose di cui mi
ha convinto, arrossisco dalla vergogna. Tante volte mi farebbe
addirittura piacere che non fosse più a questo mondo, anche se poi,
so benissimo che questo mi addolorerebbe assai di più e così, con
un uomo simile, non so proprio come fare.”)
Socrate costringe Alcibiade a fare i conti con la propria
conoscenza di sé e a prendere atto che la sua rassicurante certezza
che esiste solo un mondo (il suo mondo) non ha ragion d’essere.
Alcibiade si trova spiazzato in una condizione di ambiguità: da una
parte il disappunto (tra turbamento e disagio) di vedersi in fallo,
dall’altra il disappunto (tra senso di inadeguatezza e senso di
insufficienza) di scoprire che ogni sforzo per non ripetere
l’errore è un gioco diperato. In questa ambiguità si colloca il
sentimento della vergogna.
Nei passi citati di Platone la vergogna è connessa in primo luogo
con la coscienza e, in secondo luogo, con la coerenza fra pensiero
e azione, tra il progettare in funzione dell’attuazione e l’attuare
nel rispetto della progettazione.
Aristotele. L’αδς e l’ασχνη come mescolanza di vizio e virtù.
Aristotele (IV sec.), nell’Etica Nicomachea, ha dell’αδς una
visione sostanzialmente negativa: la considera una passione più che
una disposizione morale. È paura del disonore e ha effetti simili
alla paura di fronte ai pericoli (entrambe le condizioni, tra
l’altro, hanno evidenti manifestazioni fisiche: in un caso si
arrossisce, nell’altro si impallidisce). L’αδς può avere dunque
qualche utilità educativa in età giovanile.
In quanto ασχνη, invece, la vergogna consegue ad atti volontari, ma
l’uomo virtuoso non dovrebbe commettere volontariamente azioni di
cui vergognarsi. Può anche essere positivo vergognarsi di una
cattiva azione, ma di certo non si è nel campo delle virtù. Insomma
«se l’impudenza, cioè il non vergognarsi di commettere azioni
brutte, è una cosa miserabile, non per questo sarà virtuoso il
vergognarsi di commettere azioni simili»11.
ε δ ναισχυντα φαλον κα τ µ αδεσθαι τ ασχρ πρττειν, οδν µλλον τν τ
τοιατα πρττοντα ασχνεσθαι πιεικς.
(θικ Νικοµχεια, 1128 b)
Entrambi i concetti (αδς e ασχνη) hanno una radice negativa: il
primo è di natura passionale, il secondo implica un’azione
miserabile.
ALCUNE IDEE DI VERGOGNA NELL’ARTE.
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La metafora artistica apre sempre nuove possibilità interpretative
dei concetti esposti. Qualche esempio.
Le manifestazioni fisiche della vergogna in Masaccio.
«Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden, perché lavorasse
il suolo da dove era stato tratto. Scacciò l’uomo e pose ad oriente
del giardino di Eden i cherubini e la fiamma della
spada folgorante, per custodire la via all’albero della vita»
(Genesi, 3, 23-24)
L’affresco di Masaccio, databile al 1424-1428, è una descrizione
fenomenologica della vergogna: i personaggi si sentono scoperti,
smascherati, avvertono improvvisamente il senso insopportabile
della nudità. Eva, una sorta di greca Venere pudica, si scopre
esposta allo sguardo altrui e vista come non vorrebbe essere vista.
Ha perduto l’immagine che prima aveva e dava di sé, si accorge di
esporre evidente la propria intimità e tenta di coprirsi. Adamo,
turbato, si vergogna di vedere e non vuol vedere d’essere visto. Se
ne va nascondendo il viso.
La vergogna è connessa con il vedere e l’essere visti.
La situazione è così grave da non ammettere gesti superficiali: la
vergogna blocca ogni altra azione che non sia quella irresistibile
del desiderio di non essere visibili. Di Adamo ed Eva si sono
manifestati aspetti che essi stessi considerano indecenti se non
mostruosi. Ora essi sono coscienti di sé e si giudicano, sono
rigidamente rivolti a sé stessi. Non ci sono infatti particolari,
accanto alle figure, che rinviino a ciò che prima è accaduto: i
gesti rivelano chiaramente che i personaggi sono presi non tanto da
ciò che hanno fatto, ma da ciò che sono. Nudi. La vergogna del
corpo come vergogna di sé, autocondanna e rifiuto.
Il dramma di Adamo ed Eva riguarda dunque la loro identità
dolorosamente smascherata: da una parte si vedono dal punto di
vista di Dio e continuano a vedersi per come si sentono visti da
Dio; dall’altra continuano a sentirsi visti da Dio esattamente per
come ora improvvisamente si vedono12.
Avendo mangiato il frutto dell’albero della conoscenza del bene e
del male, escono da un mondo senza vergogna. Hanno scoperto che non
esiste per loro solo un mondo: conoscono un secondo livello
esistenziale, dal quale si vedono in fallo. Ma acquisiscono però
anche la possibilità di vedersi con gli occhi di Dio, dunque si
vedono nudi ma si vedono anche nell’atto di vedersi nudi (e a
questo terzo livello, quello del vedersi nell’atto di vedersi, la
loro nudità si manifesta come inadempienza nei confronti dei
precetti ricevuti, in termini greci: la mancanza di αδς genera
ασχνη). Il vedersi nell’atto di vedersi li rende simili a Dio e
comporta il desiderio di non essere visti.
La vergogna, appunto, è connessa con il vedere e l’essere
visti.
Tuttavia ogni sforzo di non vedere/essere-visti e di tornare alla
condizione di prima è inutile. Di nuovo l’ambiguità del vedersi in
fallo e del sapersi disperati (cioè certi dell’inconciliabilità fra
l’io e l’ideale dell’io). Da qui la vergogna.
Il ruolo ascetico della vergogna in Jacopone da Todi.
Ribelle al papa, Jacopone fu scomunicato e relegato nei sotterranei
del convento di San Fortunato a Todi. Lì sopportò e descrisse il
proprio isolamento, la fame, il gelo, le catene e la sporcizia con
ascetico disprezzo per il corpo e la vita terrena.
Forse Jacopone non volle nemmeno essere poeta e i suoi versi
composti fra il 1268 (anno in cui è tradizionalmente collocata la
sua conversione) e il 1306 (data della morte) non sono che una
forma di preghiera o di predicazione. La sua aspirazione è rivolta
al congiungimento mistico con Dio, e, siccome Dio non ha corpo,
l’uomo che vuole avvicinarsi a Dio deve trasformarsi, annullando la
propria natura umana.
Da qui il tipico lessico jacoponico: l’azione religiosa è un
anegare, inabissare (perdere nozione di sé), annichilare
(annullarsi); la parola è uno stridere (annullare il linguaggio, in
quanto come espressione della natura umana, significa ricorrere
all’urlo, se non è possibile il silenzio); la condizione dell’uomo
è abisso, caligine (tenebra).
Persino la cultura linguistica viene negata attraverso il ricorso a
forme popolari e allo stravolgimento deformato. L’esporsi al
pubblico disprezzo (per la povertà della lingua e per l’abiezione
fisica ed economica), il mettersi cioè in condizione di vergogna e
l’immergersi nella rappresentazione della propria vergogna
costituiscono una scelta di vita basata sull’evidente
capovolgimento dei tradizionali significati dei termini αδς e ασχνη
(non è cercata la pubblica stima, ma il pubblico disprezzo).
Poi che èi stato assai ne lo pensieri, che de lo star cun Deo ài
costumanza, lo Entelletto mittete a vedere li ben’ c’ài receputi
enn abundanza e chi si tu per cui vòlse morire che rotta li ài la
fede e la leianza, e che isso Signor vòlse soffrire da me<ne>
peccator tant’offensanza. De vergogna vogliome vestire,
non trovo loco de far satisfanza! (Jacopone, Laude, 77, vv.
101-110)
Jacopone cerca ciò che gli altri rifiutano e nell’umiliazione e nel
degrado trova la via della salvezza. L’annullamento della propria
entità fisica e le precise descrizioni della sofferenza, delle
pene, delle malattie, della condizione di vergogna equivalgono a
esprimere desiderio di ricongiungimento al Padre, amore (come
follia) per Cristo e in particolare per il Cristo della
passione.
Se l’esposizione al pubblico disprezzo è condizione desiderabile,
il godimento di buona fama non può che essere un male. Jacopone,
infatti, condanna i frati che accettano cariche religiose
importanti, amministrative o accademiche, e anche chi ottiene fama
e rispetto con una vita di penitenza. Nella lauda Que fai,
anema
predata? immagina un dialogo all’inferno a cui partecipa una
religiosa tradita dall’ambizione alla santità. («Quanno odìa clamar
la santa, / lo cor meo soperbia ennalta», v. 109, confessa la
religiosa, forse Chiara da Montefalco, canonizzata nel 1881).
Quanno odìa clamar ‘la santa’, lo cor meo soperbia ennalta. Or so’
menata a la malta co la gente desperata. S’e’ vergogna avesse
auta,
non siria cusì peruta;
la vergogna averìa apruta
la mea mente magagnata. Forsa me sirìa corressa, ch’e’ non fòra a
cquesta oppressa; l’onoranza me tenne essa ch’eo non fusse
medecata. (Jacopone, Laude, 37, vv. 47-58)
La religiosa confessa che la vergogna avrebbe potuto aprirle una
nuova vita. Con i versi di Montale: «E la vergogna non è, garzon
bennato, che un primo barlume della vita.»13. In questo caso,
dunque, non è punto d’arrivo dell’ascesi (come nella prima
accezione), ma punto di partenza per la vita vera.
La vergogna come inizio di un percorso morale e conoscitivo in
Petrarca. Petrarca nel sonetto proemiale del Canzoniere (1356?)
chiede perdono ai lettori per la sua debolezza di cui dichiara di
provare intensa vergogna. Il sonetto si presenta come manifesto
programmatico, ma, scritto per ultimo rispetto agli altri testi del
canzoniere, è anche una valutazione sintetica del percorso poetico
ed esistenziale compiuto. Parla dell’alternarsi delle emozioni, ma
anche della varietà dello stile dei versi e della corrispondenza
fra poesia e condizione interiore. Il sonetto è dunque una chiave
per comprendere il significato attribuito dall’io lirico alla
propria vicenda amorosa e per riconoscerne alcune convinzioni
poetiche.
Petrarca, infatti, è insoddisfatto per l’alternanza di speranza e
dolore, di felicità e infelicità. Ma soprattutto prova vergogna per
la vanità, all’origine così della speranza
come del dolore. Nonostante le conquiste della conoscenza, le sue
cure non cessano di essere per la realtà terrena, per natura caduca
ed effimera.
La varietas dei versi e dello stato interiore dichiara il
fallimento della concentrazione su ciò che conta e il mancato
raggiungimento di un saggio distacco dalla vana mondanità. La
vergogna – si diceva – è primo barlume di una nuova vita, in
Petrarca prelude al Pentimento e alla Conoscenza14.
et del mio vaneggiar vergogna è ‘l frutto,
e ‘l pentersi, e ‘l conoscer chiaramente
che quanto piace al mondo è breve sogno.
La vergogna cioè ha effetto morale e conoscitivo (produce
Pentimento e Conoscenza) e anche il lettore può compiere lo stesso
percorso se concede al poeta pietà e perdono, cioè un’adesione
prima emotiva (la pietà) e poi morale (il perdono)15.
I tratti stilistici, come in Jacopone, rivelano la direzione in cui
l’io lirico si sta muovendo. Nel caso di Petrarca il linguaggio
medio, selezionato, lontano dal crudo realismo, l’uniformità
timbrica e musicale, il ricorso sistematico a forme retoriche che
rendono il testo equilibrato (antitesi, coppie, parallelismi,
allitterazioni) danno forma all’aspirazione al distacco dalle
passioni, al viverle come ricordo lontano, con lo stato d’animo di
chi si è pentito e conosce. Ma il distacco non è mai compiuto e il
perfetto equilibrio formale non è mai raggiunto, come il sonetto
dichiara e mostra.
Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono di quei sospiri ond’io
nudriva ‘l core in sul mio primo giovenile errore quand’era in
parte altr’uom da quel ch’i’ sono,
del vario stile in ch’io piango et ragiono fra le vane speranze e
‘l van dolore, ove sia chi per prova intenda amore, spero trovar
pietà, nonché perdono.
Ma ben veggio or sí come al popol tutto
favola fui gran tempo, onde sovente
di me medesmo meco mi vergogno;
et del mio vaneggiar vergogna è ‘l frutto, e ‘l pentersi, e ‘l
conoscer chiaramente che quanto piace al mondo è breve sogno.
Ma perché di me medesmo meco mi vergogno? Se si considera che
Petrarca desidera essere ammirato e trionfare (lo dimostra la cura
con cui perfezionò il proprio canzoniere nel corso dell’intera
esistenza16), si comprende perché la vergogna nasca innanzitutto
dalla preoccupazione per i suoi versi: Petrarca li vorrebbe diversi
da quel che sono e quindi essi smascherano, agli occhi del poeta,
una capacità poetica inferiore al desiderato. E se i versi sono
qualcosa di non riuscito, allora l’io lirico appare come non
vorrebbe apparire. I versi svelano i limiti del poeta e dunque la
sua impotenza a mostrarsi come vorrebbe e a non mostrarsi come non
vorrebbe.
D’altro canto Petrarca potrebbe temere che non essere nella vita
come vorrebbe (si veda il dichiarato cedimento alle vanità) possa
influire sulla valutazione dell’opera, considerando che il lettore
intreccia l’immagine che ha del poeta con quella che ha
dell’opera.
In entrambi i casi con il sonetto proemiale Petrarca potrebbe avere
lo scopo di salvare l’immagine di sé come persona e come poeta,
prendendo le distanze dalle proprie vanità e imperfezioni e
proteggendo così la propria opera17.
Dunque non sarebbero gli altri a condannare, ma l’io lirico, che
rileva la distanza fra ciò che è e scrive e ciò che si aspetta di
essere e scrivere18 («di me medesmo meco mi vergogno»). E il
sonetto sarebbe una reazione alla paura della vergogna. Il sonetto
nella storia è stato musicato undici volte. L’esempio di
Monteverdi. I madrigali sono costruiti su stereotipi musicali
convenzionali, secondo un preciso codice retorico allo scopo di
esprimere un certo sentimento, un’emozione, una condizione
dell’animo. Nel madrigale a 5 voci et doi
violini tratto dalla Selva morale & spirituale 2, del 1641,
Monteverdi passa dalla descrizione dello stato interiore dell’io
lirico e dalla richiesta di pietà e di empatia al rincorrersi delle
voci del popolo, e poi di nuovo alla vergogna. [ascolto]
La vergogna come invenzione narrativa in Ludovico Ariosto.
Ariosto fa della vergogna uno strumento di invenzione narrativa in
chiave divertita e ironica. Il termine “vergogna” compare 50 volte
nell’Orlando furioso (1504; 1532) a partire dall’ottava trentesima
del primo canto.
Ferraù sta cercando di ripescare l’elmo che gli è caduto in un
fiume. Dall’acqua esce il fantasma di Argalia che rivendica per sé
l’elmo ricordando che quando Ferraù lo aveva sconfitto gli aveva
promesso che non se ne sarebbe impossessato. Lo invita pertanto, se
vuol compiere azione degna di un cavaliere, a procurarsi un elmo
con onore. Per esempio quello ambitissimo di Orlando. Ferraù prova
vergogna per la promessa non mantenuta, per aver agito in modo non
conforme all’immagine ideale di sé e per essersi esposto a un
giudizio negativo. Così lascia
tutto e si dà all’inseguimento di Orlando.
I, 30 Né tempo avendo a pensar altra scusa, e conoscendo ben che ‘l
ver gli disse, restò senza risposta a bocca chiusa; ma la vergogna
il cor sì gli trafisse, che giurò per la vita di Lanfusa [madre di
Ferraù]
non voler mai ch’altro elmo lo coprisse,
se non quel buono che già in Aspramonte
trasse dal capo Orlando al fiero Almonte.
La vergogna provoca la sostituzione dell’oggetto del desiderio e il
meccanismo, ripetendosi, trasforma il poema in metafora
dell'esistenza dell'uomo perduto a inseguire i fantasmi della
vergogna e del desiderio.
A volte i desideri sono anche frutto di una del tutto irrealistica
immagine di sé e la vergogna è l’inevitabile imporsi della realtà.
Tuttavia la manifestazione della realtà non è mai definitiva perché
l’illusione riprende continuamente il sopravvento.
Sempre dal primo canto.
Angelica con ingannevoli lusinghe convince il rude Sacripante a
proteggerla. Questi, innamorato della donna, decide di approfittare
dell’occasione per farla sua: Corrò la fresca e matutina rosa (I,
58). Ma sul più bello, quando è ormai convinto di essere sul punto
di realizzare il suo disegno, arriva un cavaliere vestito di
bianco. Naturalmente non può che duellare, il suo cavallo viene
ucciso e il vincitore pago della vittoria se ne va. Sacripante
rimane sulla scena bloccato dal cavallo che gli è rovinato addosso
e roso dalla vergogna della
sconfitta, ottenuta per di più sotto gli occhi di Angelica. Il
cavaliere apprenderà più tardi, con ulteriore umiliazione, di
essere stato abbattuto da una donna (Bradamante).
I, 66 Sospira e geme, non perché l’annoi che piede o braccio s’abbi
rotto o mosso, ma per vergogna sola, onde a’ dì suoi
né pria né dopo il viso ebbe sì rosso: e più, ch’oltre il cader,
sua donna poi fu che gli tolse il gran peso d’adosso. Muto restava,
mi cred’io, se quella non gli rendea la voce e la favella.
Il guerriero poi riprende a inseguire le conferme alla propria
illusoria immagine di sé. (D’altra parte il senno degli uomini è
quasi tutto sulla luna e quindi è normale che sulla terra
imperversi la follia, compresa quella di chi, come Ariosto, si
ostina a scrivere anacronistici poemi cavalereschi.) Fatto sta che
il compimento del desiderio è perennemente rinviato e l’illusione
non si spegne mai. Al mondo non c’è che il perdurare del
sogno.
Ma per un personaggio non è così. Orlando.
La sua pazzia sembra rappresentare la vittoria definitiva della
realtà sull’illusione. Orlando ritiene di essere il più valoroso e
il più amabile dei cavalieri. Nemmeno può immaginare che Angelica
non sia invaghita di lui. Ma Angelica sposa Medoro, un semplice
soldato di nessun nome. Quando Orlando legge incise sugli alberi le
frasi d’amore che i due innamorati si sono scambiati, pensa che in
realtà Medoro sia il nomignolo che Angelica ha coniato per lui. Poi
gradualmente la realtà si impone e Orlando, che non la può
accettare, inizia a distruggerla, sradicando alberi, mandando in
frantumi rocce e fonti (tutti i segni dell’esistenza di Angelica),
gettando via l’armatura (segno della sua identità) e vagando
bestialmente nudo. Con l’armatura si è privato anche dell’identità
mantenendo la sola consistenza animale. Orlando insomma reagisce
alla vergogna, inconsciamente impedendosi di provare vergogna: in
questo sta la sua follia.
Sacripante si autoinganna, non se ne accorge e continua la sua vana
ricerca. Orlando, quando non può più autoingannarsi, perde l’uso
della ragione per l’insopportabilità dell’imporsi della realtà
sulla sua illusoria immagine di sé. La prova della intervenuta
follia è proprio l’assenza di vergogna: ora vaga nudo e si mostra
smascherato.
XXXI, 45 Son pochi dì ch’Orlando correr vidi
senza vergogna e senza senno, ignudo,
con urli spaventevoli e con gridi:
ch’è fatto pazzo in somma ti conchiudo;
e non avrei, fuor ch’a questi occhi fidi,
creduto mai sì acerbo caso e crudo. - Poi narrò che lo vide giù dal
ponte abbracciato cader con Rodomonte.
Questa la sua soluzione, ma agli altri eroi un Orlando furioso non
serve, e dunque Astolfo recupera dalla Luna il senno del paladino e
a forza riporta Orlando al personaggio che era.
Orlando dunque è stato sul punto di abbandonare le caratteristiche
sterotipiche del personaggio che lui è nei poemi narrativi. Se, per
effetto del manifestarsi della realtà, avesse rettificato e
accettato la propria immagine di sé, sarebbe uscito dal poema
cavalleresco e dalle sue regole. Stesso risultato se fosse rimasto
nella sua non accettazione della rimozione della realtà e nella
conseguente follia. Entrambe le possibilità non sono ammissibili.
Lui, come tutti gli altri personaggi, deve rimanere dentro la sua
storia e rispettoso del proprio ruolo.
La dimensione sensuale e seduttiva della vergogna in Tasso.
La manifestazione fisica della vergogna può essere sensuale e
seduttiva. L’opera è la Gerusalemme liberata composta tra il 1565 e
il 1575.
Il IV libro: nel silenzio assoluto, ai demoni convocati in
concilio, Plutone chiede che si trovi il modo di impedire la
conquista di Gerusalemme da parte dei Crociati. Il mago Idraote
ordina alla bellissima nipote Armida di recarsi nel campo cristiano
fingendo di chiedere aiuto, ma con l’intento di far innamorare di
sé i guerrieri distogliendoli dalla loro impresa. In effetti tutti
i Crociati saranno estasiati dalla sua bellezza. Armida
chiede aiuto a Goffredo di Buglione, il quale esita, ma su
insistenza di Eustazio concede alla donna l’aiuto dei dieci
migliori cavalieri. E Armida li ammalia.
L’atteggiamento di pudore vergognoso, accompagnato da bellezza,
solitudine, mistero e inquietudine, seduce irresistibilmente.
IV, 94 O pur le luci vergognose e chine
tenendo, d’onestà s’orna e colora,
sí che viene a celar le fresche brine sotto le rose onde il bel
viso infiora, qual ne l’ore piú fresche e matutine del primo nascer
suo veggiam l’aurora; e ‘l rossor de lo sdegno insieme n’esce con
la vergogna, e si confonde e mesce.
Gli occhi vergognosi fanno parte del canone della bellezza. Armida,
con le arti magiche, incarna i sogni, le illusioni e le aspirazioni
dei cavalieri. E Tasso, che della vita ama descrivere la bella
spettacolarità (spesso quella dell’attimo culminante che precede il
suo dileguarsi), fa di Armida un modello di perfetta languida
spettacolarità.
Un altro passo. Siamo nel canto secondo.
I Cristiani di Gerusalemme sono accusati di furto da Aladino e sono
minacciati di essere tutti uccisi. Sofronia, pur innocente, decide
di autoaccusarsi per salvare i correligionari. Tasso descrive il
momento in cui la donna si avvia al rogo, descrive la bellezza
dell’eroismo, della sensualità, della veste negligente e della
imminente morte da martire. Benché Olindo, di lei innamorato,
decida di condividerne il destino, lei procede in solitudine
verginale e claustrale isolamento, senza accorgersi di
nessuno.
II, 17 S’ode l’annunzio intanto, e che s’appresta miserabile strage
al popol loro. A lei, che generosa è quanto onesta, viene in
pensier come salvar costoro. Move fortezza il gran pensier,
l’arresta
poi la vergogna e ‘l verginal decoro;
vince fortezza, anzi s’accorda e face
sé vergognosa e la vergogna audace.
18 La vergine tra ‘l vulgo uscí soletta,
non coprí sue bellezze, e non l’espose,
raccolse gli occhi, andò nel vel ristretta,
con ischive maniere e generose.
Non sai ben dir s’adorna o se negletta,
se caso od arte il bel volto compose.
Di natura, d’Amor, de’ cieli amici
le negligenze sue sono artifici.
I personaggi femminili di Tasso seducono, volontariamente (Armida)
o forse involontariamente (Sofronia), con la vergogna e il pudore.
Si presentano nell’atteggiamento di difesa della propria intimità
da intrusioni invasive. Non velano qualcosa che giudicano negativo,
ma proteggono ciò che è fragile e delicato.
Il ritegno e il parziale nascondimento creano un gioco di
attrazione, di distanza-vicinanza. Fanno presagire rapporti in cui
la soggettività individuale viene sempre salvata nel rispetto delle
esigenze opposte di fusione e autonomia.
La vergogna come offesa esistenziale in Bernhard.
Con un salto artistico e cronologico concludiamo con un’opera
recente. Interessante per la sua ambiguità.
È un romanzo in cui il tema della vergogna è disperso, allo stato
liquido, dentro una visione della realtà (e quindi una
rappresentazione dei personaggi) complessa e contraddittoria. Come
spesso nei romanzi novecenteschi.
Si direbbe comunque evidente la presenza dell’idea di vergogna come
conseguenza dell’impotenza ad essere ciò che si vorrebbe.
Il soccombente fu scritto dal romanziere austriaco Thomas Bernhard
tra il 1983 e il 1985. In Italia è pubblicato nel 1999, tradotto
per Adelphi da Renata Colorni. Racconta del rapporto fra tre amici,
virtuosi del pianoforte, che studiano con il maestro Horowitz, al
Mozarteum di Salisburgo. Un giorno due di loro, l’io narrante e
l’amico Wertheimer, sentono il terzo, il pianista canadese Glenn
Gould, suonare le Variazioni Goldberg di Bach e si rendono conto
del genio inimitabile dell’amico. Continueranno a studiare, ma da
quel momento il loro futuro è segnato. Credono ancora per molti
anni nel loro virtuosismo, benché esso sia già morto al momento
dell’incontro con Glenn Gould. Alla fine prendono atto della
sconfitta e rinunciano a suonare, liberandosi del pianoforte.
Wertheimer mette all’asta il suo Bösendorfer, il narratore regala
lo Steinway alla figlia novenne (priva di talento) di un maestro e
assiste compiaciuto alla distruzione dello strumento.
Wertheimer poi morirà suicida poco dopo la morte naturale di Glenn
Gould, mentre l’io narrante si perderà nell’anonimato scrivendo
libri che mai pubblica.
Il tema non è nuovo. Tra il 1830 e il 1837 Puškin aveva scritto il
dramma Mozart e Salieri incentrato sui tre temi dell’invidia,
dell’arte sublime creata senza fatica da uomini privilegiati e
della connessa ingiustizia di Dio che dispensa i suoi doni a
persone immeritevoli19. Il tema fu poi ripreso dal drammaturgo
inglese Peter Levin Shaffer in Amadeus (del 1979) e poi da Miloš
Forman nel film dallo stesso titolo (del 1984).
Il romanzo di Bernhard è scritto in forma di monologo interiore,
con continue ripetizioni e variazioni che si direbbero alludere al
criterio compositivo delle Variazioni Goldberg di Bach, che
costituisce metonimicamente il nodo della vicenda.
Nel monologo il personaggio di Wertheimer prende gradualmente
forma: determinato a conoscere che cosa la gente pensa di lui;
vergognoso di possedere denaro; desideroso di primeggiare e di
essere qualcun altro. Ha un difficile rapporto con i genitori e
l’attività artistica, una professione ai loro occhi detestabile, è
un modo per vendicarsi di loro20.
«Ma se Glenn Gould aveva mantenuto una sua coerenza e alla fine,
sia pure soltanto due o tre anni prima di morire, era riuscito a
persuaderli di essere un genio, Wertheimer e io, invece, avevamo
finito col dare ragione ai nostri genitori mandando ben presto a
monte la nostra attività di virtuosi, tra l’altro in un modo quanto
mai avvilente, come più volte ho sentito dire da mio padre. […]
Glenn è il trionfatore, noi siamo i falliti, pensai nella
locanda.»21
Ma l’immagine pubblica data dal virtuosismo pianistico con cui il
personaggio si difende dalla consapevolezza dell’assenza di talento
musicale ed esistenziale22 si infrange sulla soglia della stanza
trentatré del Mozarteum: lì la musica di Glenn Gould, secondo
Wertheimer, rende visibile a tutti il suo fallimento.
«Tra tutti quelli che hanno studiato con Horowitz, noi eravamo i
migliori, ma Glenn era migliore dello stesso Horowitz, diceva
Wertheimer, mi sembra di sentirlo, pensai»23.
Il racconto dell’incontro con il genio è prima nelle parole del
narratore e poi nel ricordo riferito dello stesso Wertheimer.
L’effetto è paralizzante.
«Wertheimer infatti voleva diventare un virtuoso del pianoforte,
mentre io non lo volevo affatto, pensai, per me il virtuosismo
pianistico era stato soltanto una scappatoia, una tattica dilatoria
per rinviare qualcosa, che cosa in verità io intendessi rinviare
non l’ho mai capito, e neanche adesso lo so con chiarezza;
Wertheimer voleva mentre io non volevo, pensai, e Glenn ha
Wertheimer sulla coscienza, pensai. Glenn aveva suonato solo un
paio di note e già Wertheimer aveva pensato di rinunciare a tutto,
/ ricordo perfettamente che Wertheimer, quando entrò nella stanza
al primo piano del Mozarteum assegnata a Horowitz e vide Glenn e lo
sentì suonare, rimase lì bloccato accanto alla porta, incapace di
mettersi a sedere, tanto che Horowitz
dovette invitarlo a sedersi, ma lui, Wertheimer, fintanto che Glenn
continuava a suonare, non riuscì a sedersi, e solamente quando
Glenn smise di suonare Wertheimer si sedette, e teneva gli occhi
chiusi, lo ricordo ancora perfettamente, pensai, e non parlava più.
Per dirla con una frase patetica, quella fu la sua fine, la fine
della carriera virtuosistica di Wertheimer. Per un intero decennio
studiamo uno strumento che abbiamo scelto con cura, e poi, passato
questo decennio faticoso e più o meno deprimente, ci bastano poche
note suonate da un genio per essere liquidati, pensai. Wertheimer
non ha voluto ammettere questo fatto per molti anni. Eppure quelle
poche note suonate da Glenn sono state la sua fine,
pensai.»24
«Fatale per Wertheimer è stato il fatto di essere passato davanti
alla stanza trentatré del Mozarteum proprio nel momento in cui
Glenn Gould suonava in quella stanza la cosiddetta Aria. Wertheimer
mi raccontò la sua esperienza e disse che mentre sentiva suonare
Glenn era rimasto in piedi davanti alla porta della stanza
trentatré fino alla fine dell’Aria. Allora compresi con chiarezza
che cos’è uno shock, pensai adesso.»25
Da un lato Wertheimer ha sopravvalutato le sue possibilità e
dall’altro le ha sottovalutate, pensa il narratore. Poi con la
morte di Glenn, egli prende atto brutalmente del proprio fallimento
e si vergogna di sopravvivere26.
La presa d’atto della propria inferiorità e la conseguente perdita
dell’autostima (conseguenza del manifestatosi divario fra
aspettative ed esperienza) si associano al tema dell’essere visti
(nel caso specifico anche “ascoltati”) e negativamente
giudicati27.
«Il nostro soccombente è un esaltato, ha detto Glenn una volta,
quasi ininterrottamente è lì che muore di
autocommiserazione, lo vedo ancora Glenn mentre dice questa frase,
sento come la dice, fu una volta sul Mönchsberg, sulla cosiddetta
Altura Richter dove con Glenn ero già stato molte volte ma senza
Wertheimer, quando Wertheimer per un motivo o per l’altro preferiva
starsene da solo, senza di noi, molto spesso con un senso di
mortificazione. Io l’ho definito più volte come l’offeso.»28
Al centro della narrazione c’è un umiliato (l’offeso secondo il
narratore; il soccombente secondo Glenn). C’è un umiliatore (il
genio di Glenn). C’è un testimone (l’io narrante; ma ci sono anche
testimoni evocati interiormente: i genitori, il pubblico dei
concerti, la stampa specializzata).
Poi i tre ruoli confluiscono tutti nel personaggio di Wertheimer ed
è la sua stessa visione di sé a essere giudicante e disapprovante.
Il divario fra ciò che è o fa e ciò che si è sempre imposto di
aspettarsi da sé diventa a un certo punto insopportabile. E il
desiderio di nascondersi si fa insistente. Fino al suicidio.
Anche per Wertheimer a un certo punto della vita si è verificato un
evento che ha frantumato la sicurezza che esista solo un mondo. Da
una parte il disappunto di vedersi diversi da come si vorrebbe
essere, dall’altra il disappunto di scoprire che ogni sforzo per
essere come si vorrebbe è un gioco comicamente diperato. In questa
ambiguità si collocano la rinuncia a competere e il sentimento di
vergogna.
1 DODDS, Eric R. 2003, I Greci e l’irrazionale (1951), Milano,
Sansoni, pp. 59-60.
2 In latino l’originario senso religioso tende ad attenuarsi,
soprattutto nei composti come re-verri / re-verentia (“temere” e
quindi “rispettare”) e sub-vereri (“avere un sospetto”) e nei
derivati come verecundia (“il timore del pudore”) e
verecundari
(“vergognarsi”). Cfr. MANDRUZZATO, Enzo 1991, I segreti del latino,
Milano, Arnoldo Mondadori Editore, pp. 280-281.
3 Con le parole di Seneca: «plures enim pudore peccandi quam bona
voluntate prohibitis abstinent» (Epistolae ad Lucilium, 83, 19).
(“È la vergogna di fare il male più che la buona volontà a
distogliere la maggior parte degli uomini da azioni
illecite.”)
4 Di seguito il passo completo:
ξ ργων δ νδρες πολµηλο τ φνειο τε, / κα τ ργαζµενος πολ φλτερος
θαντοισιν / [σσεαι δ βροτος µλα γρ στυγουσιν εργος.] / ργον δ οδν
νειδος, εργη δ τ νειδος. / ε δ κεν ργζηι, τχα σε ζηλσει εργς /
πλουτεντα πλοτωι δ ρετ κα κδος πηδε. / δαµονι δ οος ησθα, τ
ργζεσθαι µεινον, / ε κεν π λλοτρων κτενων εσφρονα θυµν / ς ργον
τρψας µελετις βου, ς σε κελεω. / αδς δ οκ γαθ κεχρηµνον νδρα
κοµζει, / αδς, τ νδρας µγα σνεται δ ννησιν / αδς τοι πρς νολβηι,
θρσος δ πρς λβωι. / γρ τις κα χερσ βηι µγαν λβον ληται, / γ π
γλσσης λησσεται, ο τε πολλ / γνεται, ετ ν δ κρδος νον ξαπατσηι /
νθρπων, αδ δ τ ναιδεη κατοπζηι, / εα δ µιν µαυροσι θεο, µινθουσι δ
οκον / νρι τι, παρον δ τ π χρνον λβος πηδε.
(ργα κα µραι, vv. 308-326) /
(“Grazie al lavoro gli uomini hanno grandi armenti e son ricchi, /
e lavorando sarai molto più caro agli dèi / e anche agli uomini,
perché i pigri hanno in odio. / Il lavoro non è vergogna; è l'ozio
vergogna; / se tu lavori, presto ti invidierà chi è senza lavoro /
mentre arricchisci; perché chi è ricco ha successo e benessere. /
Per te, dove t'ha posto la sorte, è meglio il lavoro. / Distogli
dai beni degli altri l'animo sconsiderato / e al lavoro rivolgiti,
pensa ai mezzi per vivere, così come io ti consiglio. / Non è una
buona vergogna quella che accompagna l'uomo indigente, / la
vergogna che gli uomini molto danneggia o aiuta; / alla miseria si
aggiunge vergogna, alla fortuna l'audacia. / La ricchezza non
dev'esser rubata: è molto migliore quella che danno gli dèi; /
qualcuno con la violenza può conquistare un gran bene / o rubarlo
con le parole, come assai spesso / suole accadere, quando il
guadagno inganna la mente / dell'uomo, e allora Sfrontatezza vince
Vergogna; / ma allora facilmente l'abbatton gli dèi, distruggon la
casa / a quell'uomo, e per poco tempo la fortuna lo segue.”)
5 Raccontando la favola dell’usignolo e dello sparviero riconosce
nella vergogna il giusto stato di chi si oppone ai più forti. Qui
il termine usato non è αδς, ma ασχος (“vergogna, infamia, onta,
vituperio”, ma anche “bruttezza, deformità, vizio”.)
Νν δ ανον βασιλεσιν ρω φρονουσι κα ατος / δ ρηξ προσειπεν ηδνα
ποικιλδειρον / ψι µλ ν νεφεσσι φρων νχεσσι µεµαρπς / δ λεν,
γναµπτοσι πεπαρµνη µφ νχεσσι, / µρετο τν γ πικρατως πρς µθον ειπεν
/ «δαιµονη, τ λληκας; χει ν σε πολλν ρεων / τι δ ες ι σ ν γ περ γω
κα οιδν οσαν / δεπνον δ, α κ θλω, ποισοµαι µεθσω. / φρων δ, ς κ
θληι πρς κρεσσονας ντιφερζειν / νκης τε στρεται πρς τ ασχεσιν λγεα
πσχει». / ς φατ κυπτης ρηξ, τανυσπτερος ρνις.
(ργα κα µραι, vv. 201-212)
(“Ora una favola ai re narrerò, a loro che pure sono assennati. /
Ecco quello che lo sparviero disse all'usignolo dal collo screziato
/ su in alto, fra le nubi portandolo serrato nell'unghie; / quello
pietosamente, dagli artigli adunchi trafitto, / piangeva; ma
l'altro, violento, gli fece questo discorso: / «Sciagurato, perché
ti lamenti? ora sei preda di chi è molto più forte; / andrai là
dove io ti porterò, pur essendo tu bravo cantore; / farò pasto di
te, se voglio, oppure ti lascerò. / Stolto è chi vuole opporsi ai
più forti: / resta senza vittoria e alla vergogna aggiunge dolori».
/ Così disse il veloce sparviero, l'uccello che vola con le ali
distese.”)
6 Nel fr. 3 invita a combattere a Salamina, con toni vicini a
quelli di Callino. La vergogna è espressa dal termine ασχος.
fr. 3 οµεν ς Σαλαµνα µαχησµενοι περ νσου / µερτς χαλεπν τ ασχος
πωσµενοι.
(“Andiamo a Salamina, a combattere per la bella / isola, e a
scrollarci di dosso la vergogna pesante.”)
7 WURMSER, Léon - LEVIN, Sidney, 1996, Vergogna, Torino, Bollati
Boringhieri, p. 55.
8 Sarà la stessa angoscia di vergogna provata dalla virgiliana
Didone, quando avvertirà l’imminente partenza di Enea e temerà la
derisione dei pretendenti da lei in precedenza rifiutati:
En quid ago? rursusne procos inrisa priores/ experiar…? (Aeneidos,
IV, 534-535).
(“ora che cosa faccio? a mia volta farò tentativi, derisa, con i
pretendenti di prima”)
9 Sui tre tipi fenomenologici di vergogna cfr. WURMSER 1996, p.
55.
10 «Da Stobeo (Florilegio, III 671, 11) sappiamo che questi versi
sono del poeta Stasino di Cipro (fr. 20 Kinkel). Sappiamo anche che
nel poema Ciprie, Stasino narrava le vicende di Troia che
precedettero quelle cantate da Omero nell’Iliade» (PLATONE, Tutti
gli
scritti, a cura di Giovanni Reale, Rusconi, Milano, 1991, p.
19.)
11 Il passo completo dell’Etica Nicomachea:
(10) περ δ αδος ς τινος ρετς ο προσκει λγειν πθει γρ µλλον οικεν
ξει. ρζεται γον φβος τις δοξας, κα ποτελεται τ περ τ δειν φβ
παραπλσιον ρυθρανονται γρ ο ασχυνµενοι, ο δ τν θνατον φοβοµενοι
χρισιν. σωµατικ δ φανετα πως εναι (15) µφτερα, περ δοκε πθους µλλον
ξεως εναι. ο πσ δ λικ τ πθος ρµζει, λλ τ ν. οµεθα γρ δεν τος
τηλικοτους αδµονας εναι δι τ πθει ζντας πολλ µαρτνειν, π τς αδος δ
κωλεσθαι κα παινοµεν τν µν νων τος αδµονας, πρεσβτερον δ (20) οδες
ν παινσειεν τι ασχυντηλς οδν γρ οµεθα δεν ατν πρττειν φ ος στν
ασχνη. οδ γρ πιεικος στν ασχνη, επερ γνεται π τος φαλοις (ο γρ
πρακτον τ τοιατα ε δ στ τ µν κατ λθειαν ασχρ τ δ κατ δξαν, οδν
διαφρει οδτερα γρ πρακτα, (25) στ οκ ασχυντον) φαλου δ κα τ εναι
τοιοτον οον πρττειν τι τν ασχρν. τ δ οτως χειν στ ε πρξαι τι τν
τοιοτων ασχνεσθαι, κα δι τοτ οεσθαι πιεικ εναι, τοπον π τος κουσοις
γρ αδς, κν δ πιεικς οδποτε πρξει τ φαλα. εη δ ν αδς ξ (30) ποθσεως
πιεικς ε γρ πρξαι, ασχνοιτ ν οκ στι δ τοτο περ τς ρετς. ε δ
ναισχυντα φαλον κα τ µ αδεσθαι τ ασχρ πρττειν, οδν µλλον τν τ
τοιατα πρττοντα ασχνεσθαι πιεικς. οκ στι δ οδ γκρτεια ρετ, λλ τις
µικτ δειχθσεται δ περ (35) ατς ν τος στερον. νν δ περ δικαιοσνης
επωµεν.
(θικ Νικοµχεια, 1128 b)
[10] Per quanto riguarda il pudore, non conviene parlarne come di
una virtù, giacché assomiglia ad una passione più che ad una
disposizione morale. Viene definito, comunque, come una specie di
paura del disonore, e produce effetti molto simili a quelli della
paura di fronte ai pericoli: infatti, coloro che si vergognano
arrossiscono, mentre quelli che temono la morte impallidiscono.
Dunque, [15] entrambi hanno manifestamente carattere fisico, in
qualche modo; il che, si pensa, è tipico più della passione che non
della disposizione morale. Questa passione, d’altra parte, non si
addice ad ogni età, ma solo alla giovinezza. Noi pensiamo infatti
che i giovani debbano essere pudichi per il fatto che, vivendo di
passione, commettono molti errori, ma che ne sarebbero trattenuti
dal pudore. E noi lodiamo i giovani pudichi, mentre [20] nessuno
loderebbe un uomo maturo per il fatto che è sensibile alla
vergogna: noi pensiamo, infatti, che un uomo maturo non dovrebbe
fare nulla di cui si debba vergognare. Infatti, la vergogna non è
tipica dell’uomo virtuoso, se è vero che essa nasce per effetto
delle cattive azioni (tali azioni non si devono commettere; se poi
alcune azioni sono brutte veramente ed altre lo sono solo secondo
l’opinione della gente, non fa alcuna differenza: non si devono
commettere né le une né le altre, [25] in modo da non dover provar
vergogna). Invece è proprio dell’uomo dappoco avere una natura tale
da commettere qualche azione vergognosa. Ed avere una disposizione
di carattere per cui si prova vergogna se si è commessa un’azione
vergognosa, e pensare che per questo si è un uomo virtuoso, è
assurdo: il pudore, infatti, si riferisce ad atti volontari, e
l’uomo virtuoso non commetterà mai cattive azioni volontariamente.
Solo per un’ipotesi [30] il pudore potrebbe essere virtuoso: nel
caso in cui uno si vergogni delle proprie azioni; ma questo non può
verificarsi nel campo delle virtù. Infine, se l’impudenza, cioè il
non vergognarsi di commettere azioni brutte, è una cosa miserabile,
non per questo sarà virtuoso il vergognarsi di commettere azioni
simili. Anche la continenza non è una virtù, bensì una specie di
mescolanza di virtù e di vizio: [35] ma di lei si darà spiegazione
in seguito. La giustizia sarà ora il tema della nostra
trattazione.
12 Cfr. GALOTTI, Agnese 2005, “Vergogna e immagine di sé”,
Associazione Gea. Psicologia analitica e filosofia sperimentale,
“Individuazione”, n° 52, giugno 2005. Url:
http://www.geagea.com/_MostraFormRivista.php?Link=52indi/52_08.htm&NomeDir=52indi&Filtro=indi&Torna=
13 “Il terrore di esistere”, Diario del '71 e del '72, vv.
13-14.
14 Naturalmente nell’uomo nuovo permane qualcosa dell’uomo vecchio,
e d’altra parte anche nell’uomo vecchio c’era già qualcosa del
nuovo (quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono).
15 Cfr. GIBELLINI Pietro 2001, Dal sonetto proemiale a seguire —
linee di intervento e tappe significative. Un libro in un sonetto,
CSIA - University of Trieste. Url:
http://www.univ.trieste.it/news/files/convegnopetrarca/?file=gibl.htm
16 Cfr. CONTINI, Gianfranco, 1970, “Saggio d’un commento alle
correzioni del Petrarca volgare” (1942), in Varianti e altra
linguistica. Una raccolta di saggi (1938-1968), Torino, Einaudi,
pp. 5-31.
17 Potrebbe essere interessante applicare ai versi di Petrarca
l’analisi delle funzioni e dei contenuti della vergogna esposta in
WURMSER, 1996, pp. 69-70.
18 Cfr. riflessioni sull’interiorizzazione dei conflitti di
vergogna in WURMSER, 1996, pp. 46-47.
19 Salieri infatti è rappresentato come l’artista che si dedica
totalmente con sacrificio e costanza alla propria arte, ma che non
raggiunge mai il livello del genio favorito da Dio e quindi della
facilità creativa. Mosso da invidia - racconta Puškin - Salieri
versa del veleno in un bicchiere di vino offerto a Mozart. Il
sospetto dell’avvelenamento si era diffuso a partire da una nota
pubblicata sul giornale berlinese Musikalischer Wochenblatt, il
quale, riprendendo una notizia di fonte praghese, annunciava la
morte di Mozart facendo rilevare che il gonfiore del corpo poteva
far pensare ad avvelenamento. Dal sospetto si passò subito alla
ricerca di un possibile colpevole che fu riconosciuto in Salieri.
Ma l’ipotesi è storicamente infondata. Il tema fu poi ripreso dal
drammaturgo inglese Peter Levin Shaffer in Amadeus (del 1979) e poi
da Milos Forman nel film (del 1984) che del dramma porta lo stesso
titolo. Se l’opera di Schaffer non fa riferimento alla
responsabilità diretta di Salieri nella morte di Mozart, l’idea
torna invece nel film di Forman.
20 «Al Mozarteum ci sono andato per vendicarmi di loro [i
genitori], per nessun altro motivo, ci sono andato per punirli dei
crimini da essi perpetrati contro di me. Adesso per figlio avevano
un artista, una figura ai loro occhi detestabile.» (BERNHARD
Thomas, 1999, Il soccombente (1983), tr. it. di Renata Colorni,
Milano, Adelphi, p. 27).
21 BERNHARD, 1999, p. 28.
22 «Esistere, in sostanza, non significa nient’altro che questo:
essere disperati, così lui. Mi alzo, penso con ribrezzo a me stesso
e tutto ciò che mi aspetta mi fa orrore. Mi sdraio sul letto, non
desidero nient’altro che morire, non svegliarmi più, poi invece mi
risveglio e l’orrendo processo si ripete, seguita a ripetersi per
cinquant’anni, così lui. Pensare che per cinquant’anni non abbiamo
nessun altro desiderio se non quello di essere morti, eppure
seguitiamo a vivere e non possiamo farci niente perché siamo
incoerenti da cima a fondo, così lui. Perché siamo la meschinità in
sé, l’abiezione in sé. Non abbiamo talento musicale! ha esclamato,
non abbiamo talento esistenziale.» (BERNHARD, 1999, pp.
56-57).
23 «Ognuno di noi fallisce per motivi diversissimi e tra loro
contrastanti, diceva Wertheimer, pensai. Io non avevo niente da
dimostrare, solo tutto da perdere, così diceva, pensai.
Probabilmente le nostre doti sono state la nostra sventura, diceva,
ma subito dopo aggiungeva: Glenn non è stato ucciso dalle sue doti,
che anzi hanno sviluppato il suo genio. Chissà, diceva Wertheimer,
se non fossimo venuti in contatto con Glenn. Se il nome di Horowitz
[il loro comune maestro] non avesse significato nulla per noi. Se
non fossimo andati affatto a Salisburgo! Noi in questa città siamo
venuti a crepare perché qui abbiamo studiato con Horowitz e
conosciuto / Glenn Gould. Il nostro amico ha significato la nostra
morte. Tra tutti quelli che hanno studiato con Horowitz, noi
eravamo i migliori, ma Glenn era migliore dello stesso Horowitz,
diceva Wetheimer, mi sembra di sentirlo, pensai. D’altra parte,
diceva, noi viviamo ancora e lui no. » (BERNHARD, 1999, pp.
39-40).
24 BERNHARD, 1999, pp. 95-96.
25 BERNHARD, 1999, p. 171.
26 «Wertheimer non ha sopportato la morte di Glenn. Dopo la morte
di Glenn si è vergognato di essere ancora in vita, il fatto di
essere per così dire sopravvissuto al genio è stato per lui, a
quanto so io, un motivo di tormento continuo nell’ultimo anno della
sua vita.» (BERNHARD, 1999, p. 29)
27 «Glenn sempre aveva definito Wertheimer come soccombente. […]
Wertheimer, il soccombente, era agli occhi di Glenn uno che va a
fondo, ininterrottamente e sempre più a fondo» (BERNHARD, 1999, p.
24).
28 BERNHARD, 1999, p. 38.