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JOURNALISME ET LITTERATURE --- NOTES
Programma del corso:
Corso tenuto in LINGUA FRANCESE
Il corso si propone di studiare il rapporto tra letteratura e giornalismo in Francia dal XVIII secolo a
oggi, dal punto di vista storico (presentazione delle principali testate che dal Settecento in Francia
hanno aperto le loro colonne alla letteratura e agli scrittori) e teorico (analisi delle modalità del discorso
letterario in ambito giornalistico).Inoltre, il corso prevede una parte pratica, intitolata: “Come si scrive
una recensione”.
Modalità d’esame:
orale
Bibliografia:
- AA. VV., “L’oeil de la NRF. Cent livres pour un siècle”, Folio Gallimard, Paris, 2009
- Gabriella Bosco, “Il romanzo francese contemporaneo”, Trauben, Torino 2011
- Appunti e fotocopie distribuite durante il corso
Programme: nous allons étudier comment la littérature à travers la presse périodique entre dans le
domaine public. Une autre façon pour le dire: les voies de la diffusion pour la littérature, comment la
littérature, les livres donc la culture arrivent aux gens.
Quand un livre sort, comment on fait pour se renseigner (premier niveau du discours) sur le livre sorti
et décider si oui ou non nous allons l’acheter et le lire?
Comment vous faites?
Quels sont aujourd’hui en Italie les possibilités que vous avez à disposition pour vous renseigner sur les
livres parus (limitons-nous à la littérature, d’abord nous parlerons de la littérature en générale, après
nous nous concentrerons sur la littérature française):
*Tuttolibri hebdomadaire
*L’Indice mensuel
*Studi francesi trimestriel (aujourd’hui ils paraissent tous les quatre mois, trois fois par an)
Différences principales:
*Tuttolibri s’adresse à un large public, c’est fait pour les lecteurs communs, ceux qui lisent le journal
La Stampa tous les jours et qui s’intéressent de tous les aspects de la vie sociale donc aussi de la vie
culturelle et littéraire, une fois par semaine on leur donne les nouveautés des différentes littératures,
présentées par des professeurs oubien des spécialistes de chacune d’entre elles;
*L’Indice s’adresse aussi à un large public mais déjà beaucoup plus restreint par rapport à celui de
Tuttolibri, c’est-à-dire le public de ceux qui veulent acheter un journal consacré entièrement àux livres,
présentés par des spécialistes mais qui écrivent pour des gens qui ne le sont pas nécessairement, qui
peuvent être aussi simpement des passionnés de littérature même s’ils ne l’étudient pas d’un point de
vue scientifique;
* Studi Francesi est une revue littéraire de et pour les spécialistes.
Les correspondants français:
*Le Monde des Livres hebdomadaire
*La Quinzaine littéraire bi-mensuel
*Le Magazine Littéraire mensuel
*La Nouvelle Revue Française trimestrielle (à l’origine mensuelle)
(illustration des caractéristiques principales de chacune de ces publications).
Quelques renseignements supplémentaires pour ceux qui veulent en savoir plus (en italien pour les
titres italiens):
Tuttolibri è il supplemento culturale, con periodicità settimanale, del quotidiano La Stampa, nato il 1º
novembre 1975 per iniziativa del direttore di allora Arrigo Levi e del suo vice Carlo Casalegno.
Dalla fondazione al 1980
Negli anni settanta i quotidiani italiani riservavano ai libri soltanto la terza pagina, con commenti
autorevoli ma poco leggibili per i non specialisti. L'allora direttore della Stampa, Arrigo Levi, decise,
con il vicedirettore Carlo Casalegno e l'amministratore delegato Giovanni Giovannini, di lanciare una
nuova testata dedicata dedicata ai libri ma più divulgativa e ricca di recensioni (allora poco diffuse), sul
modello della stampa anglosassone (in particolare il «Literary Supplement» del Times e la «Book
Review» del New York Times. Levi e Casalegno ottennero il sostegno delle molte case editrici torinesi:
Utet, Paravia, Loescher, Lattes e soprattutto Einaudi (il suo fondatore Giulio Einaudi fu tra i primi
sostenitori dell'iniziativa).
Il primo numero del settimanale uscì il 1º novembre 1975. Si presentava in formato tabloid ma
stampato su carta da quotidiano, con una foliazione di ventiquattro pagine (di cui la prima e le due
centrali stampate a colori). La grafica era curata da Bruno Faussone. Il settimanale era una
pubblicazione autonoma, aveva una sua distribuzione ed usciva al prezzo di 150 lire.Nell'editoriale di
apertura Arrigo Levi rivendicava l'affinità «a una certa idea della cultura, ma anche a una certa idea
dell'Italia e di come una società si sviluppa: il libro è un momento essenziale di ogni crescita civile». Il
primo fascicolo della rivista ospitava un'intervista a Eugenio Montale (sulla funzione della poesia nella
società moderna) e una con Alberto Moravia sulla scrittura civile. Il numero d'esordio ottenne
lusinghieri risultati di vendita: 130.000 esemplari in prima tiratura, seguiti da una seconda tiratura di
30.000 copie.
Sul secondo numero apparve una breve intervista di Pier Paolo Pasolini con Furio Colombo, che
acquisì una vastissima risonanza in quanto il poeta friulano morì tragicamente la notte stessa dopo
averla rilasciata. Sulla scia del clamore riscontrato dalla scomparsa del celebre intellettuale, il numero 2
di Tuttolibri uscì in 177.000 copie, presto esaurite, che rimasero il record assoluto del periodico.
Una novità che caratterizzò il settimanale fu la classifica dei libri (affidata alla Demoskopea, compiuta
per la prima volta con criteri scientifici). In più Tuttolibri pubblicava, ogni settimana, l'elenco dei libri
nuovi in uscita. In Italia in quel periodo si pubblicavano 15.000 nuovi titoli all'anno.
Dal 1980 ad oggi
Il 13 settembre 1980 viene annunciata la trasformazione del settimanale: Tuttolibri diventa un
supplemento a tutti gli effetti de La Stampa. Le cause sono essenzialmente economiche: il periodo di
boom si è esaurito e il pubblico non è più ricettivo ai prodotti di alto livello culturale. L'inserimento del
giornale all'interno del quotidiano comporta anche un cambio generale di linea, che si avvicina a quella
del pubblico di un quotidiano. Non appare più la lista delle nuove pubblicazioni, mentre compaiono per
la prima volta articoli su temi più generalisti. Il nuovo Tuttolibri appare con il numero de La Stampa
del 18 ottobre 1980. Ha assunto il formato lenzuolo, tipico dei quotidiani, e la foliazione è stata ridotta
da 24 ad 8 pagine. La stampa è in bianco e nero. La testata è divisa nelle due parole «Tutto» e «libri»,
una sotto l'altra, completata dal sottotitolo: «Settimanale di attualità culturale, letteratura scienza arte
spettacolo» [1]. Nasce la rubrica «Parliamone», che avrà molta fortuna e verrà mantenuta nel tempo.
Nel 1981 è attivata una collaborazione con la prestigiosa The New York Time Book Review, che
consente di pubblicare in esclusiva su Tuttolibri i servizi della rivista americana.
Sulla strada aperta da Tuttolibri, nascono altri supplementi de La Stampa: il primo è Tuttoscienze
(1981), poi è la volta di Tuttodove (1982), Tuttocome (1984) e infine Tuttosoldi (1995) e Tuttoaffari
(1999).
Dagli anni novanta Tuttolibri cambierà di nuovo foliazione e aspetto, riflettendo i cambiamenti del
quotidiano. Dal 1989 il nuovo art director è Angelo Rinaldi. Riappare il colore.Il 7 aprile 1996 il
supplemento raggiunge il fatidico numero 1000. Dal 1001 Tuttolibri sposta il giorno d'uscita al giovedì.
Nel 1999 si ritornerà al tradizionale sabato, con un aumento di foliazione a 12 pagine.
Dal 1999 il sito web de La Stampa ha una sezione dedicata a Tuttolibri. Dal 2001 la classifica dei libri
è curata dall'istituto Marcam, salvo tornare nel 2004 alla Demoskopea, fino al novembre 2011, quando
sarà affidata alla Nielsen Bookscan.
L'indice dei libri del mese è un mensile italiano d'informazione culturale.
È una delle più autorevoli riviste italiane di informazione culturale. Fondata nel 1984, ogni mese
propone aggiornate riflessioni sull'attualità culturale a partire dalle pubblicazioni più significative del
momento.
Storia
Nell'ottobre del 1984 Cesare Cases apriva la storia de "L'indice" spiegando ai futuri lettori proprio quel
che una recensione, a suo parere, doveva fare: "L'essenziale è che il primo momento, cioè l'esposizione
del contenuto, abbia la centralità che gli spetta. La connivenza con il lettore non dovendo stabilirsi (...)
né attraverso l'interesse specialistico né attraverso lusinghe formali, è solo il contenuto a determinarla
(...). L'essenziale è che attraverso l'esposizione il lettore acquisisca una chiara idea di quel che il libro è
e delle ragioni della sua importanza, ragioni che hanno fatto sì che lo scegliessimo a differenza di altri".
Studi Francesi
Fondata nel 1956 da Franco Simone illustre francesista, all’origine della scuola torinese, grande
studioso del Barocco e di tutte le epoche di transizione e grande docente e fondatore della rivista che
oggi in Italia è la più importante nel settore.
Le Classicisme
Le XVIIe siècle est le Grand Siècle, et pourquoi l’appelle-t-on ainsi?
– parce que c’est le siècle de Louis XIV
– et parce que c’est le siècle du CLASSICISME.
Louis XIV devient roi en 1643 et il reste au pouvoir jusqu’à sa mort en 1715: souverain absolu de ceux
qui pensent la monarchie comme un droit qui leur vient directement de Dieu, il veut donner de son
royaume une image dorée, sans tâche, et où rien ne puisse échapper à l’autorité du roi. Ce contrôle
absolu concerne bien sûr la création artistique et littéraire aussi.
Le Classicisme est donc un corpus de règles à respecter pour que la production artistique réfléchisse,
réponde, illustre l’autorité du roi, corpus dont la codification en 1674 est établie par quelqu’un qui peut
être considéré le théoricien par excellence, Nicolas Boileau, dans son Art Poétique en vers et en quatre
chants, une codification a posteriori qui décline les règles à respecter pour que l’oeuvre littéraire soit
bien vue, et bien accueillie en fonction de son respect de la volonté du roi.
J’ai dit qu’il s’agit d’une codification a posteriori parce qu’elle a été fixée à partir de la pratique, de la
praxis, à partir de l’analyse des oeuvres d’art et littéraires qui, au cours du siècle, depuis l’arrivée au
pouvoir de Louis XIV, ont été jugées bien faites, bien réalisées. Au delà des exigences de clarté,
linéarité, ordre d’exposition – tout ce qui correspond donc à la notion plus large de cartésianisme –– à
respecter sont les règles prêchées par les défenseurs de l’Antiquité qui s’opposent à la Modernité et qui
considèrent les auteurs classiques grecs et latins comme des modèles de perfection contre ceux qui
affirmaient la nécessité d’un renouveau (c’est la bien connue querelle des Anciens et des Modernes).
En ce qui concerne le théâtre il s’agit des règles des trois unités: de temps, de lieu et d’action. Il y a
ensuite la codification du genre poétique et de ses différentes formes (poésie lyrique, célébrative,
épique – forme qui est considérée la plus élevée, à réaliser suivant les enseignements aristotéliciens
dans l’espoir de pouvoir produire le grand oeuvre épique qui glorifie le roi et qui ait la même dignité
des grandes épopées antiques). En ce qui concerne le roman, qui est un genre moins codifié dans
l’antiquité, les règles en sont élaborées à partir de celles de l’épopée considérée en effet, même si elle
est en vers, un genre narratif, où il y a des faits racontés par l’auteur.
L’historiographie traditionnelle a longtemps considéré le XVII siècle comme le siècle du Classicisme
tout court. Dans les manuels on évoquait tout au plus une période de préparation qui précède le
triomphe du Classicisme, période à laquelle on donnait le nom de Préclassicisme, dans les arts et la
littérature, identifié avec le style Louis XIII, étant celui qui dominait avant l’arrivée au pouvoir de
Louis XIV sous le règne de son prédécesseur Louis XIII, souvent aussi identifié et rapidement liquidé
sous une autre étiquette, définition, celle de Préciosité, époque et style dont les excès sont devenus
objet de satyre déjà dans la deuxième moitié du siècle de la part de Molière dans sa comédie Les
précieuses ridicules (1659).
Pour un temps très long, depuis le XVII siècle et jusqu’aux années Cinquante du XX siècle, toute une
partie de la production artistique et littéraire du XVII siècle a été méconnue parce qu’elle était
différente, alternative par rapport aux règles officielles, la production je veux dire qui va sous le nom
de Baroque. Qui a été longtemps tue, ignorée, puis rejetée en tant que “laide”, le contraire du beau
artistique, par Benedetto Croce, le philosophe écrivain et critique italien que vous connaissez, au début
du XX siècle, et par toute son école qui a été nourrie et longue à s’épuiser. Marcel Raymond et Jean
Rousset, suisses, sono ceux qui ont mis en marche la redécouverte, puis en Italie, ici à Turin l’école de
Franco Simone (grande spécialiste du Baroque est Daniela Dalla Valle, qui a été longtemps professeur
dans notre faculté, première élève de Franco Simone). Il se développe ainsi un riche courant d’études
sur cette partie de la production du XVII siècle, on a commencé par exemple a voir dans la première
partie de la production de Corneille (L’Illusion comique, 1635; Le Cid, 1636) l’influence de la pensée
baroque, et cette période de redécouverte évolua par la suite comme il arrive souvent dans des cas
analogues dans une mode, dans les années Soixante-dix/Quatre-vingt du XX siècle par exemple à la
radio on n’entendait plus que de la musique baroque. Aujourd’hui on peut dire que même cette
exagération dans la direction opposée a été normalisée et finalement on porte un regard objectif dans la
mesure où cela est possible bien sûr sur la variété du XVII siècle, qui n’est plus donc considéré comme
étant le siècle du Classicisme seulement.
Mais dans quel sens le Baroque s’opposait aux règles officielles: les découvertes géographiques d’un
côté, la révolution astronomique de Copernic d’autre côté, les guerres de religion de la fin du XVI
siècle sont les principaux éléments de déstabilisation qui au début du XVII siècle déterminèrent une
attitude de doute, je dirais presque systématique, par rapport à la centralité de l’homme dans l’univers,
ce qui avait été une croyance très forte pour les hommes de la Renaissance, en sorte que – un peu
comme ce qui se produisit au début du XX siècle quand des éléments de déstabilisation engendrèrent
les avant-gardes – là aussi le sentiment commun de penseurs et artistes se dirigea vers un principe de
relativisation des valeurs: la seule certitude étant l’instablité des choses humaines et le manque de
certitudes. Les artistes baroques choisirent donc des formes d’expression qui soient conformes à cette
instabilité, en pratiquant des genres hybrides comme la tragi-comédie, tout à fait inacceptables pour les
défenseurs de l’imitation des Anciens pour lesquels la séparation, la distinction nette des genres par
exemple était un dogme intouchable, ou alors exaltant par exemple des beautés tout à fait autres par
rapport à la beauté classique (la femme belle n’est pas blonde comme pour les classiques mais brune, sa
peau n’est pas blanche mais foncée etc.). Dans le domaine de la narration, par exemple encore, la forme
dominante est initialement celle du roman fleuve, comme L’Astrée d’Honoré d’Urfé (1607-1627: 5
parties, 40 histoires, 60 livres, 5.399 pages) où les aventures s’accumulent et se mélangent et où
domine le principe de l’incertitude la plus grande. Vous voyez bien comme tot cela ne pouvait pas
plaire à Louis XIV, pour qui la certitude totale et pleine devait être représentée par l’autorité du roi et
rien ne devait la mettre en discussion.
Mais même l’idée que la production baroque soit limitée à la première moitié du siècle, à son tour très
répandue, est à corriger. Un exemple dans ce même domaine du roman.
La Princesse de Clèves de Madame de La Fayette, publiée en 1678, surtout pour le fait que c’est un
roman court et où il y a une seule et unique action, pour son style considéré classique par excellence,
clair simple et linéaire, a été longtemps tenu pour le premier roman classique de l’histoire littéraire
française. Premier roman qui creuse la psychologie du personnage etc. Cette vision monolitique et trop
polie de cet-objet/roman aussi est nécessairement à corriger, là aussi à partir d’une relecture moins
aplatie sur les schémas storiographiques traditionnels, en étudiant de près son écriture, son style, le
monde fantastique mis en place par l’auteur. Je veux dire que là aussi il y a de la part de Madame de La
Fayette la mise en oeuvre d’éléments qui ne correspondent pas tout à fait aux règles classiques, par
exemple sa manière d’insérer des digressions dont elle se sert pour faire passer ce qu’elle pense de ceci
ou de cela.
Qui est-elle?
Madame de La Fayette: Marie-Madeleine Pioche de La Vergne (1634-1693), appartenant à une famille
de la petite noblesse parisienne, qui épousant le comte de La Fayette, membre de la grande noblesse
même s’il n’avait pas un sou, peut accéder à la vie de la Cour et arriver à bien connaître, de l’intérieur,
l’entourage du roi. En plus, elle fréquente les salons parisiens les plus importants, connaît les grands
intellectuels de l’époque, de La Rochefoucault à Boileau à Racine à Segrais. Son ouvrage le plus
important est justement La princesse de Clèves publiée sans nom d’auteur en 1678.
Quatre ans seulement auparavant, c’est un autre ouvrage très important qui paraît, celui dont je vous ai
déjà cité le titre, L’Art poétique de Nicolas Boileau. Nous partirons de là pour voir ce que le canon, la
régle établie demandait au sujet du roman, et pouvoir donc ensuite apprécier la nouveauté de la
proposition, du projet novateur des auteurs baroques.
Nicolas Boileau nacquit à Paris en 1636. Il devint d’abord avocat selon la volonté de son père mais
après la mort du père il se consacra entièrement à la littérature. Il eut tout de suite un très grand succès.
Il était ami des grands et des intellecteuls. Grâce à la protection de Louis XIV il eut une pension (c’est
à dire une rente en argent) en 1669 et il fut nommé historiographe du roi en 1677. Vous comprenez la
confiance que Louis XIV avait en lui, le chargeant de l’élaboration du discours officiel le concernant,
concernant ses faits et gestes. En 1684 il entra à l’Académie Française, l’institution officielle la plus
importante qui avait été crée par Richelieu dans les années Trente, il participa activement à la "querelle
des anciens et des modernes", du côté des Anciens bien sûr, s’opposant par exemple à Charles Perrault
l’auteur des fables qui, lui, était pour les Modernes. Il mourut à Paris en 1711. Ses oeuvres principales:
Satires (1660–1668), Épîtres (1669-1695), Art poétique (1674), Traité du sublime (1674), Le Lutrin
(1674-1683), Dialogue sur les héros de roman (1688), Réflexions critiques sur Longin (1694-1710),
Lettres à Charles Perrault (1700).
Un nombre croissant de textes défendent le genre romanesque, comme le célèbre Traité de l'origine des
romans (1670) de Pierre-Daniel Huet qui comporte, outre la fameuse définition du genre comme
« fictions d’aventures amoureuses, écrites en prose avec art, pour le plaisir et l’instruction des
lecteurs », une réflexion sur le roman qui s’attarde autant sur les qualités et potentialités que sur les
imperfections et défauts difficiles à éviter de ce genre.
E lungo il secolo ci sono gli autori di romanzi, oltre ai teorici, che ne scrivono di varia natura, varie
interpretazioni del genere, un ventaglio di realizzazioni che portano dal roman fleuve al romanzo di
piccole dimensini come La princesse de Clèves. Per lo più si tratta di autori “moderni” che scelgono
questo genere proprio come presa di posizione a favore del rinnovamento. Da Charles Sorel autore
dell’Histoire comique de Francion (1623) a Tristan L’Hermite autore del Page disgracié (1643) a
Scarron, sono dunque autori che contaminano livelli stilistici e narrativi diversi, e che introducono con
forza l’elemento satirico, ovvero di critica dall’interno dei tentativi di rendere classico un genere come
quello del romanzo che nella classicità praticamente non esisteva.
Come dire, in altri termini, che da parte di questi autori l’atto creativo si abbina dall’interno con un atto
teorico, una presa di posizione rispetto all’elaborazione di un discorso teorico sul genere. Il discorso del
romanzo è doppiato da un discorso sul romanzo, scrittura cioè metanarrativa, quella che riflette,
facendosi, sul proprio farsi.
Le Mercure Galant
Le Mercure galant fut fondé en 1672 par Donneau de Visé. On sait que Thomas Corneille s'associa à
Donneau de Visé en 1680 et participa à cette publication jusqu'à sa mort. Comme l'écrit François Denis
Camusat (auteur de L’histoire critique des journaux publiée en 1734 deux ans après sa mort), c'était un
«amas de toutes sortes de choses. Nouvelles, concernant les Promotions aux Dignités de l'Etat,
Nominations aux Bénéfices, Mariages, Baptêmes et Morts, Spectacles; Histoires galantes, Médailles,
Réceptions aux Académies, Sermons, Plaidoiés, Arrêts, petites Pièces de Poésie, Enigmes, Chansons,
Dissertations, quelquefois savantes et quelquefois enjouées». «… volumes où se trouvaient
régulièrement des sonnets, impromptus, Madrigaux», des pages critiques, «contes... », des «chansons à
boire», une «énigme», le récit des combats... En fait, la première originalité de cette gazette était
d'associer la politique (représentée par le récit des fastes royaux et surtout des guerres) et la littérature,
qui y revêtait deux visages: la galanterie (petits vers, contes) et la critique des ouvrages récents. A cela
s'ajoutèrent encore, sous l'influence peut-être de Fontenelle, le neveu de Thomas Corneille, des
dissertations de physique et de philosophie.
Presque tous les écrivains de cette époque publièrent dans Le Mercure galant, Charles Perrault pour
faire un exemple des plus prestigieux. Le maître du goût de ce temps, Fontenelle, fut, surtout entre
1677 et 1685, l'un des principaux collaborateurs de la gazette. Même Pierre Corneille et La Fontaine ne
dédaignèrent pas d'y figurer. En revanche, Racine y fut plus ou moins sournoisement raillé; Boileau dut
attendre sa réconciliation avec Perrault pour y recevoir quelques éloges, et La Bruyère y fut insulté.
C'est-à-dire que cette gazette ne fut pas neutre. Elle servit tous les combats des Modernes, aidant à la
diffusion des premiers livres de Fontenelle (les Dialogues des morts, les Conversations sur la Pluralité
des Mondes), empressée à soutenir les contes de fées et les romans, ces nouveaux genres si contestés,
et, en particulier, la Princesse de Clèves, qui fut lancée par le questionnaire organisé par Donneau de
Visé en 1678. Mêlant la galanterie et les problèmes sérieux, chérissant un style ingénieux, souvent
artificiel, fantaisiste, parfois humoristique, le Mercure est le meilleur témoignage que nous ayons sur
cette époque qui vécu à côté des triomphes des grands classiques. C'est un parfait exemple de littérature
et de pensée «baroque».
Avec son engagement, ses partis pris, son affectation, il n'est pas surprenant que cette feuille ait reçu
beaucoup de critiques. Celles des classiques d'abord, de La Bruyère, qui la jugea «au-dessous de rien»
(Donneau de Vizé s’était opposé à son élection à l’Académie française). Celles aussi du Journal de
Leipzig et surtout de François Gacon (Le Poète sans fard, Discours satyrique en vers 1698). Ce sont
toujours les mêmes reproches: galanterie douceâtre, plaisanteries «ridicules», et aussi, ce qui est plus
fâcheux, complaisance aux «flatteurs mercenaires», car Donneau de Visé avait une bonne réputation de
cupidité. Nous ne sommes pas obligés de partager cet avis. Non dénué sans doute d'excès et de
facilités, le Mercure galant n'est pas seulement un passionnant document sur la vie intellectuelle de
l'époque, c'est l'expression rigoureusement cohérente dans tous les domaines (politique, littéraire,
philosophique) d'un esprit qui régna en France au XVII siècle en même temps et souvent en opposition
avec celui des classiques (c’est l’opinion, par exemple, d’Alain Niderst, important dix-septiémiste,
aujourd’hui professeur honoraire à l’Université de Rouen et président d’honneur du Centre
International Pierre Corneille).
Jean Donneau de Visé (1638-1710)
Il se fait connaître en 1663 par ses prises de parti en faveur de Corneille, par ses attaques contre
Molière ; il fréquente alors les milieux précieux de la capitale et figure, avec Boursault, de Pure et
Somaize, dans les Délices de la poésie galante de 1663 (Antoine Adam, Histoire de la littérature
française au XVIIe siècle, Paris, Domat, 1957, t. III, p. 159). Il se réconcilie avec Molière pour
représenter au Palais-Royal sa première comédie, La Mère coquette ou les Amants brouillés (23 oct.
1665). Après avoir donné deux ou trois comédies, il se lance en 1670 dans la tragédie avec machines et
grand spectacle, qui lui vaudra ses plus grands succès ; après la mort de Molière, il écrit, avec Thomas
Corneille (frère de Pierre), pour la troupe du théâtre Guénégaud : Circé, le 17 mars 1675, puis La
Devineresse, le 19 novembre 1679 (en collaboration avec Th. Corneille) qui connaissent de véritables
triomphes et valent à la troupe des recettes exceptionnelles (Adam, t. III, p. 199, 207). A partir de 1672
et surtout de 1678, le Mercure galant lui assure une place de premier plan dans la vie littéraire
parisienne. Avec Th. Corneille (contrat du 15 déc. 1681), il exploite méthodiquement le succès de son
journal et s'assure une place de journaliste officiel et de panégyriste du roi ; il se donne en 1699 pour
«historiographe de France» (Mercure galant, févr. 1699, p. 186), mais c'est à ses frais qu'il publie, de
1697 à 1703, la somptueuse édition des Mémoires pour servir à l'histoire de Louis le Grand (10 vol.)
qui le ruinera.
Donneau de Vizé assure la direction du Mercure jusqu'à sa mort, en fait jusqu'en mai 1710.
Après, le périodique dont l'influence n'a cessé de croître est repris par Charles Dufresny, qui tente de le
rajeunir avant de céder son privilège. Celui-ci passera de main en main ; en 1724, Le Mercure galant
(qui était devenu Le Nouveau Mercure) prend le titre de Mercure de France. Il tiendra une place
importante dans le monde des lettres (en particulier sous la direction de Marmontel, puis celle de La
Harpe)
Importance des journaux déjà à l’époque pour l’influence sur l’opinion publique
Les trafics d'influence auxquels donne lieu le journalisme naissant ont été dénoncés violemment par
Anne Mauduit de Fatouville (dramaturge de la Comédie italienne né en 1715 et magistrat) dans son
Arlequin Mercure galant et dépeints par Boursault dans une comédie (composée de sketches amusants
ayant pour cadre les bureaux de la revue) qui devait s'intituler Le Mercure galant et dont Donneau de
Visé réussit à faire interdire le titre (si bien qu'elle s'appelle La Comédie sans titre: un très grand
succès. Elle fut jouée quatre-vingts fois de suite et resta longtemps au théâtre. Il y a des vers très
heureux et des détails très gais dans la peinture de ces originaux de tous genres qui viennent offrir leurs
services et leurs talents au directeur du Mercure. On cite tout particulièrement la scène du soldat La
Rissole qui, dans son ivresse, fait la plaisante critique des irrégularités de la langue française en
s’embarrassant dans les pluriels des mots en al).
Le troisième Mercure de France (depuis 1890)
À la fin du XIXe siècle la revue littéraire du Mercure de France est refondée par Alfred Vallette avec
un groupe d’amis dont les réunions ont lieu au café de la Mère Clarisse, rue Jacob : Jean Moréas, Jules
Renard, Remy de Gourmont, Alfred Jarry, Albert Samain, Saint-Pol-Roux : la génération symboliste.
La première livraison de la revue date du 1er janvier 1890. La revue accède progressivement à la
reconnaissance. Mallarmé et Heredia y font paraître quelques textes inédits. Elle devient bimensuelle
en 1905. Un tel succès, dans un secteur fortement concurrentiel, s’explique par un grand sérieux, une
très grande liberté de ton et une capacité à se situer au-dessus des écoles. Paul Léautaud, d'abord
critique dramatique, en devient le secrétaire général et le restera durant trente-trois ans.
En 1889, Alfred Vallette épouse la romancière Rachilde dont l’œuvre et la personnalité feront
beaucoup pour le rayonnement de la revue. Auteur du scandaleux Monsieur Vénus, qui lui vaudra une
condamnation pour outrage aux bonnes mœurs, elle participe à la revue jusqu’en 1924 et tiendra salon
tous les mardis, les fameux « mardis du Mercure », qui virent défiler bon nombre de futurs grands
écrivains.
La maison d'édition
Comme nombre de revues, le Mercure se met à éditer des livres. Outre les textes symboliques et les
premières traductions de Nietzsche en français, l’éditeur publie les premiers textes de Georges
Eekhoud, André Gide, Paul Claudel, Georges Duhamel (qui en devient directeur en 1935), Colette, et
Guillaume Apollinaire, mais aussi des études, comme les ouvrages de musicologie d'Édouard Ganche.
Plus tard, le Mercure publie des textes d'Henri Michaux, Pierre Reverdy, Pierre Jean Jouve, Louis-
René des Forêts, Pierre Klossowski, Eugène Ionesco et Yves Bonnefoy ainsi que le Journal de Paul
Léautaud.
En 1958, les éditions Gallimard rachètent le Mercure de France dont la direction est confiée à Simone
Gallimard. C’est au Mercure de France, avec la complicité de Simone Gallimard, que Romain Gary
publie les romans signés Émile Ajar, qui lui permettent d’obtenir deux fois le Prix Goncourt (la
première fois en 1956 pour Les racines du cielédité par Gallimard; la deuxième comme Emile Ajar
pour La vie devant soi en 1975).
En 1995, Isabelle Gallimard prend la direction de la maison d’édition.
Lectures proposées
I. La question galante proposée par Donneau de Visé aux lecteurs du Mercure galant (avril 1678)
Je demande si une femme de vertu, qui a toute l'estime possible pour un Mary parfaitement honneste
homme, et qui ne laisse pas d'estre combatüe pour un Amant d'une tres-forte passion qu'elle tâche
d'étouffer par toutes sortes de moyens; je demande, dis-je, si cette Femme, voulant se retirer dans un
lieu où elle ne soit point exposée à la veüe de cet Amant qu'elle sçait qu'elle aime sans qu'il sçache qu'il
est aimé d'elle, et ne pouvant obliger son Mary de consentir à cette retraite sans luy découvrir ce qu'elle
sent pour l'amant qu'elle cherche à fuir, fait mieux de faire confidence de cette passion à son Mary, que
de la taire au péril des combats qu'elle sera continuellement obligée de rendre par les indispensables
occasions de voir cet Amant, dont elle n'a aucun moyen de s'éloigner que celuy de la confidence dont il
s'agit.
II. Lettre du comte de Bussy-Rabutin du 29 juin 1678 (auteur satyrique et mémorialiste de
l’Histoire amoureuse des Gaules, 1666, et en 1696 des Mémoires)
J'ai trouvé la première partie admirable; la seconde ne m'a pas paru de même. [...] l'aveu de Madame de
Clèves est extravagant, et ne peut se dire que dans une histoire véritable; mais quand on en fait une à
plaisir, il est ridicule de donner à son héroïne un sentiment si extraordinaire. L'auteur, en le faisant, a
plus songé à ne pas ressembler aux autres romans qu'à suivre le bon sens. Une femme dit rarement à
son mari qu'on est amoureux d'elle, mais jamais qu'elle a de l'amour pour un autre que lui [...]. La
première aventure des jardins de Coulommiers n'est pas vraisemblable et sent le roman.
III. Lettre de Fontenelle (le neveu de Corneille) au Mercure galant (mai 1678)
Nous voici à ce trait si nouveau et si singulier, qui est l'aveu que Madame de Clèves fait à son mari de
l'amour qu'elle a pour le duc de Nemours. Qu'on raisonne tant qu'on voudra là-dessus, je trouve le trait
admirable et très bien préparé: c'est la plus vertueuse femme du monde, qui croit avoir sujet de se
défier d'elle-même, parce qu'elle sent son coeur prévenu malgré elle en faveur d'un autre que de son
mari. Elle se fait un crime de ce penchant, tout involontaire et tout innocent qu'il soit, elle cherche du
secours pour le vaincre. Elle doute qu'elle eût la force d'en venir à bout si elle s'en fiait à elle seule; et,
pour s'imposer encore une conduite plus austère que celle que sa propre vertu lui imposerait, elle fait à
son mari la confidence de ce qu'elle sent pour un autre. Je ne vois rien à cela que de beau et d'héroïque.
[...] On admire la sincérité qu'eut Madame de Clèves d'avouer à son mari son amour pour M. de
Nemours.
IV. Stendhal, De l'amour, Ch.XXIX: "Du courage des femmes"
Un malheur des femmes c'est que les preuves de ce courage |restent toujours secrètes, et soient presque
indivulgables. Un malheur plus grand, c'est qu'il soit toujours employé contre leur bonheur: la
Princesse de Clèves devait ne rien dire à son mari et se donner à M. de Nemours. (édition M. Crouzet,
Garnier Flammarion, 1965, p.102)
1696. Février. La Belle au bois dormant, le très célèbre conte de Charles Perrault, paraît dans Le
Mercure galant avec quelques variantes par rapport à la version de 1695 (non publiée).
La première semaine de cours je vous ai introduit l’argument et j’ai commencé par l’illustration de la
plus ancienne des revues que nous avons au programme.
Aujourd’hui, reprenant pour commencer deux points qui sont fondamentaux en ce qui concerne
l’importance des revues littéraires dans la diffusion de la culture en général, de la littérature en
particulier, je voudrais élargir l’horizon et vous présenter le plan du parcours historique que nous allons
faire.
Les deux points, tenez-les bien à l’esprit (ce sera une des questions que je pourrai vous poser à
l’examen), sont les suivants:
- les revues sont l’instrument pour faire arriver à un large public le résultat des études littéraires: dès que
la presse périodique s’ouvre à la littérature, elle en devient la principale organisatrice;
- les revues sont aussi le lieu par excellence où les écrivains déjà connus testent leurs oeuvres, en y
publiant une partie de celle qu’ils sont en train d’écrire, le début par exemple, pour voir la réaction du
public; ou alors le lieu où les jeunes auteurs commencent à publier leurs premières oeuvres, donc
l’occasion pour eux de faire circuler leur nom qui n’est pas encore connu, les revues donc en ce cas
sont productrices, produisent de la littérature
En général aussi, il s’agit de la partie la plus avancée de la pensée littéraire qui trouve sa voix à
l’intérieur d’une revue, ce qui donc les caractérise souvent comme des lieux d’expérimentation. Mais
ce dernier élément bien que largement vrai ne l’est toutefois pas pour toutes les revues, il y en a aussi
qui par contre se font partisanes de la défense de la tradition, et c’est le cas des revues conservatrices, si
non carrément réactionaires. Il y en a aussi, mais disons que bien qu’ils soit important de savoir
qu’elles ont existé, ce ne sont pas celles qui vont nous intéresser.
LISTE des REVUES qu’on va étudier:
- Mercure galant
- Revue des Deux Mondes
- Nouvelle Revue Française
- Littérature (deux séries)
- Révolution surréaliste
- Temps modernes
- Combat (quotidien)
- Tel quel
- Infini
Reprenons en bref ce que nous avons dit jusque là et ajoutons-y quelques renseignements.
Le premier Mercure galant (1672) s’inspire au premier abord des « lettres en vers » du milieu du
siècle, telle La Muse historique de Jean Loret dédiée à Mlle de Longueville, aimable fourretout adressé
à une « Dame », dulcinée lointaine ou princesse amie des arts, où l’on trouvait pêlemêle la vie de la
cour, les dévotes circonstances d’une vie bien ordonnée de la bonne société, des comptes rendus à fleur
de peau de spectacles parisiens et des potins mondains. Le tout était rédigé en « vers burlesques »
raboteux, imprimé en caractères usés sur du papier de qualité très médiocre. Dès l’origine, le Mercure
galant joua au « livre » terme par lequel il se désigne généralement; composé dans un corps
typographique respectable et au format in12 des nouveautés littéraires, ce petit volume mensuel rédigé
intégralement par « l’auteur du Mercure » autre expression consacrée donne dans le maximum de
surface le minimum d’informations, ce qui ne pouvait déplaire à la censure et ravissait le libraire et le
journaliste. Le procédé de la lettre à une Dame permettait par ailleurs de passer sans autre transition,
comme dans une correspondance personnelle, d’un sujet à un autre et d’y insérer pièces de vers,
anecdotes venues d’ailleurs, « histoires divertissantes, galanteries, histoires amoureuses », voire
publicité pour ce qu’on appela au siècle suivant les « articles de Paris », le tout assorti de musique
gravée ou de gravures de mode. La politique est limitée aux fastes de la Cour et à quelques
circonstances naturellement glorieuses de la politique internationale conduite par la plus « galante »
monarchie du monde. Dans ses « Extraordinaires », de Visé célèbre ces événements avec toute la
fougue du professionnel rompu à l’art de flatter : même si, chez ses commanditaires, on trouva parfois
qu’il en faisait un peu trop. L’héroïsation du monarque étant le pain quotidien de l’intelligentsia
française, de Visé n’était qu’un exemple parmi d’autres, et son succès dérangeait sans doute ceux qui
n’avaient pas à leur disposition cette magnifique caisse de résonance qu’était le Mercure.
Les prises de position littéraires du périodique sont assez cohérentes: Le Mercure galant fut « moderne
» avec passion. Contre les « Anciens » où se retrouvaient quelquesunes de ses vieilles haines comme
Racine et de nouveaux venus comme La Bruyère après La Fontaine, « l’auteur du Mercure » alla sentir
le vent de la modernité à Versailles dans l’entourage de Colbert où l’actif et fort politique Charles
Perrault distribuait pensions et conseils avisés. De Visé publia un jeune Normand de talent, Fontenelle,
de surcroît neveu des Corneille, les portedrapeaux du bon théâtre contre l’auteur de Phèdre et ses trop
galantes rapsodies. Plus tard, il imprima dans son journal les premiers contes de Perrault, et donna à
Thomas Corneille une espèce de droit de succession à ce que l’auteur des Caractères appelait l’Hermès
galant en le qualifiant d’« immédiatement audessous de rien ».
Le Mercure accueillait volontiers leurs vers et se faisait une réputation d’ami des dames contre les
Anciens, tout juste capables de vaticiner de vieilles rengaines et des « satires contre les femmes ».
Les anecdotes, historiettes du temps, saynètes parisiennes publiées par le Mercure sont un réservoir qui
n’est pas totalement sans intérêt pour l’histoire des mœurs. Ces nouvelles témoignent d’une recherche
du petit fait vrai, d’une transposition à peine opérée d’aventures réelles dont on trouve alors
l’équivalent au théâtre dans ce que l’on appelle les « dancourades », petites comédies du temps mises
sur la scène de la ComédieFrançaise par le comédienauteur Florent Carton Dancourt.
Mais si frivole et mondain qu’il paraît, si attaché qu’il est à farder de couleurs factices la « France toute
catholique », le Mercure est un laboratoire important de la littérature en train de se faire. Certes le très
prudent et secret Fontenelle semble n’y publier que d’assez anodines pièces de vers, mais le ton général
du périodique témoigne d’une ouverture notable à la « modernité » intellectuelle : littérature de
femmes, bien qu’un peu littérature de « dames », revendication naïve d’une mimésis de la réalité
quotidienne contrôlée par les règles de la « belle nature », intégration de l’acte d’écrire et de l’écrivain
dans le pacte social dominant, création d’une opinion publique dans le domaine des lettres et des
spectacles.
L’ensemble est loin d’être négligeable, même si le Mercure est particulièrement frileux dans certains
secteurs sensibles, comme la pensée philosophique et politique. Mais s’y intéresser serait pour lui
contrenature. Les journalistes du Refuge hollandais jouent excellemment ce rôle de presse d’opinion
hétérodoxe, et l’on peut presque dire que les journalistes séparés par la frontière de la religion sinon de
la langue se répartissent une nouvelle fois les provinces de la communication périodique.
Les jésuites parisiens tournèrent le monopole des trois périodiques privilégiés en faisant imprimer en
terre réputée étrangère : les ultramontains usaient depuis longtemps d’Avignon, territoire pontifical,
pour inonder la France du Sud de productions favorables à l’Eglise de Rome souvent en délicatesse
avec celle de France. Au très gallican Bignon, les jésuites opposèrent leur propre périodique publié
sous l’adresse pérégrine de la principauté «souveraine» de Dombes, domaine réputé étranger qui avait
appartenu à la Grande Demoiselle et dont le duc du Maine, bâtard royal légitimé, avait hérité au grand
déplaisir des Orléans. Si tout fut rédigé ou mis en forme à Paris dans la maison professe et au collège
jésuite de LouisleGrand, l’impression fut de Trévoux jusqu’en 1731. Les Mémoires pour l’histoire des
sciences et des beauxarts, dits vulgairement Mémoires ou Journal de Trévoux, parurent l’année de la
réforme du Journal des savants (DJ n° 889). Ce n’était pas un hasard. De 1701 à 1765, trois ans après
l’interdiction de la Compagnie de Jésus en France, ils furent le véhicule mensuel de la pensée des pères
jésuites, pensée aussi sinueuse et habile en retournements que l’on peut imaginer de la part d’une «
société » aux prises avec une persécution « éclairée » dont la moindre des accusations n’était pas son
goût immodéré pour le régicide. Voltaire batailla contre ses rédacteurs, dont le père Berthier, dans des
polémiques où le bon goût se faisait désirer. Les Mémoires surent manier contre lui une ironie dont il
croyait avoir le monopole : ils se félicitèrent, par exemple, « du louable projet de M. de Voltaire de se
rendre philosophe et de rendre, s’il est possible, tout l’univers newtonien ». Mais Fontenelle collabora
peutêtre aux Mémoires, discrètement à son habitude, et ceuxci le soutinrent ; quant à Leibniz, il ne
dédaigna pas d’y intervenir aussi.
Ce périodique est plus proche du Journal des savants que du Mercure: c’est fondamentalement une
feuille de comptes rendus critiques dont des index thématiques rendent la consultation cumulative très
pratique ; la littérature y a sa modeste part, mais le théâtre en train de se jouer en est presque exclu, à la
différence du roman, du moins jusqu’à la réforme du périodique en 1734. Dans les Mémoires, il n’est
question que de livres, et les nouvelles littéraires en annoncent d’autres en passe de paraître. Au format
in4° du Journal des savants, signe de sérieux scientifique, les Mémoires substituent le format de poche,
petit in12, maniable et passepartout, même si le corps d’impression, minuscule, en rend la lecture peu
agréable. Ce simple élément factuel le distingue du Mercure, dont la composition est aussi aérée que le
contenu se prétend léger et mondain. Les Mémoires ressemblent, dans ce domaine au moins, à leurs
adversaires les journaux savants de Hollande, comme les Nouvelles de la République des Lettres créées
par Pierre Bayle. Contrefaits en Hollande ce qui témoignait de son succès , les Mémoires de Trévoux
sont certainement le périodique au contenu idéologique le plus équilibré et le plus ouvert, avant que les
conflits latents des Lumières n’en fassent au milieu du siècle le défenseur de la tradition. C’est alors
que la direction du père Berthier, à partir de 1745, concentre ses attaques contre les « philosophes
incrédules ». Mais les Mémoires restèrent jusqu’au bout attentifs à suivre sinon à justifier le progrès des
Lumières : « La lumière qui nous manque doitelle éteindre le flambeau qui nous éclaire ? ».
Les pères eurentils leur part dans la publication du Nouveau Mercure de Trévoux, feuille lancée en
1708 contre la version parisienne homonyme ? Celleci s’acheminait sous la direction de de Visé vers
un déclin inéluctable, qui n’était que trop visible dans le paysage politique de la France de cette fin de
règne.
Le Mercure galant, emblème des « modernes » et d’un certain bonheur de vivre sous la plus aimable
monarchie du monde, était devenu le nécrologe permanent d’une aristocratie fauchée sur les champs de
bataille de la Guerre de Succession d’Espagne.
Quand de Visé mourut en 1710, on lui choisit pour successeur à la tête du Mercure l’esprit le plus
contradictoire avec tout ce qu’il avait représenté. Charles Dufresny s’exerçait depuis longtemps à
désorienter ses contemporains : inventeur, joueur, gastronome et libertin, il avait du génie dans l’art des
jardins et une originalité sans seconde dans l’art dramatique à l’italienne.
Le Mercure de Dufresny inaugure une division du périodique en quatre sections qui inspirera son fils
légitime, le Mercure de France de 1724. « Littérature », « Nouvelles », « Pièces fugitives » et «
Amusements » structurent la version rénovée du périodique, qui est délibérément littéraire.
Le « modernisme » de Dufresny s’exprime dans des idées singulières, « bizarres » : des opéras de
silence, des papiers collés à la manière surréaliste, et, en littérature, dans la conviction que l’art
moderne doit être total et retrouver la forme universelle antérieure à la division des arts. Ce «
primitivisme » qui justifie la « modernité » n’est pas le moins curieux de son esthétique.
Le ton original de Dufesny est contemporain de celui des Spectateurs anglais, dont la mode va bientôt
se répandre en France.
Marivaux publie ses premières œuvres comme des « Lettres au Mercure ».
La Revue des Deux Mondes
Fondée en 1829 par François Buloz, la Revue des Deux Mondes est aujourd’hui la plus ancienne revue
en Europe. Il faut croire que cette période était fertile pour la réflexion si l’on compte la variété de
revues qui existaient alors, en France (le Globe, la Revue de Paris, le Mercure du XIXe siècle) ou en
Angleterre (Edimbourg Review, Quaterly Review). Au long des années, mais on pourrait presque dire
des siècles, la Revue des Deux Mondes s’est imposée comme un pôle incontournable de la vie
intellectuelle française et européenne (Goethe en était un fidèle lecteur). Au croisement de l’histoire, de
la littérature et de la politique, elle souhaite, dès l’origine, incarner l’humanisme hérité des Lumières,
cela dans un souci de connaissance, de curiosité pour les sociétés extra-européennes, qu’il s’agisse de
l’Amérique, de la Russie ou des mondes africains, asiatiques. Avant que l’on ne parle d’ « ethnologie »,
la Revue des Deux Mondes se veut aussi bien une revue de « voyage ». Il convient de prendre le mot au
pied de la lettre : le voyage est un mode fondamental de la connaissance ; le récit a partie liée avec le
commentaire. De là ces innombrables récits de voyages qui constituent, dans la collection générale de
la Revue, un véritable patrimoine à l’intérieur du patrimoine.
La Revue des Deux Mondes a été, au XIXe siècle, un rendez-vous littéraire majeur. Tous les grands
écrivains y ont apporté leur collaboration, de George Sand à Chateaubriand, de Sainte-Beuve à Dumas,
Musset, Renan, Gautier et tant d’autres. Au XXe siècle, le paysage littéraire change, la NRF apparaît :
si la Revue garde une position privilégiée, son centre de gravité se déplace plus vers la politique et
l’histoire, portée par la gravité des moments de crise que traverse la société française : Commune,
séparation de l’Eglise et de l’Etat, Affaire Dreyfus, Grande guerre de 14-18, montée des totalitarismes.
Vouloir identifier une ligne idéologique cohérente depuis le début serait fallacieux. Toutefois, on peut
distinguer facilement certains traits de caractère qui expliquent l’extraordinaire pérennité de la Revue :
souci de modération, de prudence, rejet des postures extrêmes, esprit de pragmatisme. Née en même
temps que la monarchie de Juillet, la Revue des Deux Mondes a hérité de ce même souci de conjuguer
un lien fort à la tradition et un lien fort à ce qu’on pourrait appeler la modernité.
Ce qui a été souvent perçu comme une faiblesse de la part d’adversaires plus enclins aux discours
exaltants a été surtout sa force : il est remarquable qu’une Revue ait incarné à ce point le double
impératif de l’indépendance et de la modération. Dans son Histoire politique de la Revue des Deux
Mondes, Gabriel de Broglie a bien mis en évidence cette continuité de principe où la modération prime
toujours sur la tentation radicale et incline sans cesse à l’exercice du recul, de l’approfondissement des
questions. C’est bien là la fonction d’une revue et c’est dans l’exercice de cette fonction que la Revue
des Deux Mondes s’est toujours reconnue. On pourrait même dire que du fait même de son
exceptionnelle longévité, la Revue des Deux Mondes pourrait figurer l’un de ces « lieux de mémoire »
dont parle l’historien Pierre Nora. Mémoire d’une pratique de l’esprit humaniste au cœur même d’une
histoire européenne qui devait être déstabilisée dans ses propres fondements.
Et maintenant ?
La Revue des Deux Mondes poursuit sa trajectoire, ayant toujours ce souci d’incarner l’esprit humaniste
de ses débuts, à distance des adhésions idéologiques dont les bilans désastreux parlent pour eux-
mêmes. Foncièrement généraliste, s’intéressant à tous les domaines de l’activité humaine, la Revue
demeure fidèle à ses origines littéraires, philosophiques : la liberté d’esprit, l’indépendance
intellectuelle, le goût pour l’exercice critique, le primat de la lucidité sur toute autre forme d’approche
du réel, voilà ce qui constitue la charte de la Revue des Deux Mondes aujourd’hui.
Lecture d’un extrait de l’article “Paul Scarron” de Théophile Gautier publié dans La Revue des Deux
Mondes, juillet-août 1844 (voir anthologie du mardi).
La Nouvelle Revue Française
Histoire
Première caractéristique (nécessaire à souligner, surtout par rapport a la Revue des Deux Mondes):
ne pas se soumettre à une quelconque idéologie.
Au début de l'année 1908, un groupe d'écrivains, parmi lesquels Eugène Montfort, Charles-Louis
Philippe, Henri Ghéon, décident de fonder une nouvelle revue littéraire. André Gide, Jacques Copeau et
Jean Schlumberger participeront également au premier numéro, qui paraît le 15 novembre 1908. Mais
suite à une dissension entre André Gide et Eugène Montfort, le groupe éclate. Un «second» premier
numéro paraît le 1er février 1909, sans Montfort. Dès lors, la revue paraît régulièrement et parmi ses
premiers collaborateurs, outre ses fondateurs, il faut citer Romain Rolland, André Suarès, Paul Claudel,
Léon-Paul Fargue, Valéry Larbaud et Jacques Rivière.
Premier directeur Jean Schlumberger.
De mai 1912 à août 1914, Jacques Copeau en assure la direction. Elle publie Alain-Fournier, Guillaume
Apollinaire, Jean Giraudoux, Marcel Proust, Paul Valéry, Roger Martin du Gard...
La première guerre disperse les auteurs. La revue s'arrête en septembre 1914 et ne reprend qu'en juin
1919, sous la direction de Jacques Rivière, bientôt assisté par Jean Paulhan, qui lui succèdera en 1925.
La N.R.F. cesse de paraître en juin 1940, puis, placée sous tutelle allemande, elle paraît sous la
direction-gérance de Drieu la Rochelle jusqu'en juin 1943. Ce sont les années sombres de la revue.
La publication reprend en janvier 1953, sous le titre La Nouvelle Nouvelle Revue française, sous la
direction de Jean Paulhan et Marcel Arland.
En novembre 1968, Marcel Arland prend seul la direction de la revue, Dominique Aury devient
secrétaire générale.
En septembre 1977, c'est Georges Lambrichs qui prend la tête de la revue. Jacques Réda en devient
directeur en septembre 1987 ; Bertrand Visage en devient rédacteur en chef en 1996, suivi par Michel
Braudeau, romancier et critique littéraire, en 1999.
La N.R.F. vue par Michel Braudeau :
«La seule différence importante entre La N.R.F. d'aujourd'hui et celle de 1909 réside dans son rythme
de parution, mensuelle hier et maintenant trimestrielle. Ce nouveau rythme est celui de la réflexion et
de l'approfondissement, l'actualité littéraire étant désormais traitée par une multiplicité d'émissions de
radio et de télévision, de magazines, de suppléments de certains quotidiens…Chaque numéro met à
l'honneur un grand auteur, à travers des textes inédits. Nous avons ainsi accueilli Rimbaud, Borges,
Balzac et Nabokov en 1999, Breton en janvier 2000, tandis que le numéro de mars nous a fait retrouver
Charles-Albert Cingria. Mais ces auteurs consacrés ne sont qu'un des aspects de La N.R.F. Nous
sommes aussi, et peut-être surtout, des explorateurs, des découvreurs. En 1999, nous avons ainsi
consacré un dossier thématique à la littérature cubaine et un second à la littérature nord-américaine. En
mars et mai 2000, nous avons traité de la littérature africaine sous tous ses aspects, en octobre 2000 et
janvier 2001 le Mexique. Découverte, également, avec le cahier illustré qui présente, dans chaque
numéro, l'œuvre graphique d'un artiste à découvrir, toujours commentée par l'artiste ou par un
spécialiste de l'art contemporain.La N.R.F., c'est encore l'ouverture à tous les genres, à tous les tons.
Loin de l'intellectualisme, nous apprécions l'insolence, l'imprévu. Comme de faire voisiner Desnos et
Mandiargues avec Jim Harrisson, Antonio Tabucchi ou Maurice G. Dantec, célèbre pour ses romans
noirs mais inattendu dans ses réflexions sur la littérature, d'interroger Kenzaburô Oê sur l'arme
atomique…C'est enfin le lieu d'expression de ce que l'on appelle le work in progress, l'œuvre en
mouvement, et du premier contact avec des inconnus qui sont peut-être les talents de demain. Pour moi,
La N.R.F. doit être à la fois un cabinet de curiosités et un étalage de gourmandises.»
Sur les premiers années de vie de la revue (pour ceux qui voudraient approfondir):
http://igitur-archive.library.uu.nl/dissertations/2003-1107-100331/inhoud.htm
tiré de
Entre Classicisme et Modernité : La Nouvelle Revue Française dans le champ littéraire de la Belle
Epoque / Maaike Neeltje Koffeman-Bijman - [S.l.] : [s.n.], 2003 - Tekst. - Proefschrift Universiteit
Utrecht
Otto Abetz, ambassadeur allemand à Paris (donc nous parlons de l’Allemagne de Hitler), aurait dit en
1940 : « Il y a trois forces en France : le communisme, la haute banque et La NRF ».
Si la NRF a connu son apogée pendant l’entre-deux-guerres, elle pose les fondements de sa réussite
artistique et commerciale avant la Grande Guerre.
Grâce aux structures mises en place au cours de cette période fondatrice, la revue sera, selon la formule
de François Mauriac, la « rose des vents » de la littérature française de l’entre-deux-guerres. Alors, le
fait d’écrire dans la NRF ou de paraître chez Gallimard équivaut à la consécration.
la NRF a publié la plupart des auteurs français devenus canoniques.
Avant-guerre: avec un tirage modeste de 3 000 exemplaires, son rayonnement dans les milieux
littéraires est déjà considérable.
La revue a « renversé le barème des valeurs littéraires ». Les témoignages des contemporains et les
analyses des historiens de la littérature s’accordent à dire que la NRF a changé le cours de la littérature
française.
Par quels moyens la NRF a-t-elle réussi à devenir une institution dominante ?
François Nourrissier, éditeur de l’Album NRF paru dans la Bibliothèque de la Pléiade en l’an 2000, se
demandait récemment: « La NRF sut-elle choisir les meilleurs ou acquit-elle très vite le pouvoir
d’imposer les siens comme les meilleurs ? Les deux questions n’en font qu’une. Sans doute la
cohérence du groupe et les idées qu’il professait explique-t-elle le « miracle NRF ».
L’histoire des revues de la Belle Epoque montre qu’un bon programme littéraire et une équipe unie ne
garantissent pas le succès.
Selon Bourdieu, la croissance du marché littéraire, qui crée la position d’écrivain professionnel, suscite
l’apparition d’un contre-courant qui refuse de se conformer à la logique capitaliste et qui veut créer de
la « littérature pure », reconnue par quelques initiés.
Ainsi, dans le cas de la NRF, c’est la fortune de quelques-uns des fondateurs qui permet à la revue
d’adopter une attitude désintéressée ; cet investissement sera largement rétribué après la guerre.
A travers la NRF, on peut suivre les débats qui préoccupent les hommes de lettres autour de 1910 : on y
discute beaucoup de la crise du roman, du nationalisme et du classicisme.
On a assisté, depuis les années 1980, à une vogue d’études revuistes, donnant naissance à des
périodiques spécialisés comme La Revue des revues en France (depuis 1986).
En raison de la fécondité de la sociologie littéraire dans le domaine des études revuistes, nous nous
proposons d’appuyer nos analyses de l’histoire de la première NRF sur quelques notions centrales de la
théorie de Pierre Bourdieu. Ainsiil sera possible d’évaluer la trajectoire de la NRF dans le champ
littéraire français de façon plus objective. Car, pour expliquer l’évolution de la NRF, il faut prendre en
compte non seulement ses prises de position littéraires – qui sont bien connues –, mais aussi
l’organisation matérielle de la revue et les stratégies employées par ses collaborateurs pour lui
conquérir une position dominante dans le champ littéraire français.
Stratégies: viser un public spécifique, composé d’écrivains et de bourgeois cultivés.
L’objectif: accumuler prestige littéraire.
Du moment que la NRF réussit à s’imposer dans le domaine de la production restreinte (ou, pour parler
dans les termes de l’époque : celui de la « littérature pure »), elle peut effectivement commencer à
influencer la hiérarchie des valeurs littéraires. Ainsi, pendant l’entre- deux-guerres, la NRF devient une
véritable instance de consécration.
Jacques Rivière a très tôt reconnu l’importance stratégique du programme littéraire de la NRF : Il avait
en effet cette double et merveilleuse propriété premièrement de ne rien exclure a priori, de ne lancer
l’anathème sur aucun genre, sur aucune forme d’art, et deuxièmement de marquer tout de même une
direction, d’encourager de nouvelles tendances. [...] (Jacques Rivière, « Histoire abrégée de La
Nouvelle Revue Française. » [1918]).
Très tôt, la NRF est donc perçue comme une revue qui compte. Rivière y voit surtout des raisons
littéraires : sa poétique de « classicisme moderne », qui encourage les innovations sans proclamer la
rupture avec la tradition, permet de réunir les meilleurs écrivains de l’époque.
A travers les romans de Larbaud, Gide, Alain-Fournier et Proust (et la réflexion critique qui
accompagne ces publications), elle contribue au renouvellement du roman français.
Dès 1910, l’exemple des romanciers anglo-saxons joue un rôle essentiel dans le développement de
l’esthétique romanesque de la revue ; inversement, les innovateurs du roman anglais s’inspirent de la
tradition française. Le programme littéraire de la NRF ne révèle sa vraie signification que si on le place
dans son contexte international. Il faut donc se mettre dans une perspective comparatiste.
Dans le domaine anglo-saxon, le canon moderniste se compose d’auteurs comme Eliot, Pound, Woolf
et Joyce. Si l’on étend son champ de travail à l’Europe de l’Ouest, on peut ajouter à cette liste Gide,
Proust, Larbaud, Mann, Musil, Svevo: il y a un «code» commun entre ces textes écrits d’ailleurs par
des auteurs qui n’ont jamais constitué une école littéraire proprement dite.
En d’autres termes, il faut souligner la perspective européenne des romans publiés par la NRF.
Les auteurs modernistes manifestent une préférence pour la technique du monologue intérieur; en
outre, ils se servent beaucoup de dialogues, de paradoxes et d’ironie.
Ces caractéristiques trouvent leur origine dans une vision du monde particulière (Freud, Einstein,
Nietzsche), qui met en question la possibilité de connaître la réalité et d’exprimer ce que l’on veut dire
(doute épistémologique et doute métalinguistique) dont: mise en question des deux dogmes de
l’expression et de la représentation (sur lesquels se basait le réalisme du XIX siècle, roman
traditionnel). Persuadé que la réalité est fragmentaire et que toute vérité est relative, l’auteur moderniste
souligne le caractère provisoire de son récit. Il présente les événements du point de vue d’un ou de
plusieurs personnages ; ce sont souvent des intellectuels qui passent leur temps à observer et à tenter
d’interpréter la réalité. Le lecteur est appelé à participer à cet exercice cérébral.
En raison de leur refus des procédés réalistes (c’est-à-dire refus du narrateur omniscient, de la
chronologie linéaire, de la psychologie rationaliste), les auteurs modernistes cherchent des manières
nouvelles de structurer leurs récits.
Les Faux- Monnayeurs de Gide, par exemple, est un roman fragmentaire et auto-réflexif, multipliant
les points de vue. En effet, cette œuvre est considérée comme une des plus intéressantes réalisations du
modernisme littéraire en France.
Avec ses amis de la NRF, Gide contribue à jeter les bases de la grande révolution artistique de l’entre-
deux-guerres.
Mon objectif est de montrer que les prises de position artistiques de la NRF sont au moins en partie
motivées par des considérations stratégiques mais que, en même temps, les choix littéraires de la NRF
ont des répercussions sur sa position dans le champ littéraire.
Les efforts de la NRF pour renouveler le roman s’inscrivent, je le répète pour qu’on ne l’oublie pas,
dans un mouvement international.
Lecture d’une série d’articles démonstratif tirés de L’oeil de la NRF (les premiers cinq):
– Gide sur Larbaud
– Ghéon sur Crane
– Schlumberger sur Lagerlof
– Thibaudet sur Jules Romains
– Jacques Rivière sur Proust
A propos de l’article de Jacques Rivière sur Proust.
Il faut que vous sachiez que la NRF avait un péché originel è escompter vis à vis de Proust qui était
collaborateur de la revue et malgré cela, quand il leur proposa du publier chez eux le premier volume
de la Recherche, donc Du côté de chez Swann, André Gide qui était si vous vous en souvenez un des
idéateurs de la revue et une de ses personnalités principales, le refusa.
VOICI BRIèVEMENT L’HISTOIRE ENTIERE
Tout commence par une déconvenue : en 1909, l'éditeur Alfred Vallette refuse le manuscrit Contre
Sainte-Beuve. Marcel Proust reprend son texte et par retouches et additions successives en fait un
roman, d'abord intitulé : Les intermittences du coeur, Le temps perdu, puis Du côté de chez Swann, À la
recherche du temps perdu.
«Je suis peut-être bouché à l'émeri, mais je ne puis comprendre qu'un monsieur puisse employer trente
pages à décrire comment il se tourne et se retourne dans son lit avant de trouver le sommeil !» C'est
ainsi que le directeur de la maison d'édition Ollendorf justifie son refus de publier en 1913 la première
partie de Du côté de chez Swann. Et il ne sera pas le seul à reculer devant ce manuscrit indéchiffrable,
sans chapitre ni alinéa, couvert de ratures et à la taille totalement démesurée !
Les lecteurs professionnels de chez Fasquelle, éditeur de Gustave Flaubert et Émile Zola, s'arrachent
eux aussi les cheveux : «Au bout de sept cent douze pages de ce manuscrit [...], après d'infinies
désolations d'être noyé dans d'insondables développements et de crispantes impatiences de ne pouvoir
jamais remonter à la surface, on n'a aucune, aucune notion de ce dont il s'agit. Qu'est-ce que tout cela
vient faire ? Qu'est-ce que tout cela signifie ? Où tout cela veut-il mener ? Impossible d'en rien savoir !
Impossible d'en pouvoir rien dire !»
Arrivé chez Gallimard, toute jeune maison d'édition, le document est encore dédaigné «pour son
énormité et pour la réputation de snob qu'a Proust». On dit même que le comité de lecture, présidé par
André Gide (il en restera honteux à vie), se serait contenté de parcourir quelques passages de cette
montagne de pages compactes avant d'opter pour un rejet définitif.
Finalement, Proust parvient à être publié chez Bernard Grasset mais à la condition de payer lui-même
les frais d'édition. Il doit donc puiser dans sa fortune personnelle, fruit d'un héritage bienvenu, pour
faire paraître son texte à compte d'auteur, le 14 novembre 1913. Le public reconnaîtra néanmoins son
talent après les articles enthousiastes de Paul Souday et Henri Ghéon, critiques aujourd'hui oubliés. Le
prix Goncourt consacrera enfin l'auteur en 1919 en récompensant À l'ombre des jeunes filles en fleurs
(NRF, 1918).
Nous passons maintenant à étudier les revues liées au mouvement surréaliste. Et pour ce faire, nous
commençons par évoquer quelques traits fondamentaux du mouvement même.
Prenons comme point de départ la définition de SURREALISME donnée par André Breton, fondateur
et père du mouvement, dans le Premier Manifeste, qui date de 1924. La voici (p.37 éd. Idées
Gallimard):
SURREALISME, n.m. Automatisme psychique pur par lequel on se propose d’exprimer, soit
verbalement, soit par écrit, soit de toute autre manière, le fonctionnement réel de la pensée. Dictée de la
pensée, en l’absence de tout contrôle exercé par la raison, en dehors de toute préoccupation esthétique
ou morale.
Nous sommes à un siècle exact de distance par rapport à la Préface de Cromwell en direction du passé
et à un siècle de distance vers l’avenir c’est-à-dire par rapport à nous. Cette définition Breton l’a
donnée au tout début du XX siècle qui jusqu’à hier était notre siècle et qui est devenu depuis peu le
siècle dernier. Il est bien de se positionner chronologiquement par rapport aux événements pour avoir la
perspective des choses. Nous l’avons fait pour Hugo, nous avons essayé de voir quel était son
positionnement par rapport à la Révolution française, à l’épopée napoléonienne, à la Restauration,
comment la jeune génération de ceux qui avaient vingt ans dans les années 20/30 du XIX siècle pouvait
se sentir dans un entre-deux, le passé étant déjà mort et totalement fini, l’avenir encore à découvrir, et
quelles ont été du point de vue littéraire les conséquences de cet état d’esprit.
Très rapidement nous sommes passés, à travers les échos qu’elle a eus dans la Revue des Deux Mondes,
par la suite du mouvement romantique, les différentes étapes qu’il traversa et les résultats auxquels les
romantiques parvinrent dans les différents domaines de la création artistique et littéraire. Il est très
important de prendre en considération ce que la révolution romantique à signifié pour la poésie, avec le
passage du lyrisme lamartinien au spleen baudelairien à la voyance de Rimbaud pour en arriver au
symbolisme mallarméen. Et dans le domaine du roman: il est très utile de rappeler l’évolution qui
conduit du réalisme stendhalien auquel j’ai fait référence plusieurs fois (“le roman est un miroir que
l’on promène le long d’un chemin”, mais il ne faut pas oublier que dans le même Le Rouge et le Noir
Stendhal a écrit aussi “tout œuvre d’art est un beau mensonge”) à la conception du roman balzacien
pour passer ensuite au naturalisme d’un Zola et aboutir là aussi au symbolisme décadent d’un
Huysmans. Mais le temps presse et nous ne pouvons pas nous arrêter plus longtemps sur tout cela. Je
vous dirai seulement qu’à travers ces passages, le XIXe siècle finit par donner pour acquis et
universellement valables deux dogmes surtout, que vous ne devez plus voir comme des règles à suivre
– la révolution romantique à travers Hugo comme nous avons vu a mis en question la notion même de
règle – mais plutôt comme des principes de création ou alors, étant donné que le XIXe siècle est le
siècle par excellence des idéaux, comme deux idéaux qui orientent toute création. Et ces deux idéaux
sont ceux de la REPRESENTATION et de l’EXPRESSION. Que ce soit en prose ou en poésie, dans le
domaine lyrique ou théâtral ou narratif, tous les auteurs partagent d’un côté l’illusion de pouvoir
représenter le réel sur la page, le reproduire tel qu’il est, d’autre part la conviction qu’à travers
l’écriture il est nécessaire et possible de donner voix à l’intériorité, exprimer ses sensations.
Et c’est exactement ces deux dogmes, les vivant comme tels, que les avant-gardes du XXe siècle, le
surréalisme en premier, vont mettre en question. A nous de voir comment et pour quelles raisons.
Dans les années Vingt du siècle, tout comme dans les années Vingt du siècle prédédent, il était devenu
urgent de trouver una manière différente de s’exprimer. Mais pourquoi cette urgence? Les deux
dogmes dont je viens de parler étaient en crise pour des raisons en même temps historiques et
philosophiques.
C’est que la confiance optimiste dans l’idée de progrès d’une part, dans les systèmes de pensée basés
sur des vérités absolues d’autre part avait cessé de satisfaire les esprits. Les fondements idéologiques
du modernisme, qui avaient nourri dans des domaines différents des mouvements comme le
positivisme dans les sciences et la littérature, ou alors le spiritualisme catholique dans la philosophie et
la religion, avaient été mis en cause par des pensées nouvelles et subversives telles que celles de
Nietzsche en premier lieu, qui avait dit que Dieu était mort; celle de Freud qui avait découvert
l’inconscient; celle d’Einstein qui avait formulé la théorie de la relativité. Trois pensées donc qui
avaient mis le point final aux certitudes absolues et immuables, je veux dire qu’après les révélations de
gens comme Nietzsche, Freud et Einstein quelque chose d’irréversible s’était produit dans la
conscience des individus. Et en plus les gens étaient passés par le premier conflit mondial, pour la
première fois une guerre avait déterminé un bouleversement à l’échelle mondiale, c’était une
expérience celle-là aussi qui avait déterminé dans les consciences l’écroulement général de toute
certitude ou confiance.
Et donc, tous ceux qui dans n’importe quel domaine voulaient s’essayer dans une forme quelconque de
création artistique, éprouvaient la nécessité de trouver des formes expressives différentes par rapport au
passé même s’il s’agissait d’un passé tout récent. Il étaiìt devenu urgent comme je vous disais de
trouver autre chose. Et voilà qu’en même temps dans des lieux même géographiquement éloignés les
uns des autres et même sans contacts préalables naissent des mouvements de révolution artistique
mirant à trouver des formes expressives nouvelles propres à exprimer une réalité nouvelle marquée par
la crise définitive des certitudes absolues.
En d’autres termes, naissent les avant-gardes, caractérisée par une attitude de forte opposition à l’égard
du passé et de ses modalités expressives.
Une des premières et des plus explosives parmi les avant-gardes du XXe siècle est sans doute le
Surréalisme, créé donc comme vous le savez par André Breton dans les années Vingt en France,
d’après l’impulsion donnée par un autre groupe révolutionnaire au point de vue artistique, celui connu
sous le nom de Dada, mouvement dada oubien dadaiste, fondé à Zurigh par Tristan Tzara et accueilli
avec enthousiasme à Paris par Guillaume Apollinaire, poète qui s’était déjà exposé personnellement
avec l’affirmation d’une nouvelle exigence qu’il avait appelé l’esprit nouveau. Le dadaisme néanmoins
s’était très tôt caractérisé par des actions d’un genre essentiellement provocatoire et destructif, avec une
attitude très peu marquée par l’innovation ou des propositions constructives. Et c’est exactement ce
manque de la part des dadaistes, que le même Apollinaire avait ressenti très fort, lui qui – en inventant
les calligrammes – avait indiqué le chemin à suivre, je veux dire celui de la révolution expressive dans
le contexte de la création plutôt que celui de la destruction finalisée à elle-même, c’est ce manque donc,
considéré irrécévable par Breton aussi, qui le pousse à donner naissance à un autre groupe d’avant-
garde, qui eût des propositions et des buts bien formulés et même programmatiquement déclarés.
Le mot SURREALISME a été inventé par Apollinaire (Les Mamelles de Tirésias, drame surréaliste,
1917) et servait dans son esprit à indiquer le domaine d’intérêt pour toutes les personnes ayant en
commun la nouvelle façon de penser et de sentir, un domaine donc qui veut dépasser les données
visibles et banales du réel tel que la raison et la logique le décrivent habituellement et banalement, qui
donne accès au contraire à quelque chose de fort différent et de beaucoup plus intéressant.
Freud avait donné à un domaine très proche de celui-ci le nom d’INCONSCIENT, les surréalistes qui
ne sont pas des hommes de science mais des artistes lui donnent ce nom qui est à la fois plus générique
et plus vaste par rapport à inconscient: le surréel, la surréalité. Une dimension donc qui puisse inclure
aussi ce qui n’est pas visible, qui se situe au de-là, qui dépasse le réel.
Et Breton ressent tout de suite le besoin, en raison du caractère fondateur de sa pensée, de formuler un
manifeste du mouvement naissant. Un manifeste où définir et expliquer les caractéristiques de ce qui
est surréel, de ce que surréalisme signifie.
Il écrit des propos tels que: “Les procédés logiques de nos jours ne s’appliquent plus qu’à la résolution
de problèmes d’intérêt secondaire… récemment a été rendue à la lumière une partie du monde
intellectuel a mon sens de beaucoup la plus importante… il faut en rendre grace aux découvertes de
Freud… l’imagination est peut-être sur le point de reprendre ses droits”.
Les procédés logiques, la raison, sont discrédités; et on focalise l’attention sur les droits de
l’imagination. Breton affirme que très opportunément Freud a mis l’accent sur le rêve, auparavant
considéré comme une dimension sans rapports avec le réel, et il dit que c’est justement son but à lui, à
Breton, que celui d’intégrer le réalité et le rêve: “Je crois à la résolution future de ces deux états en
apparence si contradictoires que sont le rêve et la réalitè, en une sorte de réalité absolue, de surréalité si
l’on peut dire ainsi. C’est à sa conquête que je vais”.
Plus loin dans le texte il dit: “Le surréalisme repose sur la croyance à la réalité supérieure de certaines
formes d’associations négligées jusqu’ici, à la toute puissance du rêve, au jeu désintéressé de la
pensée”.
Et le systhème pour parvenir à ces résultats consiste, pour Breton et pour les surréalistes, dans
l’application de certaines méthodes, parmi lesquelles par exemple la transcription de rêves en état
d’hypnose ou alors la très célèbre écriture automatique. Ce qui naît de ces pratiques pour Breton et pour
les surréalistes est une oeuvre d’art, dans le sens que la création artistique est pour eux ce qui résulte de
l’auscultation du langage de l’inconscient non maîtrisé par la raison et de sa transcription sur la page.
Parmi les pratiques surréalistes les plus connues il y avait aussi celle du cadavre exquis, une sorte de
jeu de société à finalité créative. Un groupe de surréalistes se réunissait, ils se mettaient tous assis
autour d’une table, ils prenaient une feuille de papier, le premier écrivait une phrase, la première qui lui
venait à l’esprit, et il repliait la feuille faisant en sorte qu’il ne reste visible que le dernier mot de la
phrase; la personne suivante écrivait à son tour une phrase, la première que le mot resté visible lui
faisait venir à l’esprit et ainsi de suite jusqu’à ce que tous aient écrit leur phrase. A la fin Breton lisait la
page qui en résultait et cette création était le produit poétique, était considéré l’oeuvre d’art produit
sans le contrôle de la raison, l’automatisme psychique souhaité. Une écriture donc complètement basée
sur la libre association d’images, traduction immédiate, c’est-à-dire non réglée par la raison, de la
surréalité. Un procédé inspiré bien sûr par la pratique psychanalitique, où le médecin demande au
patient de raconter ses rêves par le mécanisme justement des libres associations.
Nadja, livre publié en 1928, est le chef d’oeuvre du surréalisme, écrit par le fondateur du mouvement,
dont la caractéristique principale est justement celle d’être un roman qui met en question la notion
même de roman. Il est construit sur la figure de cette femme que le narrateur, qui correspond en ce cas
à l’auteur – le narrateur est le même Breton qui parle à la première personne – femme donc que le
narrateur rencontre à un moment donné de sa vie. Le livre raconte cette rencontre, ou pour mieux dire
la série de rencontres entre Breton et Nadja, série de rencontres qui représente la structure de la
narration, narration à travers laquelle il se forme un portrait de la femme en question, peint à travers les
phrases qu’elle prononce et les gestes qu’elle fait. Il s’agit d’une femme qui pense et qui agit
complètement en dehors ou au delà de la morale au sens traditionnel du terme, et cela représente son
idée de liberté, elle est en effet une femme libre de ce point de vue et elle le reste jusqu’au jour où elle
est enfermé dans un hôpital psychiatrique, parce qu’elle vient jugée selon les critères de la morale
traditionnelle justement et des préjugés sociaux. Nadja, qui s’appelait Léona Camille Ghislaine D. mais
qui se faisait appeler Nadja parce que c’est la première partie du mot russe qui signifie espérance, fut
effectivement enfermée dans un asyle psychiatrique et y termina sa vie.
Il s’agit d’un livre d’une intensité extraordinaire et un de ses aspect les plus intéressants consiste dans
le fait que, même si le livre a pour titre le nom de la femme dont il parle pour une partie importante des
pages qui le composent, il est en réalité la réponse à une question, question par laquelle le livre
commence, c’est-à-dire “Qui suis-je?”. L’auteur, Breton se demande qui il est et écrit ce livre intitulé
Nadja pour répondre à cette question. Le livre donc n’est pas un livre sur la femme mais un travail de
l’auteur sur lui-même, sur le sens et l’essence de son identité. Et on peut dire que le message par lequel
le livre se termine est en quelque sorte la réponse à cette question, réponse à laquelle Breton peut
parvenir grâce à la rencontre qu’il a eue avec Nadja, femme dans laquelle lui, le fondateur du
surréalisme, a vu l’incarnation des principes sur lesquels pose le mouvement surréaliste.
Dans ce livre nous assistons à une subversion totale par rapport aux notions conventionnelles, pour les
surréalistes en effet les contraires coincident et réalisent une synthèse à un niveau supérieur qui permet,
qui donne lieu à l’accès à cette dimension autre, à cette réalité alternative et plus complète, qui contient
en elle aussi son contraire, réalité à laquelle ils donnent donc le nom de surréalité. Il est évident qu’en
tout cela un poids très important est représenté par la découverte de l’inconscient, Breton connaissait
les travaux de Freud, il se rendit même à Vienne pour le rencontrer, il est sûr qu’il y a eu un rapport
d’influence réciproque et symétrique entre surréalisme et psychanalise. Il faut ajouter tout de même
qu’à un moment donné il y eut divergence entre les deux mouvements parce que pour Breton et les
surréalistes le langage de l’inconscient est intéressant en tant que tel et ne nécessite pas d’une
interprétation, peut être considéré création artistique et même ne doit pas être interprêté par la raison,
alors que pour Freud le moment de l’interprétation est fondamental pour la réussite de la thérapie, pour
la psychanalise le rêve, donc le langage de l’inconscient, doit être interprêté dans le but de soigner le
patient, parce que ses finalités sont thérapeutiques.
Notice biographique sur André Breton.
Né à Tinchebray dans l’Orne en Basse Normandie le 18 février 1896, il mourut à Paris en 1966. Il fit
des études à Paris de neuropsychiatrie, pendant la première guerre mondiale il prêta service dans des
hôpitaux psychiatriques, il fut assigné à l’assistence des soldats qui revenaient du front, qui dans le
conflit avaient été blessés et qui avaient eu des conséquences à un niveau nerveux, de troubles
nerveuses. La lecture des textes de Freud et les rapports avec Guillaume Apollinaire ont été très
importants, déterminants même, pour son évolution. A la fin de la guerre en effet il se mit à pratiquer,
promouvoir et théoriser des expériences de dissociation psychique, automatisme de l’écriture et autres,
voyages aux frontières de la conscience, que certains groupes de l’avant-garde littéraire et artistique
commencèrent à trouver intéressants. Il fut donc acheminé dans cette direction, de l’avant-garde
littéraire, et il fonda avec Louis Aragon et Philippe Soupault la revue Littérature en 1919, commençant
tout de suite après à expérimenter réelllement l’écriture automatique dans des buts littéraires avec
Soupault, expériences qui aboutirent à la publication d’un texte, écrit donc à quatre mains avec
Soupault, intitulé Les Champs magnétiques (en 1923). Breton était dèjà en contact à l’époque avec
Tristan Tzara et le groupe des dadaistes, en 1921 il s’était rendu à Vienne pour connaître Freud, en
1924 il fonda avec Robert Desnos et Paul Elaurd, avec les peintres Francis Picabia et Max Ernst, la
“Centrale de recherche surréaliste”, et la même année donc il publia le texte fondateur du mouvement,
c’est-à-dire le Premier Manifeste du Surréalisme, qui contient comme vous le savez déjà la définition
du mot (“automatisme psychique pur par lequel on se propose d’exprimer, soit verbalement, soit par
écrit, soit de toute autre manière, le fonctionnement réel de la pensée. Dictée de la pensèe en l’absence
de tout contrôle exercé par la raison, en dehors de toute préoccupation esthétique ou morale”).
Les années qui suivent sont difficiles quant aux rapports avec les mouvements politiques de gauche et
en particulier avec le parti communiste français auquel Breton avait précedemment adhéré et avec
lequel il rompit définitivement en 1933. Il publie en ces années là Les pas perdus (1924), Légitime
défense (1926), Nadja (1928) et L’immaculée conception écrit avec Paul Eluard en 1930, et qui traduit
une expérience de simulation des différentes pathologies du langage. Après la rupture avec Aragon
pour des raisons essentiellement politiques, il continue à une échelle désormais internationale à remplir
la fonction de pape et dictateur du mouvement surréaliste, dictateur dans le sens que c’était lui qui
décidait qui pouvait et qui ne pouvait pas rester à l’intérieur du mouvement, il pouvait décider en
somme que quelqu’un était à excommunier, à chasser, attitude qui n’était pas bien vue évidemment par
ceux qui étaient exclus et qui a été très fortement et à juste titre critiquée, c’est l’aspect négatif du
mouvement.
Dans les années qui précédèrent la deuxième guerre mondiale, Breton publia quelques uns de ses livres
les plus connus: Les vases communicants (1932), L’Amour fou (1937) et L’Anthologie de l’humour
noir (1937 aussi). En 1940, au moment de l’occupation de la France par l’Allemagne, Breton passe aux
Etats Unis en exil volontaire, attitude qui a été celle-là aussi très critiquée, le fait de ne pas rester en
France pour combattre de l’intérieur les occupants, et aux Etats Unis il fonda avec Marcel Duchamps et
Max Ernst la revue VVV. Nous en sommes là à la deuxième phase de la vie du mouvement surréaliste.
Après la fin de la guerre et le retour en France, Breton continua avec son activité culturelle toujours
dans le signe de l’avant-garde, et il publia un bilan de la décennie précedente dans un texte intitulé La
clé des champs (1953). Il essaya ensuite de faire repartir le mouvement pour une troisième phase dans
les dernières années de sa vie, mais la force propulsive en était éteinte dans le sens que le témoin était
passé aux néo-avant-gardes, filles du surréalisme (Tel Quel, Nouveau Roman, Oulipo). Il mourut en
1966.
Voici les traits essentiels du Premier Manifeste:
– éloge de l’IMAGINATION
– éloge du RÊVE
– éloge du MERVEILLEUX
trois lieux de la surréalité, domaines qui sont ouverts à tous, et c’est la poésie qui en indique le chemin,
la poésie pratiquée suivant une certaine méthode, celle de l’AUTOMATISME dont Breton donne la
définition;
– procès du RÉALISME dont Breton a horreur parce qu’il ne le voit fait que de médiocrité
– procès du ROMAN, de la production engendrée par ce réalisme là, devenu forme privilégiée de la
littérature et où les auteurs ajoutent à longueur de pages au néant des descriptions minutieuses le néant
des caractères. Là tout est indifférent à Breton, c’est une matière qui ne l’ intéresse pas, parce que il n’y
est pas vraiment question de l’homme et de sa destinée
– procès de la LOGIQUE: pourquoi, Breton se demande-t-il, ce roman là est devenu la forme quasi
universelle de la littérature? Parce qu’il répond à l’appétit de logique de ceux qui le lisent et qu’il n’est,
chez celui qui le fabrique, que la mise en oeuvre de facultés logiques;
– négation du TALENT, les surréalistes sont les premiers à proclamer qu’ils n’ont pas de talent, que le
talent n’existe pas (“nous sommes des modestes appareils enregistreurs” de la voix de l’inconscient).
Et ils affirment en effet “le moi est plus ici qu’ailleurs haïssable”: le poète à l’écoute de son inconscient
est-il pour quelque chose dans la richesse de celui-ci? Tous sont poètes dès qu’ils acceptent de se
mettre à l’écoute de leur inconscient. Tous peuvent pratiquer cet art magique, la recette en est d’une
dérisoire simplicité, le surréalisme, disent les surréalistes, est à la portée de tous les inconscients.
Nous pourrions hasarder l’hypothèse que si nous nous mettons à essayer de produire un texte
surréaliste suivant par exemple la méthode du cadavre exquis, soit nous arrivons vraiment à nous
mettre à l’écoute de notre inconscient, soit nous produirons une imbécillité. Le mot n’est pas de moi,
est de Louis Aragon qui dans son Traité du style publié en 1928 dit à ce sujet: “Le surréalisme est (…)
une faculté qui s’exerce. Normalement limitée par la fatigue. D’une ampleur variable suivant les forces
individuelles. Et dont les résultats sont d’un intérêt inégal… Ainsi le fond d’un texte surréaliste importe
au plus haut point, c’est ce qui lui donne un précieux caractère de révélation. Si vous écrivez, suivant
une méthode surréaliste, de tristes imbécillités, ce sont de tristes imbécillités. Sans excuses…”.
C’est dire que les résultats seront de qualité différente non en raison de talents différents mais de
natures diversement riches (si nous avons un inconscient riche le texte qui en résultera sera riche, si
notre inconscient est pauvre ou muet le résultat sera pauvre ou même inexistant: ce qui signifie en
réalité que si nous saurons nous mettre à l’écoute de nostre inconscient, notre produit sera de haut
niveau; le contraire se produira si nous ne saurons pas donner voix à notre inconscient).
L'aventure surréaliste
Encore quelques renseignements. Résumons et reprenons.
En mars 1919, trois jeunes poètes, André Breton, Louis Aragon et Philippe Soupault lancent une
nouvelle revue, Littérature, dans laquelle paraît le premier texte surréaliste: "Les Champs
magnétiques".
Ces jeunes gens ont en commun le culte d'Apollinaire et sont pénétrés de" l'esprit nouveau " . Ils ont
participé à la rédaction de Sic et de Nord-Sud, revues novatrices par l'originalité de la typographie et
l'importance qu'elles accordent aux arts plastiques.
Les valeurs traditionnelles de l'art et de la littérature se trouvent brusquement contestées par ces
jeunes artistes en quête d'autre chose...
André Breton, qui admire l'humour nihiliste de Jacques Vaché, est en relations épistolaires avec Tristan
Tzara qui apparaît très vite comme le chef de file d'un mouvement littéraire nouveau, nommé par
dérision Dadaïsme, mouvement en révolte ouverte contre l'hypocrisie de toutes les valeurs qui ont
conduit aux massacres de 1914 - 1918 .
Une révolte similaire anime au même moment à New-York deux jeunes peintres : Francis Picabia et
Marcel Duchamp, qui remettent en cause les principes traditionnels de la peinture et de la sculpture...
Ils se rallient au Dadaïsme.
A la fin de la guerre tous se retrouvent à Paris. En 1920 arrive Tristan Tzara, accueilli dans
l'enthousiasme : rencontre " explosive " ...
Paris devient le centre d'un mouvement de contestation sans précédent : durant deux années, scandales,
manifestes, provocations se succèdent... Y participent les peintres et sculpteurs dadaïstes, dont Hans
Arp et l'artiste américain Man Ray, déjà connu pour ses photographies; aux trois fondateurs de
Littérature se joignent très vite les poètes Paul Eluard, Benjamin Péret et Robert Desnos.
Tout ce groupe d'artistes cherche à tourner en dérision les valeurs traditionnelles sur lesquelles repose
la société, art y compris.
Très vite toutefois ce nihilisme à tous crins ne satisfait pas pleinement les amis d'André Breton qui
conduisent une recherche plus constructive. Déjà, en 1919, Breton et Soupault avaient rédigé
conjointement " Les Champs magnétiques " suivant le procédé de l'écriture automatique : cette
méthode, utilisée par les psychiatres freudiens pour libérer le contenu de l'inconscient, avait été
signalée à l'attention de Breton alors qu'il effectuait ses études de médecine.
On décide d'appliquer cette technique à l'écriture et on constate très vite que le langage issu des
profondeurs inconscientes de l'être est d'une richesse métaphorique incomparable.
D'autres modes d'accès à l'inconscient sont explorés : étude des rêves, des états hypnotiques etc.
L'enthousiasme que suscite la richesse des possibilités entrevues n'est pas partagé par Tristan Tzara. Le
désaccord aboutit à une rupture en 1922 ; le numéro 2 de Littérature contient cette injonction de Breton
: " lâchez Dada ".
La nouvelle orientation du groupe va très vite être définie : André Breton en est le principal théoricien,
avec Benjamin Péret, Philippe Soupault, ainsi que les peintres Picabia et Max Ernst. Ce dernier
immortalise le petit noyau des fondateurs dans son célèbre tableau " Au rendez-vous des amis ".
Quelles sont donc les grandes options autour desquelles se réunissent ces artistes ?
Au coeur du mouvement, la révolte - héritée du Dadaïsme - conserve une place prépondérante: remise
en question de la toute-puissance de la raison et de la logique traditionnelle... que viennent du reste
d'égratigner les contenus de l'enseignement freudien et les théories d'Einstein ! On conteste aussi tous
les tabous sociaux: religieux, moraux, sexuels... ainsi que l'art qui en est le reflet.
A la différence du Dadaïsme, toutefois, on mène une recherche constructive : il s'agit de s'employer à
faire émerger les forces comprimées ou occultées par la raison et les tabous : imagination, intuition,
désir... L'art devient une aventure intérieure dont la finalité est la libération des capacités " poétiques "
de l'être humain ( le terme de "poésie " désignant ici l'ensemble des facultés opprimées ).
Dans son " Manifeste du Surréalisme ", paru en 1924, Breton définit en ces termes la démarche de son
mouvement :
" (...) Le surréalisme repose sur la croyance à la réalité supérieure de certaines formes d'associations
négligées jusqu'à lui..."
Cette démarche s'appuie sur les expériences collectives menées par les peintres et les poètes du
mouvement, qui mettent en lumière le langage souterrain de l'inconscient.
L'analyse de ce " sous-texte " met en évidence son pouvoir libérateur : l'image qui, selon la définition
du poète Pierre Reverdy, permet " le rapprochement de deux réalités plus ou moins éloignées ",
réconcilie le conscient et l'inconscient. Imagination, désir, goût du merveilleux peuvent être intégrés à
la vie quotidienne : l'homme réunifié est enfin libre !
Si le langage est le premier outil des Surréalistes, les autres arts n'en sont pas moins conviés à
l'exploration des secrets de l'Esprit : les méthodes restent à mettre en place...
Le " Manifeste du Surréalisme " expose les valeurs fondamentales du mouvement.
Elles feront l'objet d'approfondissements ultérieurs : on pourra mettre l'accent sur l'une ou l'autre selon
les nécessités de l'heure... mais André Breton veillera toujours à leur maintien absolu, quel qu'en soit le
prix à payer ( exclusions etc. ). Il représente en quelque sorte le "pilier " de ce mouvement et l'évolution
des groupes successifs qui gravitent autour de lui se confond avec celle du Surréalisme.
De 1924 à 1929, le groupe initial (sans Picabia qui prend ses distances à la publication du Manifeste)
s'élargit grâce à de multiples adhésions. La rencontre en 1924 entre Breton et le peintre André Masson
amène la participation d'écrivains tels que Michel Leiris et Antonin Artaud, et, peu après, celle de Joan
Miro ( ce dernier présentera Salvador Dali à Breton en 1928 ). Yves Tanguy, peintre également, rejoint
le groupe après sa rencontre avec Robert Desnos. Quant à René Magritte il adhérera au groupe de 1927
à 1930, lors de son séjour à Paris.
Deux autres peintres, en relation avec le groupe, seront considérés comme des "initiateurs" : Pablo
Picasso qui " chasse dans les environs " ( selon l'expression de André Breton ), et Giorgio de Chirico,
dont les toiles empreintes d'onirisme ont inspiré Max Ernst et profondément marqué Yves Tanguy et
René Magritte.
Ce groupe aux personnalités fortes et diverses doit sa cohésion à son adhésion sans restrictions aux
principes de base du Surréalisme mais aussi à la discipline de groupe instaurée par André Breton,
discipline d’ailleurs peu appréciée par certains, à cause de son rigueur.
Un Bureau de recherches surréalistes est ouvert pour recueillir les récits et les témoignages du public :
rêves, coïncidences etc. La revue Littérature fait place à La Révolution Surréaliste, dans laquelle on
relate les expériences collectives du groupe : on y trouve des réflexions sur l'amour, l'humour, des
enquêtes aussi ( ainsi :" Le suicide est-il une solution?"). Les lecteurs sont invités à dépasser nombre
d'interdits.
Plus que jamais les membres du groupe pratiquent l'écriture automatique, l'analyse des rêves, le
langage parlé sous hypnose. Les "jeux" collectifs occupent également une place importante: le
"cadavre exquis" par exemple (composition sur papier plié d'une phrase ou d'un dessin par plusieurs
participants qui ignorent ce que les autres ont inscrit).
Eluard évoque ces séances dans " Donner à voir " ( 1939 ) :
" ( ... ) C'était à qui trouverait plus de charme, plus d'unité, plus d'audace à cette poésie déterminée
collectivement ( ... ).
Nous jouions avec les images et il n'y avait pas de perdants. Chacun voulait que son voisin gagnât et
toujours davantage pour tout donner à son voisin..."
Moments de fête, de partage qui ont lieu tantôt au domicile de l'un tantôt à celui de l'autre: rue
Fontaine, chez Breton; à l'atelier de la Cité des Fusains, où habitent Ernst, Eluard, Hans Arp et Miro...
A partir de 1925, après l'adhésion au mouvement de Jacques Prévert et Raymond Queneau, des soirées
inoubliables auront lieu chez Marcel Duhamel, rue du Château.
Quelques scandales ponctuent cette période : un des plus remarquables se produit lors du dîner donné
en 1925 en l'honneur du poète Saint-Pol-Roux, que les Surréalistes considèrent comme un précurseur
de génie.
L'Intransigeant - 4 juillet 1939
LA VIE LITTERAIRE
Saint-Pol-Roux à Paris
“Un dîner en l'honneur de Saint-Pol-Roux n'est, certes, pas chose commune. On se souvient encore - et
l'histoire littéraire anecdotique en conservera longtemps le souvenir - du dernier qui eut lieu à la
Closerie des Lilas en 1925, dîner où les Surréalistes cassèrent force vaisselle et brisèrent maints
carreaux. Un seul écrivain n'avait pu se résoudre à venir ainsi flétrir la majesté de celui qui, au temps
du Symbolisme, mérita le surnom de Magnifique. Aussi Paul Eluard, affectueux et discret, s'était-il fait
représenter par une magnifique gerbe de lys”.
(on reviendra plus loin sur ce banquet)
Les pérégrinations dans Paris représentent aussi des occasions d'échanges, notamment sur la notion de
"hasard objectif", lieu de rencontre entre les désirs ( conscients ou non ) et la réalité du quotidien.
Le groupe partage aussi l'amour du cinéma ; leurs fréquentations des salles est tout à fait singulière : ils
entrent, sortent, sans s'occuper de l'intrigue, mais ramènent une provision d'images qui enrichit leur
création. Le cinéma leur paraît particulièrement apte à transcrire rêves et désirs; ils écrivent des
scénarios, font paraître des articles critiques. Man Ray réalise le film " Etoile de mer " ( scénario de
Desnos ), mais les films de Luis Bunuel ( " Un chien andalou ", " L'âge d'or " ) sont presque les seuls
témoignages de ce qu'auraient pu être les réalisations surréalistes.
En 1925, on pose le problème : la peinture surréaliste est-elle possible ? La réponse va bien sûr venir
des peintres eux-mêmes. Cette même année, Max Ernst découvre un procédé qui est une sorte de
transposition en peinture de l'écriture automatique : le frottage. Il développe également la technique du
collage qui, faisant coexister à l'intérieur d'une même toile des éléments étrangers les uns aux autres,
suscite des rapprochements inattendus, analogues aux métaphores poétiques.
André Masson et Miro, avec leur technique de projection de colle ( ou d'autres matériaux ) inventent
des procédés originaux.
Tanguy, Arp, Ray, Magritte, chacun, à sa manière, participe à l'élaboration de la peinture surréaliste.
Dans son ouvrage critique Le Surréalisme et la Peinture ( 1928 ), André Breton donne en exemple ces
pionniers et précise que le peintre doit avant tout choisir "un modèle purement intérieur".
La méthode " paranoïaque - critique " de Dali - culture de ses fantasmes – confirme avec éloquence
l'existence d'une peinture surréaliste.
C'est une période extrêmement féconde pour tous les arts... pour ne citer que quelques productions
littéraires: Le Paysan de Paris ( Aragon, 1926 ); Nadja ( Breton, 1928 ); La liberté ou l'amour (Desnos,
1927 ); Capitale de la Douleur , L'amour la poésie ( Eluard, successivement : 1926 et 1929 ).
Les écrivains préfacent les catalogues de nombreuses expositions qui témoignent de la vitalité des arts
plastiques. Une exposition collective a lieu dès 1925 : " Le Carnaval d'Arlequin " (Miro, 1924 ), " Les
Quatre Eléments " ( Masson, 1923 ) et " La femme 100 têtes " ( Ernst, 1927 ): quelques titres parmi
beaucoup d'autres.
Si Paris est le foyer du Surréalisme, d'autres groupes se constituent : en Yougoslavie, en Belgique, en
Suède et même au Japon. C'est le début d'une internationalisation du mouvement ( qui ne fera que
s'accroître car il est en pleine expansion ).
Les préoccupations politiques, cependant, vont peu à peu créer des dissensions au sein du groupe : les
Surréalistes sont attirés par la transformation sociale que propose le Marxisme; la dialectique leur
semble par ailleurs une méthode appropriée pour dépasser les contradictions ( rappelons-nous que ceci
est une des finalités du mouvement surréaliste : réunifier l'homme, le réconcilier avec lui-même ).
Un dialogue s'instaure avec les Communistes. Aragon, Breton, Péret, Eluard adhèrent au parti. Breton
n'y reste pas : l'embrigadement intellectuel lui semble incompatible avec le Surréalisme. Ce qui
entraîne des ruptures douloureuses au sein du groupe : Artaud, Soupault, puis Masson et Desnos sont
ainsi exclus.
Le Second Manifeste du Surréalisme qui paraît dans la revue fin 1929 est une sévère mise au point :
refus des compromissions commerciales, de la soumission de l'art à un parti... Ce texte donne aussi une
définition plus approfondie de la mission du Surréalisme : celle-ci consiste à débusquer "un certain
point de l'esprit " d'où toutes les contradictions seraient résolues. Les moyens proposés sont l'utilisation
de la dialectique et la confrontation du Surréalisme avec l'ésotérisme.
La nouvelle revue Le Surréalisme au service de la Révolution rappelle que l'art authentique est
révolutionnaire par essence : l'artiste, en effet, qui cherche à libérer son inconscient libère celui des
autres et la transformation du langage tôt ou tard entraînera une mutation dans les structures de la
société.
Ces convictions, affirmées avec beaucoup de force, orientent les recherches du mouvement pendant les
dix années qui vont suivre ( jusqu'en 1939 ).
Un nouveau groupe se forme autour d'André Breton et de ses fidèles : René Char, Julien Gracq, Tristan
Tzara - qui se rapproche maintenant des Surréalistes-, l'Anglaise Leonora Carrington ...
Bunuel et Dali sont entrés récemment dans le cercle. Les adhésions les plus nombreuses viennent des
peintres et sculpteurs étrangers attirés par le rayonnement du Paris de cette époque : Giacometti et Kurt
Seligmann, Victor Brauner, Wolfgang Paalen, Jacques Herold ( Europe ). Viennent des Canaries Oscar
Dominguez, du Chili Roberto Matta, de Cuba Wilfredo Lam (qui enthousisame Picasso ); l'Américaine
Kay Sage, peintre et poète, rejoint aussi le groupe ( elle deviendra l'épouse du peintre Tanguy ).
Tous ces artistes vont accomplir un travail considérable. En peinture, on utilise la technique de
l'automatisme ( Ernst, Masson...). Dominguez invente la " décalcomanie sans objet préconçu " et crée
des paysages fantastiques. Paalen interprète les traces laissées sur une surface par la flamme d'une
bougie : c'est le " fumage ". Victor Brauner se penche sur les métamorphoses de l'être; ses toiles
expriment ses pressentiments : ainsi exécute-t-il en 1931 un " Autoportrait " qui préfigure l'accident qui
le défigurera en 1938 .
L'unité d'esprit entre poètes et peintres est réaffirmée : Victor Brauner parle de " picto-poésie ".
La revue Minotaure lancée en 1933 par Albert Skira devient l'organe officiel du Surréalisme : l'accent y
est mis sur la recherche de l'insolite dans la démarche artistique.
De nombreux objets surréalistes ( liés au concept de désir, fruits des rêves, des fantasmes...) voient le
jour et on crée des poèmes-objets. Une exposition collective de 1936 rassemblera les fruits de ces
travaux.
Ernst poursuit ses romans-collages et Giacometti crée des sculptures-objets comme "L'objet invisible ".
Parmi les oeuvres littéraires citons : Les Vases communicants, L'Amour Fou ( Breton, successivement :
1932 et 1937 ), La Vie Immédiate et Les Yeux fertiles ( Eluard, 1932 et 1936 ); de René Char paraît en
1934 Le Marteau sans Maître .
On pratique l'écriture collective, ainsi Ralentir Travaux ( de Breton, Char et Eluard, 1930).
A l'étranger, l'audience du Surréalisme s'accroît de plus en plus : de 1935 à 1938 Breton et Eluard y
contribuent grandement, multipliant les conférences et veillant à maintenir la même ligne directrice
dans les différents pays. En 1935 une Exposition Internationale a lieu à Prague et une autre à Tokyo en
1937.
A l'Exposition Internationale de Paris, en 1938, 14 pays sont représentés. Comme pour chacune des
expositions, c'est le résultat d'un travail collectif. Cette année-là, l'atmosphère créée exprime l'angoisse
des artistes qui pressentent le terrible cataclysme (ils n'ont du reste cessé de se mobiliser durant les dix
années précédentes – tracts, revues, articles, manifestations – pour tenter d'enrayer la montée du
fascisme).
Des divergences sur les actions à mener entraînent de nouvelles ruptures : Aragon est exclu en 1932 et,
peu avant la guerre, Eluard prend ses distances avec le groupe.
Le manifeste rédigé par Trotsky et Breton – chargé de mission au Mexique en 1938 – révèle bien la
position du Surréalisme; il se termine ainsi :
" Ce que nous voulons : l'indépendance de l'art - pour la révolution.
La révolution - pour la libération définitive de l'art. "
La seconde guerre mondiale disperse les Surréalistes. Contraints de s'exiler, certains se retrouvent à
New-York en 1941. Un groupe se reconstitue autour d'André Breton : Tanguy, Kay Sage, Matta,
Carrington, Ernst, Duchamp, Masson et Man Ray.
Un des premiers effets de cette "implantation" est la diffusion du Surréalisme aux Etats-Unis, à la
Martinique, après la rencontre de Césaire et Breton, et en Amérique Latine. C'est sur le sol américain
que les positions surréalistes vont converger en une vaste synthèse. La revue VVV, fondée en 1942,
accorde une place aux recherches les plus récentes, surréalistes bien sûr, mais aussi sociologiques,
ethnologiques etc.
La rencontre de Breton avec Elisa, inspiratrice de Arcane 17 ( 1947 ), sa découverte de l'art indien, tout
cela – et bien d'autres éléments – va contribuer à la tentative d' élaboration d'une mythologie. Dans les
Prolégomènes à un troisième manifeste ou non, que publie la revue en 1942, Breton entrevoit une
synthèse des grands archétypes de l'humanité , qui constituerait un mythe collectif puissant et
libérateur.
De la fin de la guerre à sa mort, en 1966, Breton se consacrera à ce vaste projet .
L'approfondissement des intuitions du Surréalisme, la recherche de "ses" manifestations dans les
oeuvres du passé ( celles qui ont échappé à l'emprise du rationalisme gréco-romain ), les diverses prises
de position contre toutes tentatives d'oppression : autant de "matériaux" utilisables pour l'élaboration du
Mythe.
En 1947 l'Exposition Internationale de Paris est conçue comme un cycle d'épreuves rituelles. Un
groupe de liaison – " Cause " – est créé pour recueillir les éléments du Mythe à travers le monde.
L'orientation vers l'ésotérisme, également, s'affirme de plus en plus. Par ailleurs, les Surréalistes
découvrent l'art gaulois et les légendes celtiques avec lesquels ils se sentent en affinité.
Les thèmes des différentes expositions mettent bien en évidence ces divers centres d'intérêts. En 1959,
la thématique Eros insiste sur la place privilégiée de la femme, perçue comme une sorte de médium
entre le réel et le surréel... ( trois ans plus tôt, Benjamin Péret avait publié : Anthologie de l'Amour
Sublime )
La XIème Exposition Internationale de 1965, à Paris, est un hommage rendu au philosophe visionnaire
Charles Fourier. Sur le thème de" L'Ecart Absolu " , elle prône le maintien de l'esprit de révolte, seul
capable de conquérir la liberté ( les Surréalistes ont toujours pris position contre tous les absolutismes
et forces de réaction , quels qu'ils soient ).
La mort d'André Breton en 1966 met fin à l'aventure surréaliste (peut-être pas à ce rêve de grand
Mythe libérateur auquel il avait consacré ses dernières forces, somme toute assez seul, très calomnié,
honnête cependant, auquel d’autres essayèrent de donner une suite: sur l’existence d’un surréalisme
après la mort de Breton, les critiques ne cessent de se quereller. C’est de toute manière une autre
histoire).
Revenons à Littérature et à La Révolution surréaliste
Les sites pour consulter ces revues:
http://melusine.univ-paris3.fr/Litterature/litteratureIndex.htm
http://melusine.univ-paris3.fr/Revolution_surrealiste/Revol_surr_index.htm
Nous avons souligné l’importance des liens établis par les surréalistes entre parole et image, ce qui
fonde en effet le langage des rêves par exemple, mais aussi en général celui de la poésie, et nous avons
vu, disons plutôt que je vous ai dit, comment dans un des chefs d’oeuvre du premier surréalisme,
Nadja, Breton remplace les longues descriptions qu’il déteste par l’insertion de desseins ou alors de
photos, d’images donc.
Je reviens sur cela pour vous indiquer celle qui est une des caractéristiques de principale distinction des
revues surréalistes des autres que nous avons parcourues jusqu’ici: si les autres revues sont
caractérisées par une longue vie qui dure plusierurs siècles, tout en changeant parfois d’une époque à
l’autre, les revues surréalistes se signalent pour une vie courte.
En raison des caractères qui lui sont propres (au surréalisme), de provocation, d’évolution très rapide,
c’est à dire les caractères qui définissent tout mouvement d’avant-garde, c’est normal qu’il s’agisse de
revues qui naissent et meurent très rapidement.
En même temps, intermédiaire entre le tract et le livre-texte-image, la revue reste le support préféré des
surréalistes. Elle autorise la plus grande diversité, accueille naturellement des textes courts et des
enquêtes. Elle est, plus facilement que le livre, une œuvre collective. Enfin, elle est l'outil irremplaçable
de la polémique.
Les « trois mousquetaires » de 1919 (Aragon, Breton, Soupault) ont l'ambition de faire du neuf et ont
dégagé des leçons de quelques antécédents : la revue Maintenant (1912-1915) d'Arthur Cravan, poète
et boxeur ; Nord-Sud (1917-1918) de Pierre Reverdy qui a déjà beaucoup dit sur le rôle déterminant de
l'image pour « créer une réalité poétique » ; Sic (1916-1919) de Pierre-Albert Birot qui publie
Apollinaire aussi bien qu'André Breton lui-même.
Contrairement aux grandes revues « installées » (Le Mercure de France, ou la Nouvelle Revue
française), les revues surréalistes seront toujours éphémères, les cinq années de La Révolution
surréaliste constituant un maximum de longévité. C'est lorsque s'interrompt Nord-Sud que Breton et
ses amis lancent leur première revue, Littérature, dont le titre est ironiquement choisi par Paul Valéry
(dans Moralité il écrit “Il ne faut appeler Science que l’ensemble de recettes qui réussissent toujours.
Tout le reste est littérature”). Littérature connaîtra deux séries. La première (20 livraisons de 1919 à
1921) se partage entre des publications traditionnelles (Gide, Valéry, Fargue...) et des hardiesses
caractéristiques des valeurs nouvelles : les Poésies d'Isidore Ducasse, des Lettres de Jacques Vaché,
des fragments des Champs magnétiques par Breton et Soupault, première incursion véritable sur les
voies de l'écriture automatique...
Bientôt, Littérature ouvre ses pages à Dada, avec 23 Manifestes du mouvement dada, La Deuxième
Aventure de M. Antipyrine, qui accélèrent et radicalisent la subversion recherchée par le groupe initial.
On se met (dans le numéro 18) à noter les écrivains : Breton et Soupault obtiennent les meilleures
notes, Henri de Régnier et, ex aequo, Anatole France et Foch les plus mauvaises ! « [...] notre but »,
précisent les auteurs, « étant non de classer, mais de déclasser ».
A propos de la première série nous nous arrêterons sur la publication des Chants de Maldoror et nous
dirons quelques mots à propos de l’Affaire Barrès dont le dossier est publié dans le dernier numéro (le
20) de la première série.
Pour introduire Maldoror, en raison du fait que la publication des Chants par la revue est une action qui
a une forte valeur symbolique, il faut lire un passage du Premier Manifeste, là où Breton fait la liste des
écrivains et artistes qui ont annoncé au de-là des siècles, dans le passé, l’éclosion du surréalisme (si
c’est vrai que l’avant-garde va contre la tradition, ce n’est pas juste d’affirmer que Breton et le
surréalisme ont effacé d’un seul trait toute la littérature du passé). Voici le passage:
“Rimbaud surréaliste dans la pratique de la vie et ailleurs
Lautréamont le premier a avoir fait acte de surréalisme absolu”
Je cite aussi quelques uns des autres auteurs de la liste, et les raisons de leur pré-surréalisme:
Baudelaire: pour l’imagination «reine des facultés »;
Marquis de Sade: « surréaliste dans le sadisme;
Lewis Carroll: « surréaliste dans le nonsense »;
Edgar Allan Poe: « surréaliste dans l’aventure »;
Guillaume Apollinaire: inventeur de l’adjectif « surréaliste » dans la préface Les Mamelles de Tirésias;
Alfred Jarry: « surréaliste dans l’absinthe »;
Jacques Vaché: « surréaliste en moi » (c’est Breton qui écrit).
En ce qui concerne Rimbaud, très rapidement, c’est la lettre du voyant qui a déterminé l’admiration des
surréalistes (avec bien sûr sa poésie toute entière). Une lettre écrite le 15 mai 1871 à Paul Démeny et
dans laquelle il dit:
“Car JE est un autre. Si le cuivre s'éveille clairon, il n'y a rien de sa faute. Cela m'est évident. J'assiste à
l'éclosion de ma pensée : je la regarde, je l'écoute : je lance un coup d'archet : la symphonie fait son
remuement dans les profondeurs, ou vient d'un bond sur la scène.
Si les vieux imbéciles n'avaient pas trouvé du Moi que la signification fausse, nous n'aurions pas à
balayer ces millions de squelettes qui, depuis un temps infini, ont accumulé les produits de leur
intelligence borgnesse, en s'en clamant les auteurs !”
Et plus loin dans la même lettre:
“ Je dis qu'il faut être voyant, se faire voyant.
Le poète se fait voyant par un long, immense et raisonné dérèglement de tous les sens. Toutes les
formes d'amour, de souffrance, de folie ; il cherche lui-même, il épuise en lui tous les poisons, pour
n'en garder que les quintessences. Ineffable torture où il a besoin de toute la foi, de toute la force
surhumaine, où il devient entre tous le grand malade, le grand criminel, le grand maudit, - et le suprême
Savant ! - Car il arrive à l'inconnu ! - Puisqu'il a cultivé son âme, déjà riche, plus qu'aucun ! Il arrive à
l'inconnu ; et quand, affolé, il finirait par perdre l'intelligence de ses visions, il les a vues ! Qu'il crêve
dans son bondissement par les choses inouïes et innommables : viendront d'autres horribles travailleurs;
ils commenceront par les horizons où l'autre s'est affaissé!”
En ce qui concerne Lautréamont, si vous ne connaissez pas Les Chants de Maldoror il faut en dire deux
mots avant de vous expliquer ce que Breton en a fait dans sa revue:
Le Comte de Lautréamont s’appelait de son vrai nom Isidore Ducasse. Né de parents français, à
Montevideo (Uruguay), le 4 avril 1846 le jour de la saint Isidore. Son père était chancelier à
l'ambassade. Isidore vient en France en 1859 pour y poursuivre ses études, au collège de Tarbes puis au
lycée de Pau, où il est interne. Il se rend à Paris pour préparer l'Ecole Polytechnique. A l'âge de 22 ans,
sous le pseudonyme qu’ils’est choisi de Comte de Lautréamont, il publie à compte d'auteur le premier
des Chants de Maldoror, un ouvrage en prose poétique, qui passe complètement inaperçu (août 1868).
Le volume complet sortira durant l'été 1869. Puis, sous le titre Poésies, il publie encore deux fragments
de préface pour "un livre futur" mais qui n'a jamais été écrit. Il meurt phtisique en 1870 à son domicile
du 7 Faubourg-Montmartre.
Au début des Chants, Maldoror, le héros représenté sous une apparence humaine, incarne les misères et
les angoissantes questions ontologiques de son créateur. Il nous apparaît "pâle, livide, le sang appauvri,
la bouche livide, fiévreux". Sa lucidité paroxystique lui fait voir de manière exacerbée la souffrance de
l'humanité, les guerres et les maladies qui la ravagent incessamment. Impuissant devant la tragédie
humaine, il devient désespéré puis il déchaîne sa violence contre Dieu.
Maldoror devient alors un symbole infernal. Être protéiforme, il se transforme en aigle, en poulpe, en
grillon d'égout ou en cygne noir. Comme la bête de l' Apocalypse, il parcourt le monde et sa violence
vengeresse envahit la surface de la terre. Le fantastique se mélange au lyrisme et aux envolées
oratoires. La folie furieuse contamine les phrases et les strophes et le héros maudit omniprésent est là
pour illustrer la terrible déclaration du premier chant : " Moi, je fais servir mon génie à peindre les
délices de la cruauté."
Les Chants de Maldoror ne racontent pas une histoire unique et cohérente, mais sont constitués d'une
suite d'épisodes dont le fil conducteur est la présence de Maldoror, personnage donc maléfique doué de
pouvoirs surnaturels.
Si le premier des Chants de Maldoror a été publié à compte d'auteur en 1868, l'œuvre complète a été
imprimée en Belgique un an plus tard, pour le compte de l'éditeur Albert Lacroix, qui refuse de mettre
l'ouvrage en vente, par crainte de poursuites judiciaires.
En ce qui nous concerne, du livre il était impossible, vu son histoire éditoriale, d’en trouver des
exemplaires. Il en existait un seul et unique à la Bibliothèque Nationale de Paris, et lui, Breton, qu’est-
ce qu’il fait? Il le copie à la main pour le publier dans le premier et deuxième numéro de la revue et en
donner ainsi le ton: subversion totale, triomphe de l’image et de l’imagination.
Le dossier de L'Affaire Barrès (no 20) clôt par contre la première série.
Naguère admirateurs de Barrès, André Breton, Louis Aragon, Philippe Soupault et quelques autres
lui intentèrent publiquement un "procès" symbolique, longuement annoncé dans la presse, pour
"attentat à la sûreté de l'esprit". Il eut lieu à la salle des sociétés savantes, le 13 mai 1921. L'acte
d'accusation et les témoignages parurent dans le numéro 20 de la revue du groupe, Littérature, qu'ils
occupent tout entier en août 1921.
La note figurant dans Littérature avent l'acte d'accusation de Breton rend compte de l'appareil
judicaire déployé pour cette séance dont le sérieux tranche avec les habituelles manifestations
dada ; on sait maintenant avec quel soin elle fut préparée : demandes de témoignages, qui furent
adressées mêmes aux personnalités les plus hostiles à Dada, fréquentation du Palais de Justice, afin
de rendre plus vraisemblable et plus percutante la parodie des formes qu'on se proposait.
Les journaux ont rapporté avec plus ou moins de détails le déroulement de la séance.
Par-delà l'effet de sa mise en scène, les indignations et les rares approbations qu'elle souleva, à
quoi tendait cette manifestation contre Barrès ?
C'est tout l'enjeu de ce "dossier" que de démontrer, témoins et pièces à conviction à l'appui, que,
derrière le légitime écœurement d'une génération devant l'attitude de l'homme Barrès pendant la
guerre, se trame l'histoire d'un mouvement fait de tensions (Soupault récuse l'idée même de
jugement, Aragon voulut défendre l'accusé, etc), d'ambiguïtés et d'humour.
EXTRAIT DE L'ACTE D'ACCUSATION
I. Les livres de Barrès sont proprement illisibles, sa phrase ne satisfait que l'oreille. Maurice Barrès
a donc usurpé la réputation de penseur. Nul moins que lui n'a su trouver le compromis qui peut
exister entre l'idée et le mot: ce ne sont chez lui que partis pris, affirmations gratuites, et abus de
confiance divers qui se cachent sous le masque de l'analyse serrée et de la vérité psychologique.
Penser qu'un certain nombre de jeunes gens et d'hommes mûrs trouvent là l'aliment de leur activité
intellectuelle apparaît comme un fait déconcertant. En admettant qu'une parole puisse être créatrice
d'énergie, ce qui est discutable, on peut affirmer que les paroles de Barrès ne sont en mesure de
satisfaire que les appétits les plus vulgaires. Sommé de s'expliquer sur quelques-unes de ses
maximes les plus célèbres, Maurice Barrès se trouve dans l'impossibilité absolue de fournir un
argument sérieux à leur appui. Il est bien évident que si l'on réfléchit au sens d'une phrase telle
que: « J'ai choisi le nationalisme comme un déterminisme quelconque », on la trouve 1° obscure et
2° absurde. Choisir un déterminisme est chose impossible par définition.
Aujourd’hui nous passons à La Révolution surréaliste. Mais d’abord reprenons le discours en
commençant par quelques dates et chiffres.
La seconde série de Littérature (13 livraisons de 1922 à 1924) rompt définitivement avec les écrivains
de la tradition. Désormais, il ne s'agit plus seulement de libérer la poésie, mais de libérer la vie même :
premiers récits de rêve, premières tentatives médiumniques, photographies, images signées Picabia,
Max Ernst ou Man Ray...
Mais avec le Premier Manifeste du surréalisme de Breton, une période s'achève.
Le groupe surréaliste a besoin d'un nouvel outil qui sera La Révolution surréaliste (12 numéros de 1924
à 1929). D'abord dirigée par Pierre Naville et Benjamin Péret, Breton demeurant à l'écart jusqu'au
numéro 4 (quand il signe l’article, c’est le 15 juilet 1925, intitulé “Pourquoi je prends la direction de la
Révolution surréaliste”), La Révolution surréaliste tourne le dos aux recherches typographiques de
Dada. Le discours est empreint de gravité : « Il faut aboutir à une nouvelle déclaration des droits de
l'homme » (no 1) ; « 1925 : fin de l'ère chrétienne » (le no 3 contient le message anti-occidental
d'Antonin Artaud : « Adresse au pape » et « Adresse au dalai-lama »...). Ce n'est qu'au quatrième
numéro que Breton prend véritablement les rênes de la revue – et donc du mouvement lui-même par
l’article cité.
La revue, désormais, généralise la pratique de l'automatisme, l'investigation du rêve et de la sexualité,
l'intérêt pour la psychanalyse, les techniques menant droit au « fonctionnement réel de la pensée » (rêve
éveillé, cadavre exquis...). Mais la grande nouveauté du moment est l'adoption du mot
d'ordre Révolution (« La révolution d'abord et toujours ! », appel, dans le no 5 comme nous verrons
dans le détail dans un instant),
La Révolution surréaliste durera jusqu'au Second Manifeste (1930) qui traite en grande partie des
dissensions internes au mouvement. Son évolution doctrinale (c’est-à-dire la tentative de synthèse entre
le surréalisme proprement dit et le marxisme-léninisme) entraînera la naissance d'une nouvelle
revue : Le Surréalisme au service de la révolution (6 numéros de 1930 à 1933). Continuité de la
recherche et cohabitation difficile du surréalisme et du communisme caractériseront la période,
notamment marquée par l'« affaire Aragon ». En 1933 s'achèvera l'époque glorieuse des revues
surréalistes et commencera le temps de la dissémination marqué par l'entrisme de Breton au sein de la
revue Minotaure qui paraîtra jusqu'en 1939.
Maintenant nous entrons plus dans le détail. Je veux dire que pour toute cette période – l’histoire du
surréalisme et des revues qui le repésentent – un des thèmes les plus chauds à discuter a été celui de la
guerre. Deux conflits mondiaux, la guerre d’Espagne, le conflit du Rif, la guerre d’Algerie, la guerre
froide… et j’en passe. Thème qui entraîne une des nombreuses contradictions qui caractérisent le
Surréalisme (il s’agit d’un mouvement pour lequel la contradiction est une valeur, puisque pour eux il
s’agit de mettre ensemble deux domaines en contraste comme le réel et le surréel) la contradiction je
veux dire qui vient peu à peu à se manifester entre l’appel à la révolution en tant que nécessité absolue
et l’opposition constante et également aboslue à toute forme de guerre menée au nom et en défense du
nationalisme. C’est ce noeud conceptuel qui préside à la création et a l’existence entière de la revue qui
pour cause s’intitule La Révolution surréaliste.
Lisons une affirmation de Breton
1
J’insiste sur le fait que le surréalisme ne peut historiquement être compris qu’en fonction de la guerre,
je veux dire – de 1919 à 1938 – en fonction à la fois de celle dont il part et de celle à laquelle il
retourne.
BRETON, Situation du surréalisme entre les deux guerres
Après la rupture antre Breton et Tzara, le groupe surréaliste traverse une période de recherches très
poussées. Des nouvelles formes d’expressions sont expérimentées et appliquées à l’art, et parallèlement
Breton et ses condisciples comtinuent de sonder l’inconscient, et de chercher des structures nouvelles
qui en exploitent le langage:
2
Il s’agit maintenant de relier entre eux tous les modes d’expression découverts (écriture automatique,
propos de sommeils hypnotiques, rêves, attitudes, jeux des préférences, des questions-réponses,
cadavres exquis, etc.), capables d’amener au jours sans médiation réflexive les manifestations des
« forces obscures » dont la réalité enfouie s’oppose aux « réalités sommaires » de la conscience, et, en
même temps, d’inciter à découvrir d’autres modes d’expression.
André Breton, Entretiens (1913-1952), Paris, Gallimard, 1969
Le 6 septembre 1924 « Le Journal littéraire » publie une note par laquelle tous les compagnons
de Breton se déclarent d’accord avec les principes exprimés dans le Premier manifeste, affirmant
d’ailleurs et en même temps leur appartenence au courant artistique qui se définit à partir de là:
3
Le surréalisme repose sur la croyance à la réalité supérieure de certaines formes d’associations
négligées jusqu’à lui, à la toute-puissance du rêve, au jeu désintéressé de la pensée. Il tend à ruiner
définitivement tous les autres mécanismes psychiques et à se substituer à eux dans la résolution des
principaux problèmes de la vie. Ont fait acte de SURRÉALISME ABSOLU MM. Aragon, Baron,
Boiffard, Breton, Carrive, Crevel, Delteil, Desnos, Éluard, Gérard, Limbour, Malkine, Morise, Naville,
Noll, Péret, Picon, Soupault, Vitrac.
Ibid.
Les contours du groupe certe restent plutôt vagues, flous, même après 1924. Ils ne se
concrétisent pas (ne le feront jamais) dans des règles nettes et précises, ce qui détermine beaucoup de
tensions et de contrastes à l’intérieur du groupe, autant de témoignages des préoccupations essentielles
qui l’animent:
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Comment travailler à la fin de la littérature, lorsqu’on n’a point d’autre moyen d’y parvenir que
l’écriture? Comment échapper à l’activité littéraire quand, pour nombre des membres du groupe, il n’y
a pas d’autre instrument de subsistance que le journalisme littéraire, justement ? Ainsi la situation du
milieu surréaliste est-elle en permanence une situation de crise, crise inhérente à la nature de cette
singulière association.
Ibid.
Ce que Breton veut éviter surtout est la stagnation du mouvement, l’immobilité, la perte de
mordant; il veut engager le groupe dans un projet qui ait des buts concrets, divulgatuers, créatifs. Et qui
ne se limite pas au refus de la réalité et de ses conventions. Le Premier Manifeste représente donc la fin
de la première phase de l’existence du mouvement et la naissance d’un groupe effectif, autonome et
anticonformiste, dont il met en évidence les traits fondateurs, c’est-à-dire:
– la recherche d’un nouveau langage,
– l’exigence de libérer les formes de l’expression de toute constrainte ou limite imposés de
l’extérieur.
Una contraddizione surrealista: rivoluzione e pace (pour accueillir aussi les instances des
étudiants qui n’arrivent pas à suivre si tout est dit en français, quelques passages en italien…)
Il Manifeste mette in evidenza lo stretto legame tra la scrittura e l’esistenza dei surrealisti; il
testo si struttura in quattro movimenti:
1) la costatazione dell’inadeguatezza della vita all’uomo,
2) ripercorrendo gli studi e le ricerche fatti in passato,
3) analizzando il problema del linguaggio e
4) interrogandosi sulle possibili applicazioni del surrealismo all’azione.
Ripercorrendo la strada fatta finora Breton sottolinea l’importanza assunta dall’esperienza
bellica, la quale gli ha permesso di avvicinarsi al mondo della psicanalisi e di scoprire le infinite
sfaccettature della relazione che intercorre tra il pensiero e il linguaggio:
5
Tout occupé que j’étais encore de Freud à cette époque et familiarisé avec ses méthodes d’examen que
j’avais eu quelque peu l’occasion de pratiquer sur des malades pendant la guerre, je résolus d’obtenir
de moi ce qu’on cherche à obtenir d’eux, soit un monologue de débit aussi rapide que possible, sur
lequel l’esprit critique du sujet ne fasse porter aucun jugement, qui ne s’embarrasse, par suite, d’aucune
réticence, et qui soit aussi exactement que possible la pensée parlée. Il m’avait paru, et il me paraît
encore — la manière dont m’était parvenue la phrase de l’homme coupé en témoignait — que la vitesse
de la pensée n’est pas supérieure à celle de la parole, et qu’elle ne défie pas forcément la langue, ni
même la plume qui court.
(dans le premier manifeste Breton raconte que c'est fortuitement qu'il a découvert un nouveau mode
d'expression. Dans l'état intermédiaire entre la veille et le sommeil, une phase en apparence
énigmatique et à laquelle généralement on ne prête guère attention, une phrase, sortie de nulle part
s'imposa à lui : " Il y a un homme coupé en deux par la fenêtre". Le principe de l'écriture automatique,
sans contrôle exercé par la raison, venait de naître).
Oltre al Manifeste surrealista possiamo allargare l’analisi ad altri documenti scritti e pubblicati dai
surrealisti negli anni ’20. Ovunque domina l’espressione della ricerca del cambiamento, della
provocazione volta a faire bouger le coscienze e l’immobilità mentale e sociale, dell’intento che mira
alla rivoluzione, al mutamento collettivo e generalizzato.
Anche per questo il gruppo inizia ad avvicinarsi al Partito Comunista Francese e a condividerne le
idee. Per un certo periodo Breton è convinto di aver trovato il modo ottimale di tradurre in pratica gli
ideali finora rimasti solo su un piano teorico, di poter ottenere un’espressione concreta e fruttuosa
dell’anima surrealista attraverso la partecipazione politica.
A partire dal 1924 il movimento ha dunque cominciato a percorrere la strada dell’attività politica. Per
trovare una nuova voce e per poter acquisire un ruolo attivo, il gruppo di Breton cerca di stringere
alleanze con diverse ideologie. Il tempo della collaborazione con Dada è ormai concluso e la ricerca di
nuove vie di espressione diventa sempre più urgente e necessaria alla crescita del gruppo:
Et voilà donc que les textes collectifs, à partir de 1924, retiennent l’attention par leur caractère
insurrectionnel.
Il 15 gennaio 1925, su La Révolution surréaliste, appare un articolo sottoforma di appello intitolato
Ouvrez les prisons Licenciez l’armée:
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Les contraintes sociales ont fait leur temps. Rien, ni la connaissance d’une faute accomplie, ni la
contribution à la défense nationale ne sauraient forcer l’homme à se passer de la liberté. […] Que MM.
les assassins commencent, si tu veux la paix prépare la guerre, de telles propositions ne couvrent que la
plus basse crainte ou les plus hypocrites désirs. Ne redoutons pas d’avouer que nous attendons, que
nous appelons la catastrophe. La catastrophe ? ce serait que persiste un monde où l’homme a des droits
sur l’homme. Rendez aux champs soldats et bagnards. Votre liberté ? il n’y a pas de liberté pour les
ennemis de la liberté. Nous ne serons pas les complices des geôliers.
Ouvrez les prisons Licenciez l’armée, « La Révolution surréaliste » n° 2, Paris, 15 gennaio 1925, p. 18
La strenua difesa dell’idea di libertà si intreccia saldamente a quella della pace, della negazione
definitiva di ogni tipo di conflitto, soprattutto di quello perpetrato in nome del nazionalismo.
In diversi articoli dello stesso anno, Breton e compagni dichiarano la loro devozione alla pace,
attaccando le imposizioni prescritte dall’alto e celebrando una liberazione fisica e interiore
dell’individuo. In un articolo del 15 aprile 1925 essi si appellano al Dalai-Lama:
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Nous sommes tes très fidèles serviteurs, ô Grand Lama, donne-nous, adresse-nous tes lumières, dans un
langage que nos esprits contaminés d’Européens puissent comprendre […]. Fais-nous un Esprit sans
habitude, un esprit gelé véritablement dans l’Esprit, ou un Esprit avec des habitudes plus pures, les
tiennes, si elles sont bonnes pour la liberté.
Nous sommes environnés de papes rugueux, de littérateurs, de critiques, de chiens, notre Esprit est
parmi les chiens, qui pensent immédiatement avec la terre, qui pensent indécrottablement dans le
présent.
Enseigne-nous, Lama, la lévitation matérielle des corps et comment nous pourrions n’être plus tenus
par la terre.
Adresse au Dalaï-Lama, « La Révolution surréaliste » n°3, Paris, 15 aprile 1925, p. 17
Lo spirito surrealista di questi anni si dipana dunque su un doppio binario che assume il valore di
ossimoro : esso ambisce alla rivoluzione sociale, interiore e culturale, ma condanna i conflitti, gli
scontri nazionali e le guerre scatenate in nome della libertà.
Rivoluzione e pace sono dunque due dei concetti che attraversano il movimento, riflettendosi più volte
nei testi surrealisti, nel Manifeste, negli articoli e nelle diverse creazioni artistiche.
Deux autres documents importants:
La Lettre ouverte à M. Paul Claudel e le Banquet de Saint-Pol-Roux.
Il 2 luglio 1925, Breton pubblica su un volantino scritto in nero su sfondo rosso una feroce lettera
aperta a Paul Claudel, ambasciatore di Francia in Giappone, firmata dal gruppo surrealista al completo.
Nel testo il diplomatico è ingiuriato perché si era permesso di “qualifier leur activité de pédérastique”
in un’intervista rilasciata a un giornale, « Comœdia ». Breton e compagni non solo attaccano in modo
forte e diretto Claudel, ma colgono l’occasione per dare voce ad alcune idee già radicate nel gruppo: il
sostegno alle insurrezioni coloniali, sostegno che tanto fa indignare i nazionalisti francesi:
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Nous souhaitons de toutes nos forces que les révolutions, les guerres et les insurrections coloniales
viennent anéantir cette civilisation occidentale dont vous défendez jusqu’en Orient la vermine et nous
appelons cette destruction comme l’état de choses le moins inacceptable pour l’esprit.
Essi colgono inoltre l’occasione della pubblicazione della lettera per rifiutare pubblicamente tutto ciò
che è francese. Nel contempo il tradimento alla propria patria, ma anche a tutta la tradizione classica e
religiosa, è considerato possedere in sé più poesia di qualunque altra azione compiuta a loro favore:
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Nous saisissons cette occasion pour nous désolidariser publiquement de tout ce qui est français, en
paroles et en actions. Nous déclarons trouver la trahison et tout ce qui, d’une façon ou d’une autre, peut
nuire à la sûreté de l’Etat beaucoup plus conciliable avec la poésie que la vente de « grosses quantités
de lard » pour le compte d’une nation de porcs et de chiens. C’est une singulière méconnaissance des
facultés propres et des possibilités de l’esprit qui fait périodiquement rechercher leur salut à des goujats
de votre espèce dans une tradition catholique ou gréco-romaine. Le salut pour nous n’est nulle part.
Nous tenons Rimbaud pour un homme qui a désespéré de son salut et dont l’œuvre et la vie sont de
purs témoignages de perdition. Catholicisme, classicisme gréco-romain, nous vous abandonnons à vos
bondieuseries infâmes.
La conclusione è affilata e spudorata, l’attacco è diretto a coloro che ancora restano aggrappati alle
convenzioni, al rispetto e all’onore, che si crogiolano nella propria condizione di prestigio sociale e
culturale, innalzandosi al di sopra dei propri concittadini:
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Qu’elles vous profitent de toutes manières ; engraissez encore, crevez sous l’admiration et le respect de
vos concitoyens. Ecrivez, priez et bavez ; nous réclamons le déshonneur de vous avoir traité une fois
pour toutes de cuistre et de canaille.
Lo stesso giorno della pubblicazione della lettera indirizzata a Claudel i surrealisti partecipano a un
banchetto dedicato a un poeta che Breton apprezza molto, Saint-Pol-Roux (Paul-Pierre Roux, dit Saint-
Pol-Roux, né à Marseille dans le quartier de Saint-Henri le 15 janvier 1861 et mort à Brest le
18 octobre 1940, est un poète symboliste français: les membres du mouvement surréaliste le
considèrent comme un prédécesseur. André Breton avait publié son "Hommage à Saint-Pol-Roux" le 9
mai 1925 dans Les Nouvelles Littéraires, où il revendiquait Saint-Pol-Roux comme “le seul authentique
précurseur du mouvement dit moderne”). Il banchetto ha luogo alla Closerie des Lilas, noto locale in
cui gli artisti del tempo hanno l’abitudine di incontrarsi, situato nel quartiere di Montparnasse
(diventerà il quartier generale, non a caso, anche della neo-avanguardia di Tel Quel, e resta oggi il
luogo in cui il fondatore del gruppo, Philippe Sollers, ama ricevere amici scrittori e artisti).
Sotto tutti i coperti degli invitati i surrealisti ripongono una copia della lettera pubblicata la mattina e,
dopo averne presa visione, la discussione tra i presenti si fa rapidamente accesa e violenta:
« Consternation, propos aigres, injures, pluie de coups; la foule des badauds, assemblée sur le
boulevard du Montparnasse s’en mêle et Michel Leiris, qui profère des cris séditieux, manque de peu
d’être lynché. Le sage de Camaret [Saint-Pol-Roux] raconte Maurice Nadeau, tel le pilote sur un
navire en perdition au plus fort de la tempête, navré de ces incidents, veut ramener le calme. Ses
paroles d’apaisement ne sont pas entendues par ses amis officiels. L’occasion est trop bonne de réduire
à néant ces « provocateurs surréalistes ». Et comme on n’en peut venir à bout, on a recours aux
défenseurs naturels de la poésie bafouée : les policiers, à qui on désigne ceux qu’il doivent passer à
tabac.
(tiré de Claude Abastado, Introduction au Surréalisme, Paris, Bordas, 1971, p. 43)
Al convivio è presente Mme Rachilde, figlia di un militare e sostenitrice degli ideali nazionalisti. Si
tratta di una celebre « femme de lettres », particolarmente maltrattata in questa occasione dai
surrealisti, avendo affermato che una Francese non poteva sposare un Tedesco. I surrealisti
approfittarono del pretesto per denunciare ogni forma di manifestazione nazionalista.
Gli spiriti infuocati dei convitati aprono dunque il dibattito a numerose questioni politico-sociali:
– vengono discusse le relazioni attuali tra Francesi e Tedeschi;
– si analizzano alcuni episodi della guerra;
– si dibatte a proposito del nazionalismo.
Gli animi via via si scaldano al punto da degenerare in aperta violenza; la polizia, chiamata a
intervenire, arresta alcuni convitati.
Gli incidenti di questo banchetto mostrano una volta di più le posizioni politiche surrealiste che cercano
ancora la via giusta per definirsi : Breton e compagni seguono la strada della rivoluzione, del
cambiamento attivo all’interno della società. Al contempo però ambiscono alla pace, alla libertà dei
popoli, all’eliminazione del nazionalismo.
Essi vogliono trovare una voce possente e decisa che possa risuonare nel panorama internazionale. È
l’inizio di una nuova stagione del movimento il quale va cercando un nuovo posto nel mondo.
Depuis plus de vingt ans, l’éditeur Jean-Michel Place exhume des documents surréalistes d’une grande
valeur : leurs revues. Confectionnées dans la tourmente de l’après-grande guerre, elles ont conservé
leur virulence.
Entretien (à lire comme témoignage)
Quelle importance ont-eu les revues surréalistes ?
Les revues ont été, à des moments clés de l’histoire, des agents de bouleversement. Elles ont été de
fabuleux lieux de rencontres, d’amitiés, littéraires ou artististiques, en rupture avec la société. La revue
a quelque chose d’essentiel, elle porte la vie en elle. Oeuvre de plusieurs personnes, dont les idées
s’entrechoquent parfois, elle vit sur plusieurs numéros, avec toutes les engueulades et les retrouvailles
qu’on imagine.
Comment êtes-vous arrivé à vous spécialiser dans les revues ?
Mon activité a d’abord été fondée sur la recherche et la conservation bibliographiques des revues du
XIXème et du début du XXème. Une fois leur histoire et leur substance décrites, j’ai eu l’idée dans les
années 70 de rééditer ces revues, notamment celles issues du surréalisme comme Littérature, La
Révolution surréaliste, Le Surréalisme au service de la révolution. En 1975, la réédition des douze
numéros de La Révolution surréaliste s’est vendue à 6000 exemplaires en six semaines, ce qui était
absolument colossal. Aujourd’hui, il s’en vend 2-300 par an...
Les revues contemporaines paraissent sages en regard de ce que les Surréalistes publiaient...
On a besoin de refaire le monde à des moments stratégiques. Dada est né des massacres, de Verdun : il
remettait en cause la vie. Le surréalisme est né lui aussi de 14-18 et de profonds bouleversements
sociaux. Bien sûr, on peut trouver actuellement des lieux où cette violence pourrait s’exprimer
artistiquement mais elle ne le fait pas forcément dans la dérision. L’enjeu des Surréalistes était de dire
que seule la dérision pouvait permettre de sortir de la folie du monde. Aujourd’hui, je ne crois pas que
la dérision puisse sortir de la guerre en Yougoslavie : l’accélération de l’information et la banalisation
de la violence nous en empêchent. Les photos de massacres, qu’on peut voir dans certaines revues
surréalistes, sont devenues monnaie courante. Elles choquent moins aujourd’hui. Ça va plus loin : la
dérision elle-même s’est banalisée. La dérision perd de son interêt puisque tout est traité sur le même
mode... dérisoire.
Pensez-vous que les Surréalistes auraient apprécié que leurs revues soient rééditées 60 ans
après ?
Ça a été un débat à l’époque, lancé notamment par ceux qui n’ont pas osé les rééditer, soit par peur du
risque, soit par retenue (« est-ce qu’on a droit de toucher à ça ? »). Dans un entretien, Breton aurait été
interrogé sur cette question. Il aurait répondu « allez vous f... ». Mais ça ne signifie pas grand chose.
Les avis sont partagés. Le génie des Surréalistes a aussi été d’avoir des actions brèves, douze numéros
de La Révolution surréaliste, six pour Le Surréalisme au service de la révolution, etc. Dès qu’ils en
avaient fini avec leurs propos, ils passaient à autre chose. Au final, leurs différentes revues en forment
une grande, riche en rebondissements, engueulades et rabibochages.
De tous les documents que vous avez publiés, desquels êtes-vous le plus fier ?
Compte tenu du travail que font les éditeurs en général, j’aurais tendance à dire qu’il n’y a pas un livre
que j’ai sorti dont je ne sois pas content. Mes livres sont une cellule d’un tissu, chacun d’eux répond à
l’autre. Passé cette réflexion, je parlerai des bouquins sur Jacques Vaché, et surtout de
L’imprononçable jour de sa mort. C’est ce que nous pouvons faire de mieux ici : le sujet, son origine,
la manière de le traiter, le texte, la mise en page. C’est complètement fou. On y trouve le duplicata
d’une lettre-collage que Breton envoie à Vaché. La lettre part, Vaché vivant ; quand elle arrive, il est
mort. Le livre est né de la découverte de cette lettre. Il a fallu retrouver l’origine de chaque morceau
avec l’écriture de Breton et essayer de trouver le message. Quarante trois morceaux. Regardez ça : « en
mémoire de Jacques Vaché mort pour la France »! C’est fabuleux, la prémonition qu’il y a dans tout
ça. Si il y en a un que j’aime particulièrement, c’est évidemment celui-là.
Appel contre la guerre du Rif
Lo stesso giorno del banquet de Saint-Pol-Roux, sulla rivista di ispirazione comunista L’Humanité,
appare un appello contro la guerra del Rif lanciato da Henri Barbusse ai lavoratori e agli intellettuali.
La guerre du Rif : si tratta di un conflitto coloniale che contrapponeva dal 1921 le tribù del Rif, una
catena montuosa del Nord del Marocco, all’esercito spagnolo, colonizzatori del luogo. I Rifani, i ribelli
marocchini, guidati dal loro capo Abdelkrim, hanno l’ambizioso progetto di ottenere l’indipendenza.
Le azioni di guerriglia si erano moltiplicate fino alla fine del 1924, anno in cui la Francia aveva deciso
di intervenire al fianco degli Spagnoli al fine di evitare il prolungarsi delle tensioni nella zona e la
possibile diffusione dello spirito rifano ai gruppi vicini.
L’attacco si era subito rivelato efficace decretando, nell’autunno del 1925, la vittoria degli Europei, i
quali si impongono sugli abitanti locali, grazie anche all’impiego di alcune armi chimiche.
L’articolo del 2 luglio fa parte di una vigorosa campagna di protesta contro l’azione francese in
Marocco, campagne menée par le Partito Comunista Francese al quale Barbusse appartiene. I comunisti
combattono una battaglia politica solitaria e isolata, ma il testo viene firmato da numerosi intellettuali
dell’epoca, i quali aspirano anch’essi alla pace e sostengono la causa rifana.
L’appello vuole mostrare l’impopolarità della guerra in Marocco, punta a spronare le coscienze dei
Francesi e a saldare le relazioni tra intellettuali e operai.
Il 4 e il 5 luglio a Parigi è in programma il Congrès des Ouvriers, Employés et Paysans de la Région
Parisienne ; all’ordine del giorno, oltre alla discussione su diversi temi sociali, vi è anche la questione
del conflitto marocchino.
L’appel comincia con una domanda retorica e con il rapporto preciso, giornalistico, dei fatti che si
stanno producendo in Africa. Vi è inoltre un appello alla presa di posizione, all’importanza di
esprimere la propria opinione sul ripetersi di una serie di violenze che già in passato hanno
sconquassato l’umanità. Ora che esse si ripropongono nella loro veste coloniale, lasciando intravedere
anche delle conseguenze nei futuri rapporti tra popoli, è necessario prendere posizione e opporsi:
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Oui ou non condamnez-vous la guerre ?
Les tragiques événements du Maroc mettent en demeure les écrivains, les "travailleurs intellectuels",
tous ceux qui, par quelque point ou à quelque degré exercent une influence sur l'opinion et jouent par là
un rôle public, de juger ce qui se passe en ce moment en Afrique ; de dire si oui ou non ils sont
d'accord avec des iniquités politiques dont la trame est trop visible ; si oui ou non il leur suffit d'émettre
contre la sanglante réalité, quelques béats regrets humanitaires. Les faits sont là.
Contre la guerre du Maroc, cette nouvelle grande guerre qui se déploie et s'allonge sept ans après le
massacre de six-sept cent mille Français et de dix millions d'hommes dans le monde, nous sommes
quelques-uns qui élevons hautement notre protestation.
Nous avons trop médité l'expérience de l'histoire et surtout l'histoire des guerres coloniales, pour ne pas
dénoncer l'origine impérialiste, ainsi que les conséquences internationales probables de cette guerre.
Émus et révoltés par les atrocités commises de part et d'autre sur le front de l'Ouergha, nous constatons
qu'elles sont inhérentes à toutes les guerres, et que c'est la guerre qu'il faut déshonorer.
Nous protestons contre le nouveau régime de censure établi depuis le commencement des hostilités
dans l'intention de cacher des vérités que le pays a besoin de connaître.
Appel contre la guerre du Rif, « L’Humanité », Paris, 2 juillet 1925
L’articolo si conclude proprio con un appello alla Società delle Nazioni (quella che diventerà l’ONU):
l’autore domanda che quest’ultima giustifichi la propria esistenza con un intervento deciso ed efficace a
favore della pace nei territori del Rif.
Accanto al nome di Henri Barbusse, in fondo al testo appaiono numerose firme di intellettuali del
tempo e tra queste quelle di Louis Aragon, André Breton, Jacques-André René Crevel, Robert Desnos,
Paul Eluard, Michel Leiris, Bénjamin Peret, Paul Soupault, Robert Vitrac, tutti appartenenti al gruppo
surrealista.
Nel mese di ottobre del 1925, Breton e compagni pubblicano sulla rivista La Révolution surréaliste ,
“La révolution d’abord et toujours!”, un articolo che esplicita le idee politiche del gruppo e che
dimostra la sete di cambiamento dei suoi membri.
È un testo che ottiene un successo immenso e immediato, facendo discutere l’intero ambiente culturale
parigino e attirando numerose critiche.
Esso inizia con una dura condanna alla guerra e, sebbene il riferimento diretto sia al conflitto in
Marocco, essa si traduce in una severa riprovazione nei confronti della violenza e delle sue disastrose
conseguenze:
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Le monde est un entre-croisement de conflits qui, aux yeux de tout homme un peu averti, dépassent le
cadre d’un simple débat politique ou social. Notre époque manque singulièrement de voyants. Mais il
est impossible à qui n’est pas dépourvu de toute perspicacité de n’être pas tenté de supputer les
conséquences humaines d’un état de choses absolument bouleversant.
Plus loin que le réveil de l’amour-propre de peuples longtemps asservis et qui sembleraient ne pas
désirer autre chose que de reconquérir leur indépendance, ou que le conflit inapaisable des
revendications ouvrières et sociales au sein des États qui tiennent encore en Europe, nous croyons à la
fatalité d’une délivrance totale. Sous les coups de plus en plus durs qui lui sont assénés, il faudra bien
que l’homme finisse par changer ses rapports.
octobre 1925, “La révolution d’abord et toujours!”, La Révolution surréaliste
L’articolo segue con una dichiarazione di assoluta presa di distanza da ogni tipo di guerra, di
nazionalismo, di violenza interessata a raccogliere dei frutti grazie al conflitto. Il concetto di Patria è
abbassato a un’idea bestiale, brutale, lontana da ogni tipo di caratteristica umana:
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Bien conscients de la nature des forces qui troublent actuellement le monde, nous voulons, avant même
de nous compter et de nous mettre à l’œuvre, proclamer notre détachement absolu, et en quelque sorte
notre purification, des idées qui sont à la base de la civilisation européenne encore toute proche et
même de toute civilisation basée sur les insupportables principes de nécessité et de devoir.
Plus encore que le patriotisme qui est une hystérie comme une autre, mais plus creuse et plus mortelle
qu’une autre, ce qui nous répugne c’est l’idée de Patrie qui est vraiment le concept le plus bestial, le
moins philosophique dans lequel on essaie de faire entrer notre esprit.
Ibid.
I surrealisti proseguono dichiarando nuovamente il disgusto per la civiltà occidentale, definita barbare
e il testo termina con l’enucleazione di cinque principi, provocatori e accusatori, che mirano a
denunciare coloro che esaltano la patria e la guerra in nome di alti valori morali, et con un appello al
disarmo immediato in nome di una rivolta, di una rivoluzione individuale e sociale che possa cambiare
per sempre il volto dell’umanità:
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1° Le magnifique exemple d’un désarmement immédiat, intégral et sans contre-partie qui a été donné
au monde en 1917 par Lénine à Brest-Litovsk, désarmement dont la valeur révolutionnaire est infinie,
nous ne croyons pas votre France capable de le suivre jamais.
2° En tant que, pour la plupart, mobilisables et destinés officiellement à revêtir l’abjecte capote bleu-
horizon, nous repoussons énergiquement et de toutes manières pour l’avenir l’idée d’un
assujettissement de cet ordre, étant donné que pour nous la France n’existe pas.
3° Il va sans dire que, dans ces conditions, nous approuvons pleinement et contresignons le manifeste
lancé par le Comité d’action contre la guerre du Maroc, et cela d’autant plus que ses auteurs sont sous
le coup de poursuites judiciaires.
4° Prêtres, médecins, professeurs, littérateurs, poètes, philosophes, journalistes, juges avocats, policiers,
académiciens de toutes sortes, vous tous, signataires de ce papier imbécile : “Les intellectuels aux côtés
de la Patrie”, nous vous dénoncerons et vous confondrons en toute occasion. Chiens dressés à bien
profiter de la Patrie, la seule pensée de cet os à ronger vous anime.
5° Nous sommes la révolte de l’esprit ; nous considérons la Révolution sanglante comme la vengeance
inéluctable de l’esprit humilié par vos œuvres. Nous ne sommes pas des utopistes : cette Révolution
nous ne la concevons que sous sa forme sociale. S’il existe quelque part des hommes qui aient vu se
dresser contre eux une coalition telle qu’il n’y ait personne qui ne les réprouve (traîtres à tout ce qui
n’est pas la liberté, insoumis de toutes sortes, prisonniers de droit commun), qu’ils n’oublient pas que
l’idée de Révolution est la sauvegarde la meilleure et la plus efficace de l’individu.
Nel 1927 Breton, Eluard e Aragon aderiscono al PCF.
Tale accordo avrà vita breve, tra i due gruppi vi è una netta contrapposizione ideologica che impedirà
un sano e proficuo confronto: i surrealisti non potevano rinunciare alle esperienze della vita interiore,
all’idea di inconscio ecc. E a quell’epoca i comunisti dottrinari condannavano il freudismo come una
“dottrina pericolosamente idealista”, incompatibile con il materialismo storico. Consideravano i
conflitti della personalità come dei falsi problemi, il cui unico scopo era quello di mascherare la
necessità dell’azione sociale. Per loro, la dittatura del proletariato, poi il passaggio alla società
comunista, avrebbero risolto qualunque problema di ordine etico e psichico.
Oltre al contrasto sull’importanza dello studio della psiche umana, vi sono altri punti che creeranno un
divario incolmabile tra surrealismo e comunismo : Breton rifiuta di consacrare la letteratura e l’arte alla
propaganda, egli nega l’esistenza di una letteratura proletaria e attacca il realismo artistico e letterario
qui domine in URSS.
Inoltre egli considera il lavoro come l’obbligo più degradante e avvilente per un essere umano,
opponendosi così all’esaltazione della produzione, alla celebrazione dell’uomo stakanovista elogiate da
Stalin.
Le forti divergenze spiegano perché l’alleanza tra i due gruppi sia stata così breve e complicata:
Il fatto è, in effetti, che Breton era arrivato all’idea di rivoluzione non attraverso una riflessione sulla
storia o una meditazione sulle opere di Marx, ma in maniera passionale. Il suo pensiero si era nutrito
piuttosto della lettura di scrittori, come Rimbaud, Lautréamont, Sade…
Ne visitez pas l’exposition coloniale
Nel 1931 a Parigi è organizzata un’esposizione coloniale avente per scopo di permettere ai visitatori di
conoscere e apprezzare la grandezza della Francia e di poter fare le tour du monde en un jour come cita
lo slogan pubblicitario. In poco più di sei mesi la mostra attira otto milioni di visitatori, accorsi da tutta
Europa per assistere a quello che viene considerato un grande spettacolo, un’attrattiva che conduce alla
scoperta dell’Africa, dell’Indocina, della Siria e del Libano, laddove i Francesi possiedono le colonie
più belle e ricche. L’Exposition de Vincennes risponde a una logica di propaganda, portata avanti da
giornali, cartoline, manuali scolastici…, il cui scopo è quello di dimostrare la superiorità dell’uomo
bianco e le motivazioni che legittimano la colonializzazione. L’Exposition ad esempio mette in scena
dei neri in villaggi indigeni ricostruiti, con accompagnamento di pannelli che oppongono barbarie e
civiltà, libertà e schiavitù, religione e feticismo, e che propongono discorsi inneggianti ai pregi e ai
meriti del colonialismo.
Il clima è entusiasta, incuriosito, soddisfatto; soltanto poche voci discordanti si alzano contro la
propaganda coloniale, tra queste quelle dei comunisti e di alcuni studenti, e quelle dei surrealisti.
Come già in occasione della guerra del Rif, e come faranno in seguito quando la decolonizzazione
diventerà un fatto di cronaca diffuso e complesso, Breton e compagni si mettono dalla parte dei
colonizzati, aspirando a difendere le vittime degli abusi francesi.
Essi fanno stampare un volantino su cui pubblicano il loro sdegno e la loro accusa nei confronti delle
violenze perpetrate dall’uomo bianco; le attività occidentali nei luoghi colonizzati vengono denigrate e
aspramente criticate, attaccando l’ipocrisia dei colonizzatori che nascondono i propri crimini dietro alla
maschera di portatori di benessere e di progresso.
15
L'idée du brigandage colonial (le mot était brillant et à peine assez fort), cette idée, qui date du XIXe
siècle, est de celles qui n'ont pas fait leur chemin. On s'est servi de l'argent qu'on avait en trop pour
envoyer en Afrique, en Asie, des navires, des pelles, des pioches, grâce auxquels il y a enfin, là-bas, de
quoi travailler pour un salaire et cet argent, on le représente volontiers comme un don fait aux
indigènes. Il est donc naturel, prétend-on, que le travail de ces millions de nouveaux esclaves nous ait
donné les monceaux d'or qui sont en réserve dans les caves de la Banque de France. Mais que le travail
forcé - ou libre - préside à cet échange monstrueux, que des hommes dont les mœurs, ce que nous
essayons d'en apprendre à travers des témoignages rarement désintéressés, des hommes qu'il est permis
de tenir pour moins pervertis que nous et c'est peu dire, peut-être pour éclairés comme nous ne le
sommes plus sur les fins véritables de l'espèce humaine, du savoir, de l'amour et du bonheur humains,
que ces hommes dont nous distingue ne serait-ce que notre qualité de blancs, nous qui disons hommes
de couleur, nous hommes sans couleur, aient été tenus, par la seule puissance de la métallurgie
européenne, en 1914, de se faire crever la peau pour un très bas monument funéraire collectif - c'était
d'ailleurs, si nous ne nous trompons pas, une idée française, cela répondait à un calcul français - voilà
qui nous permet d'inaugurer, nous aussi, à notre manière, l'Exposition Coloniale, et de tenir tous les
zélateurs de cette entreprise pour des rapaces.
Tract, Ne visitez pas l’Exposition coloniale, 1931
I surrealisti proseguono denunciando la pretesa giustificazione morale che le coscienze europee
vorrebbero darsi di fronte alle azioni violente, spesso belligeranti, che vengono compiute nelle colonie.
È un modo di pensare, definito borghese da Breton e compagni, che sembrerebbe rispondere alla
necessità di costruire una grande Francia, un impero forte e compatto, celando il prezzo e i metodi che
hanno condotto al risultato sperato. Essi tengono a dimostrare che l’Exposition è il simbolo di un
massacro organizzato e che la Francia è un oppressore.
16
Le dogme de l'intégrité du territoire national, invoqué pour donner à ces massacres une justification
morale, est basé sur un jeu de mots insuffisant pour faire oublier qu'il n'est pas de semaine où l'on ne
tue, aux colonies. La présence sur l'estrade inaugurale de l'Exposition Coloniale du Président de la
République, de l'Empereur d'Annam, du Cardinal Archevêque de Paris et de plusieurs gouverneurs et
soudards, en face du pavillon des missionnaires, de ceux de Citroën et Renault, exprime clairement la
complicité de la bourgeoisie tout entière dans la naissance d'un concept nouveau et particulièrement
intolérable : la « Grande France ». […] Il s'agit de donner aux citoyens de la métropole la conscience
de propriétaires qu'il leur faudra pour entendre sans broncher l'écho des fusillades lointaines.
Ibid.
Il testo si conclude poi con la richiesta di una decisa presa di posizione, da parte di tutto il popolo,
affinché le colonie vengano immediatamente liberate dal piede degli oppressori occidentali.
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A propos, on n'a pas oublié la belle affiche de recrutement de l'armée coloniale : une vie facile, des
négresses à gros nénés, le sous-officier très élégant dans son complet de toile se promène en pousse-
pousse, traîné par l'homme du pays - l'aventure, l'avancement. […] Aux discours et aux exécutions
capitales, répondez en exigeant l'évacuation immédiate des colonies et la mise en accusation des
généraux et des fonctionnaires responsables des massacres d'Annam, du Liban, du Maroc et de
l'Afrique centrale.
Ibid.
Nel luglio dello stesso anno i surréalisti pubblicano un secondo volantino, Premier bilan de
l’exposition coloniale, e organizzano una contre-exposition a partire da alcune collezioni private di
sculture dell’America e dell’Oceania, di oggetti e monili primitivi, ma anche di documenti di aperta
denuncia dell’azione coloniale.
La contre-exposition vuole riassumere la reale situazione coloniale e screditare la mistification
orchestrée par les nazionalisti. I surrealisti denunciano il lavoro coloniale, il facile patriottismo, il
militarismo e la religione che sostiene, spesso con forza, l’azione coloniale.
Altro testo che segna l’inizio del distacco dai comunisti : La mobilisation contre la guerre n’est pas la
paix.
Il 1929 aveva segnato una svolta decisa e profonda nel panorama economico mondiale : le
ripercussioni della crisi economica annientano definitivamente le speranze traballanti di poter costruire
un futuro migliore. Nuove minacce si profilavano in Europa, il Fascismo in Italia, il Nazismo in
Germania, mentre in Unione Sovietica Stalin aveva definitivamente sconfitto Trotskij e aveva imposto
la sua dittatura.
Le guerre che tormentano il mondo in questi anni servono da laboratorio per testare le nuove armi
studiate e per mettere in campo le innovazioni apportate alle tattiche belliche. Le guerre civili in Cina e
in Spagna per esempio.
Nel 1933 il Partito Comunista Francese organizza un congresso internazionale contro la guerra, il
Congrès d’Amsterdam-Pleyel, promosso soprattutto da Henri Barbusse e Romain Rolland. I surrealisti
vi partecipano, ma essi denunciano l’idea di un pacifismo incondizionato: è lo spunto per un testo,
pubblicato su un volantino, che mette in evidenza la posizione di Breton e compagni nei confronti della
guerra:
18
Prières à la vache pour obtenir la paix, pleurnicheries idiotes sur la misère, voilà où nous en sommes et
voilà où nous ne permettrons pas qu’on reste.
NOUS ADHERONS AU CONGRES INTERNATIONAL CONTRE LA GUERRE ET
DEMANDONS A Y ETRE REPRESENTES.
Et si nous y adhérons, en dépit des réserves très graves que nous avons cru devoir formuler quant aux
personnalités de Barbusse et Rolland, c’est que nous faisons, comme nous n’avons jamais cessé de
faire, toute confiance aux masses et aux organisations ouvrières révolutionnaires qui doivent y prendre
part pour avoir raison du confusionnisme des intellectuels auxiliaires de leurs oppresseurs.
Tract, La mobilisation contre la guerre n’est pas la paix, 1933
I surrealisti lamentano la debolezza della voce che richiede la pace, che si fa così complice dello
sviluppo dell’imperialismo e dell’oppressione borghese, e mettono in evidenza le contraddizioni che
attraversano l’idea di pacifismo. Breton e compagni mostrano dunque in modo chiaro e altisonante la
loro posizione nei confronti dell’illusione del pacifismo e della presenza strisciante della guerra in ogni
contesto:
19
Il n’est rien de plus fallacieux que l’opposition du terme de paix au terme de guerre, en régime
capitaliste. Il nous paraît impossible de justifier, sinon d’une manière toute relative, le mot d’ordre de
paix mis en avant par les organisateurs du Congrès de Genève, à une époque où l’impérialisme
multiplie de tous côtés ses exactions. Tout au moins importe-t-il de dégager un tel mot d’ordre des
illusions déplorables qu’il ne peut manquer de faire naître et contre lesquelles s’inscrivent, avec un
relief croissant les événements symptomatiques dont la scène mondiale est le théâtre : bien plutôt que
de voler au secours d’une passivité déjà trop grande par l’évocation des « atrocités » soi-disant
inhérentes à la guerre, convient-il d’attirer l’attention et la colère du prolétariat sur les crimes
journaliers dont le capitalisme se rend coupable.
Ibid.
Manifestare conto gli oppressori è pericoloso in tempo di guerra come nei periodi di pace, ma è
necessario, scrivono i surrealisti, denunciare i crimini di coloro che continuano a perpetrare azioni
dispotiche e brutali, nascondendosi dietro una maschera di ipocrisia o dietro al potere conquistato con
la forza.
Occorre capire, e le autorità di Ginevra in particolare lo devono fare, che la guerra è in qualche modo
presente ogni giorno, anche nella quotidianità del tempo di pace; è necessario quindi agire, denunciare,
prendere posizione e farlo senza arbitrarietà né mezzi violenti. Per sottolineare meglio tale aspetto i
surrealisti citano a esempio la rivolta avvenuta su due incrociatori peruviani: i ribelli che hanno osato
esporsi contro il potere dittatoriale dei loro comandanti hanno dovuto subirne le dure conseguenze:
senza affrontare alcun processo, ma soprattutto senza che l’opinione pubblica se ne preoccupasse,
alcuni sono stati condannati a morte, altri imprigionati arbitrariamente:
20
Dans la paix comme dans la guerre, les risques sont identiques pour ceux qui se soulèvent contre leurs
oppresseurs. Nous pensons particulièrement ici à l’abominable sentence qui vient de frapper les marins
des croiseurs péruviens Almirante Grau et Coronel Bolognesi qui se révoltèrent le 8 mai dernier pour
protester contre la mauvaise nourriture et les excès de la discipline : huit condamnés à mort exécutés
sur l’heure, quatorze condamnés à 15 ans de prison, douze à 10 ans de la même peine par la Cours
martiale du dictateur Sanchez Cerro qui avait pour la circonstance rétabli la peine de mort. Nous
élevons avec indignation contre cette vengeance de lâches et comptons sur les organisations
révolutionnaires du prolétariat international pour qu’elles mènent contre ses auteurs l’action qui
s’impose. C’est sur la dénonciation de tels crimes et leur explication rationnelle par les contradictions
dans lesquelles le capitalisme se débat que nous entendons que soit porté l’accent de l’intervention à
laquelle, à Genève, les masses ouvrières sont conviées.
Ibid.
Il manifesto, firmato da Breton, Caillois, Char, Crevel, Eluard, Péret, e altri surrealisti si chiude su un
tono provocatorio e polemico: sostenere l’ideale della pace dichiarando guerra alla guerra è una
contraddizione in termini, è un approccio ipocrita e impostore.
21
En réponse au pacifisme officiel qui fait se muer les anges gardiens de la paix en ministres de la guerre;
en réponse à la plus vieille des formules impérialistes : « Si vous voulez la paix, préparez la guerre » ;
en réponse encore à l’hypocrite mot d’ordre de guerre à la guerre, nous disons : « Si vous voulez la
paix, préparez la guerre civile ».
Ibid.
I surrealisti non smettono di esprimere la propria opinione né di cercare una modalità d’azione sul
contesto storico-sociale al quale appartengono.
L’internazionalizzazione del gruppo li spinge a non limitarsi agli avvenimenti che hanno luogo in
Francia, ma a osservare l’evoluzione dei fatti in diversi angoli del mondo e a denunciarne le cause e le
conseguenze.
L’evoluzione storica è certamente ricca di spunti di riflessione e il carattere antibellico del movimento
trova un terreno fertile su cui lavorare e verso il quale esprimere la propria contrarietà.
I surrealisti condannano per esempio lesa bus accomplis par Stalin in Unione Sovietica i quali hanno
come scopo l’eliminazione dei bolscevichi promotori della rivoluzione d’ottobre del 1917. I metodi
applicati hanno condotto alla morte quasi un migliaio di persone e all’arresto di circa il doppio di ex-
collaboratori di Stalin. L’accusato principale, Trotskij, personaggio politico stimato e apprezzato da
Breton e compagni, riesce a fuggire e a riparare in Messico dove però è trovato e ucciso da un agente
sovietico nel 1940. Varie dichiarazioni condannano, in 1936 e 1937, il « procès de Moscou » : « En
notre simple qualité d’intellectuels, nous déclarons que nous tenons le verdict de Moscou et son
exécution pour abominables et inexpiables… » (ibid.).
Nel luglio del 1931 Louis Aragon pubblica un testo poetico nel quale inveisce contro Léon Blum,
contro altri politici francesi. A causa di questo testo egli è accusato di incitamento all’assassinio e
rischia una pena di cinque anni di prigione. I surrealisti, con alla testa Breton, prendono
immediatamente la difesa del loro compagno e scrivono su un volantino:
22
Surréalistes, nous nous déclarons solidaires de la totalité du poème « Front Rouge » puisque aussi bien,
aux termes mêmes de l'inculpation, c'est la totalité de ce poème qui est à retenir. Nous saisissons cette
occasion de dénoncer - et nous voudrions pour cela emprunter les mots magnifiques de « Front Rouge
» - la pourriture capitaliste et spécialement celle du capitalisme français impérialiste et colonisateur et
d'appeler de toutes nos forces à la préparation de la Révolution prolétarienne sous la conduite du Parti
Communiste
Tract, L’Affaire Aragon, 1932
È però una situazione non priva di ambiguità : mentre Breton e la maggior parte dei surrealisti
sembrano volersi allontanare da una posizione politica, la visione di Aragon è sempre più intrecciata
con l’ideologia sovietica.
È l’inizio di un deciso allontanamento dalla politica:
Nel 1935, infine, per difendere l’autonomia del movimento e la possibilità di libera e completa
espressione, i surrealisti abbandonano il PCF : la loro scrittura sarà rivoluzionaria per la forma più che
per il contenuto. Invece di sostenere la propaganda rivoluzionaria, cercheranno forme poetiche di
contestazione (ibid.).
Contrariamente ai compagni, Louis Aragon sceglie di continuare a prendere attivamente parte al lavoro
pratico nelle organizzazioni del partito e di mettere la sua opera a disposizione dell’ideologia
comunista. Tale posizione determina una netta rottura con il movimento surrealista e rompe un
sodalizio che si era protratto nel tempo per più di quindici anni.
Sartre et Les Temps Modernes
Jan-Paul SARTRE (1905-1980)
Existentialisme
Ce courant s’affirma dans l’immédiat après-guerre, et domina la scène nationale jusqu’aux années
soixante.
Ce courant fut certainement national : en lui se reconnurent les générations des années 1945, riches des
espoirs formés par la Résistance, Intellectuels, enseignants, artistes furent « existentialistes » par une
sensibilité commune, plus vécue que réfléchie.
Caractère principal: la volonté d’engagement.
Jean-Paul Sartre n’était pas en effet un inconnu en 1940. Normalien, professeur, il s’était déjà fait
connaître par une double activité d’écrivain et de philosophe.
La Nausée est publiée en 1938.
En 1936, encore, Sartre avait publié une étude philosophique, L’Imagination (s’inspirant de Husserl, il
écrit “L'image est conscience de quelque chose", pour dire que ce n’est pas une chose mais un acte:
Sartre opère dans le contexte de la phénoménologie). En 1939, c’est un recueil de nouvelles, Le Mur;
en 1940, une nouvelle œuvre philosophique, L’Imaginaire (dont L’Imagination devait être le texte
introductif).
En 1943, après la captivité en Allemagne (1940-1941), et simultanément à la participation à la
Résistance, le grand traité philosophique L’Être et le Néant : essai d’ontologie phénoménologique.
Il prouva même ses dons d’homme de théâtre : Les Mouches, inspirées de l’Oreste d’Euripide, sont de
1943; Huis clos, de 1944.
Idée importante: l’authenticité.
Tel est sans doute le message principal du traité de philosophie, L’Être et le Néant.
Sartre exhausse la philosophie française à son stade d’élaboration européenne. Ses points de repères
étant Husserl et Heidegger.
Il s’inscrit en faux contre la dérive spiritualiste et l’obsession religieuse.
Il se déclare en faveur de l’athéisme, mais en même temps de l’individualisme volontariste.
Sartre se veut d’ailleurs et faisant preuve de cohérence réaliste.
Huis clos: « L’enfer c’est les autres ». Autrui apparaît d’abord comme l’autre qui résiste et trouble mes
projets. Le rapport originel à l’autre aperçu est le conflit. Comme chez Hobbes, homo homini lupus.
Il faut rechercher l’authenticité sans jamais la trouver ; et là est la « passion » de l’intersubjectivité.
Ici, apparaît le drame théorique et pratique de l’existentialisme de Sartre : le fait qu’il s’agisse d’un
systhème de pensée aporétique; les fondements de sa pensée ne seront jamais ajustés avec les choix
éthico-politiques : ceux-ci en quelque sorte sont toujours en avant d’eux, ou à côté. Car Sartre, honnête
homme, et penseur courageux, ne veut pas des conséquences pessimistes que sa philosophie semble
impliquer.
Il veut la Résistance, la Libération, il espère une transformation révolutionnaire de la France, et cela
très tôt.
Ainsi apparaît l’obsession de l’existentialisme, la politique. En contraste et opposition avec le
pessimisme qui est à la base
LIBERTE ? Comment l’organiser et en faire une volonté collective ? Ce sont là les problèmes de la
grande trilogie romanesque Les Chemins de la liberté (L’Âge de raison, 1945 ; Le Sursis, 1945 ; La
Mort dans l’âme, 1949). Ce cycle est, significativement, inachevé ; tout comme est en suspens la
morale annoncée par L’Être et le Néant.
Ces romans unissent le récit impersonnel aux monologues, et cette période est en effet celle d’une
admirable production théâtrale : Morts sans sépulture (1946), La Putain respectueuse (1946), Les
Mains sales (1948), Le Diable et le Bon Dieu (1951), et enfin, la pièce testament, Les Séquestrés
d’Altona (1961). De Huis clos aux Mains sales, on observe la même parabole que conduit de La
Nausée aux Chemins de la liberté.
Pour Sartre, la découverte de l’historicité, et la passion de la politique, sont indissolublement liées à la
rencontre heurtée et dramatique avec le mouvement ouvrier, le Parti communiste, et le marxisme.
Dès 1945, en effet Sartre a fondé avec Raymond Aron et Maurice Merleau-Ponty la revue Les Temps
modernes qui a longtemps été l’expression de ce que l’on peut nommer un radicalisme ultra-gauche.
Sartre, critiqué par les communistes, essaie de donner un fondement théorique à son engagement
politique.
L’Existentialisme est un humanisme, conférence publiée en 1946, produit un grand remue-ménage.
En même temps, Sartre se signale par la dénonciation courageuse de l’antisémitisme (Réflexions sur la
question juive, 1946); la prise de position contre la répression colonialiste; la critique des camps en
URSS (voir les textes politiques de Situations, I, II, III).
Ces positions ne sont liées à aucune analyse profonde de la réalité historique : elles sont toutes dictées
par l’axiomatique morale.
Il aboutit à un activisme théorique et pratique qui en arrive à soutenir que nous sommes libres
producteurs du sens de notre passé et de notre avenir, de notre réalité de classe même.
Assurément Sartre se rapproche du PCF en 1952.
Même en 1956, après avoir condamné l’intervention soviétique en Hongrie, Sartre ne rompt pas avec le
PCF et, dès 1957, il s’engage courageusement dans la lutte contre la guerre d’Algérie. En mai 1958, il
s’opposera résolument au gaullisme et deviendra un farouche opposant à la Ve République.
C’est cette pratique même – celle d’un populisme honnête – qu’il théorisa tout de suite dans ses essais
critiques sur la littérature et sur quelques œuvres littéraires.
1947 : Qu’est-ce que la littérature ?
Qu’est-ce que la littérature?
Avant d'être publié en un volume autonome, Qu'est-ce que la littérature ? a paru en 1947 dans Les
Temps modernes, repris l'année suivante dans Situations II, précédé de deux autres articles :
« Présentation des Temps modernes », manifeste de la revue créée par Jean-Paul Sartre (1905-1980) en
1945, et « La Nationalisation de la littérature », bilan sur la situation de l'écrivain au lendemain de la
guerre. Il est à noter que ces textes sont les seuls où Sartre propose explicitement une réflexion
théorique générale sur la littérature, tous les autres – articles ou ouvrages – étant consacrés à des
écrivains, qu'il s'agisse de Ponge, Genet, Mallarmé et bien sûr Flaubert.
1. L'écrivain n'est pas innocent
Qu'est-ce que la littérature ? se compose de quatre chapitres, liés par une forte relation logique. À la
question initiale « Qu'est-ce qu'écrire ? », Sartre répond en distinguant prose et poésie. Dans la
première, le mot est traité comme un signe ; au contraire, le poète considère son matériau comme une
chose. On connaît la fameuse formule qui résume cette opposition : la prose se sert des mots, la poésie
sert les mots. Or la littérature étant l'art du langage, et le langage étant « naturellement signifiant », c'est
dans la prose que se réalise son essence, la poésie étant plutôt assimilée aux arts « intransitifs » que
sont la musique et la peinture. Pour Sartre, la littérature est donc bien un moyen de communication.
Mais communication de quoi ? En vue de quoi ? Autrement dit, « pourquoi écrire » ? Là encore, la
réponse est bien connue : « l'écrivain a choisi de dévoiler le monde et singulièrement l'homme aux
autres hommes, pour que ceux-ci prennent en face de l'objet ainsi mis à nu leur entière responsabilité ».
Celle prônée par Sartre est donc là aussi et encore une fois une éthique de la RESPONSABILITE.
Sartre d’ailleurs ne se contente pas de prôner une littérature prenant parti dans les enjeux du siècle, il
travaille lui-même en écrivain engagé
Il s’engage au service de la littérature subversive, dont il fait la théorie. Qu’il s’agisse de roman, de
théâtre, d’essai, ou de philosophie, s’explicite la confiance dans l’homme, devenu un absolu, capable
de se faire, et totalement, responsable de soi.
Dernier volet biographique
Il semblerait (tournant indiqué par l’autobiographie, Les Mots en 1964 – texte d’une magnifique
maîtrise) que l’ultraradicalisme dans le domaine politique ait pour corrélat le retour de l’écrivain sur sa
pratique d’écriture, sur son destin de littérateur. L’homme qui a décrit dans Les Mots la vanité de toute
littérature face à la souffrance d’un enfant, ne cesse d’écrire et, qui est plus, d’écrire sur un écrivain
dont la seule activité ne fut qu’écrire.
Au plus fort de la crise de 1968, Sartre rédige en effet une monumentale biographie consacrée à
Flaubert :
L’Idiot de la famille (trois volumes, 1971, 1972, 1974).
Elle pense unifier la psychanalyse, le matérialisme historique, la sociologie dans une totalisation des
méthodes, appliquée à la totalité d’une vie. Elle n’apporte pas vraiment de nouvelles connaissances ;
elle constitue plutôt une étonnante synthèse de tous les genres pratiqués par Sartre, leur récapitulation,
puisqu’elle unit la philosophie à l’essai, et qu’elle présente une biographie comme un roman. Et
surtout, on doit s’interroger sur le sens de cette ultime contribution.
Pour Sartre, Flaubert, antithèse absolue à l’écrivain engagé, est celui qui a choisi de se faire exister
comme « pur » écrivain, comme liberté qui ne veut qu’écrire, qui se rapporte au monde selon une
relation de pure passivité, et ne maîtrise cette dernière que dans l’acte d’écriture.
Flaubert n’a voulu exister que par les mots.
Par cet étrange renversement, la figure du pur littérateur retrouve celle de celui qui l’interroge, qui
rassemble toutes ses forces et tous les genres, et qui elle aussi, contre elle-même et contre son projet
cette fois, a existé dans et par les mots.
Celui qui refuse, en 1964, le prix Nobel pour protester contre la guerre impérialiste au Vietnam et qui
reste le séquestré de sa propre classe, celui que celle-ci a vomi et vilipendé sans relâche, n’est pas
seulement un admirable écrivain, un grand honnête homme.
Il est l’attente vivante de la fusion entre écriture, littérature d’une part, et forces populaires d’autre part.
Simone de BEAUVOIR (1908-1986)
Simone de Beauvoir (née en 1908). Elle aussi sut jouer sur divers régistres. Philosophe de formation,
elle toucha avec talent au roman comme à l’autobiographie.
Ses essais philosophiques (Pour une morale de l’ambiguïté, 1947) sont centrés sur la notion de
l’authenticité.
Ses romans (comme Les Mandarins, 1954 ; L’Invitée, 1943) avec leur belle écriture classique,
manifestent une réelle vertu critique.
Les mémoires autobiographiques conservent, outre leur valeur littéraire propre, un grand intérêt humain
pour toute cette période : Mémoires d’une jeune fille rangée, 1958 ; La force de l’âge, 1960 ; La force
des choses, 1963.
Le texte qui réunit le philosophe, l’écrivain et la femme engagée, à savoir Le deuxième sexe, 1949,
n’est pas simplement le témoignage d’une intellectuelle qui cherche à assumer sa condition de femme.
Cet ouvrage, bien que composite, tente de lier psychanalyse, critique sociale et historique pour
comprendre l’injustice séculaire faite aux femmes, et pour donner raison à leur combat pour une
reconnaissance intégrale.
Les Temps Modernes
Les Temps modernes paraissent chez Gallimard d'octobre 1945 à décembre 1948, enfin de nouveau
chez Gallimard à partir d'avril 1985. Jean-Paul Sartre en est le directeur fondateur ; son premier comité
de rédaction est composé de Raymond Aron, Simone de Beauvoir, Michel Leiris, Maurice Merleau-
Ponty, Albert Olivier et Jean Paulhan.
En 1995, les Temps Modernes fêtent leur cinquantième anniversaire.
La revue est dirigée aujourd’hui par Claude Lanzmann (l’auteur de ce monument qu’est le film-
documentaire Shoah sur le génocide qui dure 9 heures, qu’il a employé douze ans à tourner, paru en
1985).
Les Temps Modernes demeurent la plus prestigieuse des revues françaises de rang international
s’occupant de la culture et de la politique, de la politique et de la culture de gauche en France.
Quelques renseignement sur le moment où la revue naît.
C’est la Libération: à Paris les soldats américains déambulent dans les rues et les cafés, mâchent du
chewing-gum et distribuent cigarettes et chocolat.
Simone de Beauvoir en est certaine, l'Europe va balayer la vieille société en même temps qu'elle chasse
le fascisme et terrasse les dictatures. Mais la joie des premiers jours se glace devant l'horreur sans cesse
renouvelée des informations rapportées par les correspondants de guerre.
Devant cette avalanche d'atrocités, Sartre et Castor (c’est ainsi qu’il l’a surnommée) estiment que
l'engagement concret des intellectuels est devenu nécessaire : « la joie de vivre cédait à la honte de
survivre ». Simone publie Le Sang des autres, un roman sur la Résistance et plus largement sur la
responsabilité de chaque être humain.
Dans le Paris d'après-guerre, les revues politiques fleurissent. Elles sont généralement de gauche mais
se veulent indépendantes des socialistes comme des communistes. Sartre a lui aussi un projet de revue.
Il souhaite y associer étroitement politique, littérature et philosophie.
Albert Camus préfère se tourner vers la littérature, mais Combat est solidaire de la nouvelle parution.
Le titre est choisi par Sartre, en référence au film de Chaplin et à l'espoir né de l'après-guerre : Les
Temps Modernes – Les Temps modernes (Modern Times) est une comédie dramatique américaine de
Charlie Chaplin, sortie en 1936. Il s'agit du dernier film muet de son auteur et le dernier qui présente le
personnage de Charlot, lequel lutte pour survivre dans le monde industrialisé. Le film est une satire du
travail à la chaîne et un plaidoyer contre le chômage et des conditions de vie d'une grande partie de la
population occidentale lors de la Grande dépression. Conditions imposées, selon Chaplin, par les gains
d'efficacité exigés par l'industrialisation des temps modernes. Les vedettes du film sont Charlie
Chaplin, Paulette Goddard, qui fut pendant quelques années la compagne de l'auteur à la suite du
tournage.
Simone choisit la couverture, très simple, blanche avec une typographie rouge et noire et les deux
majuscules T M.
En janvier 1945, Sartre est invité aux États-Unis par le Département d'Etat pour un séjour de deux
mois. Il représente Combat et Le Figaro. Il prend l'avion pour New-York et laisse derrière lui Simone,
déçue de ne pas faire avec lui ce baptême de l'air vers l'Amérique. Il rencontre aussi Dolorès Vanetti
Ehrenreich, une Française mariée à un médecin américain et en tombe amoureux.
C'est la plus grande rivale de Castor qui vient d'entrer en scène. Celle-ci ne le sait pas encore, car elle
prépare enfin son premier voyage à l'étranger depuis la Libération. Elle a obtenu un ordre de mission
pour se rendre au Portugal, grâce à Lionel de Roulet qui travaille à l'Institut français de Lisbonne et qui
l'a invitée à donner des conférences. Elle est également correspondante officielle de Combat pour
Camus. Ses articles les plus critiques sur le Portugal de Salazar paraîtront sous le pseudonyme de
Daniel Secrétan, articles émus et révoltés.
Elle raconte les enfants misérables qui fouillent les poubelles pour survivre, et aussi l'absence de liberté
de parole, la population maintenue dans la misère pour l'empêcher de se rebeller.
À Paris, Simone se jette à nouveau dans le travail.
Le premier numéro des Temps Modernes paraît en octobre.
Cette frénésie calme un peu sa douleur de voir Sartre aussi amoureux de Dolorès : c'est à cette dernière
qu'il a dédié le premier numéro des Temps Modernes. Il ne remet pas en question le pacte sentimental
et intellectuel qui le lie à Simone, bien sûr, mais projette de partager son temps entre les deux femmes,
persuadé que Simone, comme toujours, comprendra.
L'année 1946 marque un nouveau départ.
Si Castor est attendue avec impatience et curiosité outre Atlantique, c'est grâce, ou à cause, de
l'existentialisme. Le succès de ce mouvement de pensée vient de ce qu'il proclame l'absurdité de la
condition humaine mais défend la liberté individuelle (on doit choisir sa vie), et une morale
philosophique (dans cette liberté on est responsable de ses actes et de leurs conséquences).
Lecture proposée, du premier numéro de la revue, l’article programmatique de Sartre:
PRÉSENTATION DES TEMPS MODERNES
Tous les écrivains d'origine bourgeoise ont connu la tentation de l'irresponsabilité depuis un siècle, elle
est de tradition dans la carrière des lettres. L'auteur établit rarement une liaison entre ses oeuvres et leur
rémunération en espèces. D'un côté, il écrit, il chante, il soupire; d'un autre côté, on lui donne de
l'argent. Voilà deux faits sans relation apparente; le mieux qu'il puisse faire c'est de se dire qu'on le
pensionne pour qu'il soupire. Aussi se tient-il plutôt pour un étudiant titulaire d'une bourse que comme
un travailleur qui reçoit le prix de ses peines. Les théoriciens de l'Art pour l'Art et du Réalisme sont
venus l'ancrer dans cette opinion. A-t-on remarqué qu'ils ont le même but et la même origine? L'auteur
qui suit l'enseignement des premiers a pour souci principal de faire des ouvrages qui ne servent à rien :
s'ils sont bien gratuits, bien privés de racines, ils ne sont pas loin de lui paraître beaux. Ainsi se met-il
en marge de la société ; ou plutôt il ne consent à y figurer qu'au titre de pur consommateur :
précisément comme le boursier. Le Réaliste, lui aussi, consomme volontiers. Quant à produire, c'est
une autre affaire: on lui a dit que la science n'avait pas le souci de l'utile et il vise à l'impartialité
inféconde du savant. Nous a-t-on assez dit qu'il "se penchait" sur les milieux qu'il voulait décrire. Il se
penchait ! Ou était-il donc ? En l'air ? La vérité, c'est que, incertain sur sa position sociale, trop timoré
pour se dresser contre la bourgeoisie qui le paye, trop lucide pour l'accepter sans réserves, il a choisi de
juger son siècle et s'est persuadé par ce moyen qu'il lui demeurait extérieur, comme 1'expérimentateur
est extérieur au système expérimental. Ainsi le désintéressement de la science pure rejoint la gratuité de
l'Art pour l'Art. Ce n'est pas par hasard que Flaubert est à la fois pur styliste, amant pur de la forme et
père du naturalisme; ce n'est pas par hasard que les Goncourt se piquent à la fois de savoir observer et
d'avoir l'écriture artiste.
Cet héritage d'irresponsabilité a mis le trouble dans beaucoup d'esprits. Ils souffrent d'une mauvaise
conscience littéraire et ne savent pas très bien s'il est admirable d'écrire ou grotesque. Autrefois, le
poète se prenait pour un prophète, c'était honorable ; par la suite, il devint paria et maudit, ça pouvait
encore aller. Mais aujourd'hui, il est tombé au rang des spécialistes et ce n'est pas sans un certain
malaise qu'il mentionne, sur les registres d'hôtel, le métier d' " homme de lettres ", à la suite de son
nom. Homme de lettres en elle-même, cette association de mots a de quoi dégoûter d'écrire; on songe à
un Ariel, à une Vestale, à un enfant terrible, et aussi à un inoffensif maniaque apparenté aux
haltérophiles ou aux numismates. Tout cela est assez ridicule. L'homme de lettres écrit quand on se bat;
un jour, il en est fier, il se sent clerc et gardien des valeurs idéales; le lendemain il eu a honte, il trouve
que la littérature ressemble fort à une manière d'affectation spéciale. Auprès des bourgeois qui le lisent,
il a conscience de sa dignité; mais en face des ouvriers, qui ne le lisent pas, il souffre d'un complexe
d'infériorité, comme on l'a vu en 1936, à la Maison de la Culture. C'est certainement ce complexe qui
est à l'origine de ce que Paulhan nomme terrorisme, c'est lui qui conduisit les surréalistes à mépriser la
littérature dont ils vivaient. Après l'autre guerre, il fut l'occasion d'un lyrisme particulier; les meilleurs
écrivains, les plus purs, confessaient publiquement ce qui pouvait les humilier le plus et se montraient
satisfaits lorsqu'ils avaient attiré sur eux la réprobation bourgeoise : ils avaient produit un écrit qui, par
ses conséquences, ressemblait un peu à un acte. Ces tentatives isolées ne purent empêcher les mots de
se déprécier chaque jour davantage. Il y eut une crise de la rhétorique, puis une crise du langage. A la
veille de cette guerre, la plupart des littérateurs s'étaient résignés à n'être que des rossignols. Il se trouva
enfin quelques auteurs pour pousser à l'extrême le dégoût de produire renchérissant sur leurs aînés, ils
jugèrent qu'ils n'eussent point assez fait en publiant un livre simplement inutile, ils soutinrent que le but
secret de toute littérature était la destruction du langage et qu'il suffisait pour l'atteindre de parler pour
ne rien dire. Ce silence intarissable fut à la mode quelque temps et les Messageries Hachette
distribuèrent dans les bibliothèques des gares des comprimés de silence sous forme de romans
volumineux. Aujourd'hui, les choses en sont venues à ce point que l'on a vu des écrivains, blâmés ou
punis parce qu'ils ont loué leur plume aux Allemands, faire montre d'un étonnement douloureux. " Eh
quoi? disent-ils, ça engage donc, ce qu'on écrit ? "
Nous ne voulons pas avoir honte d'écrire et nous n'avons pas envie de parler pour ne rien dire. Le
souhaiterions-nous, d'ailleurs, que nous n'y parviendrions pas, personne ne peut y parvenir. Tout écrit
possède un sens, même si ce sens est très loin de celui que l'auteur avait rêvé d'y mettre. Pour nous, en
effet, l'écrivain n'est ni Vestale, ni Ariel il est "dans le coup", quoi qu'il fasse, marqué, compromis,
jusque dans sa plus lointaine retraite. Si, à de certaines époques, il emploie son art à forger des bibelots
d'inanité sonore, cela même est un signe, c'est qu'il y a une crise des lettres et, sans doute, de la Société,
ou bien c'est que les classes dirigeantes l'ont aiguillé sans qu'il s'en doute vers une activité de luxe, de
crainte qu'il ne s'en aille grossir les troupes révolutionnaires. Flaubert, qui a tant pesté contre les
bourgeois et qui croyait s'être retiré à l'écart de la machine sociale, qu'est-il pour nous sinon un rentier
de talent ? Et son art minutieux ne suppose-t-il pas le confort de Croisset, la sollicitude d'une mère ou
d'une nièce, un régime d'ordre, un commerce prospère, des coupons à toucher régulièrement? Il faut
peu d'années pour qu'un livre devienne un fait social qu'on interroge comme une institution ou qu'on
fait entrer comme une chose dans les statistiques; il faut peu de recul pour qu'il se confonde avec
l'ameublement d'une époque, avec ses habits, ses chapeaux, ses moyens de transport et son
alimentation. L'historien dira de nous "Ils mangeaient ceci, ils lisaient cela, ils se vêtaient ainsi." Les
premiers chemins de fer, le choléra, la révolte des Canuts, les romans de Balzac, l'essor de l'industrie
concourent également à caractériser la Monarchie de Juillet. Tout cela, on l'a dit et répété, depuis
Hegel: nous voulons en tirer les conclusions pratiques. Puisque l'écrivain n'a aucun moyen de s'évader,
nous voulons qu'il embrasse étroitement son époque; elle est sa chance unique, elle s'est faite pour lui et
il est fait pour elle. On regrette l'indifférence de Balzac devant les journées de ’48, l'incompréhension
apeurée de Flaubert en face de la Commune; on les regrette pour eux : il y a là quelque chose qu'ils ont
manqué pour toujours. Nous ne voulons rien manquer de notre temps, peut-être en est-il de plus beaux,
mais c'est le nôtre; nous n'avons que cette vie à vivre, au milieu de cette guerre, de cette révolution
peut-être. Qu'on n'aille pas conclure de là que nous prêchions une sorte de populisme c'est tout le
contraire. Le populisme est un enfant de vieux, le triste rejeton des derniers réalistes; c'est encore un
essai pour tirer son épingle du jeu. Nous sommes convaincus, au contraire, qu'on ne peut pas tirer son
épingle du jeu. Serions-nous muets et cois comme des cailloux, notre passivité même serait une action.
Celui qui consacrerait sa vie à faire des romans sur les Hittites, son abstention serait par elle-même une
prise de position. L'écrivain est en situation dans son époque : chaque parole a des retentissements.
Chaque silence aussi. Je tiens F1aubert et Goncourt pour responsables de la répression qui suivit la
Commune parce qu'ils n'ont pas écrit une ligne pour l'empêcher. Ce n'était pas leur affaire, dira-t-on.
Mais le procès de Calas, était-ce l'affaire de Voltaire? La condamnation de Dreyfus, était-ce l'affaire de
Zola? L'administration du Congo, était-ce l'affaire de Gide? Chacun de ces auteurs, en une circonstance
particulière de sa vie, a mesuré sa responsabilité d'écrivain. L'occupation nous a appris la nôtre.
Puisque nous agissons sur notre temps par notre existence même, nous décidons que cette action sera
volontaire. Encore, faut-il préciser, il n'est pas rare qu'un écrivain se soucie, pour sa modeste part, de
préparer l'avenir. Mais il y a un futur vague et conceptuel qui concerne l'humanité entière et sur lequel
nous n'avons pas de lumières. L'histoire aura-t-elle une fin ? Le soleil s'éteindra-t-il ? Quelle sera la
condition de l'homme dans le régime socialiste de l'an 3000 ? Nous laissons ces rêveries aux
romanciers d'anticipation: c'est l'avenir de notre époque qui doit faire l'objet de nos soins, un avenir
limité qui s'en distingue à peine - car une époque, comme un homme, c'est d'abord un avenir. Il est fait
de ses travaux en cours, de ses entreprises, de ses projets à plus ou moins long terme, de ses révoltes, de
ses combats, de ses espoirs quand finira la guerre ? Comment rééquipera-t-on le pays ? Comment
aménagera-t-on les relations internationales ? Que seront les réformes sociales ? Les forces de la
réaction triompheront-elles ? Y aura-t-il une révolution et que sera-t-elle ? Cet avenir nous le faisons
nôtre, nous ne voulons point en avoir d'autre. Sans doute, certains auteurs ont des soucis moins actuels
et des vues moins courtes. Ils passent au milieu de nous, comme des absents. Où sont-ils donc? Avec
leurs arrière-neveux, ils se retournent pour juger cette ère disparue qui fut la nôtre et dont ils sont seuls
survivants. Mais ils font un mauvais calcul, la gloire posthume se fonde toujours sur un malentendu.
Que savent-ils de ces neveux qui viendront les pêcher parmi nous! C'est un terrible alibi que
l'immortalité, il n'est pas facile de vivre avec un pied au delà de la tombe et un pied en deçà. Comment
expédier les affaires courantes quand on les regarde de si loin ! Comment se passionner pour un
combat, comment jouir d'une victoire! Tout est équivalent. Ils nous regardent sans nous voir : nous
sommes déjà morts à leurs yeux - et ils retournent au roman qu'ils écrivent pour des hommes qu'ils ne
verront jamais. Ils se sont laissé voler leur vie par l'immortalité. Nous écrivons pour nos
contemporains, nous ne voulons pas regarder notre monde avec des yeux futurs, ce serait le plus sûr
moyen de le tuer, mais avec nos yeux de chair, avec nos vrais yeux périssables. Nous ne souhaitons pas
gagner notre procès en appel et nous n'avons que faire d'une réhabilitation posthume; c'est ici même et
de notre vivant que les procès se gagnent ou se perdent.
Nous ne songeons pourtant pas à instaurer un relativisme littéraire. Nous avons peu de goût pour
l'historique pur. Et d'ailleurs existe-t-il un historique pur sinon dans les manuels de M. Seignobos ?
Chaque époque découvre un aspect de la condition humaine, à chaque époque l'homme se choisit en
face d'autrui, de l'amour, de 1a mort, du monde et lorsque les partis s'affrontent à propos du
désarmement des F. F. I. ou de l'aide à fournir aux républicains espagnols, c'est ce choix métaphysique,
ce projet singulier et absolu qui est en jeu. Ainsi, en prenant parti dans la singularité de notre époque,
nous rejoignons finalement l'éternel et c'est notre tâche d'écrivain que de faire entrevoir les valeurs
d'éternité qui sont impliquées dans ces débats sociaux ou politiques. Mais nous ne nous soucions pas de
les aller chercher dans un ciel intelligible: elles n'ont d'intérêt que sous leur enveloppe actuelle. Bien
loin d'être relativistes, nous affirmons hautement que l'homme est un absolu. Mais il l'est à son heure,
dans son milieu, sur sa terre. Ce qui est absolu, ce que mille ans d'histoire ne peuvent détruire, c'est
cette décision irremplaçable, incomparable, qu'il prend dans ce moment à propos de ces circonstances;
l'absolu, c'est Descartes, l'homme qui nous échappe parce qu'il est mort, qui a vécu dans son époque,
qui l'a pensée au jour le jour, avec les moyens du bord, qui a formé sa doctrine à partir d'un certain état
des sciences, qui a connu Gassendi, Caterus et Mersenne, qui a aimé dans son enfance une jeune fille
louche, qui a fait la guerre et qui a engrossé une servante, qui s'est attaqué non au principe d'autorité en
général, mais précisément à l'autorité d'Aristote et qui se dresse à sa date, désarmé mais non vaincu,
comme une borne; ce qui est relatif, c'est le cartésianisme, cette philosophie baladeuse que l'on
promène de siècle en siècle et où chacun trouve ce qu'il y met. Ce n'est pas en courant après à
l'immortalité que nous nous rendrons éternels : nous ne serons pas des absolus pour avoir reflété dans
nos ouvrages quelques principes décharnés, assez vides et assez nuls pour passer d'un siècle à l'autre,
mais parce que nous aurons combattu passionnément dans notre époque, parce que nous l'aurons aimée
passionnément et que nous aurons accepté de périr tout entiers avec elle.
En résumé, notre intention est de concourir à produire certains changements dans la Société qui nous
entoure. Par là, nous n'entendons pas un changement dans les âmes : nous laissons bien volontiers la
direction des âmes aux auteurs qui ont une clientèle spécialisée. Pour nous qui, sans être matérialistes,
n'avons jamais distingué l'âme du corps et qui ne connaissons qu'une réalité indécomposable, la réalité
humaine, nous nous rangeons du côté de ceux qui veulent changer à la fois la condition sociale de
l'homme et la conception qu'il a de lui-même. Aussi, à propos des événements politiques et sociaux qui
viennent, notre revue prendra position en chaque cas. Elle ne le fera pas politiquement, c'est-à-dire
qu'elle ne servira aucun parti; mais elle s'efforcera de dégager la conception de l'homme dont
s'inspireront les thèses en présence et elle donnera son avis conformement à la conception qu'elle
soutient. Si nous pouvons tenir ce que nous nous promettons, si nous pouvons faire partager nos vues à
quelques lecteurs nous ne concevrons pas un orgueil exagéré; nous nous féliciterons simplement d'avoir
retrouvé une bonne conscience professionnelle et de ce que, au moins pour nous, la littérature soit
redevenue ce qu'elle n'aurait jamais dû cesser d'être: une fonction sociale.
Et quelle est, dira-t-on, cette conception de l'homme que vous prétendez nous découvrir ? Nous
répondrons qu'elle court les rues et que nous ne prétendons pas la découvrir, mais seulement aider à la
préciser. Cette conception, je la nommerai totalitaire. Mais comme le mot peut sembler malheureux,
comme il a été fort décrié ces dernières années, comme il a servi à désigner non la personne humaine
mais un type d'Etat oppressif et antidémocratique, il convient de donner quelques explications.
La classe bourgeoise, me semble-t-il, peut se définir intellectuellement par l'usage qu'elle fait de l'esprit
d'analyse, dont le postulat initial est que les composés doivent nécessairement se réduire à un
agencement d'éléments simples. Entre ses mains, ce postulat fut jadis une arme offensive qui lui servit
à démanteler les bastions de l'Ancien Régime. Tout fut analysé; on réduisit d'un même mouvement l'air
et l'eau à leurs éléments, l'esprit à la somme des impressions qui le composent, la société à la somme
des individus qui la font. Les ensembles s'effacèrent : ils n'étaient plus que des sommations abstraites
dues au hasard des combinaisons. La réalité se réfugia dans les termes ultimes de la décomposition.
Ceux-ci en effet - c'est le second postulat de l'analyse - gardent inaltérablement leurs propriétés
essentielles, qu'ils entrent dans un composé ou qu'ils existent à l'état libre. Il y eut une nature immuable
de l'oxygène, de l'hydrogène, de l'azote, des impressions élémentaires qui composent notre esprit, il y
eut une nature immuable de l'homme. L'homme était l'homme comme le cercle était le cercle : une fois
pour toutes; l'individu, qu'il fût transporté sur le trône ou plongé dans la misère, demeurait
foncièrement identique à lui-même parce qu'il était conçu sur le modèle de l'atome d'oxygène, qui peut
se combiner avec l'hydrogène pour faire de l'eau, avec l'azote pour faire de l'air, sans que sa structure
interne en soit changée. Ces principes ont présidé à la Déclaration des Droits de l'Homme. Dans la
société que conçoit l'esprit d'analyse, l'individu, particule solide et indécomposable, véhicule de la
nature humaine, réside comme un petit pois dans une boite de petits pois : il est tout rond, fermé sur
soi, incommunicable. Tous les hommes sont égaux: il faut entendre qu'ils participent tous également à
l'essence d'homme. Tous les hommes sont frères : la fraternité est un lien passif entre molécules
distinctes, qui tient la place d'une solidarité d'action ou de classe que l'esprit d'analyse ne peut même
pas concevoir. C'est une relation tout extérieure et purement sentimentale qui masque la simple
juxtaposition des individus dans la société analytique. Tous les hommes sont libres : libres d'être
hommes, cela va sans dire. Ce qui signifie que l'action du politique doit être toute négative : il n'a pas à
faire la nature humaine; il suffit qu'il écarte les obstacles qui pourraient l'empêcher de s'épanouir. Ainsi,
désireuse de ruiner le droit divin, le droit de la naissance et du sang, le droit d'aînesse, tous ces droits
qui se fondaient sur l'idée qu'il y a des différences de nature entre les hommes, la bourgeoisie a
confondu sa cause avec celle de l'analyse et construit à son usage le mythe de l'universel. Au rebours
des révolutionnaires contemporains, elle n'a pu réaliser ses revendications qu'en abdiquant sa
conscience de classe : les membres du Tiers-Etat à la Constituante étaient bourgeois en ceci qu'ils se
considéraient simplement comme des hommes.
Après cent cinquante ans, l'esprit d'analyse reste la doctrine officielle de la démocratie bourgeoise,
seulement il est devenu arme défensive. La bourgeoisie a tout intérêt à s'aveugler sur les classes comme
autrefois sur la réalité synthétique des institutions d'Ancien Régime. Elle persiste à ne voir que des
hommes, à proclamer l'identité de la nature humaine à travers toutes les variétés de situation : mais c'est
contre le prolétariat qu'elle le proclame. Un ouvrier, pour elle, est d'abord un homme - un homme
comme les autres. Si la Constitution accorde à cet homme le droit de vote et la liberté d'opinion, il
manifeste sa nature humaine autant qu'un bourgeois. Une littérature polémique a trop souvent
représenté le bourgeois comme un esprit calculateur et chagrin dont l'unique souci est de défendre ses
privilèges. En fait, on se constitue bourgeois en faisant choix, une fois pour toutes, d'une certaine vision
du monde analytique qu'on tente d'imposer à tous les hommes et qui exclut la perception des réalités
collectives. Ainsi, la défense bourgeoise est bien en un sens permanente, et elle ne fait qu'un avec la
bourgeoisie elle-même; mais elle ne se manifeste pas par des calculs; à l'intérieur du monde qu'elle s'est
construit, il y a place pour des vertus d'insouciance, d'altruisme et même de générosité; seulement les
bienfaits bourgeois sont des actes individuels qui s'adressent à la nature humaine universelle en tant
qu'elle s'incarne dans un individu. En ce sens, ils ont autant d'efficacité qu'une habile propagande, car le
titulaire des bienfaits est contraint de les recevoir comme on les lui propose, c'est-à-dire en se pensant
comme une créature humaine isolée en face d'une autre créature humaine. La charité bourgeoise
entretient le mythe de la fraternité.
Mais il est une autre propagande, qui nous intéresse plus particulièrement ici, puisque nous sommes des
écrivains et que les écrivains s'en font les agents inconscients. Cette légende de l'irresponsabilité du
poète, que nous dénoncions tout à l'heure, elle tire son origine de l'esprit d'analyse. Puisque les auteurs
bourgeois se considèrent eux-mêmes comme des petits pois dans une boîte, la solidarité qui les unit aux
autres hommes leur paraît strictement mécanique, c'est-à-dire de simple juxtaposition. Même s'ils ont
un sens élevé de leur mission littéraire, ils pensent avoir assez fait lorsqu'ils ont décrit leur nature
propre ou celle de leurs amis: puisque tous les hommes sont faits de même, ils auront rendu service à
tous, en éclairant chacun sur soi. Et comme le postulat dont ils partent est celui de l'analyse, il leur
paraît tout simple d'utiliser pour se connaître la méthode analytique. Telle est 1' origine de la
psychologie intellectualiste dont les oeuvres de Proust nous offrent l'exemple le plus achevé. Pédéraste,
Proust a cru pouvoir s'aider de son expérience homosexuelle lorsqu'il a voulu dépeindre l'amour de
Swann pour Odette; bourgeois, il présente ce sentiment d'un bourgeois riche et oisif pour une femme
entretenue comme le prototype de I' amour, c'est donc qu'il croit à l'existence de passions universelles
dont le mécanisme ne varie pas sensiblement quand on modifie les caractères sexuels, la condition
sociale, la nation ou l'époque des individus qui les ressentent. Après avoir ainsi "isolé" ces affections
immuables, il pourra entreprendre de les réduire, à leur tour, à des particules élémentaires. Fidèle aux
postulats de l'esprit d'analyse, il n'imagine même pas qu'il puisse y avoir une dialectique des
sentiments, mais seulement un mécanisme. Ainsi l'atomisme social, position de repli de la bourgeoisie
contemporaine, entraîne l'atomisme psychologique. Proust s'est choisi bourgeois, il s'est fait le
complice de la propagande bourgeoise, puisque son oeuvre contribue à répandre le mythe de la nature
humaine.
Nous sommes persuadés que l'esprit d'analyse a vécu et que son unique office est aujourd'hui de
troubler la conscience révolutionnaire et d'isoler les hommes au profit des classes privilégiés. Nous ne
croyons plus à la psychologie intellectualiste de Proust, et nous la tenons pour néfaste. Puisque nous
avons choisi pour exemple son analyse de l'amour-passion, nous éclairerons sans doute le lecteur en
mentionnant les points essentiels sur lesquels nous refusons toute entente avec lui.
En premier lieu, nous n'acceptons pas a priori l'idée que l'amour-passion soit une affection consti-tutive
de l'esprit humain. Il se pourrait fort bien, comme l'a suggéré Denis de Rougemont, qu'il eût une origine
historique en corrélation avec l'idéologie chrétienne. D'une façon plus générale, nous estimons qu'un
sentiment est toujours l'expression d'un certain mode de vie et d'une certaine conception du monde qui
sont communs à toute une classe ou à toute une époque et que son évolution n'est pas l'effet de je ne
sais quel mécanisme intérieur mais de ces facteurs historiques et sociaux.
En second lieu, nous ne pouvons admettre qu'une affection humaine soit composée d'éléments
moléculaires qui se juxtaposent sans se modifier les uns les autres. Nous la considérons non comme
une machine bien agencée mais comme une forme organisée. Nous ne concevons pas la possibilité de
faire l'analyse de l'amour parce que le développement de ce sentiment, comme de tous les autres, est
dialectique.
Troisièmement, nous refusons de croire que l'amour d'un inverti présente les mêmes caractères que
celui d'un hétérosexuel. Le caractère secret, interdit du premier, son aspect de messe noire, l'existence
d'une franc-maçonnerie homosexuelle, et cette damnation où l'inverti a conscience d'entraîner avec lui
son partenaire: autant de faits qui nous paraissent influencer le sentiment tout entier et jusque dans les
détails de son évolution. Nous prétendons que les divers sentiments d'une personne ne sont pas
juxtaposés mais qu'il y a une unité synthétique de l'affectivité et que chaque individu se meut dans le
monde affectif qui lui est propre.
Quatrièmement nous nions que l'origine, la classe, le milieu, la nation de l'individu soient de simples
concomitants de sa vie sentimentale. Nous estimons au contraire que chaque affection, comme
d'ailleurs toute autre forme de sa vie psychique, manifeste sa situation sociale. Cet ouvrier, qui touche
un salaire, qui ne possède pas les instruments de son métier, que son travail isole en face de la matière
et qui se défend contre l'oppression en prenant conscience de sa classe, ne saurait en aucune
circonstance sentir comme ce bourgeois, l'esprit analytique que sa profession met en relation de
politesse avec d'autres bourgeois.
Ainsi recourons-nous, contre l'esprit d'analyse, à une conception synthétique de la réalité dont le
principe est qu'un tout, quel qu'il soit, est différent en nature de la somme de ses parties. Pour nous, ce
que les hommes ont en commun, ce n'est pas une nature, c'est une condition métaphysique et par là,
nous entendons l'ensemble des contraintes qui les limitent a priori, la nécessité de naître et de mourir,
celle d'être fini et d'exister dans le monde au milieu d'autres hommes. Pour le reste, ils constituent des
totalités indécomposables, dont les idées, les humeurs et les actes sont des structures secondaires et
dépendantes, et dont le caractère essentiel est d'être situées, et ils diffèrent entre eux comme leurs
situations diffèrent entre elles. L'unité de ces touts signifiants est le sens qu'ils manifestent. Qu'il écrive
ou travaille à la chaîne, qu'il choisisse une femme ou une cravate, l'homme manifeste toujours : il
manifeste son milieu professionnel, sa famille, sa classe et, finalement, comme il est situé par rapport
au monde entier, c'est le monde qu'il manifeste. Un homme, c'est toute la terre. Il est présent partout, il
agit partout, il est responsable de tout et c'est en tout lieu, à Paris, à Potsdam, à Vladivostok, que son
destin se joue. Nous adhérons à ces vues parce qu'elles nous semblent vraies, parce qu'elles nous
semblent socialement utiles dans le moment présent, et parce que la plupart des esprits nous semblent
les pressentir et les réclamer. Notre revue voudrait contribuer, pour sa modeste part, à la constitution
d'une anthropologie synthétique. Mais il ne s'agit pas seulement, répétons-le, de préparer un progrès
dans le domaine de la connaissance pure: le but lointain que nous nous fixons est une libération.
Puisque l'homme est une totalité, il ne suffit pas, en effet, de lui accorder le droit de vote, sans toucher
aux autres facteurs qui le constituent; il faut qu'il se délivre totalement, c'est-à-dire qu'il se fasse autre,
en agissant sur sa constitution biologique aussi bien que sur son conditionnement économique, sur ses
complexes sexuels aussi bien que sur les données politiques de sa situation.
Cependant cette vue synthétique présente de graves dangers: si l'individu est une sélection arbitraire
opérée par l'esprit d'analyse, ne risque-t-on pas de substituer, en renonçant aux conceptions analytiques,
le règne de la conscience collective au règne de la personne ? On ne fait pas sa part à l'esprit de
synthèse: l'homme-totalité, à peine entrevu, va disparaître, englouti par la classe; la classe seule existe,
c'est elle seule qu'il faut délivrer. Mais, dira-t-on, en libérant la classe, ne libère-t-on pas les hommes
qu'elle embrasse ? Pas nécessairement : le triomphe de l'Allemagne hitlérienne, eût-ce été le triomphe
de chaque Allemand ? Et d'ailleurs, où s'arrêtera la synthèse ? Demain, on viendra nous dire que la
classe est une structure secondaire, dépendant d'un ensemble plus vaste qui sera, par exemple, la nation.
La grande séduction que le nazisme a exercée sur certains esprits de gauche vient sans aucun doute de
ce qu'il a porté la conception totalitaire à l'absolu: ses théoriciens dénonçaient, eux aussi, les méfaits de
l'analyse, le caractère abstrait des libertés démocratiques, sa propagande aussi promettait de forger un
homme nouveau, elle conservait les mots de Révolution et de Libération, seulement au prolétariat de
classe, on substituait un prolétariat de nations. On réduisait le individus à n'être que des fonctions
dépendantes de la classe, les classes à n'être que des fonctions de la nation, les nations à n'être que des
fonctions du continent européen. Si, dans les pays occupés, la casse ouvrière tout entière s'est dressée
contre l'envahisseur, c'est sans doute parce qu'elle se sentait blessée dans ses aspirations
révolutionnaires, mais c'est aussi qu'elle avait une répugnance invincible à voir se dissoudre la personne
dans la collectivité.
Ainsi la conscience contemporaine semble déchirée par une antinomie. Ceux qui tiennent par-dessus
tout à la dignité de la personne humaine, à sa liberté, à ses droits imprescriptibles, inclinent par là-
même à penser selon l'esprit d'analyse qui conçoit les individus en dehors de leurs conditions réelles
d'existence, qui les dote d'une nature immuable et abstraite, qui les isole et s'aveugle sur leur solidarité.
Ceux qui ont fortement compris que l'homme est enraciné dans la collectivité et qui veulent affirmer
l'importance des facteurs économiques, techniques et historiques, se rejettent vers l'esprit de synthèse
qui, aveugle aux personnes, n'a d'yeux que pour les groupes. Cette antinomie se marque, par exemple,
dans la croyance fort répandue que le socialisme est aux antipodes de la liberté individuelle. Ainsi ceux
qui tiennent à l'autonomie de la personne seraient acculés à un libéralisme capitaliste dont on connaît
les conséquences néfastes; ceux qui réclament une organisation socialiste de l'économie devraient la
demander à je ne sais quel autoritarisme totalitaire. Le malaise actuel vient de ce que personne ne peut
accepter les conséquences extrêmes de ces principes : il y a une composante "synthétique " chez les
démocrates de bonne volonté ; il y a une composante analytique chez les socialistes. Qu'on se rappelle,
par exemple, ce que fut en France le parti radical. Un de ses théoriciens a fait paraître un ouvrage qu'il
intitulait "Le citoyen contre les pouvoirs". Ce titre indique assez comment il envisageait la politique.
Tout irait mieux si le citoyen isolé, représentant moléculaire de la nature humaine, contrôlait ses élus
et, au besoin, exerçait contre eux son libre jugement. Mais, précisément, les radicaux ne pouvaient pas
ne pas reconnaître leur échec; ce grand parti n'avait plus, en 1939, ni volonté, ni programme, ni
idéologie; il sombrait dans l'opportunisme; c'est qu'il avait voulu résoudre politiquement des problèmes
qui ne souffraient pas de solution politique. Les meilleures têtes s'en montraient étonnées : si l'homme
est un animal politique, d'où vient qu'on n'ait pas, en lui donnant la liberté politique, réglé son sort une
fois pour toutes ? D'où vient que le libre jeu des institutions parlementaires n'ait pu réussir à supprimer
la misère, le chômage, l'oppression des trusts ? D'où vient qu'on rencontre une lutte des classes par delà
les oppositions fraternelles des partis? Il n'eût pas fallu pousser beaucoup plus loin pour entrevoir les
limites de l'esprit analytique. Le fait que le radicalisme recherchait avec constance l'alliance des partis
de gauche montre clairement la voie où l'engageaient ses sympathies et ses aspirations confuses, mais il
manquait de la technique intellectuelle qui lui eût permis non seulement de résoudre, mais même de
formuler les problèmes qu'il pressentait obscurément.
Dans l'autre camp, l'embarras n'est pas moindre. La classe ouvrière s'est faite l'héritière des traditions
démocratiques. C'est au nom de la démocratie qu'elle réclame son affranchissement. Or, nous l'avons
vu, l'idéal démocratique se présente historiquement sous la forme d'un contrat social entre individus
libres. Ainsi les revendications analytiques de Rousseau interfèrent souvent dans les consciences avec
les revendications synthétiques du marxisme. D'ailleurs, la formation technique de l'ouvrier développe
en lui l'esprit d'analyse. Semblable en cela au savant, c'est par l'analyse qu'il doit résoudre les
problèmes de la matière. S'il se retourne vers les personnes, il a tendance, pour les comprendre, à faire
appel aux raisonnements qui lui servent dans son travail; il applique ainsi aux conduites humaines une
psychologie d'analyse qui s'apparente à celle du XVII siècle français.
L'existence simultanée de ces deux types d'explication révèle un certain flottement ; ce perpétuel
recours au "comme si..." marque assez que le marxisme ne dispose pas encore d'une Psychologie de
synthèse appropriée à sa conception totalitaire de la classe.
Pour nous, nous refusons de nous laisser écarteler entre la thèse et l'antithèse. Nous concevons sans
difficulté qu'un homme, encore que sa situation le conditionne totalement, puisse être un centre
d'indétermination irréductible. Cc secteur d'imprévisibilité qui se découpe ainsi dans le champ social,
c'est ce que nous nommons la liberté et la personne n'est rien d'autre que sa liberté. Cette liberté, i1 ne
faut pas l'envisager comme un pouvoir métaphysique de la "nature" humaine et ce n'est pas non plus la
licence de faire ce qu'on veut, ni je ne sais quel refuge intérieur qui nous resterait jusque dans les
chaînes. On ne fait pas ce qu'on veut et cependant on est responsable de ce qu'on est, voilà le fait ;
l'homme qui s'explique simultanément par tant de causes est pourtant seul à porter le poids de soi-
même. En ce sens, la liberté pourrait passer pour une malédiction, elle est une malédiction. Mais c'est
aussi l'unique source de la grandeur humaine. Sur le fait, les marxistes seront d'accord avec nous en
esprit, sinon dans la lettre, car ils ne se privent pas, que je sache, de porter des condamnations morales.
Reste à l'expliquer mais c'est l'affaire des philosophes, non la nôtre. Nous ferons seulement remarquer
que si la société fait la personne, la personne, par un retournement analogue à celui qu'Auguste Comte
nommait le passage à la subjectivité, fait la société. Sans son avenir, une société n'est qu'un amas de
matériel, mais son avenir n'est rien que le projet de soi-même que font, par delà l'état de choses présent,
les millions d'hommes qui la composent. L'homme n'est qu'une situation, un ouvrier n'est pas libre de
penser ou de sentir comme un bourgeois; mais pour que cette situation soit un homme, tout un homme,
il faut qu'elle soit vécue et dépassée vers un but particulier. En elle-même, elle reste indifférente tant
qu'une liberté humaine ne la charge pas d'un certain sens; elle n'est ni tolérable, ni insupportable tant
qu'une liberté ne s'y résigne pas, ne se rebelle pas contre elle, c'est-à-dire tant qu'un homme ne se
choisit pas en elle, en choisissant sa signification. Et c'est alors seulement, à l'intérieur de ce choix
libre, qu'elle se fait déterminante parce qu'elle est surdéterminée. Non, un ouvrier ne peut pas vivre en
bourgeois; il faut, dans l'organisation sociale d'aujourd'hui, qu'il subisse jusqu'au bout sa condition de
salarié; aucune évasion n'est possible, il n'y a pas de recours contre cela. Mais un homme n'existe pas à
la manière de l'arbre ou du caillou, il faut qu'il se fasse ouvrier. Totalement conditionné par sa classe,
son salaire, la nature de son travail, conditionné jusqu'à ses sentiments, jusqu'à ses pensées, c'est lui qui
décide du sens de sa condition et de celle de ses camarades, c'est lui qui, librement, donne au prolétariat
un avenir d'humiliation sans trêve ou de conquête et de victoire, selon qu'il se choisit résigné ou
révolutionnaire. Et c'est de ce choix qu'il est responsable. Non point libre de ne pas choisir : il est
engagé, il faut parier, l'abstention est un choix. Mais libre pour choisir d'un même mouvement son
destin, le destin de tous les hommes et la valeur qu'il faut attribuer à l'humanité. Ainsi se choisit-il à la
fois ouvrier et homme, tout en conférant une signification au prolétariat. Tel est l'homme que nous
concevons : homme total. Totalement engagé et totalement libre. C'est pourtant cet homme libre qu'il
faut délivrer, en élargissant ses possibilités de choix. En certaines situations, il n'y a place que pour une
alternative dont l'un des termes est la mort. Il faut faire en sorte que l'homme puisse, en toute
circonstance, choisir la vie. C'est à défendre l'autonomie et les droits de la personne que notre revue se
consacrera. Nous la considérons avant tout comme un organe de recherches; les idées que je viens
d'exposer nous serviront de thème directeur dans l'étude des problèmes concrets de l'actualité. Nous
abordons tous l'étude de ces problèmes dans un esprit commun ; mais nous n'avons pas de programme
politique ou social ; chaque article n'engagera que son auteur. Nous souhaitons seulement dégager, à la
longue, une ligne générale. En même temps, nom recourrons à tous les genres littéraires pour
familiariser le lecteur avec nos conceptions: un poème, un roman d'imagination, s'ils s'en inspirent,
pourront, plus qu'un écrit théorique, créer le climat favorable à leur développement. Mais ce contenu
idéologique et ces intentions nouvelles risquent de réagir sur la forme même et les procédés des
productions romanesques; nos essais critiques tenteront de définir dans leurs grandes lignes les
techniques littéraires - nouvelles ou anciennes - qui s'adapteront le mieux à nos desseins. Nous nous
efforcerons d'appuyer l'examen des questions actuelles en publiant aussi fréquemment que nous
pourrons des études historiques, lorsque, comme les travaux de Marc Bloch ou de Pirenne sur le moyeu
âge, elles appliqueront spon-tanément ces principes et la méthode qui en découle aux siècles passés,
c'est-à-dire lorsqu'elles renonceront à la division arbitraire de l'histoire en histoires (politique,
économique, idéologique, histoire des institutions, histoire des individus) pour tenter de restituer une
époque disparue comme une totalité et qu'elles considéreront à la fois que l'époque s'exprime dans et
par les personnes et que les personnes se choisissent dans et par leur époque. Nos chroniques
s'efforceront de considérer notre propre temps comme une synthèse signifiante et pour cela elles
envisageront dans un esprit synthétique les diverses manifestations d'actualité, les modes et les procès
criminels aussi bien que les faits politiques et les ouvrages de l'esprit, en cherchant beaucoup plus à y
découvrir des sens communs qu'à les apprécier individuellement. C'est pourquoi, au contraire de la
coutume, nous n'hésiterons pas plus à passer sous silence un livre excellent mais qui, du point de vue
ou nous nous plaçons, ne nous apprend rien de nouveau sur notre époque, qu'à nous attarder, au
contraire, sur un livre médiocre qui nous semblera, dans sa médiocrité même, révélateur. Nous
joindrons chaque mois à ces études des documents bruts que nous choisirons aussi variés que possible
en leur demandant seulement de montrer avec clarté l'implication réciproque du collectif et de la
personne. Nous étaierons ces documents par des enquêtes et des reportages. Il nous paraît, en effet, que
le reportage fait partie des genres littéraires et qu'il peut devenir un des plus importants d'entre eux. La
capacité de saisir intuitivement et instantanément les significations, l'habileté à regrouper celles-ci pour
offrir au lecteur des ensembles synthétiques immédiatement déchiffrables sont les qualités les plus
nécessaires au reporter; ce sont celles que nous demandons à tous nos collaborateurs. Nous savons
d'ailleurs que parmi les rares ouvrages de notre époque qui sont assurés de durer, se trouvent plusieurs
reportages comme "Les dix jours qui renversèrent le Monde" et surtout l'admirable "Testament
espagnol"... Enfin, nous ferons, dans nos chroniques, la plus large part aux études psychiatriques
lorsqu'elles seront écrites dans les perspectives qui nous intéressent. On voit que notre projet est
ambitieux nous ne pouvons le mener à bien tout seuls. Nous sommes une petite équipe au départ. nous
aurions échoué si, dans un an, elle ne s'était pas considérablement accrue. Nous faisons appel à toutes
les bonnes volontés; tous les manuscrits seront acceptés, d'où qu'ils viennent, pourvu qu'ils s'inspirent
de préoccupations qui rejoignent les nôtres et qu'ils présentent, en outre, une valeur littéraire. Je
rappelle, en effet, que dans la " littérature engagée ", l'engagement ne doit, en aucun cas, faire oublier la
littérature et que notre préoccupation doit être de servir la littérature en lui infusant un sang nouveau,
tout autant que de servir la collectivité en essayant de lui donner la littérature qui lui convient.
Combat e Camus
Pour introduire Combat et le rôle qu’y joua Camus, commençons par le rapport d’amitié et d’entente
intellectuelle qui exista, pour une certaine période, entre les deux protagonistes du mouvement
existentialiste, Sartre et Camus.
Jean-Paul Sartre et Albert Camus sont deux figures majeures de la vie intellectuelle française du
XXème siècle. Romanciers talentueux (L’étranger, Camus ; La Nausée, Sartre), mais aussi
dramaturges (Caligula, Camus ; Huis Clos/Les Mouches, Sartre), ils s’investissent également dans des
journaux de référence (Combat pour Camus et Les Temps Modernes pour Sartre), et enfin, ce qui
explique sûrement le mieux l’intensité de leur amitié, de leur rivalité puis de leur brouille, ils sont tous
les deux des penseurs engagés, membres de la résistance intellectuelle, ils sont proches des
communistes et croient en la révolte.
Camus pourtant ne se revendiquait pas philosophe, il se qualifiait bien plus aisément d’artiste :
« Pourquoi suis-je un artiste et non un philosophe ? C’est que je pense selon les mots et non selon les
idées », disait-il à ce sujet.
Cependant sa vision de l’absurde relève bel et bien de la philosophie, Le Mythe de Sisyphe est un essai
bien plus qu’un roman. Camus n’est pas un théoricien, c’est un homme passionné qui a besoin
d’exemple, il parle à travers d’autres hommes, même lorsqu’il écrit ce qu’il ressent au plus profond de
lui-même, même dans La Chute. Mais dans ses autres romans aussi, l’on retrouve un fond
philosophique, une idée qui serait comme un tableau que l’on peint au fur et à mesure de la lecture, il
en était conscient, bien sûr ; selon lui « un roman n’est jamais qu’une philosophie mise en images ».
Cette vision, Jean-Paul Sartre ne la partageait pas, c’est la raison pour laquelle il n’a jamais considéré
Camus comme un vrai philosophe. Il faut se rappeler que Sartre a un statut de philosophe si l’on peut
dire « officiel », il sort de l’Ecole Normale Supérieure, il est reçu premier (en vérité premier ex-æquo
avec Simone de Beauvoir) à l’agrégation de philosophie (à sa deuxième tentative ; il fut collé la
première fois car il avait, dit-il, « essayé d’être original »). Il est un des chefs de file de
l’existentialisme, c’est un phénoménologue et de surcroît ses talents d’essayiste sont largement
reconnus en France et même à l’étranger, notamment grâce à son essai phare L’Etre et le Néant.
Il était certes inévitable qu’ils se rencontrent mais qu’ils deviennent amis, rien n’était moins sûr. Au-
delà de leur différence en tant qu’auteurs, leur vie personnelle et notamment leur enfance respective
n’avaient pas beaucoup de points communs. Camus est né à Alger dans une famille plutôt modeste,
tandis que Sartre est issu d’une famille alsacienne, protestante et bourgeoise. A ce niveau là, leur plus
grand point commun est sans doute le fait qu’ils n’ont tous les deux jamais connu leur père.
Nous arrivons donc à Paris en 1943, Camus prend la direction du journal Combat. En 1944 se tient un
rendez-vous emblématique, le 16 juin chez Michel Leiris. Le groupe de lecture de la pièce de Pablo
Picasso, Le Désir attrapé par la queue, travaille à la mise en scène. Et sont présents Albert Camus,
Jean-Paul Sartre, Pablo Picasso, Simone De Beauvoir. C’est le début de l’amitié entre les deux
hommes, même si Camus et Simone de Beauvoir ont eu un léger accrochage. En effet, Camus a pris la
liberté de critiquer de façon ironique et explicite le costume du Castor pour la pièce. Elle ne l’oubliera
jamais. Simone de Beauvoir est tout de même la figure de proue du mouvement féministe, elle est
l’auteur du Deuxième Sexe : la bible des femmes libres. Son intelligence n’a rien à envier à celle de
Sartre et elle jouit au sein de la « famille intellectuelle » de Paris d’une réputation honorable.
Mais cet incident n’entachera pas les relations entre Camus et Sartre. Camus fait entrer Sartre à
Combat, en échange de quoi ce dernier intègre Camus à la « famille intellectuelle » de Saint-Germain-
des-Prés et du Café de Flore. Le tandem a alors un poids considérable tant en littérature qu’en
politique.
Même si la rivalité qui se doit d’exister entre deux esprits aussi brillants semblait s’estomper, en 1947
vient la première « brouille ». Elle est causée par une critique de Maurice Merleau-Ponty
(existentialiste et phénoménologue) publiée dans Les Temps Modernes, critique dans laquelle des
opinions de Camus sont mises en cause.
A partir de là, les divergences politiques des deux hommes commencent à apparaître plus clairement.
L’élément qui relancera le débat sera un témoignage des déportations dans les goulags soviétiques.
Sartre qui est fortement attaché au communisme, se sert du modèle soviétique (bien qu’il le sache
totalitaire et cruel) pour critiquer le gouvernement français. Camus ne cautionne pas ce procédé et veut
dénoncer les atrocités commises en U.R.S.S. (rappelons que la révolte fait partie des thèmes essentiels
et récurrents de la pensée de l’écrivain, je ne citerai qu’une phrase de lui-même « Je me révolte, donc
nous sommes »).
La situation devient donc assez frictionnelle, et L’Homme Révolté qui paraît fin 1951, provoque le
mécontentement des communistes. Les premières critiques viennent d’André Breton, le « pape » du
surréalisme, elles touchent aussi bien l’œuvre : « fantôme de révolte », que l’auteur : « révolté du
dimanche ». Sartre n’a pas encore réagi publiquement, mais il fait savoir à Camus que leur amitié est
corrompue et qu’il ne peut pas le suivre sur la voie qu’il a choisie. Le malaise est déjà présent et le
coup fatal est porté par un philosophe sartrien, Francis Jeanson qui publie dans Les Temps Modernes
(donc avec l’accord de Sartre), un article qui dénigre de façon peu élégante, voire injurieuse, le livre et
son auteur, Camus.
Suite à cela, Camus adresse à Sartre une lettre qu’il titre : Lettre au Directeur des Temps Modernes. Le
ton est donné, ce n’est plus un ami qui écrit à un autre, mais un écrivain mécontent qui écrit au
directeur d’un journal qui l’a injurié. Il engage donc sa lettre par « Monsieur le directeur, » et parmi les
reproches de Camus, l’on pouvait relever celui-ci : « [Je suis las d’être critiqué par des gens] qui n’ont
jamais mis que leur fauteuil dans le sens de l’Histoire » (ce qui fait allusion à la position de Sartre sur
les goulags).
Ignorant Jeanson, Camus écrit à « Monsieur le directeur » de la revue (à Jean Paul Sartre, donc). Sa
lettre couvrira dix-sept pages : « On trouve dans votre article [...] le silence ou la dérision à propos de
toute tradition révolutionnaire qui ne soit pas marxiste. La Première Internationale et le mouvement
bakouniniste, encore vivant parmi les masses de la CNT espagnole et française sont ignorés. Les
révolutionnaires de 1905 dont l’expérience est au centre de mon livre sont totalement passés sous
silence. [...] [Votre article] fait silence sur tout ce qui, dans mon livre, touche aux malheurs et aux
implications proprement politiques du socialisme autoritaire. En face d’un ouvrage qui, malgré son
irréalisme, étudie en détail les rapports entre la révolution du XXème siècle et la terreur, votre article
ne contient pas un mot sur ce problème et se réfugie à son tour dans la pudeur. [...] L’homme révolté
tente de montrer que les sacrifices exigés, hier et aujourd’hui, par la révolution marxiste ne peuvent se
justifier qu’en considération d’une fin heureuse de l’histoire et qu’en même temps la dialectique
hégélienne et marxiste, dont on ne peut arrêter le mouvement que de façon arbitraire, exclut cette fin
[...]. Libérer l’homme de tout entrave pour ensuite l’encager pratiquement dans une nécessité historique
revient en effet à lui enlever d’abord ses raisons de lutter pour enfin le jeter à n’importe quel parti,
pourvu que celui-ci n’ait d’autres règle que l’efficacité [...] je commence à être un peu fatigué de me
voir, et de voir surtout de vieux militants qui n’ont jamais rien refusé des luttes de leur temps, recevoir
sans trêves leurs leçons d’efficacité de la part de censeurs qui n’ont jamais placé que leur fauteuil dans
le sens de l’histoire, je n’insisterai pas sur la sorte de complicité objective que suppose à son tour une
attitude semblable. » _
Sartre répond et marque la rupture définitive de leur amitié : « Mais dites-moi, Camus, par quel
mystère ne peut-on discuter vos oeuvres sans ôter ses raisons de vivre sa vie à l’humanité ? Mon Dieu,
Camus, comme vous êtes sérieux, et, pour employer un de vos mots, comme vous êtes frivole ! Et si
votre livre témoignait simplement de votre incompétence philosophique ? S’il était fait de
connaissances ramassées à la hâte de seconde main ? ... Avez-vous si peur de la contestation ? Je n’ose
vous conseiller de vous reporter à la lecture de L’Etre et le Néant, la lecture vous en paraîtrait
inutilement ardue. Vous détestez les difficultés de pensée. [...] Notre amitié n’était pas facile, mais je la
regretterai. Si vous la rompez aujourd’hui, c’est sans doute qu’elle devait se rompre. Beaucoup de
choses nous rapprochaient, peu nous séparaient. Mais ce peu était encore trop : l’amitié, elle aussi, tend
à devenir totalitaire [...] »
Comme la rupture entre deux hommes de cette importance ne pouvait pas passer inaperçue dans le
paysage intellectuel, politique et même populaire, les deux lettres sont publiées dans le numéro des
Temps Modernes du 30 juin 1952. Il s’agit pour chacun des deux hommes, et peut-être un peu plus pour
Sartre, de ne pas perdre la face aux yeux des français. Et au mois d’août de la même année, l’on peut
lire à la une de plusieurs journaux « Sartre, Camus : la rupture est confirmée ».
Ils n’iront plus jamais dans le même sens, sauf à la mort d’André Gide lorsque Les Temps Modernes et
Combat diront tous deux de lui, qu’il fut sans doute « l’écrivain le plus libre du siècle».
Cinq ans plus tard, le prix Nobel de Littérature fut décerné à Albert Camus qui l’accepta à contrecœur,
estimant qu’André Malraux le méritait plus que lui. Le 10 décembre 1957, lors de la remise de son prix
Nobel, en Suède, il prononça un discours, qui dépeint avec une lucidité qui relève du génie, la situation
de l’humanité depuis la fin de la Seconde Guerre Mondiale : « Chaque génération, sans doute, se croit
vouée à refaire le monde. La mienne sait qu’elle ne le refera pas. Mais sa tâche est peut-être plus
grande. Elle consiste à empêcher que le monde ne se défasse». En toute humilité il dédia ce discours,
qui est d’ailleurs toujours d’actualité, à Louis Germain, son instituteur à Alger qui lui permit d’obtenir
une bourse d’étude.
Camus mourut trois ans plus tard, le 4 janvier 1960 à 13h55, lorsque la Facel Vega conduite par son
ami Michel Gallimard sorti de la route pour aller s’écraser contre un arbre ; privant ainsi la France et
même le Monde de tout ce qu’aurait encore pu accomplir l’homme qui, à travers l’absurde, avait
finalement mieux compris le monde que beaucoup d’autres.
En 1964, Jean-Paul Sartre se vit à son tour honoré du prix Nobel, mais le refusa. Il essaiera sans relâche
jusqu’à la fin de sa vie de changer le rapport que les intellectuels entretenaient avec le peuple, mais sa
tentative, bien qu’utile, ne peut être considérée comme un succès. Il s’est éteint le 15 avril 1980 d’un
œdème pulmonaire, après avoir souffert pendant cinq ans de l’aggravation de la maladie qui affectait
ses yeux. Ses écrits sont encore aujourd’hui considérés comme des références aussi bien en philosophie
qu’en littérature.
Brève histoire de COMBAT
Combat, sous-titré Le Journal de Paris, était un journal quotidien français clandestin né pendant la
Seconde Guerre mondiale comme organe de presse du mouvement de résistant Combat.
Combat est un journal de la Résistance française dont la fabrication était dirigée par André Bollier.
Après la Libération, Combat est animé par Albert Ollivier, Jean Bloch-Michel, Georges Altschuler et
surtout Pascal Pia et Albert Camus. Y contribuèrent également Jean-Paul Sartre, André Malraux, Paul
Gordeaux , Emmanuel Mounier puis Raymond Aron et Pierre Herbart. Le journal, né dans la
Résistance, bénéficiant de signatures prestigieuses, demeure une référence très forte après la guerre.
En août 1944, Combat prend les locaux de l'Intransigeant situés 100, rue Réaumur. Un an après sa
naissance, il ne peut prétendre rivaliser avec les grands quotidiens et son tirage commence déjà à
s'effriter, passant de 185 000 exemplaires en janvier 1945 à 150 000 en août de la même année. Au
cours de l'année 1946, la publication, qui s'oppose au jeu des partis comme vecteurs de la
reconstruction de la France, se rapproche du général de Gaulle sans pour autant devenir la voix
officielle de son mouvement.
En 1947, l'équipe formée par Pia et Camus se disperse. Le journal est repris par le journaliste Claude
Bourdet et l'homme d’affaires franco-tunisien, Henri Smadja. Fidèle à ses origines, la ligne éditoriale
du journal cherchera à être le lieu d'expression de ceux qui persistent à croire qu'on peut créer en
France un mouvement populaire de gauche non communiste. En juillet 1948, Victor Fay, un militant
marxiste, prend la direction de Combat, mais n'empêche pas l'information de perdre de l'importance au
profit de sujets populaires.
En 1950, Claude Bourdet, s'opposant à Smadja et au soutien gaulliste, quitte le journal.
En 1960, Henri Smadja nomme rédacteur en chef le jeune Philippe Tesson. Celui-ci saura s'entourer de
plumes très diverses de gauche comme de droite. Cette diversité de prises de position n'est pas sans se
manifester durant la guerre d'Algérie, pendant laquelle la pluralité des prises de positions s'exprime au
grand jour. Le journal se fait l'écho de voix tant opposées au colonialisme qu'à la rébellion FLN, les
articles de Pierre Boutang s'opposent à ceux de Maurice Clavel. Enfin, observant l'évolution de la
politique gouvernementale, le journal, par la plume de Raoul Girardet, condamne la politique
d'« abandon » et exprime un profond anti-gaullisme. Durant toutes ces années, Combat s'illustre par sa
connaissance précise du conflit, son refus d'une Algérie indépendante musulmane ou communiste.
Lors des événements de Mai 1968, Combat se distingue à travers des plumes comme celle de Jacques-
Arnaud Penent, Marc Valle ou Maurice Clavel et la diffusion augmente fortement. En dépit de ce
dernier sursaut, au début des années 1970, le journal périclite, le manque d'argent est pressant. Philippe
Tesson, qui a fondé entre temps le Quotidien du médecin, propose de s'associer et de modifier en
profondeur le quotidien. Henri Smadja refuse. Début 1974, Tesson quitte le journal entraînant l'équipe
rédactionnelle et, en mars 1974, crée Le Quotidien de Paris, titre faisant allusion au sous-titre de
Combat, pour lui succéder.
Le dernier dessinateur des unes de Combat fut Michel Vergez, qui continua ensuite sa démarche
d'illustration puis de création artistique à part entière.
Le 14 juillet 1974, Smadja disparaît et Combat cesse définitivement de paraître un mois plus tard.
Biographie d’ Albert Camus
Albert Camus est né le 7 novembre 1913 dans le petit village Saint-Paul à huit kilomètres de Mondovi
en Algérie. Il était le deuxième fils d‘une famille immigrée européenne (le père d’origine française, la
mère espagnole). Quand il a eu neuf mois la première guerre mondiale éclate et pour cette raison il a
fallu que son père, un ouvrier agricole, y aille pour lutter. Son père meurt des conséquences d’une
blessure qu’il a eue lors de la première bataille de la Marne. Sa mère d’origine espagnole doit nourrir
les enfants en travaillant comme femme de ménage. Comme sa mère n’a pas eu le temps pour éduquer
les enfants, la grand-mère dominante a assumé cette fonction.
Albert Camus a passé son enfance dans un pauvre quartier d’Alger avec une population mélangée. Il
vivait dans un appartement sans eau courante ni électricité car sa famille était pauvre. Le niveau
d’instruction n’y était pas très haut. Il est allé à l’école primaire. Remarqué par son instituteur à l’école
primaire, Louis Germain, qui a découvert l’intelligence de ce garçon exceptionnel, il a obtenu une
bourse qui lui a permis de faire des études secondaires. En 1924, il est entré au lycée d’Alger.
Malheureusement, lorsqu’il était adolescent, les premiers atteintes de la tuberculose se sont
manifestées. Toute sa vie, il a souffert de cette maladie. Après qu’il a fini l’école, il a commencé avec
des études de philosophie, qu’il a financées avec des travaux occasionnels. C’était aussi le début de son
travail philosophique et littéraire. En 1933, il s’est marié mais il a divorcé un an plus tard. En 1934,
Albert Camus est entré au parti communiste d’Algérie qu’il a quitté trois ans plus tard. Sa passion pour
le théâtre l’a amené à fonder la troupe de «l"Equipe» qui a joué ses adaptations de Malraux, Eschyle et
Dostoievski.
A l’âge de 27 ans, il a participé à la fondation du journal «Alger républicain», un des premiers journaux
qui sont intervenus pour les droits des Arabes. Avec sa façon d’écrire il s’est fait beaucoup d’ennemis.
Puis il a quitté l’Algérie pour faire des voyages en Europe, mais finalement il est revenu à Paris pour y
devenir journaliste à «Paris Soir». En 1942, il a dû aller dans les montagnes pour essayer de guérir sa
maladie.
Après son retour avec sa deuxième femme Francine Faure, il est entré dans un mouvement de
résistance et il est devenu rédacteur en chef du journal Combat. L’appartenance à la résistance, et son
travail au journal Combat ont renforcé sa liaison avec Paris ainsi que l’amitié avec Sartre et le cercle
existentialiste.
Le but principal de son travail de journaliste pendant ce temps était un nouvel ordre social qui était
concentré sur la liberté et la justice.
Après la naissance de ses deux enfants en 1945 il a fait beaucoup de voyages, en Amérique, en
Amérique du Sud, et plusieurs fois en Algérie. A l’âge de 40 ans il n’a pas écrit beaucoup. Il est passé
par une période marquée par le doute et la désillusion à cause de la rupture avec son vieil ami Jean-Paul
Sartre et sa maladie, la tuberculose.
En 1957 il a réçu le «Prix de Nobel de littérature» pour avoir montré les problèmes qui se sont posés
jusqu’à ces jours à la conscience des hommes.
A cause de sa maladie, il s’est senti de plus en plus mal et faible. Le 4 janvier 1960, il est mort dans un
accident de voiture à Villeblevin.
Ses oeuvres principales:
1942 L’Étranger
1942 Le Mythe de Sisyphe
1943 Lettres à un ami allemand
1944 Le Malentendu
1945 Caligula (théâtre)
1947 La Peste
1949 Les justes (théâtre)
1951 L’Homme révolté
1956 La Chute
1962-1964 Carnets (posthumes)
1971 La Mort heureuse (posthume, première version de L’étranger)
L’Etranger
L’histoire se passe à Alger, Meursault, un jeune employé de bureau, mène une vie vide et monotone: il
a un travail, il va à la plage... Un jour il reçoit un télégramme de l’asile de vieillards de Marengo qui lui
annonçe la mort de sa mère. Mais cette mort le laisse indifférent. Il suit l’enterrement: tout le monde
remarque, c’est déjà une sorte de scandale, qu’il ne parait rien éprouver, comme s’il était étranger à
l’événement.
Par hasard il rencontre une vieille amie, une ancienne dactylo de son bureau, Maria Cardona, qu’il a
toujours aimée. Ils passent plusieurs heures ensemble et ils passent aussi la nuit ensemble.
Mais la journée suivante la vie quotidienne commence pour lui, il va travailler, rentre le soir...
Le soir il rencontre Raymond, son voisin, dans l’escalier, et il lui raconte qu’il s’était bagarré avec le
frère de sa maîtresse arabe. Meursault l’aide à écrire une lettre pour la faire revenir: il veut la punir
parce qu’il croit qu’elle l’a trompé.
Après quelques jours Raymond invite Marie et Meursault à passer le dimanche suivant dans le cabanon
d’un ami près d’Alger. Il raconte qu’il a été suivi par des Arabes, les amis du frère de sa maîtresse.
Le dimanche les trois hommes, Meursault, Raymond et Masson se promènent sur la plage où ils
rencontrent deux Arabes. Ils se bagarrent et Raymond est blessé. Ils vont à la maison, mais Raymond
veut retourner à la plage, alors Meursault l’accompagne. De nouveau ils rencontrent les deux Arabes.
Tout à coup l’un tire son couteau. Simultanément Meursault crispe les doigts sur le revolver dans sa
poche et il tire. L’Arabe est tout de suite mort, mais Meursault tire encore quatre fois sur le corps
inerte.
Il est arrêté et jugé: la justice accomplit sa tâche et condamne à mort le meurtrier, mais peut-être est-ce
plus à cause de son attitude au moment de la mort de sa mère que pour le meurtre lui-même. Meursault
est en prison et attend l’exécution, plus étranger que jamais au monde et à son propre sort. Lorsque
l’aumônier lui rend visite, pour lui proposer le «secours de la religion», Meursault le refuse. Puis le
calme revient et le condamné s’endort. Il se réveillera lucide et apaisé, capable peut-être de faire face,
au moment de mourir. Pour se sentir moins seul, il se souhaite qu’il «y ait beaucoup de spectateurs le
jour de son exécution».
Quelques bribes d’interpretation de l’Étranger
L’Etranger est paru en 1942. Camus y présente la conscience de vivre d’une génération et
l’effondrement de l’ordre public de cette époque. Cette expérience a eu beaucoup de signification pour
les Français pendant l’occupation allemande.
D’abord, quand Albert Camus a envisagé cette oeuvre, il a voulu la nommer L’Indifférent. Pour lui
l’indifférence était une expérience très précoce et aussi très forte dans sa vie. Tout ça il l’a connu à
cause de sa mère. Il a souffert d’un manque d’attention et aussi de tendresse. Mais il y a aussi beaucoup
d’éléments autobiographiques dans la personne de Meursault: le travail, une force extérieure nécessaire
pour le gange-pain; la vie dans la rue de Belcourt, où il a passé son enfance, les débats judiciaires où on
pousse les accusés dans des modèles; et à la fin joie et délivrance dans la nature. D’un côté Camus
représente ce Meursault, mais d’autre côté il raconte l’histoire d’un homme qui est prêt à mourir pour la
vérité.
Camus laisse Meursault raconter l’histoire qui se passe. Il n’interprète pas les événements, il semble
qu’ils ne l’intéressent pas. Le monde qu’il voit est superficiel et il n’existe pas sans lui.
Meursault est étranger à lui-même, il parle de lui comme s’il parlait de quelqu’un d’autre et il est
étranger au monde. Indifférent aux valeurs traditionnelles, il refuse le jeu social et c’est finalement
pourquoi il sera finalement condamné à mort. C’est à ce moment-là que Meursault découvrira qu’il est
attaché au monde.
L’insensibilité que Meursault a montré étant donné qu’il commence une liaison le jour après
l’enterrement de sa mère, la lettre douteuse qu’il a écrit pour Raymond, un homme très douteux - tous
ces détails seront vus comme des signes pour une disposition criminelle. L’explication de Meursault est
qu’il n’a pas voulu tuer l’Arabe, mais que c’était le soleil qui était responsable de la mort de l’Arabe,
en disant cela il a seulement obtenu des rires. Meursault a l’impression que dans le procès il ne s’agit
pas de sa personne, mais que son destin sera décidé sans une relation au meurtre.
L’existence ici-bas n’a pas de sens. Les événements s’enchaînent de manière purement hasardeuse, et
c’est une sorte de fatalité qui se dresse devant nous. C’est pourquoi Meursault se borne à faire
l’inventaire des événements de manière froide, distante, comme si ceux-ci survenaient
indépendamment de toute volition. Mais Meursault demeure un personnage positif: simplement, il
accepte les choses telles qu’elles sont.
Meursault devient l’homme révolté que l’auteur évoquera plus tard. « Le contraire du suicidé, écrit
Camus dans Le Mythe de Sisyphe, c’est le condamné à mort », car le suicidé renonce, alors que le
condamné se révolte (à l’absurde de l’existence, en refusant de mentir). Or, la révolte est la seule
position possible pour l’homme de l’absurde.
La peste
L’histoire commence avec la présentation de la ville d’Oran, une ville sur la côte algérienne. Il s’agit
d’une ville laide et ordinaire, située au milieu d’un paysage magnifique. Le narrateur veut seulement
raconter les incidents qui s’y produisirent au printemps des années quarante.
Le docteur Rieux découvre plusieurs rats sur son palier et les cadavres se multiplient. Les rats
envahissent la ville et viennent y mourir. La femme du docteur est malade. Elle est tuberculeuse et elle
doit partir à la montagne en France. Après avoir emmené sa femme à la gare, il y rencontre un
journaliste qui veut faire une enquête sur les conditions de vie des Arabes.
En ville les cadavres se multiplient mais très vite les rues retrouvent leur propreté et toute la ville
respire. Tout à coup, le concierge du docteur Rieux tombe malade et meurt des conséquences de la
maladie. En même temps le public commence à s’inquiéter parce qu’il y a déjà une vingtaine de cas de
la même maladie et presque tous mortels. D’abord personne ne veut croire qu’il s’agit de la peste, mais
après quelques jour une dépêche officielle affirme ce que tout le monde craint : il s’agit de cela. Tout à
coup on ferme la ville et personne ne doit partir.
Peu à peu, la ville s’installe dans l’exil, c’est un exil encore plus rude pour ceux qui ne sont pas d’Oran
et s’y retrouvent enfermés comme Rambert, le journaliste. Les gens y sont réduits à l’inaction, le port
est fermé, le ravitaillement est limité, l’essence est rationnée... Le docteur Rieux rencontre Rambert le
journaliste qui lui déclare vouloir partir car une femme l’attend. Rieux lui dit qu’il comprend mais qu’il
ne peut pas l’aider. Rieux a des semaines harassantes, il faut lutter contre les familles pour emmener les
malades à l’hôpital. Pour combattre la peste les autorités ecclésiastiques décident d’organiser une
semaine de prières collectives.
En été, la situation éclate: grand soleil et vent brûlant. Le nombre des victimes de l’épidémie s’accroit
en flèche. Aux portes de la ville il y a des bagarres, des victimes de l’épidémie veulent sortir et seront
blessées par les gendarmes.
Tarrou, qui s’est installé à Oran propose à Rieux de former des équipes sanitaires volontaires pour
lutter contre la peste. Rieux l’accepte avec joie mais le prévient que ce travail peut être mortel. Mais
Tarrou dit qu’il croit en Dieu, il fonde la première équipe sanitaire et des autres vont suivre. Tous deux
demandent à Rambert de les aider et il dit qu’il va les aider jusqu’à ce qu’il trouve les moyens de
quitter la ville.
Rieux et ses amis sont à bout de forces. Un jour, Rambert a l’occasion de quitter illégalement la ville,
mais au dernier moment il refuse de la saisir et décide de rester à Oran. Le docteur obtient un nouveau
sérum et il l’essaie sur le petit garçon du juge mais sans succès. Il meurt dans des grandes souffrances.
Paneloux et Rieux décident de continuer à travailler ensemble contre la peste. Pour Paneloux c’était
trop, il ne veut pas se laisser soigner et meurt avec son crucifix dans les mains.
Le nombre des morts n’augmente plus parce que le nouveau sérum connait des succès inattendus.
Pendant ce temps Tarrou, maintenant un bon ami de Rieux, lui raconte sa vie. Il a toujours voulu
devenir un saint laïc.
La saison froide arrive mais la peste continue. Mais tout à coup l’infection recule et la situation se
détend un peu et on décide d’ouvrir les portes de la ville. Tarrou tombe malade à son tour, quelques
jours après il meurt et le lendemain un télégramme annonce à Rieux la mort de sa femme. Quand les
portes s’ouvrent la joie est grande. Rambert retrouve sa femme, Rieux continue à soigner les malades et
il avoue qu’il est l’auteur de cette chronique. Il sait maintenant qu’ils ont gagné, mais il sait aussi que la
victoire sur la peste n’est pas définitive car le bacille de la peste ne meurt jamais.
Quelques bribes d’interprétation de La peste
Les personnages.
Bernard Rieux: médecin, trente-cinq ans, taille moyenne, épaules fortes, visage rectangulaire. Narrateur
du récit, comme il le révèle à la fin du roman. Organise des cordons sanitaires pendant toute la durée de
l’épidémie. Perd sa femme mais accepte l’irrémédiable.
Jean Tarrou: jeune homme, silhouette lourde, visage massif et creusé; étranger à la ville; fils d’un
procureur, n’aimait pas le métier de son père. Devient l’ami du docteur et l’aide. Meurt de la peste à la
fin de l’épidémie.
Jean Rambert: journaliste venu de Paris, petit aux «épaules épaisses», d’allure sportive, exilé à Oran,
éloigné de la femme qu’il aime; il tente de s’évader mais quand il pourrait y parvenir, il décide de
rester. Joseph Grand: employé de mairie; homme d’une cinquantaine années, à l’allure insignifiante,
long, voûté; cherche à trouver le «mot juste» pour écrire à sa femme.
Joseph Cottard: un des «profiteurs» de la peste; il est passé par une période difficile et il connaît une
rémission dans la ville des exilés.
Le père Paneloux: jésuite érudit, il semble très sûr de sa foi au début de l’épidémie mais il sera ébranlé
par la mort d’un innocent et mourra après avoir refusé de demander des soins.
Le docteur Castel: vieux médecin, qui a connu la peste en Chine; il élabore un sérum qu’il testera sur le
fils du juge Othon, sans succès.
Le juge Othon: juge d’instruction, il semble incarner le conformisme le plus strict; son fils meurt et il
s’humanise avant de décéder à son tour.
Monsieur Michel: concierge de l’immeuble de Rieux.
La Peste est parue en 1947 après plusieurs années de travail intensif. Pour La Peste, son oeuvre
principale, Camus a obtenu le Prix Nobel en 1957.
Pour Camus la Peste représentait le fascisme et plus tard le stalinisme. Le mal dans la monde, la
guerre, la violence, l’oppression, tout cela résulte de l’ignorance et de l’indifférence. «L" homme peut
seulement exister en agissant de façon solidaire.»
La Peste a montré la nécessité d’une résistance contre toutes les déformations et contre le mal humain.
Non l’espoir d’une victoire, mais la défense et le maintien de la dignité étaient importants. Albert
Camus dit que la résistance ne peut pas toujours donner aux hommes le salut, mais un peu de bonheur.
Pour cette raison il a décidé de s’opposer à tout ce qui fait mourir ou ce que la mort justifie. La Peste
est le symbole des idéologies qui influencent les hommes et après les détruisent.
On peut voir l’attitude d’Albert Camus par rapport au christianisme, dans la querelle entre le docteur
Rieux et Paneloux la vision du monde et la vision des hommes d’Albert Camus devient claire.
La seule conséquence que Rieux et ses amis tirent de la peste ce n’est ni le désespoir ni la fuite dans la
croyance en Dieu, mais c’est l’aide, la lutte, la révolte contre le mal, contre la peste: cela veut dire, faire
ce que la situation demande.
Les hommes doivent se mettre à travailler pour eux-même comme Rieux parce qu’ils ont découvert que
le salut et le sauvetage ne viennent pas de Dieu ou des forces suprasensibles, mais que les hommes
peuvent obtenir leur salut en y travaillant.
La communauté des hommes forme le contrepoids du mal et de l’absurde, contre lequel les hommes
luttent.
Les justes
Acte 1
Nous sommes dans un appartement à Moscou. Il y a un groupe de terroristes: il y a le chef, Annekov et
Dora, une jeune femme. Ils attendent Stepan qui était en prison où il a passé trois ans. Ils commencent à
parler de l’attentat qu’ils préparent contre le grand–duc. Il y a aussi Voinov qui connait la calèche du
grand–duc. Et puis il y a Kaliayev dit le Poète qu’ils appellent Yanek. Stepan veut lancer la bombe
mais les lanceurs ont déjà été désignés: Kaliayev doit lancer la première et, en cas d’échec, Voinov, la
seconde. Stepan n’a pas confiance en Yanek à qui il reproche d’aimer la vie. Lui il met la justice au–
dessus de la vie. Yanek pense que «mourir pour l"idée, c’est la seule façon d"être à la hauteur de
l"idée». Dora pense que si on tue et qu’on est tué ensuite, on paie plus qu’on ne doit. Elle dit à Yanek
que le plus difficile, lorsqu’on veut tuer quelqu’un, c’est de voir que ce n’est qu’un homme.
Acte 2
Le lendemain soir. Dora et Annekov attendent. La calèche passe mais on n’entend pas le bruit de
l’explosion. Voinov et puis Yanek arrivent. Yanek n’a pas lancé la bombe parce que le grand–duc était
accompagné de sa femme et de deux enfants: son neveu et sa nièce. Stepan et Yanek s’opposent. Pour
Stepan, la fin justifie les moyens. Il aurait tué tout le monde. Dora défend Yanek. Yanek veut être un
justicier et non un assassin. Stepan dit que les terroristes sont des meurtriers et ont choisi de l’être.
Annenkov propose à ses camerades de préparer une nouvelle action. Voinov est angoissé à l’idée de
recommencer.
Acte 3
Deux jours après. Voinov demande à Annenkov de lui parler en particulier. Il n’est pas fait pour la
terreur et il ne peut pas lancer la bombe. Il quitte ses camarades pour aller travailler dans les comités.
Annenkov dit aux autres qu’il va prendre la place de Voinov. Dora et Yanek restent seuls en scène et
s’avouent leur amour. Yanek part ensuite avec la bombe. Stepan qui est resté seule avec Dora reconnaît
qu’il n’aime rien et qu’il hait ses semblables. On entend l’explosion d’une bombe.
Acte 4
La prison. Foka un forçat vient nettoyer la cellule de Yanek qui est au secret depuis une semaine. Foka
est à la fois condamné et bourreau; chaque fois qu’il accepte de prendre un condamné, on lui enlève
une année de prison. Il ne comprend rien à l’acte de Yanek. Ce dernier reçoit aussi la visite de
Skouratov, le directeur du département de police qui lui offre les moyens d’obtenir sa grâce. Il lui suffit
de livrer ses camarades. Yanek refuse. Skouratov lui annonce la visite de la grande–duchesse. Celle–ci,
profondément chrétienne, voudrait que Yanek consente à vivre pour expier. Elle lui demande pourquoi
il l’a épargnée. Yanek répond qu’il n’a pas voulu tuer les enfants. Elle lui dit alors que sa nièce avait
mauvais coeur alors que son mari aimait les paysans. Elle veut demander la grâce de Yanek. Il le lui
défend. La grande–duchesse sort et Skouratov revient. Si Yanek ne passe pas aux aveux, Skouratov
publiera l’entrevue dans les journaux et les camarades de Yanek penseront qu’il les a trahis.
Acte 5
Un autre appartement à Moscou. Dora est avec Annenkov. Voinov arrive avec Stepan qui annonce que
Yanek va être exécuté cette nuit. Stepan doute de Yanek. Les autres le défendent. Annenkov et Dora
restent seuls. Dora est désespérée. A l’aube Voinov et Stepan reviennent. Stepan déclare que Yanek n’a
pas trahi et il raconte comment son exécution s’est passée. Dora veut que Annenkov lui permette de
lancer la bombe la prochaine fois. Ainsi elle retrouvera Yanek dans la mort.
Quelques bribes d’interprétation de Les justes
Depuis sa jeunesse, Camus a toujours été fasciné par le théâtre. Il se sentait bien seulement en jouant au
foot ou sur la scène.
Les quatre drames, écrits par Camus, montrent «des hommes en révolte», qui se dressent contre «la
condition humaine» absurde et inhumaine et qui cherchent un chemin vers la liberté.
Les thématiques les plus importantes sont toujours la liberté, la révolte et la mort. Ses héros
dramatiques se révoltent toujours contre un monde absurde. Ils deviennent toujours aussi des meurtriers
ou des martyrs.
La point de départ pour cette pièce était l’attentat contre le grand–duc Sergej en 1905. Camus a essayé
de montrer le sens et les conséquences de ce «meurtre juste». Il nous montre la conviction de Kaliayev
que toutes les vies humaines sont équivalentes, la certitude qu’un meurtre juste peut seulement être
expié en tuant le meurtre.
Le mythe de Sisyphe
Les dieux ont condamné Sisyphe à rouler continuellement un bloc de roche jusqu’au sommet d’une
montagne, d’où il roule en bas. Ils (die Götter) ont cru qu’il n’y avait pas de punition plus dure que ce
travail inutile et sans aucune chance de succès.
D’après Homer, Sisyphe était le plus intelligent parmi les mortels. Mais une autre tradition dit qu’il
était un voleur sur la voie publique. Pour Camus ce n’était pas une contradiction. On ne sait pas pour
quelle raison les dieux l’ont condamné à ce travail inutile, mais cela a été probablement à la suite d’une
légèreté dans les rapports avec les dieux. Il a trahi leurs secrets. Egina, la fille d’Asopos avait été
enlevée par Jupiter. Le père en avait été étonné et il s’en était plaint à Sisyphe. Lui, qui était au courant
de l’enlèvement, n’avait voulu que le raconter, à condition qu’on procure de l’eau pour le château de
Korinth. Mais pour cela on l’a puni.
On dit aussi que Sisyphe a voulu tester l’amour de sa femme. Il lui a commandé de jeter son cadavre,
sans enterrement, au marché. En enfer Sisyphe était tellement furieux de son obéissance qu’il a obtenu
de pouvoir retourner sur terre pour corriger sa femme. Mais après avoir fait cela, il n’a pas voulu
retourner en enfer. Seulement les dieux pouvaient le rapporter en enfer où son bloc de roche était déjà
prêt.
Sisyphe c’est le héros de l’absurde. Nous le voyons monter le montagne et après qu’il est arrivé au
sommet, nous le voyons descendre. En ce moment, quand il quitte la cime, quand il quitte le domaine
de dieu, en ce moment il se croit supérieur à son destin. Il est plus fort que la pierre. Pour lui, il n’y a
pas de destin qu’on ne peut pas convaincre par le mépris.
Pour Sisyphe la descente du sommet le guide en douleur, mais un autre jour la descente peut se finir
aussi en joie. Camus dit qu’on ne découvre pas l’absurde sans être tenté d’écrire un manuel du bonheur.
Il y a seulement un monde. Le bonheur et l’absurdité proviennent de la même source. Ils sont liés
étroitement l’une avec l’autre.
La seule joie pour Sisyphe était que son destin était à lui. Dans le monde absurde il n’y a pas d’ombre
sans lumière; on doit aussi faire la connaissance de la nuit. L’homme absurde dit «oui» et ses fatigues
ne trouvent plus de fin.
Sisyphe nous apprend la fidélité qui nie les dieux et qui roule les pierres. Il trouve aussi que tout est
bon. Tous les grains de cette pierre, toutes les écailles de cette montagne, pour lui c’est son propre
monde. La lutte contre le sommet peut remplir le coeur d’un homme. Nous devons nous représenter
Sisyphe comme un homme très content.
Lecture de l’article de Camus su Combat
Editorial de Combat *, 8 août 1945.
Le monde est ce qu'il est, c'est-à-dire peu de chose. C'est ce que chacun sait depuis hier
grâce au formidable concert que la radio, les journaux et les agences d'information viennent
de déclencher au sujet de la bombe atomique. On nous apprend, en effet, au milieu d'une
foule de commentaires enthousiastes que n'importe quelle ville d'importance moyenne peut
être totalement rasée par une bombe de la grosseur d'un ballon de football. Des journaux
américains, anglais et français se répandent en dissertations élégantes sur l'avenir, le passé,
les inventeurs, le coût, la vocation pacifique et les effets guerriers, les conséquences
politiques et même le caractère indépendant de la bombe atomique. Nous nous résumerons en
une phrase : la civilisation mécanique vient de parvenir à son dernier degré de sauvagerie. Il
va falloir choisir, dans un avenir plus ou moins proche, entre le suicide collectif ou
l'utilisation intelligente des conquêtes scientifiques.
En attendant, il est permis de penser qu'il y a quelque indécence à célébrer ainsi une
découverte, qui se met d'abord au service de la plus formidable rage de destruction dont
l'homme ait fait preuve depuis des siècles. Que dans un monde livré à tous les déchirements
de la violence, incapable d'aucun contrôle, indifférent à la justice et au simple bonheur des
hommes, la science se consacre au meurtre organisé, personne sans doute, à moins
d'idéalisme impénitent, ne songera à s'en étonner.
Les découvertes doivent être enregistrées, commentées selon ce qu'elles sont, annoncées
au monde pour que l'homme ait une juste idée de son destin. Mais entourer ces terribles
révélations d'une littérature pittoresque ou humoristique, c'est ce qui n'est pas supportable.
Déjà, on ne respirait pas facilement dans un monde torturé. Voici qu'une angoisse
nouvelle nous est proposée, qui a toutes les chances d'être définitive. On offre sans doute à
l'humanité sa dernière chance. Et ce peut-être après tout le prétexte d'une édition spéciale.
Mais ce devrait être plus sûrement le sujet de quelques réflexions et de beaucoup de silence.
Au reste, il est d'autres raisons d'accueillir avec réserve le roman d'anticipation que les
journaux nous proposent. Quand on voit le rédacteur diplomatique de l'Agence Reuter*
annoncer que cette invention rend caducs les traités ou périmées les décisions mêmes de
Potsdam*, remarquer qu'il est indifférent que les Russes soient à Koenigsberg ou la Turquie
aux Dardanelles, on ne peut se défendre de supposer à ce beau concert des intentions assez
étrangères au désintéressement scientifique.
Qu'on nous entende bien. Si les Japonais capitulent après la destruction d'Hiroshima et
par l'effet de l'intimidation, nous nous en réjouirons. Mais nous nous refusons à tirer d'une
aussi grave nouvelle autre chose que la décision de plaider plus énergiquement encore en
faveur d'une véritable société internationale, où les grandes puissances n'auront pas de droits
supérieurs aux petites et aux moyennes nations, où la guerre, fléau devenu définitif par le seul
effet de l'intelligence humaine, ne dépendra plus des appétits ou des doctrines de tel ou tel
État.
Devant les perspectives terrifiantes qui s'ouvrent à l'humanité, nous apercevons encore
mieux que la paix est le seul combat qui vaille d'être mené. Ce n'est plus une prière, mais un
ordre qui doit monter des peuples vers les gouvernements, l'ordre de choisir définitivement
entre l'enfer et la raison.
Lecture analytique de l’éditorial de Camus
1) Prises de position exprimées par l’article
a) l’événement du jour : l’explosion d’Hiroshima.
Indices :
-troisième phrase du texte : « une bombe de la grosseur d’un ballon de football »
-lignes 3 et 8 : « bombe atomique »
-ligne 31 : mention d’ « Hiroshima »
b) une condamnation de l’attaque nucléaire contre le Japon du 6 Août 1945
La prise de position de l’auteur ne se dégage que progressivement :
Indices implicites :
-Une première phrase énigmatique, mais où domine une tonalité pathétique, qui met sur la voie d’un
événement grave.
-expressions hyperboliques du début du texte : « formidable concert », « foule de commentaires
enthousiastes », « se répandent », un enthousiasme si excessif qu’il est suspect. On devine une
dénonciation implicite de l’enthousiasme de la presse pour la bombe atomique. Procédé de l’antiphrase,
de l’ironie.
Indices explicites :
Les deux dernières phrases exposent en clair la thèse de l'auteur. Albert Camus signale explicitement
l'arrivée de sa thèse par une formule introductive : « Nous nous résumerons en une phrase ». La phrase
qui suit est brève, cherche à produire un effet de vérité générale par le choix de termes généraux
abstraits (« la civilisation mécanique »), à frapper par l'emploi d’un terme fortement dépréciatif
(« sauvagerie ») qualifié de façon hyperbolique («au dernier degré de… »). La phrase suivante possède
aussi les caractéristiques de l'engagement personnel : ton prophétique (« Il va falloir choisir... »),
recherche de l'efficacité rhétorique : cadence ascendante (6/10/28) ; formules péremptoires (« suicide
collectif », «utilisation intelligente des conquêtes scientifiques »).
c) un élargissement à des thèmes plus généraux
thème de la science : la condamnation de l’exploitation militaire du progrès scientifique :
-dernière phrase du premier paragraphe : « Il va falloir choisir, dans un avenir plus ou moins proche,
entre le suicide collectif ou l’utilisation intelligente des conquêtes scientifiques ».
-Le thème réapparaît plusieurs fois dans le texte : ligne 14-15 : il regrette que « la science se consacre
au meurtre organisé »
- ligne 35 : « la guerre, fléau devenu définitif par le seul effet de l’intelligence humaine ».
thème de la paix : l’appel à la création d’une « véritable société internationale », apte à garantir la paix
(l’ONU avant la lettre). Lignes 33-41 ; 2 derniers parahraphes du texte.
2) Critiques adressées à la presse
a) L’ « indécence » du ton adopté. « Indécent » signifie ici : choquant. L'auteur trouve immoral qu'on
puisse faire l'éloge d'une invention «terrible» qui vient de faire plusieurs dizaines de milliers de morts.
Il leur reproche de se réjouir et même de faire de l’humour quand il faudrait pleurer (faire « silence »).
b) Le caractère superficiel de l’information : l’attrait du sensationnel, la recherche du détail
« pittoresque » (« les inventeurs, le coût ») au détriment de la réflexion de fond.
c) La désinformation (la présentation déformée de l’événement), le caractère politiquement orienté de
l’information :
la presse a présenté un instrument de mort comme une invention à «vocation pacifique»;
elle a « même » vanté son « caractère indépendant » : sous-entendu, l’arme nucléaire place les nations
européennes sous la dépendance des Etats-Unis et la presse parle d’indépendance;
Camus parle du « roman d’anticipation que les journaux nous proposent » , il les accuse donc de se
livrer à des imaginations farfelues comparables à des romans de science-fiction.
Dans le paragraphe qui suit, il accuse nommément l’Agence Reuter d’avoir suggéré que la possession
de la bombe allait permettre aux Américains de remettre en cause le traité signé avec l’URSS
notamment à Potsdam. Spéculation d’abord sans fondement et en outre extrêmement dangereuse pour
la paix du monde.
d) Le chauvinisme : le triomphalisme, l’unanimisme suspect de toute la presse alliée (« concert »,
« américains, anglais et français ») pour se féliciter de la suprématie technologique et militaire que la
possession de la bombe donne (et donnera dans « l’avenir ») au bloc occidental (cette idée sera reprise
et concrétisée dans le paragraphe 5). Le premier paragraphe du texte ironise sur l’enthousiasme
excessif (les « commentaires enthousiastes »), complaisant (« se répandent ») des éloges décernés par
la presse aux concepteurs de l'arme nucléaire. Camus semble reprocher à ses confrères journalistes de
céder à une épidémie collective d’exaltation chauvine, voire de se prêter à une campagne de presse
concertée.
3) Rhétorique du texte (l’art de convaincre du journaliste) :
a) l’utilisation fréquente d’une stratégie concessive :
Définition : Le raisonnement concessif consiste à admettre en partie, dans un premier mouvement, le
point de vue que l’on entend réfuter ; puis, dans un second mouvement, à y opposer sa propre thèse.
Les couples de connecteurs logiques « certes … mais… », « sans doute … cependant … », représentent
bien ce double mouvement.
Le texte présente plusieurs passages concessifs :
Lignes 14 à 20 : On trouve dans ces lignes deux mouvements concessifs suivis d’une opposition : Sans
doute n’est-il pas étonnant que dans notre monde violent la science soit mise au service de la violence.
Certes, il est normal que la presse informe sur ces découvertes scientifiques. Cependant, le ton actuel
de la presse est indécent.
Lignes 23-24 : Certes, l’événement méritait une édition spéciale. Mais il exige surtout de notre part
réflexion sur notre avenir et compassion pour les victimes (« silence »).
Lignes 31-37 : Certes, on ne pourrait que se réjouir d'une capitulation du Japon mettant fin à la guerre,
mais l'existence de cette arme redoutable nous impose de mettre en place une organisation mondiale
des nations susceptible de garantir la paix et l'équilibre du monde.
L’utilisation insistante d’une stratégie concessive (paragraphes 2-3, 4 et 6) montre le sentiment qu’a
l'auteur d'assumer une position personnelle qui le place à contre-courant de l'opinion publique. C'est
pourquoi il doit régulièrement apporter des nuances, faire des concessions à l'avis général. Cette
situation s'explique par le climat engendré par la deuxième guerre mondiale, où l'arme nucléaire
pouvait apparaître comme l'instrument de la victoire des pays démocratiques et de la paix.
Ainsi Camus admet successivement qu’on ne peut pas reprocher aux savants de participer à l’effort de
guerre, ni aux journalistes de considérer la bombe comme un événement important, et que la
capitulation du Japon serait une bonne chose. Mais il met en garde contre le danger de cette invention
et les spéculations politiques qu’elle nourrit.
b) L’utilisation de la tonalité pathétique pour toucher la sensibilité du lecteur
La dramatisation de l’événement : tournures hyperboliques, superlatifs.
-« la civilisation mécanique vient de parvenir au dernier degré de la sauvagerie »
-« une aussi grave nouvelle »
-« un monde livré à tous les déchirements de la violence »
-« devant les perspectives terrifiantes qui s’ouvrent à l’humanité »
La dramatisation de la situation du monde et de l’humanité. L’idée que l’humanité est placée devant un
choix décisif, d’où dépend sa survie : une question de vie ou de mort. L’existence même de la planète
est menacée.
- « il va falloir choisir entre le suicide collectif et l’utilisation intelligente des conquêtes scientifiques »
- « choisir définitivement entre l’enfer et la raison »
- « on offre sans doute à l’humanité sa dernière chance »
- « une angoisse nouvelle nous est proposée qui risque bien d’être définitive »
c) L’art de la maxime : phrases brèves, présent de vérité générale, verbes d’obligation (falloir, devoir)
indiquant un comportement à suivre sur un ton impérieux.
- « la paix est le seul combat qui vaille d’être mené » (l.38)
- « Il va falloir choisir ….conquêtes scientifiques « (l.9-11)
- « Ce n’est plus une prière mais un ordre qui doit monter des peuples vers les gouvernements, l’ordre
de choisir définitivement entre l’enfer et la raison »
d) L’art de la formule imagée :
- la guerre appelée le « meurtre organisé » (l.16)
Conclusion : Un exemple du rôle de l’écrivain engagé. Une condamnation courageuse, à contre-courant
de l’opinion publique, la seule prise de position hostile à Hiroshima au moment de l’événement. Un
écrivain qui met son habileté rhétorique au service de la cause de la paix.
Che cosa è stato il Nouveau Roman lo abbiamo visto. E oggi? Dopo quell’esperienza, e quelle analoghe
delle altre avanguardie coeve, che ne è della scrittura che si voglia portatrice di una forza, di un’idea?
Affrontiamo in questa ultima settimana di lezioni la teoria del romanzo vero, intendendo con questa
definizione il romanzo che contiene in sé una parte di reale. Aboliti i dogmi della rappresentazione e
dell’espressione, di cui si è vista e dimostrata l’illusorietà, resta per il romanzo uno spazio che permetta
di pensarlo, il romanzo, come luogo di costruzione di qualcosa?
PHILIPPE FOREST va considerato il principale rappresentante della nuova critica francese. La sua
teoria del romanzo ha la peculiarità di essere interdisciplinare: fonde narratologia, filosofia, psicanalisi,
poesia. Nuova perché fa un passo avanti rispetto alla critica più ufficiale, osando rimaneggiare materiali
precedenti. E andando a toccare il punto nevralgico, "l'ombelico dei sogni" (Freud), "centro di
sospensione vibratoria" (Mallarmé), il punto di verità che spezza l'esistenza trasformandola.
Ma cominciamo dalla formazione di Forest, il suo personale percorso che l'ha portato alla creazione di
uno strumento interpretativo efficace come quello che ha battezzato il "Roman du Je". Laurea in
letterature comparate con Pierre Brunel, uno dei massimi comparatisti a livello internazionale e poi,
sempre con lui, dottorato di ricerca su colui che nel 1960 creò il gruppo di Tel Quel, avanguardia
letteraria che ha articolato il suo lavoro sui due piani paralleli della teoria e della pratica arrivando alla
formulazione di una teoria della scrittura straordinariamente rivoluzionaria, quella che passa sotto il
nome di "scrittura testuale". Il padre di questo gruppo è Philippe Sollers, scrittore scomodo, molto
osteggiato dalla critica ufficiale, e al tempo stesso autore dei romanzi tra i più innovativi, nella seconda
metà del XX secolo, nel panorama francese e non solo.
Forest gli dedica la sua tesi di dottorato, tre grossi volumi da cui esce una densa monografia approvata
dallo stesso Sollers (Seuil, 1992), fatto per nulla scontato dato il carattere del soggetto. Con questo
puntello di partenza, Forest diventa storico del gruppo di Tel Quel, scrivendo una Histoire de Tel Quel
(Seuil, 1995) che è la prima oggettivazione si può dire super partes del lavoro letterario di
quell'avanguardia, tanto osteggiata quanto ambita, dai grossi nomi della cultura, nel lungo arco della
sua prima fase di vita (Sollers fonda nel 1960 la rivista, che nel 1982-’83 morirà per dar vita alla
succedanea, L'Infini, tuttora attiva). Il lavoro di Forest su Tel Quel è contemporaneo a quello sulle altre
avanguardie novecentesche francesi molto collegate tra loro nonostante le inevitabili opposizioni tra
gruppi di lotta teorica, quali il Surrealismo, la scrittura combinatoria degli oulipiani, il Nouveau Roman
e la scuola dello sguardo, l'insurrezione situazionista di Guy Debord.
Tutte queste avanguardie hanno vissuto, sono state. Poi è sopraggiunta quella che unanimemente è stata
chiamata la crisi delle avanguardie. Dopo c'è l'era che Forest battezza della post-histoire
(cronologicamente quella successiva al genocidio, a Hiroshima e Nagasaki). Morte le avanguardie,
nell'era della post-histoire, si è chiesto Forest a metà degli anni Novanta, che cosa succede nell'universo
della letteratura? È l'ora del ritorno a forme più tradizionali in nome del presunto fallimento delle
avanguardie, ritenuto tale per il loro esaurirsi storico? No.
Per Forest l'era della post-histoire è quella della dialettica, del superamento delle opposizioni tra canoni
opposti - il classico, il moderno - in una sintesi che riesce a combinarli collegandoli nel loro movimento
di evoluzione. Un esempio concreto Forest lo dà su un punto molto dibattuto: il ruolo del soggetto nella
scrittura narrativa.
Nella lettura corrente, le avanguardie storiche hanno espulso con più o meno forza l'io biologico dalla
scrittura dando vita a svariate pratiche narrative depersonalizzanti come la scrittura automatica, la
scrittura testuale, la pratica del détournement, arrivando a risultati anche notevoli ma estremi oltre i
quali hanno poi dovuto ricredersi, tornando a reintrodurre dalla finestra quello che avevano cacciato
dalla porta: l'Io narrativo (Sollers dai flussi testuali di Paradis che passa a Femmes o Robbe-Grillet che
passa da testi come Le Voyeur, Les Gommes o La Jalousie alla serie autobiografica dei Romanesques in
tre volumi). Per Forest questa lettura è profondamente viziata. Significa non aver capito che quello che
viene letto come ripiegamento regressivo è in realtà ulteriore evoluzione, possibile grazie alla
trasformazione del ruolo del soggetto nella scrittura narrativa. Di questo Forest tratta nel saggio
intitolato Le Roman, le Je, che nell'ordine di scrittura viene per secondo (Pleins Feux, 2001), e
corrisponde a una fase più avanzata nell'elaborazione del suo pensiero critico. Prima viene un altro
importante saggio, molto più piccolo dei precedenti, ma autonomo: non più studio, analisi del lavoro
altrui, bensì maturazione di un pensiero teorico-critico personale: Le roman, le réel (Pleins Feux,
1999).
Forest, siamo dunque nel 1999, si chiede: oggi, nell'era della post-histoire, vissute e "morte" le
avanguardie - come dicevano i suoi colleghi universitari - UN ROMANZO È ANCORA POSSIBILE ?
Il tentativo di darsi una risposta produce questo importante saggio anche se piccolo quanto a numero di
pagine, primo mattone della teoria critica di Forest.
La risposta è: sì, un romanzo oggi è ancora possibile, a condizione che esso, il romanzo, risponda
all'appello impossibile del reale, “à condition qu’il réponde à l’appel inouï du réel”. Bisogna spiegare le
parole di questa formula (ogni teoria necessita di una formula, dice Forest).
▪ ROMANZO: non quello tradizionalmente considerato tale alla Balzac. Bensì, ad es., romanzi come
Nadja di Breton, Voyage au bout de la nuit di Céline, Topologie d'une cité fantôme di Robbe-Grillet,
Drame o Paradis di Sollers. Il romanzo che interessa Forest è quello che mette in discussione il
concetto di romanzo.
▪ IMPOSSIBILE/ REALE. Forest utilizza uno slogan del maggio '68, "Soyez réalistes, demandez
l'impossible", cui si è ispirato Lacan per dire "Le réel c'est l'impossible". Per Lacan ci sono tre ambiti: il
simbolico, l'immaginario, il reale. Reale è ciò che resiste alla simbolizzazione: 1) ciò che sta dalla parte
della cosa; 2) ciò a cui la psiche umana è sempre confrontata. Parentesi: questa accezione del REALE
si situa all'opposto de concetto di REALTA' contro il quale si è scagliato Breton nel primo manifesto
del Surrealismo, che è la nozione cui si collega il REALISMO romanzesco tradizionale, realismo in
quanto rappresentazione pedissequa e fedele della realtà, riproduzione realistica sulla pagina di una
realtà esterna alla scrittura (Premier Manifeste, 1924, pp.14-15). Reale qui corrisponde a vero, il
romanzo che risponde all’appello del reale è quello che contiene una parte di verità. Ecco perché Nadja
è piuttosto un anti-romanzo e Forest può prenderlo a esempio come romanzo possibile oggi, romanzo
“vero”.
Tornando al REALE di Forest e alla formula di Lacan "il reale è l'impossibile", Forest osserva che
Lacan l'ha desunta pur senza riconoscerlo mai apertamente da Georges Bataille (scrittore e filosofo
francese attivo nella prima metà del XX secolo, morto a Parigi nel 1962, in prima battuta aderì al
surrealismo poi se ne staccò per ragioni politiche, autore di romanzi e saggi tra cui L’expérience
intérieure, 1943, e L’impossible del 1947), la cui Summa Ateologica (L'expérience intérieure, che
insieme agli altri due volumi Le coupable e Sur Nietzsche formano quello che egli stesso definì,
parodiando San Tommaso, una «summa atheologica», una mistica senza Dio) è un sistema aperto ma
coerente di interpretazione del reale.
Bataille dice che l'IMPOSSIBILE (al contrario della realtà) è qualcosa che non può essere definito,
spiega ne La part maudite (1949) che l’impossibile è "la parte maledetta, parte d'ombra dove
l'individuo si impegna e distrugge le proprie forze, parte in cui non domina l'utile ma la seduzione
dell'inutile, in cui non domina la ragione bensì riso, sesso, male, morte, letteratura e poesia". In tutto ciò
sta l'impossibile. Esperienza cui non si addice il linguaggio filosofico, che sta dalla parte della ragione,
del senso, né quello, da solo, della poesia, che sta dalla parte del non-senso. Bensì un linguaggio che
faccia segno (faire signe) contemporaneamente al senso filosofico e al non-senso poetico. Conclude
Forest: il linguaggio del romanzo quale lui lo intende.
Tornando a Bataille, il REALE sta, è racchiuso, nell'esperienza-limite che lui condensa nei due
momenti del desiderio e del lutto, esperienza di vertigine, caduta, abisso, baratro. Esperienza del
negativo. Questo è il reale che ci è dato come IRRAPPRESENTABILE.
Se il realismo tradizionale, quello che corrisponde alla nozione di realtà contro cui si scaglia Breton, è
rappresentazione mimetica delle cose (Stendhal, Le Rouge et le Noir: "Il romanzo è uno specchio
portato lungo un cammino"), riproduzione illusoria sulla pagina di una realtà preesistente alla scrittura,
ci sarà oggi un'altra forma romanzesca che non si connette più con quella realtà ma con questo reale di
cui parlano Lacan e Bataille, altra forma che per comodità teorica Forest battezza con un neologismo
("ogni teoria ha bisogno di neologismi", dice) chiamandola réélisme, la forma romanzesca che tenta di
dire l'irrappresentabile, l'esperienza che ci è data in maniera non rappresentabile, la lacuna, la ferita, il
negativo.
Infatti, dice Forest : "Tout ce que le discours social (la réalité telle que je la définissais plus haut) laisse
choir hors des limites où il règne, tout ce pour quoi les mots lui manquent, forme cet espace résiduel
dont le regard se détourne et qui suscite la pulsion romanesque. On peut baptiser cela l'obscène, mais à
condition toutefois de ne pas le confondre avec le sexuel. Car l'obscène n'est le sexuel que dans la
mesure où ce dernier assume vraiment sa part d'impossible et ne relève pas de cette sexualité
administrée (jusque dans ses soi-disant excès et ses prétendues déviances comme elle peut l'être
aujourd'hui) qui est devenue l'un des plus beaux fleurons du kitsch actuel".
Torniamo allora a quella considerazione evocata prima, il romanzo ha a che fare con il NEGATIVO,
con quel qualcosa che manca nel tessuto della realtà, quel qualcosa che si smaglia fino ad assumere le
sembianze di un cencio “un rébut”, “un déchet”. Questo cencio è ciò che il romanzo vero deve sforzarsi
di dire.
Dobbiamo cercare di capire meglio cos'è questa mancanza, questa smagliatura.
È un passaggio interessante, quello in cui Forest definisce l'oggetto di cui si deve occupare il romanzo
vero in quanto RESTO. Il resto - e fa l'esempio matematico di 10:3, per quanto si vada lontano dopo la
virgola resterà sempre qualcosa del dividendo, il resto appunto - è tutto ciò che il discorso sociale lascia
cadere. L'esempio in cui concretizza il suo discorso è il CADAVERE. Questo è il romanzo vero, che
non distoglie gli occhi dal cadavere, dal corpo morto della persona amata. Per contrario, quello non
vero, quello che a lui non interessa, che non risponde all'appello impossibile del reale, è quello che
respinge il “resto”. Questo tipo di letteratura che non interessa Forest, ha molti lettori, grande spazio, il
più grande spazio, dice lui, nel commercio editoriale. Ma non è quello che lo interessa, non è il
romanzo quale lui lo intende.
Veniamo in chiusura al romanzo che Forest ha scritto, il primo, quello che più ha a che vedere con la
formulazione di questa prima fase del suo pensiero teorico, L'Enfant éternel.
Riprendiamo il concetto di esperienza nell'accezione di Bataille. Proprio in chiusura del saggio, Forest
cita Bataille quando ne L'Azur du ciel dice: "Comment nous attarder à des livres auxquels,
sensiblement, l'auteur n'a pas été contraint?". E aggiunge: "Seule l’épreuve suffocante, impossible,
donne à l’auteur le moyen d’atteindre la vision lointaine attendue par un lecteur las des proches limites
imposées par les conventions".
Questa prova asfissiante, esperienza limite, esperienza dell'impossibile nella vita di Forest ha preso la
forma specificamente del cadavere della persona amata, e nel modo più inaccettabile, più osceno, il
cadavere della propria figlia Pauline, morta a quattro anni di cancro, osteosarcoma.
L'Enfant éternel è la risposta di Forest all'appello impossibile del reale, alla smagliatura apertasi nel
tessuto della realtà con la malattia e la morte della bambina Pauline. Il suo romanzo tenta di dire questo
reale impossibile. Come? Raccontando in maniera quasi iperrealistica, ai limiti dell'insostenibile per il
lettore, tutta intera l'esperienza dalla scoperta del male all'esperienza ospedaliera, lo strazio suo, quello
della moglie, degli altri bambini malati di cancro incontrati lungo il percorso, tutto questo percorso
scritto raccontando l’esperienza della bambina di quattro anni che ne è la protagonista.
Anche, parallelamente, interrogandosi sulla possibilità stessa di questo romanzo, su senso e non-senso
delle sue parole, facendo sì che il romanzo sia anche interrogazione sulla propria possibilità.
Ora, in questo romanzo Forest racconta tutto in prima persona, ma – deroga rispetto alle regole di
Lejeune, specialista della scrittura autobiografica – il padre di Pauline non si chiama Philippe ma Félix.
Esempio banale ma significativo. La mamma non si chiama Hélène come nella realtà ma Alice. Ci sono
integrate parti di Peter Pan, il bambino rimasto tale per sempre. Insomma non realismo tradizionale ma
réélisme, per usare questo neologismo, cioè un romanzo in cui non importa se tutto quello che
leggiamo è realmente accaduto, tutti gli episodi sono accaduti esattamente come vengono raccontati. In
cui l’importante è che nel romanzo ci sia quell’esperienza vissuta, che è di desiderio e lutto insieme,
amore e morte per usare termini ormai superati, un romanzo che sia, cerchi di essere, fedele alla
violenza dell’esperienza vissuta. Che si faccia portavoce, attraverso l’io testuale, di quell’esperienza
oscena, malattia e morte di una bambina di quattro anni, esperienza, oscenità che il discorso sociale, o
la letteratura di evasione, preferisce lasciar cadere, da cui preferisce distogliere gli occhi.
Con queste idee sul romanzo, Forest è andato avanti nelle sue formulazioni teoriche (ed è arrivato a
sostituire quello che Lejeune chiamava “patto autobiografico” con un altro tipo di patto, di contratto
stipulato con il lettore, cui ha dato il nome di “patto testimoniale”.
Cercare di essere fedeli all’esperienza, cercare di dire ciò che ci si presenta come indicibile, significa
per lui cercare di parlare in nome e per conto di – mettendo l’io testuale a fare da portavoce, ad
assumersi il peso e la responsabilità di provare a dire – in nome e per conto di chi non può o non può
più farlo. Testimoniare al posto suo. Il nuovo patto con il lettore è questo: mi impegno a provare a dirti,
lettore, quello che qualcun altro non può o non può più dirti, e che però va detto perché la violenza
della sua esperienza non vada perduta, che essa non sia accaduta invano. Nel caso dei primi romanzi
della bambina Pauline, nel caso della pièce 43 secondi in nome e per conto di chi non è sopravvissuto
alla bomba atomica.
Il lettore da parte sua s’impegna a provare a capire il valore della testimonianza.
Forest non ha vissuto l’esperienza della bomba, mentre ha vissuto quella della perdita di sua figlia. E’
vero. Potremmo dire che sono due forme di testimonianza diverse, perché nella prima il racconto
riporta fatti che comunque l’autore ha vissuto (poco importa abbiamo detto se li racconta esattamente
come sono accaduti, ormai sappiamo che questo non è possibile). Nel secondo caso, di 43 secondi,
invece racconta – sempre dicendo io, sempre in prima persona – fatti che non ha vissuto personalmente.
Ma è poi così vero che non ci parla di sé in questo testo? Ce ne parla, sia pure in maniera meno diretta
Se andiamo bene a vedere, quei due io che parlano nel testo ci dicono cose molto vicine a quelle
contenute ne L’enfant éternel: ci parlano del valore della testimonianza, sia il pilota, sia la donna
giapponese (discorso visto ieri degli occhi aperti sui morti). La stessa donna giapponese che gurada la
bimba allontanarsi il mattino, noi sappiamo che non la vedrà più con ogni probabilità, che morirà. E’ la
propria esperienza della perdita della bambina.
Il discorso del pilota al cappellano militare. E’ Forest che parla, che dà voce attraverso quell’io testuale
– più che mai testuale, Forest non è mai stato pilota (anche se a ben guardare anche qui c’è parte di lui,
suo padre è stato pilota durante la guerra, il suo penultimo romanzo – Le siècle des nuages – ha per
protagonista proprio suo padre pilota) – dicevo che dà voce al senso di colpa da lui stesso provato alla
morte della bambina, il senso di colpa che vivono tragicamente tutti i sopravvissuti. Pensate a Primo
Levi, a Bruno Bettelheim, a tutte le testimonianze dei sopravvissuti alla shoah che al dolore e alle
sofferenze patite hanno dovuto aggiungere, dopo, quello di sentirsi in colpa per essere rimasti vivi
senza nessun merito mentre tanti altri sono morti.
Lecture proposée:
43 secondes de Philippe Forestpiècde radiophonique
Argument: librement inspirée des événements du 6 août 1945, la pièce qui suit présente les monologues
intérieurs alternés de deux personnages - monologues censés se développer au cours des 43 secondes
qui séparèrent le largage de la bombe atomique sur Hiroshima de son explosion. La voix 0 (masculine,
neutre) est celle du récitant. La première voix est celle du pilote du troisième des bombardiers
américains participant à l'opération. La seconde voix est celle d'une jeune femme japonaise vivant dans
les environs de la ville. L'événement est rapporté du point de vue de ces deux témoins qui vivent les
moments qui précèdent l'explosion.
Illustration sonore: A aucun moment, on ne doit entendre le bruit de l'explosion elle-même. Tout se
passe avant. L'illustration sonore, dans l'idéal, devrait donner à l'auditeur le sentiment d'une grande
journée de beau temps avec, accompagnant la voix 1, le bruit des moteurs de l'avion et, accompagnant,
la voix 2, le bruit caractéristique de l'été japonais que font dans la campagne les grillons.
Pour encadrer la pièce ou bien en leitmotiv, en fond sonore, les voix 1 et 2 comptent de 0 à 43 dans leur
langue, l'anglais ou le japonais.
Voix 0: Le 6 août 1945, une formation de trois appareils militaires américains procédait au premier
bombardement atomique de l'Histoire sur la ville japonaise d'Hiroshima. L'événement a eu lieu à 8h15
du matin. Entre le moment du largage et celui de l'explosion, la chute libre de la bombe A a duré très
exactement 43 secondes.
Voix 1: One two three four five six seven eight nine ten eleven twelve thirteen fourteen fifteen sixteen
seventeen eigteen nineteen twent twenty-one twenty-two twenty-three twenty-four twenty-five twenty-
six twenty-seven twenty-eight twenty-nine thirty thirty-one thirty-two thirty-three thirty-four thirty-five
thirty-six thirty-sevent thirty-eight thirty-nine forty forty-one forty-two fotry-three
Voix 2: itchi ni sann yonn go iokou nana hatchi kyou djou djou-itchi djou-ni djou-sann djou-yonn djou-
go djou-lokou djou-nana djou-hatchi djou-kyou ni-djou n-djou-itchi ni-djou-ni ni-djou-sann ni-djou-
yonn ni-djou-go ni-djou-lokou ni-djou-nana ni-djou-hatchi ni-djou-kyou sann-djou sann-djou-itchi
sann-djou-ni sann-djou-sann sann-djou-yonn sann-djou-go sann-djou-lokou sann-djou-nana sann-djou-
hatchi sann-djou- kyou yonn-djou yonn-djou-itchi sann-djou-ni sann-djou-sann
Voix 1: J'ai fait ce rêve. La nuit dernière. Maintenant, il me revient. Je volais dans le ciel. Le même
qu'en ce moment. Seulement, il n'y avait rien. Aucun avion ne me précédait. J'étais dans le bleu, le
grand bleu léger et sans forme, le vide délivré de tout, débarrassé de la masse blanche d'aucun nuage. Je
rêvais que je volais. Mais mon rêve n'était pas inquiet. Il n'avait pas davantage d'épaisseur que le ciel
lui-même. Il ne racontait rien.
Je rêvais et tandis que je rêvais, je pensais: comme ce rêve est différent de tous les autres! Je cherchais
des mains les commandes de l'appareil, j'essayais de me rappeler les gestes que l'on m'a enseignés, je
me répétais toutes les règles, je voulais voir les yeux ronds des cadrans tournés vers moi, vérifier la
vitesse, l'assiette, l'altitude. Mais tout avait disparu.
Je ne volais pas dans le ciel. J'étais devenu le ciel. Le corps de la carlingue s'était dissous tout
doucement dans l'air avec les ailes sans que je m'en aperçoive. Même la cabine avait cessé d'exister. Je
me trouvais allongé dans le vent et son souffle, en silence, supportait mon corps. Je me voyais à plat
ventre au-dessus du monde mais je voguais bien trop haut pour pouvoir discerner quoi que ce soit en lui
sinon de larges étendues de vert, de brun, d'ocre, simples surfaces de terre tranquillement inhumaines et
ne signifiant rien. Moi, je flottais dans un néant limpide, à l'abri de l'azur, glissant vers le devant, sans
bouger pourtant. Immobile. Oui, j'étais le ciel.
Voix 2: Et puis, tout à coup, la chaleur s'est dissipée et j'ai senti la belle fraîcheur de la nuit se poser
sur la maison. Elle avait fait coulisser sur le côté la porte de la chambre où je restais éveillée, depuis
des heures, tournant mon corps dans le lit, faisant tourner avec lui toutes mes mauvaises pensées du
jour. Je ne voulais plus y croire. J'avais fini par penser que le sommeil ne viendrait pas. J'attendais le
moment de me lever, l'aube, son vague mouvement de lumière grossissant derrière l'écran des volets
avec le machinal bruit monotone des grillons criant depuis l'herbe du jardin. Alors, passant par la porte
entrouverte, soufflée par un courant d'air, la douceur est venue sur moi et j'ai réalisé que je rêvais, que
je rêvais que je dormais enfin, qu'il n'y avait plus à attendre le matin puisque le sommeil était là,
immatériel et pourtant épais, que j'étais maintenant tout entière en lui, protégée du monde,
merveilleusement assoupie.
Donc, je rêvais que je dormais. J'avais repoussé à mes pieds le futon, je me trouvais à même la paille du
tatami, j'avais rejeté au loin mon yukata et j'étais toute nue dans le noir. Etrangement, je voyais avec
mes yeux la pâleur de mon propre corps, de sa peau sous la clarté de la lune passant à travers les volets,
la fenêtre ouverte qui donnait sur l'immense murmure de la campagne, de la colline, de la forêt.
Allongée, je sentais tout le volume de ma chair, formidablement, et cela me remplissait de honte et de
plaisir: mes seins sur moi, mes hanches, mes fesses, la fuite de mes jambes, de mes bras, jusqu'aux
poignets, aux chevilles.
Je dormais - je dormais puisque je rêvais - et mon corps se confondait avec la splendide horizontalité de
la nuit. Il s'étirait dans le calme, très loin au dessus de mes épaules, de ma tête, très bas, au dessous de
moi. Comme il avait grandi, mon corps, reposé de dormir si bien, d'avoir tout oublié de sa vie! Ses
extrémités plongeaient dans le sol assoupi de la terre. Je rêvais - je rêvais puisque je dormais- je rêvais
que mes cheveux s'étendaient jusqu'à se joindre au fouillis des bambous poussant sur la pente,
s'enroulant autour de leur tige, grimpant vers le toit de feuilles de la forêt. Et mes jambes! La droite
dégringolait en ruisseau vers la gorge de la rivière. Mon pied trempait dans le bassin du temple,
touchant le fond de l'étang parmi les nénuphars entre lesquels nagent les carpes grasses. La gauche
tournait vers le ciel l'arête vive d'une colonie de collines qui poussaient leur relief jusque vers mes
vertèbres. Il y avait mon sexe qui faisait comme une fente ouverte entre les deux versants symétriques
de l'univers. Et mes hanches, mes seins avaient l'immensité impudique de la montagne enflant la masse
de ses flancs au milieu très exact du monde. J'étais heureuse, tout à coup. J'étais la terre tournée vers le
grand néant calme du ciel, du ciel penchée sur elle.
Voix 1: J'étais le ciel. Cette pensée tranquille m'avait pris à l'intérieur d'elle. Mais quand je me suis
réveillé, d'abord, il n'est presque rien resté de mon rêve. Tout à coup, je me suis souvenu de tout: la
mission, l'arme, le secret. Je n'avais pas peur. On n'a pas peur de ce qui a déjà eu lieu. C'est pourquoi je
m'efforçais de m'imaginer que ce que nous devions faire avait été accompli. Autrement, comment
aurais-je pu connaître, l'âme au calme, le grand repos bleu de cette nuit qui s'achevait?
Je me suis préparé. J'ai pensé: ce n'est rien, seulement une journée ordinaire, juste la toute dernière de
la guerre. L'idée était étrange, malgré tout. J'ai essayé de me représenter toutes les journées qui avaient
précédé. Mais je n'y parvenais plus. Chacune était pleine de trop d'histoires et pourtant si vide, au fond.
Il n'en restait rien, ou alors juste quelque chose de semblable à la paille séchée jaunissant - comme
maintenant- sur les champs à la fin de l'été. Enfant, lorsque je fuyais la ferme de mon père, j'allais
m'allonger loin de tous sur le sol sec que je sentais contre mon dos et je tournais mon visage vers le
grand jeu des nuages passant au-dessus de moi, filant dans le vent vers des pays dont j'inventais le nom
et que pourtant - comme si j'avais pu les y retrouver- je cherchais ensuite sur les cartes du gros atlas
descendu de la bibliothèque, posé sur la table de la cuisine. Des pays, toujours à l'ouest, là où le soleil
descend, où existe une mer si bleue qu'elle étouffe son feu et qu'il sombre en elle, qu'il l'éteint dans le
même flamboiement pour rien se réverbérant ensuite parmi l'éparpillement des étoiles de la nuit.
Toute l'escadrille, on nous a réunis. Il y a eu des mots, des phrases que je n'ai pas écoutés. Cela faisait
tant de fois que nous répétions l'opération. Je ne voulais pas me laisser distraire de mon rêve. D'ailleurs,
je savais déjà tout. Je regardais à peine les cartes, les dessins à la craie sur le tableau noir. Si l'on
mentionnait mon nom, si l'on m'adressait la parole, je hochais simplement la tête. C'était tout et je
savais que cela suffisait. J'étais seul à savoir, à avoir compris, pensais-je. La guerre était déjà finie. Il
n'y avait plus l'immense convoi des hommes quittant leur pays pour nulle part, la nausée noire sur
l'océan couleur d'azur, le feu sur les plages où les corps s'abattent dans le sable avec un peu plus loin
l'immense bêtise d'une jungle vide à conquérir mètre après mètre, la grande terreur des quelques pas
devant soi sous le tir d'un ennemi invisible, le mortier, les balles et les grenades, le napalm, le lance-
flamme, la baïonnette au canon pour finir. Il n'y avait plus, non plus, le tourniquet vrombissant des
avions de chasse faisant cercle autour des bombardiers lancés impavides sur la ligne abstraite de leur
objectif, les appareils qui se courent après, cherchent à se mordre la queue comme des chiens enragés et
s'anéantissent en hurlant de peur dans le vide. Non, tout cela était fini.
Je ne peux même plus dire quand la guerre a commencé. Et surtout: pourquoi? Il me semble maintenant
qu'il n'y a jamais rien eu avant elle, qu'elle est le temps tout simplement. Le temps qui s'étire
interminablement vers hier et puis vers demain.¨Parfois, je pense que je n'en sortirai jamais. Je voudrais
pouvoir dormir pour toujours, m'étirer dans le vide d'un ciel bleu et ensommeillé où il n'y aurait plus du
tout de pensée. Alors, soudain, mon rêve m'est revenu tandis que je montais dans l'appareil, que je
vérifiais les instruments, que je me sanglais dans mon siège..
Voix 2: Elle avait raison. Maman le disait. L'aube est le moment où les morts reviennent. Il n'y a rien à
craindre de la nuit. Les spectres y dorment dans le lit des vivants. Ils mêlent à la leur leur haleine. Ils
répandent dans les draps cette chose noire où reste tout ce qu'ils sont désormais. Elle est d'une telle
douceur, épaisse et forte, cette noirceur là. Mais vient le petit matin et eux, les morts, ils se lèvent avant
nous, se mettent debout dans un coin de la chambre et ils attendent, plantés là, avec une patience
infinie. Ils attendent que quelqu'un ouvre enfin les yeux sur eux.
On m'a raconté que, pour s'endormir, les enfants d'Occident comptent les moutons dans leur lit. Moi,
pour me réveiller, je compte les morts. Oh, tout ce travail que cela fait dans le matin! Et il n'y a plus
que moi maintenant pour le faire! Ils sont si nombreux, les morts. Et puis ils n'arrêtent pas de bouger.
C'est tellement énervant. Ils profitent pour changer de place de ce que le jour n'est pas encore tout à fait
levé, qu'il y a suffisamment d'obscurité autour d'eux, ou bien que j'ai la tête ailleurs, que je ferme un
tout petit moment les yeux.
Alors, je reprends et je me mets à compter. D'abord, il y a eu papa mais j'étais une si petite fille que je
ne m'en souviens pas. C'est sans doute pourquoi chaque fois qu'il vient, il reste bien au fond de la pièce,
profondément dans le noir et s'il en sort, s'il vient vers moi, s'il s'assied au bout du futon, il porte à
chaque fois un visage nouveau sous lequel je le reconnais pourtant. Ensuite, sont partis Kenji et Yasu,
avec le bel uniforme que l'armée leur avait fait pour la Mandchourie et qu'ils portaient le jour où ils
nous ont dit au revoir, m'appelant petite soeur, me saluant avec cérémonie, affectant le petit air idiot et
faussement viril que les jeunes garçons se croient obligés d'adopter avec les filles. De Kenji, n'est
revenue que l'urne qui contenait ses restes - et puis, avec une lettre officielle de ses supérieurs, un
paquet de toile où l'on avait mis ses affaires. Yasu-chan, ils l'ont laissé rentrer chez nous, en
convalescence ont dit les médecins militaires, le temps qu'il soit rétabli et de nouveau capable de
donner sa vie pour l'Empereur. Mais il ne restait plus grand chose de lui dont un obus de mortier avait
dispersé au vent tous les morceaux. Mourir est un gros travail, parfois. A Yasu, aussi consciencieux
qu'un écolier bien appliqué à sa tache, il a fallu six mois pour y parvenir. Un matin, - cela faisait des
semaines qu'il ne bougeait plus, ne parlait plus-, un matin, c'était fait, on l'a trouvé sans connaissance
dans sa chambre, il était mort dans la nuit, alors on l'a brûlé. A la fin de la cérémonie, il n'y avait plus
de lui qu'un cadavre calciné avec sa drôle absence de forme parmi la cendre où l'on va chercher, à l'aide
des baguettes rituelles, quelques vagues vestiges d'os, parfois horriblement reconnaissables comme un
morceau de machoire - oh, comme je me souviens de ce morceau de machoire, des trois dents polies
par le feu encore plantées dans le bout noir de l'os! L'été suivant, maman et grand-mère sont parties à
leur tour la même semaine. Elles n'avaient pas trouvé d'autre manière pour dire qu'elles en avaient
assez. Ensuite, chez mon oncle et ma tante, on a appris que c'en était fini d'Haruki et de Toshiyuki,
tombés le même jour, l'un sous les bombardements de Tokyo, alors qu'il se rendait à son bureau et
l'autre dans le naufrage de son navire, coulé d'une seule torpille, quelque part dans le Pacifique. Même
la petite Yuki est morte une nuit - et le docteur n'a pas su dire pourquoi.
A partir de ce moment-là, il est devenu très difficile de compter. Le matin, les morts se pressaient trop
nombreux autour de moi. Le plus assommant est qu'ils ne savaient pas. Personne ne leur avait rien
expliqué. Et s'ils venaient vers moi, ils le faisaient pour s'informer, prendre des nouvelles, pour que je
leur dise enfin ce qui leur était arrivé. Bien sûr, tous, ils en avaient quand même une vague idée. Et
pourtant ils n'osaient pas me le demander trop directement. Il faut les comprendre. Ils avaient peur de
ma réponse, qu'elle les renvoie d'un seul coup du côté des ombres, qu'ils ne puissent plus continuer à
faire longtemps semblant. Alors ils disaient des choses ordinaires, parlaient des affaires, de la famille,
évoquaient des projets qu'ils avaient, comme si de rien n'était, juste pour voir ma réaction et si j'allais
les détromper, leur avouer que tout cela était désormais fini pour eux, qu'il n'y aurait pas de lendemain,
pas de prochaine moisson, pas de rentrée des classes, pas de mariage prévu et de nouvelle naissance
puisque, tous, ils étaient morts.
Parfois, parmi eux, je voyais Nao, et je criais, - j'essayais de crier puisque dans le sommeil pas un son
ne sortait de ma bouche. Je criais à mon mari de ne pas rester avec les autres, au milieu de la meute
des morts, puisque lui, il était en vie. J'en avais la preuve. Elle ne quittait pas mon kimono. Toute la
journée, je sentais cette preuve de papier contre ma peau. Hier j'avais reçu une nouvelle lettre de lui -
froide, distante, affectée- où il ne me disait rien de sa vie - il y avait juste deux ou trois formules faites
pour la censure militaire et où il évoquait la détermination de ses camarades à donner tous leur vie pour
le salut et la gloire de l'Empereur-, une lettre où il me faisait longuement la leçon, m'expliquant qu'étant
la dernière survivante de la famille, ma conduite devait être irréprochable, que tous les regards étaient
sur moi, où il me réprimandait pour deux ou trois bêtises, comme mon orthographe dans mon dernier
courrier et la manière maladroite dont je traçais certains caractères que j'aurais dû apprendre à l'école si
je n'avais pas été si stupide, si paresseuse, si illettrée. Cela m'était bien égal! S'il pouvait savoir comme
cela m'était bien égal et combien je me moquais de tous ses airs faussement supérieurs. Il pouvait me
dire n'importe quoi. Je n'y attachais aucune importance. Tout ce que je voulais, c'est qu'il soit encore en
vie, qu'il ne laisse pas les autres l'attraper, tous les morts qui l'emmèneraient du côté du matin, du côté
de mes rêves.
Voix 1: Voilà: je suis le ciel. Je me dis: je suis le ciel et rien d'autre. J'essaye de faire en sorte qu'il n'y
ait plus que cette pensée dans ma tête. Bientôt, nous serons très exactement au-dessus de la cible. Je ne
veux pas savoir son nom. Je l'ignorais hier. Je l'aurai oublié demain. C'est un nom de ville comme un
autre, le nom d'un lieu où des gens vivent. Dans quelques secondes, ils ne seront plus rien. Il y aura tout
ce feu, ce souffle effaçant le monde, le renversant d'un simple revers de la main. Je ne pense à rien. Je
pense que je ne pense à rien. J'aimerais simplement regagner mon rêve.
L'avion du colonel vole au devant de moi. Il me suffit de le suivre pour garder le cap. L'autre
bombardier est sur ma droite. Comment s'appelle-t-il déjà? Entre nous, les pilotes, nous leur avons
donné des noms. Nous l'avons fait parce que le simple éclat anonyme de miroir des fuselages et le
numéro de série des sorties de l'usine ne nous suffisaient pas. A son avion, le colonel a donné le nom
de sa mère, Enola Gay, qu'il a fait peindre et photographier sur son cockpit. Sa grosse maman vole
devant moi. Avec tous ses moteurs et sa carlingue enceinte, elle va pondre dans le vide un bébé en
forme de citrouille, gonflé de mort, que des savants ont baptisé "Little boy". Elle va accoucher d'une
obèse boule de néant, un oeuf de métal tout plein de souffrance et dont la coquille éclatera dans le ciel,
versant son jaune empoisonné sur la foule vulnérable et vaine des vivants. Pauvre colonel! Si attentif à
sa carrière, calculant déjà quel avenir suivra pour lui la gloire d'avoir produit devant ses chefs la preuve
d'un monde irrémédiablement détruit! Sweeney pilote le second bombardier de la mission, porteur de
tout l'arsenal scientifique destiné à mesurer le massacre. Lui, il a baptisé son appareil: The great artist.
Je ne sais pas de quelle oeuvre il s'imagine être l'auteur. Moi, moi qui ferme la marche, et qui ne suis là
qu'à seule fin de photographier, de filmer, d'observer, moi qui ne suis qu'un témoin, mon avion, je l'ai
nommé "Necessary evil". Cela veut dire: "mal nécessaire".
J'en ai parlé avec l'aumonier de la base. A mots couverts bien sûr puisque même à lui, je n'étais autorisé
à rien à dire. Je lui ai demandé: - mon père, le mal peut-il être nécessaire, jouer son rôle dans le mystère
du salut et de la rédemption dont vous nous avez parlé? Mon père, y-a-t-il dans la pensée de Dieu une
place où se tienne sans honte le crime abject d'avoir versé la mort sur le monde et sur ceux qui y
vivent? Il n'a pas répondu. J'ai dit encore: - mon père, existe-t-il une parole d'absolution comme celle
que prononçait le Christ sur sa croix appelant le pardon pour ceux qui, comme moi, ne savent pas ce
qu'ils font? Une troisième fois, il s'est tu. Alors, j'ai demandé: - mon père, se trouve-t-il quelqu'un dans
le ciel, dans le grand ciel de la nuit tout obscurci de deuil et de douleur qui puisse nous pardonner, à
nous qui resterons vivants quand, des autres, il n'y aura plus que poussière et que cendre?
Les trois avions volent en triangle. Comme des oiseaux. Ou bien comme ces trois caravelles traversant
autrefois l'océan, l'autre océan, la mer toute peuplée de mirages et de fantômes qu'ils étaient les
premiers à franchir. Le maître d'école nous avait appris leur nom: la Pinta, la Nina et puis, je crois, la
Santa Maria. Je ne me rappelle plus très bien cette histoire qui paraît si lointaine tout à coup, presque
insignifiante. Elles voguaient vers un Nouveau Monde dont elles ne savaient pas le nom, dont elles ne
devinaient pas même l'existence. Tout comme nous qui découvrons une terre d'effroi que d'autres,
quand nous aurons disparu, habiteront après nous, une Amérique d'angoisse aux dimensions de la
planète, d'une planète unifiée par la peur, un pays unique à jamais empoisonné par la peste
sommeillante d'une épidémie sans vaccin ni remède. La violence, oui, tout le néant libéré d'un coup
parmi les hommes. Ou bien: plus rien ni personne. La fin, cette fois, pour de bon.
Le ventre de l'Enola s'ouvre devant moi. Qu'il suffise d'une seule bombe me paraît si inhabituel quand
d'ordinaire, ce sont des dizaines, des centaines qui s'abattent ensemble, noircissant le vide au-dessous
de nous avant que ne remontent, avec le son abstrait du carnage, les tout petits panaches multipliés de
flammes, de cendres et de fumées s'épanouissant sur les lieux de l'impact. Cette fois, la bombe tombe
toute seule, juste suivie par les trois sondes parachutées derrière elles. Je la vois larguée. Je suis la
procédure prévue. L'équipage est au travail, affairé sur ses sondes, ses appareils, ses capteurs. Moi, je
vire sur ma gauche - 155 degrés-, je pique pour prendre de la vitesse et m'éloigner. On nous a dit que la
chute libre de l'engin durerait très précisément 43 secondes avant que le mécanisme ne déclenche
l'explosion au-dessus de la cible. Je compte, je compte les secondes. Je ne m'imaginais qu'il puisse y
en avoir autant
Bientôt, je sentirais le souffle dans mon dos, faisant vibrer l'appareil, la chaleur brûlant l'épaisseur de
l'air, l'impensable lumière d'un soleil de souffrance brillant pour la première fois sur le monde. Je
tiendrai le cap, avec derrière moi le miracle inouï du massacre, le nez de l'avion tourné vers le vide,
vers ce grand bleu du ciel où tout s'efface, où tout s'efface avec moi.
Voix 2: Je me suis levée. J'ai aidé Mayumi à se préparer, je lui ai confié le panier-repas de son bento.
Elle a sept ans maintenant. Elle est assez grande pour se rendre toute seule à l'école. J'ai pensé: - oh, le
formidable courage des enfants affrontant sans un mot la routine de la vie! Je l'ai accompagnée au bout
du jardin et je l'ai saluée, lui disant: - à ce soir! J'ai pensé: - à ce soir, mon coeur, mon trésor, mon
amour! J'ai regardé la petite forme de sa tête, de ses épaules s'éloigner sur la route, disparaître et puis
réapparaître et disparaître enfin derrière la pointe des bambous.
Ensuite, je suis restée là longtemps, protégée par l'ombre que fait le toit sur le devant de la maison. Le
soleil était déjà haut et brûlant. Un beau soleil d'août calcinant l'herbe et le sol. Beaucoup de travail
m'attendait, bien sûr. Mais je ne parvenais pas à secouer tout à fait l'engourdissement magnifique de la
nuit. Les morts étaient partis maintenant mais mon rêve continuait où j'étais encore la terre, la terre
étendue sous le ciel, la terre se perdant vers l'horizon, la terre merveilleusement offerte et se suffisant à
elle-même. Je me demande si ce rêve a une signification. On dit que tous les rêves en ont une, qu'ils
viennent de l'autre monde, que quelqu'un que nous avons connu nous les adresse afin de nous glisser un
message comme au creux de l'oreille. Il me donnait tant de plaisir, j'étais tellement contente de sentir
mon corps devenu la terre, mêlé amoureusement à toute la formidable féérie des phénomènes, que ce
rêve, j'étais certaine qu'il ne pouvait contenir qu'une promesse de bonheur, de paix.
Depuis la terrasse de la maison, parce qu'elle est construite sur la pente d'une colline, je vois au loin
toute la ville. J'étais semblable à ce paysage cette nuit. Je m'étendais au devant de moi, j'étais couchée,
je n'avais pas de fin. Une formidable fatigue me faisait me répandre dans le lit des choses où j'étais si
bien, vaine, vide, nue, vivante. D'ici, on voit tout vraiment. Comme sur un promontoire surplombant le
spectacle du monde avec, le partageant horizontalement en deux par son milieu, la ligne de l'horizon:
au-dessous le brun, le gris des cités parmi le vert des forêts, au-dessus le bleu du ciel.
Plus tôt, l'alerte a sonné, la longue sirène stridente montant de la ville et résonnant jusqu'ici dans la
montagne. Des avions ennemis passaient. Cela arrive parfois. Et maintenant, à nouveau, j'en vois trois
qui sont comme de petits oiseaux volant en formation dans le ciel, filant tout droit vers ailleurs puis
basculant tout à coup sur le côté en un mouvement terriblement gracieux qui les fait plonger au loin
vers le sol. Ils paraissent semblables à des cerfs-volants simulant l'aspect effrayant de bêtes maléfiques,
faisant leur cabrioles dans l'air; comme des jouets inoffensifs que de méchants enfants s'amuseraient à
faire tourner au-dessus de nous. Je sais bien que tout le pays est partout en feu, que l'incendie dévaste
les ruines, qu'on collecte les cadavres et qu'on les entrepose devant les crématoires, que les hopitaux
regorgent affreusement des victimes dont certaines sont sans visage, sans main, le ventre ouvert, la
chair calcinée et défaite. Je sais bien toute cette horreur.
Mais comme il est dur d'y croire dans la splendeur de ce matin d'été. Depuis le début de la guerre, la
ville a été préservée. Un dieu doit veiller sur elle. Dans sa scandaleuse injustice, quand tout souffre à
l'entour et que le monde n'est plus qu'un cri, il la conserve intacte pour plus tard et quand tout aura été
détruit ailleurs, elle restera là comme la preuve que quelque part, être heureux a malgré tout été
possible. A ce dieu dont j'ignore le nom et qui nous protège, à lui qui m'a soufflé mon rêve, j'adresse
une prière, une pensée dans laquelle je prend avec moi tous ceux que j'aime, les morts et les vivants,
ceux que je connais et puis tous les autres, magnifiquement abrités du malheur, et sur qui brille ce
matin la limpide et légère lumière d'août s'allongeant pour toujours sur la terre de mon rêve.
Tel Quel
Sito su Philippe Sollers:
www.pileface.com
All’interno di questo, notizie su Tel Quel alla pagina
http://www.pileface.com/sollers/article.php3?id_article=622
Le mouvement «Tel Quel» est issu de la revue trismestrielle du même nom, publié à Paris, par les
Éditions du Seuil, de 1960 à 1982, correspondant à 94 numéros. Le premier numéro est placé sous le
signe de l'expression “tel quel” par une épigraphe empruntée à Nietzsche: «Je veux le monde et le veux
TEL QUEL, et le veux encore, le veux éternellement[…]». D'autres épigraphes contenant l'expression
précèdent les numéros suivants, empruntées à Hölderlin, Descartes, etc. Et la «Déclaration» qui
introduit ce numéro 1 met en évidence ce rapport entre l'écriture et le monde: «la découverte (la
sensation de découverte) brutale ou progressive de cet objet, de ce spectacle, où nous retrouvons, par la
force d'une sensation particulière l'intérêt que mérite ce monde, ce monde TEL QUEL, l'étendue infinie
de sa richesse et de son possible». Il s'agit donc d'un monde appréhendé, semble-t-il, sans a priori.
Dans la France d'après la Deuxième Guerre mondiale, Tel Quel était une des revues littéraires les plus
en vue. La direction de la rédaction fut confiée à Philippe Sollers, qui entraîna la revue dans les volte-
face successives dont il était coutumier. Tel Quel s'affirmait et était considéré, du moins à l'origine,
comme l'organe d'une littérature d'avant-garde strictement et purement théorique et littéraire, c'est-à-
dire détachée de tout engagement politique et donc opposée aux prises de position d'un Jean-Paul
Sartre. Ainsi, le premier numéro présente des textes d'écrivains présents ou passés, Francis Ponge, Jean
Cayrol, Boisrouvray, Virginia Woolf, Claude Simon, Jean-René Huguenin, Jean-Edern Hallier
(directeur-gérant), et du critique Renaud Matignon. Parmi les collaborateurs, il y a lieu de signaler Julia
Kristeva, le poète et critique d'art Marcelin Pleynet, le romancier Jean Ricardou, comme représentant
du «Nouveau roman», le poète Denis Roche, la collaboration des deux derniers n'ayant été que
temporaire. Vers la fin des années 1960, l'influence de Tel Quel était prépondérante sur une grande part
de l'intelligentsia française, voire francophone.
La «Déclaration», déjà évoquée, du premier numéro, paraît formelle quant à la vocation d'abord
littéraire de la revue. C'est la défense de la «littérature» qui est invoquée en tout premier lieu, d'une
littérature qui reste trop inféodée à l'idéologie ou à l'arbitraire du «bavardage». On peut lire ainsi
successivement: «Parler aujourd'hui de 'qualité littéraire', de 'passion de la littérature', cela peut paraître
ce qu'on voudra. Les idéologues ont suffisamment régné sur l'expression pour que celle-ci se permette
de leur fausser compagnie, de ne plus s'occuper que d'elle-même, de sa fatalité et de ses règles
particulières» (p. 3)., et plus loin: «Ce qu'il faut dire aujourd'hui, c'est que l'écriture n'est plus
concevable sans une claire prévision de ses pouvoirs, un sang-froid à la mesure du chaos où elle
s'éveille, une détermination qui mettra la poésie à la plus haute place de l'esprit. Tout le reste ne sera
pas littérature. / Voilà ce mot de poésie lâché (que nous prenons, bien entendu dans son sens large,
englobant tous les 'genres littéraires') -- et sans doute faut-il dire ce qu'il représente pour nous, la
sensibilité que nous comptons y affirmer» (pp. 3-4). Le lecteur pourrait penser que c'est la littérature
qu'il convient maintenant de pratiquer, pour l'écrivain, et d'appréhender, pour la critique, telle quelle.
C'est alors que le Comité de rédaction définit l'écriture comme la «fonction vis-à-vis du monde
extérieur» des fondateurs de la revue et de ceux qui les suivent. C'est le monde qu'il s'agit de percevoir
tel quel, et la «beauté littéraire» se donnera pour tâche de la ressaisir et «plus qu'en la contestant, en la
représentant». Donc, on le voit, si la littérature prônée alors par la revue est celle qui s'émancipe de
l'idéologie, elle ne se coupe pas de la réalité, bien au contraire. À la fin de ce texte, la prudence prévaut
cependant, au risque, assumé, que le groupe soit accusé d'éclectisme. On se doit de citer ces propos:
«On ne peut attendre de la définition d'un groupe si divers et formé (heureusement) de personnalités
contradictoires, une précision plus grande» (p. 4) et «Et y a-t-il meilleure prétention que celle qui nous
fait espérer réunir ici tout ce qui s'écrit – ou s'est écrit – de meilleur dans toutes les directions où il nous
paraîtra bon d'avancer?» ( Ibid.).
Toutefois, progressivement, la revue s'oriente vers des points de vue sur «le monde» et vers des types
d'analyse des textes qui s'appuient de façon moins éclectique sur le marxisme-léninisme et sur la
psychanalyse freudienne. L'article qui ouvre le n°3 de l'été 1968, daté de mai 1968, est clair quant au
choix du marxisme. Même si le groupe maintient son action «textuelle», il s'agit de la rendre efficace,
écrivent les signataires, contre « une société dont nous attaquons le fonctionnement matériel et la
théorie du langage qui en découle» (p. 3) et de porter «la révolution sociale à son accomplissement réel
dans l'ordre des langages» ( Ibid). Pour ce faire, le groupe propose alors la «construction […] d'une
théorie tirée de la pratique textuelle» à développer, qu'il continue de ditinguer du discours «engagé»,
humaniste et psychologiste. D'où le point 6, décisif: «cette construction devra faire partie, selon son
mode de production complexe de la théorie marxiste-léniniste, seule théorie révolutionnaire de notre
temps, et porter sur l'intégration critique des pratiques les plus élaborées (philosophie, linguistique,
sémiologie, psychanalyse, 'littérature', histoire des sciences); » (p. 4) Et il s'agit de ne pas méconnaître
«le procès de la lutte des classes» ( Ibid.). Voici la liste des signataires du texte, ici unanimes malgré
leur diversité: Jean-Louis Baudry, Pierre Boulez, Claude Cabantous, Hubert Damisch, Marc Devade,
Jean-Joseph Goux, Denis Hollier, Julia Kristeva, Marcelin Pleynet, Jean Ricardou, Jacqueline Risset,
Denis Roche, Pierre Rottenberg, Jean-Louis Schefer, Philippe Sollers, Paule Thévenin, Jean
Thibeaudeau.
Puis assez rapidement, le mouvement évolua d'un structuralisme pur et dur vers un marxisme selon
Althusser : les études théoriques et les essais à connotation politique prenaient la plus grande place
dans la revue. Quant aux études proprement littéraires, elles se situaient de plus en plus dans une
optique linguistique, philosophique et sémiotique - entre autres par le biais des articles de Jacques
Derrida qui, de 1966 à 1970, collabora régulièrement à la revue - avec une empreinte grandissante de la
psychanalyse lacanienne, principalement sous l'influence de Julia Kristeva qui, en 1970, devint membre
du comité de rédaction. Cette évolution se manifesta dans un recueil collectif d'essais, Théorie
d'ensemble (1968).
Par la suite, le mouvement prit une orientation «maoïste» qu'illustrèrent d'une part un colloque organisé
en 1972, à Cérisy-la-Salle, sur le thème: «Vers un révolution culturelle:Artaud, Bataille», d'autre part
les numéros consacrés à la Chine, en 1972 (nos 48-50) et en 1974 (nos 71-73). Mais en 1977, une
nouvelle évolution des idées ramena les membres du groupe vers des conceptions plus individualistes
dénuées de toute implication politique et avec un intérêt renouvelé pour la spiritualité occidentale, plus
particulièrement juive.
La critique littéraire proprement dite, sous la forme de ce qu'on a appelé la «Nouvelle critique»,
bénéficia tout particulièrement de la collaboration de Roland Barthes qui fut un fidèle «compagnon de
route», sans jamais adhérer formellement au mouvement. Parmi les notions qui trouvent leur origine
dans le mouvement Tel Quel, s'inscrivent celles de l'intertextualité et du texte comme productivité. La
revue se doubla, à partir de 1978, d'une collection également appelée «Tel Quel», et publiée aux
éditions du Seuil, qui compte des ouvrages importants de critique et de théorie littéraires, de la plume
de Barthes, mais également de Sollers, Denis Roche, Derrida, Genette, Ricardou, Foucault, Kristeva,
Todorov (avec son recueil des textes des formalistes russes) et de bien d'autres.
Wilfried Smekens, dans un article de la MEW (Moderne Encyclopedie van de Wereldliteratuur .--
Weesp: Unieboek, 1984, t. 9, pp. 249-250), voit l'importance permanente de Tel Quel dans la mise en
contact de la littérature avec les manifestations culturelles les plus diverses. Outre la participation
active au développement des théories littéraires, le mouvement et la revue contribuèrent
considérablement à l'extension du panthéon littéraire à des auteurs tels que Bataille, Artaud,
Lautréamont, Mallarmé, Dante, Sade, Joyce... Aussi Smekens peut-il conclure que, malgré les
déplacements «inévitables», le groupe Tel Quel a sans cesse exercé une fonction d'orientation des
recherches dans le domaine littéraire.
Après la disparition de la revue, Philippe Sollers, qui en avait assumé la direction depuis le début,
continua son action dans la revue L'Infini , publiée chez Denoël.
La double collection:
Philippe Sollers, Tel Quel, L'Infini.
par Philippe Forest
1. Une histoire très longue à faire et tout à fait insolite.
Depuis 1957 - date à laquelle paraît Le Défi dans la collection Ecrire dirigée par Jean Cayrol-, plus
encore depuis 1983 - quand Femmes se voit publié dans la collection "Blanche" des éditions Gallimard-
et jusqu'à aujourd'hui, on a souvent interrogé Philippe Sollers: sur son oeuvre, sur sa vie, sur le monde
tel qu'il va, et en vérité un peu sur tout et sur n'importe quoi. Mais il est rare qu'il ait été questionné sur
son activité - pourtant très conséquente- d'éditeur.
Ce fut pourtant le cas lorsque en décembre 2003 la revue belge Pylône sollicita de lui un entretien
destiné à prendre place dans une série intitulée "Ecrire, éditer en Europe" et consacrée à des
personnalités littéraires présentant la caractéristique d'être à la fois des écrivains et des éditeurs. A
l'intention de ses interlocuteurs, Philippe Sollers s'expliquait en ces termes: "Vous arrivez au bon
moment car, selon les occultations diverses de l'époque, il est probable que je vais être perçu comme,
en effet, un éditeur, et un éditeur tout à fait compact: deux revues sur quarante-quatre ans, Tel Quel
puis L'Infini, deux collections et un nombre considérable d'auteurs publiés par mes soins et parfois pour
la première fois. Pour être tout à fait complet, il faudrait prendre la liste des livres publiés dans la
collection L'Infini, regarder les quatre-vingt-sept numéros de la revue et prendre aussi les quatre-vingt-
quatorze numéros de Tel Quel, plus les livres publiés dans la même collection, etc., ce qui cause
évidemment un embarras considérable à qui voudrait retracer l'histoire de mon activité d'éditeur. Elle
serait très longue à faire et tout à fait insolite puisqu'il s'agit - et il s'est toujours agi- d'être éditeur à
l'intérieur d'un système éditorial, et de se servir de lui pour faire quelque chose d'indépendant et
d'incontrôlable. Alors si je suis à la fois romancier, essayiste, journaliste-chroniqueur et éditeur, c'est
trop. Il faut chaque fois laisser tomber quelque chose."
La déclaration qui précède invite ouvertement le critique à se pencher sur le cas de "Sollers éditeur"
tout en le dissuadant discrètement de s'engager dans une telle entreprise - dont on l'avertit qu'elle sera
"longue" et "insolite", cause d'"un embarras considérable". L'objet de la présente communication
consiste à répondre à ce double appel contradictoire - à écrire et à ne pas écrire l'histoire de "Sollers
éditeur"- et se limitera à préciser et à actualiser les propos du principal intéressé précédemment cités.
A trois titres au moins, qui lui confèrent chaque fois une valeur exemplaire, on peut considérer que
l'histoire - longue, insolite, embarrassante- de Philippe Sollers éditeur constitue une histoire double: 1)
double d'abord dans sa forme puisqu'elle concerne à la fois une revue et une collection entre lesquelles
s'établit une relation dynamique constante; 2) double ensuite selon la stratégie personnelle qui la guide
puisque celle-ci est le fait d'un individu à la fois écrivain et éditeur (écrivain qui édite, éditeur qui
écrit); 3) double enfin dans le temps dans la mesure où il convient, pour la comprendre, de penser la
relation entre Tel Quel et L'Infini à la fois en termes d'identité et d'opposition et de mesurer en quoi
cette relation repose sur un certain calcul concernant le basculement dont l'histoire littéraire du dernier
demi-siècle a été l'enjeu et l'objet.
2. Un aperçu d'ensemble.
En mars 1963, soit trois ans après la création de la revue Tel Quel, les éditions du Seuil lancent sous le
même titre une collection d'ouvrages dont la direction est confiée à Philippe Sollers. Les trois titres qui
inaugurent cette série nouvelle sont L'Intermédiaire, un ensemble de proses et d'essais de Philippe
Sollers, Récits complets, un ouvrage de poésie de Denis Roche et, plus étrangement, la première
version de L'Education sentimentale de Gustave Flaubert. Lorsque disparaît Tel Quel vingt ans plus
tard, la collection compte à son catalogue 73 titres et 32 auteurs. Entre trois et quatre volumes ont donc
été publiés chaque année. La répartition par genres s'effectue ainsi: 34 essais de critique littéraire,
esthétique ou de philosophie - parmi lesquels ceux de Barthes, Derrida et Kristeva mais également de
Genette, Ricardou ou Todorov- , 29 romans - essentiellement ceux des membres du comité de rédaction
de la revue comme Philippe Sollers, Jean-Louis Baudry, Jean Thibaudeau ou d'écrivains proches du
mouvement tels Maurice Roche et Jacques Henric- , dix recueils de poésie - principalement ceux de
Marcelin Pleynet et Denis Roche. La part faite à la littérature étrangère est assez faible, 7 titres au total,
signés principalement d'écrivains italiens littérairement ou politiquement proches de l'avant-garde
comme Nanni Balestrini, Eduardo Sanguineti ou Maria-Antonietta Macciocchi.
En 1983, lorsque Philippe Sollers quitte le Seuil, il crée aux éditions Denoël une nouvelle revue et une
nouvelle collection sous le nom unique de L'Infini. Les trois premiers titres à être publiés sont: Vivre de
Pierre Guyotat, Histoires d'amour de Julia Kristeva et Fragments du choeur de Marcelin Pleynet.
Quatre ans plus tard, l'ensemble rejoint Gallimard. Au printemps 2006, la collection comportait 160
titres - ce qui suppose un rythme de publications d'environ sept titres par an, soit double de celui connu
au temps de Tel Quel. Elle comptait 88 auteurs - ce qui implique une dispersion beaucoup plus grande
pour un catalogue où plus de la moitié des auteurs n'ont signé en tout et pour tout qu'un seul titre. Seuls
9 écrivains y avaient en effet publié plus de trois ouvrages: Pierre Bourgeade, Béatrice Commengé,
Lucile Laveggi, Gabriel Matzneff, David Di Nota, Dominique Noguez, Rachid O., Marcelin Pleynet,
Philippe Vilain et Stéphane Zagdanski. Si on veut l'établir, la répartition par genres s'avère assez
problématique tant sont nombreux les textes qui ne se laissent vraiment classer dans aucun mais,
structurellement, la distribution reste assez comparable à celle dont témoignait le catalogue de Tel
Quel: elle donne la part la plus belle aux romans (environ 70) et aux essais (un petit peu moins), le reste
se distribuant dans les catégories du témoignage, du journal intime, du pamphlet, de la poésie
(pratiquement réduite aux recueils du seul Marcelin Pleynet). La part relative de la littérature étrangère
s'avère encore plus étroite qu'au temps de Tel Quel.
Pour s'en tenir encore à des éléments objectifs de description, le contexte ayant changé de façon si
spectaculaire au cours du dernier demi-siècle, il est malaisé de comparer la reconnaissance et la
diffusion dont ont joui ces deux collections. Deux époques se distinguent au cours desquelles les règles
du jeu ont considérablement évolué au point qu'on en vient parfois à se demander si le mot de
littérature désigne, d'hier à aujourd'hui, un objet identique. L'existence de Tel Quel, celle de L'Infini -
fût-ce pour se soustraire au système au sein duquel elles se développent- se rapportent à un monde dans
lequel la littérature a dû renoncer à des modèles issus de la grande tradition moderne pour entreprendre
de survivre en s'adaptant nécessairement aux impératifs nouveaux de ce que l'on nommera au choix: la
société du spectacle, l'industrie de la grande consommation culturelle ou l'esthétique du post-moderne.
Le critère classique des récompenses littéraires est peu pertinent appliqué à des collections qui
revendiquent de se situer à l'écart du système éditorial et journalistique, prétendent parfois le subvertir,
assument en tout cas un rôle de "pionnier" ou du moins de "découvreur". Certains des écrivains de Tel
Quel ont pourtant été primés: ainsi Marcelin Pleynet et Jean Thibaudeau par le Fénéon, Philippe Sollers
par le Médicis pour Le Parc, Jean-Pierre Faye par le Renaudot pour L'Ecluse mais ce ne fut jamais
pour l'un de leurs livres publiés dans la collection Tel Quel - aucun autre livre paru dans cette même
collection n'ayant d'ailleurs obtenu un prix, Maurice Roche étant le seul des auteurs du groupe à avoir
atteint dans les années 70 les derniers tours d'un scrutin pour le Médicis. Signe indubitable d'une
intégration apparemment moins conflictuelle dans le monde des Lettres, il en va différemment avec les
romanciers de L'Infini: pour Vétérinaires, Bernard Lamarche-Vadel obtient le Goncourt du Premier
Roman tout comme Alain Jaubert pour Val Paradis, pour L'Enfant éternel, Philippe Forest obtient le
Fémina du Premier Roman, le Femina va à Amour noir de Dominique Noguez et le Goncourt à Ingrid
Caven de Jean-Jacques Schul.
Les données chiffrées manquent pour apprécier la vente des titres parus dans l'une ou l'autre collection.
Certains des romans de L'Infini - et tout particulièrement ceux récompensés par un Grand Prix littéraire
- ont connu un évident succès - mais qui tient moins à la collection dans laquelle ils ont paru qu'à l'effet
automatique que les prix exercent sur les ventes. En ce qui concerne les ouvrages parus à l'égide de Tel
Quel, on se souvient du phénomène inattendu que constitua la publication de Fragments d'un discours
amoureux de Roland Barthes. Mais il va de soi que, repris en collection de poche, largement traduits,
devenus des classiques de la pensée contemporaine, les essais de Barthes, Derrida, Genette, Kristeva, et
notamment ceux publiés à la fin des années 60 ou au début des années 70, ont depuis lors touché un
très large lectorat.
La reconnaissance critique allant aux textes littéraires (romans ou poésie) publiés dans l'une ou l'autre
collection est elle aussi difficile à évaluer. Si on l'estime à partir d'ouvrages de référence présentant un
panorama de la littérature contemporaine et ayant du coup valeur de palmarès, une différence très nette
se dessine immédiatement. Bénéficiant d'un effet de groupe et de la visibilité que leur confère
l'appartenance à un mouvement à l'esthétique très cohérente, tous les écrivains de Tel Quel ont été
aussitôt accueillis dans les bilans critiques et les manuels universitaires qui les ont automatiquement
considérés comme représentatifs de l'avant-garde nouvelle - quitte à ne plus retenir ensuite leurs livres
qu'au titre d'illustrations puis de témoignages résiduels d'une esthétique désormais disparue. En
revanche, les écrivains à avoir commencé leur oeuvre ou bien développé d'abord celle-ci dans la
proximité de L'Infini font figure d'exceptions dans les tableaux les plus récents de la création
contemporaine - et s'ils y figurent ce n'est jamais collectivement comme cela était le cas au temps de
Tel Quel mais à titre d'individualités. Si l'on se reporte à l'ouvrage de Dominique Viart et Bruno
Vercier paru l'an passé chez Bordas (La Littérature française au présent), outre Philippe Sollers lui-
même, seuls Alain Nadaud, Dominique Noguez, Bernard Lamarche-Vadel Régis Jauffret et Philippe
Forest se voient consacrer davantage qu'une mention de quelques lignes dans ce nouvel ouvrage.
3. Une revue et une collection.
Le premier point qui demande à être pensé concerne les relations qui, au temps de Tel Quel comme au
temps de L'Infini, s'établissent entre la revue et la collection - relations qui contribuent à l'établissement
d'un modèle sans doute assez unique dans le champ de la littérature française contemporaine.
Des règles différentes prévalent concernant la direction de chacune de ces deux entreprises parallèles
même si ces règles ont eu tendance à se rapprocher avec le temps. Alors que la revue repose - en
principe du moins- sur un fonctionnement collégial, la collection est placée sous l'autorité de son seul
directeur. Au début de son histoire, Tel Quel dispose d'un comité de rédaction dont l'existence est tout
sauf théorique: d'où les affrontements qui se livrent en son sein et dont dépend le contrôle de la revue
comme en témoigneront les luttes longtemps livrées entre lignes rivales et qui se solderont notamment
par l'exclusion ou le départ de Jean-Edern Hallier, Jean-Pierre Faye et enfin des membres du groupe
hostiles à l'engagement maoïste du début des années 70. En revanche, Philippe Sollers jouit par rapport
aux autres membres du groupe d'une totale autonomie concernant le contenu et l'orientation d'une
collection dont il ne doit répondre que devant la direction du Seuil - comme le prouve assez le contenu
des archives conservées Rue Jacob et aujourd'hui transférées à l'IMEC dans lesquelles ont trouve
l'abondant courrier adressé le plus souvent à François Wahl et dans lequel Philippe Sollers présente les
livres qu'il désire voir publiés. Devenu déjà assez théorique à la fin des années 70, le fonctionnement
collégial de la revue disparaît avec L'Infini - dépourvu de comité, dirigé entièrement par Philippe
Sollers avec pour seule présence à ses côtés, celle de Marcelin Pleynet, assumant les fonctions de
secrétaire de rédaction. La mécanique assez opaque qui, dans toutes les maisons d'édition, caractérise
les comités de lecture et les décisions de publication rend problématique une analyse plus précise. Mais
il semble bien que l'inscription de tel ou tel titre nouveau au catalogue de Tel Quel ou de L'Infini
dépende entièrement de Philippe Sollers - sous réserve de ce que celui-ci obtienne l'aval implicite ou
explicite de son interlocuteur à la direction du Seuil ou de Gallimard.
Si la collection et la revue sont donc ainsi indépendantes l'une de l'autre, un évident phénomène de
vases communicants s'établit entre elles. La revue constitue le laboratoire de la collection, le lieu où
s'essayent les écrivains qui obtiendront ensuite de voir un de leurs livres paraître au sein de celle-ci. En
ce sens, la revue découvre tandis que la collection consacre. En 1963, Tel Quel hérite d'Ecrire, la
collection créée par Jean Cayrol et dont sont issus la plupart des membres du comité de rédaction
(après Philippe Sollers et Marcelin Pleynet, Coudol, Boisrouvray et Denis Roche) la mission de repérer
les nouveaux talents en vue de devenir le lieu de ralliement de la jeune littérature. Une telle fonction
échoit très visiblement à L'Infini également dont la force d'attraction auprès des écrivains débutants est
censée permettre que se constitue au sein des éditions Gallimard un pôle et un lieu de renouvellement.
Un système de sas se crée ainsi: de la revue à la collection puis de L'Infini à la "Blanche" puisque cette
dernière apparaît encore aujourd'hui comme l'espace ultime de consécration pour la création
romanesque. Un parcours s'organise qu'illustrent de nombreux exemples comme ceux d'Emmanuelle
Bernheim, de Benoît Duteurtre, de Bernard Lamarche-Vadel, de Philippe Forest, de Régis Jauffret
(après le passage de celui-ci chez Verticales). Car il est rare qu'un romancier ayant atteint un certain
seuil de reconnaissance - sanctionné par un succès critique, public ou bien par la récompense d'un Prix-
continue à publier dans L'Infini. En général, il passe ensuite en "Blanche" - sans que l'on puisse
d'ailleurs toujours dire si ce passage a vraiment valeur de promotion ou s'il permet au directeur de la
collection de se "défausser" avec discrétion et élégance d'un manuscrit qui lui semble ne pas
correspondre à l'esprit de son entreprise.
Seul un travail systématique de recension permettrait d'établir avec exactitude le schéma suivant mais
intuitivement on peut affirmer que, aussi bien pour Tel Quel que pour L'Infini, si l'on relevait la totalité
des contributions à la revue et à la collection, on verrait se dessiner deux ensembles partageant une très
large intersection. Le premier ensemble concerne les auteurs ayant vu un de leurs livres paraître dans la
collection et qui, pour la plupart, ont également contribué à la revue - ne serait-ce qu'en lui donnant un
extrait de leur ouvrage sous forme de "bonnes feuilles". Le second ensemble regroupe les auteurs qui
ont contribué à la revue mais sans jamais figurer dans la collection - ensemble lui-même hétérogène
puisqu'il convient de distinguer en son sein d'une part le grand nombre de très jeunes écrivains (on
serait sans doute étonné de leur moyenne d'âge) auxquels Philippe Sollers a donné la chance de faire
paraître un premier texte de fiction ou de réflexion mais qui ont ensuite cessé d'écrire ou sont allés
publier ailleurs et d'autre part le nombre également important d'auteurs de premier plan qui, tout en
réservant leurs livres à d'autres collections ou à d'autres éditeurs, ont choisi de s'associer à L'Infini en
donnant à la revue un ou plusieurs de leurs textes - c'est le cas de Milan Kundera surtout mais
également de Pierre Michon, de Claude Simon ou de Pascal Quignard. A l'intersection de ces deux
ensembles se situent enfin les écrivains qui contribuant à la fois à la revue et à la collection constituent
aussi bien pour Tel Quel que pour L'Infini un groupe d'écrivains dont la cohérence et la stabilité
relatives ont contribué à donner son identité esthétique à cette double entreprise se poursuivant à
travers les années.
4. Un auteur et un éditeur.
Le deuxième point qui demande à être interrogé concerne les relations qui s'établissent, pour Philippe
Sollers, entre ses activités d'écrivain et ses activités d'éditeur. Tel que fonctionne en France le monde
des lettres, il n'est pas rare d'y trouver des individus qui cumulent ces deux emplois - soit par nécessité,
soit par calcul. Mais l'équilibre est souvent difficile à conserver entre ces deux postures. Certains
quittent l'édition pour se consacrer entièrement à l'écriture - ce fut le cas de Pascal Quignard. D'autres
paraissent renoncer à leur oeuvre du moment qu'ils deviennent l'éditeur de celle des autres- et il faudrait
ici s'arrêter sur le cas extrêmement complexe et singulier de Denis Roche répudiant la poésie peu avant
de créer la collection "Fiction & Cie" tout en signant de loin en loin des livres qui, consacrés à la
photographie, compteraient, si on savait les lire, au nombre des oeuvres les plus fortes et les plus
achevées de la littérature présente.
Dans le cas de Philippe Sollers - dont personne ne peut sérieusement contester qu'il compte au nombe
des principaux romanciers d'aujourd'hui-, il va de soi que l'on a affaire à un écrivain qui édite plutôt
qu'à un éditeur qui écrit, l'activité éditoriale se trouvant subordonnée au projet principal de l'oeuvre
littéraire en cours de constitution. Disons pour parodier la formule d'un stratège qu'il lui est souvent
arrivé de citer dans ses essais et ses romans que, pour Sollers, l'édition est très clairement la
continuation de l'écriture par d'autres moyens, une manière de porter plus loin l'oeuvre, d'en
démultiplier et d'en diffuser les effets dans un corps social considéré comme nécessairement réfractaire
à la littérature et contre lequel il appartient à l'auteur de mobiliser tous les moyens disponibles (l'édition
en est un) afin de vaincre les résistances, de contourner les défenses. Dans les termes de la rhétorique
militaire que Philippe Sollers affectionne et qui proclame la supériorité de la guerre défensive, Tel Quel
et plus encore L'Infini apparaissent comme des bases retranchées aussi bien que des postes avancés
installés en territoire ennemi et à partir desquelles peuvent être conduites des opérations ponctuelles ou
des campagnes de plus grande envergure qui visent à conserver vivante la possibilité d'une parole
littéraire de liberté dans un monde systématiquement attaché à nier une telle possibilité.
L'activité éditoriale est ainsi très clairement subordonnée à un pari d'écriture dont elle constitue
l'auxiliaire. La revue et la collection se voient attribuer la mission de prolonger l'oeuvre, d'en assurer la
"publication permanente" au sens que donnaient à cette formule les Poésies d'Isidore Ducasse. Il en va
ainsi pour les livres de lui-même que Philippe Sollers choisit de publier. La règle est pourtant devenue
l'exception: jusqu'à Paradis, tous les romans de Sollers et la presque totalité de ses essais ont paru à
l'égide de Tel Quel; depuis Femmes, c'est au contraire en dehors de sa propre collection (dans la
"Blanche") que Sollers donne ses romans et la plupart de ses essais récents ont vu le jour chez d'autres
éditeurs que le sien (principalement Plon) si bien que, de Sollers, ne figurent au catalogue de L'Infini en
tout et pour tout que deux livres d'entretiens, l'un avec Franz De Haes (Le Rire de Rome) l'autre avec
les écrivains de la revue Ligne de risque (Poker). En revanche, on observe dans les revues le
phénomène inverse, les textes de l'auteur y occupant une place toujours croissante. Irrégulièrement
présent au sommaire de Tel Quel dans les années 60, le nom de Sollers s'inscrit systématiquement en
tête de celui de L'Infini. Au feuilleton romanesque de Paradis qui ouvrait chaque numéro de Tel Quel a
succédé un autre feuilleton, critique cette fois, au sein duquel l'auteur recueille la totalité de ses
interventions et chroniques, et par lequel débute toute livraison de L'Infini. Il ne serait pas difficile de
démontrer que de l'un à l'autre de ces feuilletons, quelque soit la forme en apparence opposée qu'ils
empruntent, aucune vraie solution de continuité n'existe et que se développe ainsi la cohérence d'un
propos unique, s'énonçant chaque trimestre dans l'attente de sa récapitulation provisoire sous la forme
de ces apparents recueils d'articles qui sont aussi d'authentiques et grands livres de littérature et que
constituent La Guerre du goût ou bien Eloge de L'Infini.
Ainsi, la collection et la revue (la collection davantage que la revue dans le cas de Tel Quel, la revue
davantage que la collection dans celui de L'Infini) constituent très certainement le lieu pour Sollers où
produire librement les éléments de son oeuvre selon une logique dont il décide seul et dont la forme et
le rythme lui permettent d'exister autrement qu'en raison des règles qui prévalent ailleurs dans le
système littéraire actuel. Mais le projet mis en oeuvre ne concerne pas exclusivement les textes de
Philippe Sollers lui-même. Editeur, l'auteur signe d'une certaine manière également les romans, les
essais, les poèmes des autres quand il les appelle et les reçoit à l'intérieur de cette bibliothèque toujours
en expansion que composent les volumes (presque 400 désormais!) de sa double collection.
L'estampille Tel Quel, l'estampille L'Infini associent chaque texte publié à un projet d'ensemble dont la
clé appartient très clairement à l'auteur de Femmes et de Paradis.
Un volume collectif comme Théorie d'ensemble en proposait autrefois l'illustration évidente:
rassemblant les contributions de tous les membres du comité de rédaction ainsi que celles d'un certain
nombre de théoriciens amis (Barthes, Foucault, Derrida), cet ouvrage publié dans la collection Tel Quel
au printemps 1968 proposait au lecteur une vision très construite de cette "écriture textuelle" dont
l'essayiste de Logiques avait été l'un des principaux initiateurs et dont le romancier de Drame et de
Nombres constituait également le plus indiscutable représentant. L'éclectisme que revendique L'Infini
peut passer très certainement pour une concession faite au principe de réalité à l'époque de la fin des
avant-gardes. Mais il s'agit également d'un leurre derrière lequel se déploie la cohérence inchangée
d'une pensée de la littérature qui s'exprime autant dans les livres écrits par Philippe Sollers depuis
vingt-cinq ans que dans la plupart des livres publiés par lui et qui forment à leur manière un système.
S'il s'écrivait une histoire de L'Infini - et il faudrait qu'elle s'écrive maintenant que la revue a atteint son
94eme numéro-, on verrait qu'une telle histoire peut être aussi aisément périodisée que l'histoire
ancienne de Tel Quel et que comme pour celle-ci on y repère très distinctement les éléments d'une
pensée ordonnée de la littérature. Au sein de ce système prennent place les livres des "anciens" de Tel
Quel (Marcelin Pleynet, Julia Kristeva, Bernard Sichère, Jean-Louis Houdebine ou le Philippe Muray
du magistral XIXe siècle à travers les âges), les contributions d'écrivains plus jeunes que réunit, au-delà
de leurs divergences parfois évidentes, une commune référence à l'oeuvre de Philippe Sollers (depuis
Marc-Edouard Nabe, puis Cécile Guilbert, Stéphane Zagdanski, Philippe Forest jusqu'aux auteurs du
Trait ou de Ligne de risque), les livres des quelques écrivains de sa génération que Philippe Sollers
soutient en raison de la conviction qu'il a de livrer avec eux un combat commun (exemplairement
Gabriel Matzneff ou Alain Jouffroy), sans oublier les essais consacrés à la philosophie de Heidegger, à
la pensée chinoise, à la psychanalyse et à la littérature (notamment ceux de Catherine Millot et d'Eric
Marty) par lesquels se prolonge et se renouvelle l'entreprise théorique de Tel Quel. Aussi différents
qu'ils soient, ces livres font bien système car à travers eux se marque une certaine fidélité à l'idéal
moderne d'une littérature critique, particulièrement menacée dans le temps d'oblitération et de
liquidation organisée que nous vivons.
5. L'Ensemble et l'exception.
Le troisième point qui demanderait à être pensé et que l'on se contentera d'évoquer en conclusion
concerne la manière dont se déploie dans le temps de l'histoire littéraire récente la double collection que
composent les livres de Tel Quel et ceux de L'Infini.
Il n'est que trop facile de mettre en évidence une différence de l'une à l'autre de ces entreprises
éditoriales, différence qui reflèterait le basculement de la littérature française d'une époque à l'autre. En
ce sens, Tel Quel relèverait du modèle de l'avant-garde dont L'Infini entérinerait la dissolution.
Pourtant, la réalité est plus complexe. D'un côté, L'Infini s'oppose bien à Tel Quel en renonçant au
projet révolutionnaire dont la revue se réclamait au temps du structuralisme, de l'écriture textuelle et du
matérialisme sémantique. Mais de l'autre, par ce renoncement même, L'Infini rend possible la reprise, la
relève de ce même projet - poétique, philosophique et politique- sous la forme nouvelle qu'appelle
l'époque actuelle.
Peut-être se donne-t-on une meilleure chance de comprendre la cohérence et la continuité de la double
collection si on l'envisage comme "théorie"- au sens lui-même double de ce terme rappelé autrefois par
Philippe Sollers: à la fois système et cortège. De Tel Quel à L'Infini, un glissement certain s'opère du
premier modèle au second. Mais l'une et l'autre collections se pensent identiquement comme "théorie
d'ensemble" et comme "théorie d'exceptions". Hier comme aujourd'hui, l'entreprise se donne à la fois
comme élaboration d'une pensée systématique de la littérature et comme succession d'événements
singuliers (des livres, des auteurs) par lesquels cette pensée se construit et se déconstruit sans cesse
selon un geste de renouvellement toujours tourné vers l'avant, l'"ensemble" et l'"exception" fournissant
ensemble l'énergie nécessaire à la reconduction constante de ce mouvement perpétuel.
Cette "théorie", il arrive souvent à Philippe Sollers d'en souligner l'esprit qu'il nomme
"encyclopédique" pour mieux marquer que tous les livres publiés par lui sous le signe de Tel Quel puis
sous celui de L'Infini - ensemble d'exceptions- constituent en vérité comme un seul ouvrage commandé
par le projet d'additionner méthodiquement tous les savoirs et toutes les expériences selon un idéal
hérité de celui des Lumières. On peut citer pour finir l'entretien évoqué au tout début de cette
communication et où Philippe Sollers déclarait encore: "Nous vivons dans un monde orchestré par une
doctrine unique qui est celle de la séparation. Selon cette police de la séparation, les choses doivent être
nettement séparées les unes des autres de façon à pouvoir être contrôlées par un regard - regard qui,
cela va de soi, est purement et simplement financier. Cette séparation est voulue, orchestrée,
systématiquement appliquée, de sorte que qui y échappe devient un blasphémateur ou un électron
incontrôlable. Tout ce que vous pouvez me dire à propos de celui que l'on appelle Sollers et dont,
personnellement, je n'ai rien à faire, c'est que, évidemment, il affole la théorie et la pratique de la
séparation. Non seulement je refuse la séparation, mais je prouve aussi que je la refuse. Car je ne la
refuse pas en étant marginal, ce qui est encore un consentement à la séparation, je ne la refuse pas dans
la bouderie antispectaculaire, ce qui serait encore une façon de concrétiser la séparation. Au contraire,
je suis dans l'organisation même de la séparation pour prouver que je conteste radicalement la
séparation. Dès lors, vous me voyez aussi bien en train d'écrire un roman, un essai, un article de
journal, apparaître à la télévision, à la radio et être, en plus, éditeur. C'est l'activité de quelqu'un qui
refuse la séparation car, au fond, ce qui m'anime, c'est tout simplement l'esprit des Lumières et il me
paraît tout à fait facile de se comporter en encyclopédiste de mon temps. Par conséquent, mon
camarade Diderot vous salue."
Reprenons quelques données
Tel Quel
1. PRESENTATION
Tel Quel, revue de littérature (1960-1982), fondée aux Éditions du Seuil, sur l’initiative de Philippe
Sollers et de Jean-Edern Hallier (qui sera exclu en1962).
En mars 1960, le premier numéro de Tel Quel s’ouvre sur une citation de Nietzsche : « Je veux le
monde et le veux tel quel. » La revue se présente comme un manifeste anti-sartrien qui veut délivrer
l’écriture de tout engagement politique.
2. À L’AVANT-GARDE LITTERAIRE
Tel Quel se range d’entrée dans le camp du Nouveau Roman. Entre 1960 et 1964, la revue apporte son
soutien à Alain Robbe-Grillet ; Gérard Genette et Jean Ricardou y publieront des études décisives pour
le devenir du Nouveau Roman. En 1963, Sollers crée la collection « Tel Quel » où vont être édités
Roland Barthes, Jacques Derrida, Gérard Genette, Julia Kristeva, Daniel Sibony.
Après une prise de distance vis-à-vis du Nouveau Roman, la revue se rapproche de la « nouvelle
critique » et du structuralisme derrière Barthes, Derrida, Lacan et Foucault. En 1965, un texte de
Sollers – Le Roman et l’expérience des limites — a valeur de manifeste de l’« écriture textuelle »,
Drame (1965) et Nombres (1968) sont écrits contre la littérature de représentation et la littérature
psychologique, et Sollers ne cesse d’insister sur la fonction critique et subversive de la véritable
littérature.
3. DE L’OBEDIENCE A LA DISSIDENCE
Peu à peu, la nécessité d’un engagement révolutionnaire s’impose. Il prendra la forme du communisme
(1967-1970) puis du maoïsme (1971-1976). Le ralliement au Parti communiste se fait par défi : à
l’automne 1968, Tel Quel publie son manifeste collectif Théorie d’ensemble, cherchant à déclencher
une « subversion généralisée ». Écriture et révolution font cause commune. Mais, en 1970, à l’occasion
de la censure du roman Éden, Éden, Éden de Pierre Guyotat, est consommée la rupture des «
telqueliens » avec le PCF, qui ne soutient pas l’auteur. Tel Quel fait alors sa révolution culturelle lors
du « Mouvement de juin 1971 » en attaquant le PCF et Louis Aragon.
Du 11 avril au 3 mai 1974, une délégation de Tel Quel se rend en voyage officiel en Chine. Le n° 59 de
la revue est consacré au voyage chinois, mais les telqueliens prennent ensuite leurs distances à l’égard
du maoïsme, entamant une critique de fond du phénomène totalitaire. Publié à l’été 1978, le n° 76 de
Tel Quel est consacré à la dissidence : « Exception, telle est la règle en art et en littérature », déclare
Sollers. Le révolutionnaire doit désormais se faire exception.
4. UNE SUBVERSION INFINIE
Dans la mouvance des travaux de Lacan et surtout de René Girard s’impose alors l’idée que le discours
religieux constitue le substrat de tous les autres. Le Verbe du christianisme arrache l’homme au désert
du monde et le travail de l’écrivain rejoint la parole du mystique et du prophète. De 1974 jusqu’à sa
disparition, en 1982, la revue s’ouvre sur quelques pages de Paradis (1974) de Sollers, texte dénonçant
le règne des idoles. Le dernier numéro de Tel Quel (n° 94) paraît à l’hiver 1982 : Sollers quitte le Seuil.
Il publie à l’hiver 1983 le premier numéro de l’Infini, chez Gallimard. À la question : « À quoi sert Tel
Quel ? », Sollers a répondu un jour : « À ne pas mourir de désespoir dans un monde d’ignorance et de
perversion ».
Lectures proposées:
– Sollers écrivain de Roland Barthes
– l’article sur H de Roland Barthes
– Coup de vent entretien avec Philippe Sollers publié dans le n° 75 de L’Infini, été 2001
Lecture supplémentaire et tout-à-fait facultative
BARTHES ET SOLLERS
Disciple de Gide, émule de Sartre, promoteur du «théâtre populaire» et thuriféraire de Brecht, Roland
Barthes fut longtemps très éloigné de l'avant-garde. Sa critique théâtrale marque du dédain et de
l'impatience envers toutes les pièces qui, de Ionesco à Beckett, jalonnent la révolution que la
dramaturgie connut en France dans l'après guerre. Peu d'intérêt pour l'«absurde», haine du «théâtre
bourgeois»? Une chose est certaine : cette avant-garde théatrâle n'est pas prolétarienne, n'est pas
«progressiste», comme on disait encore dans les années cinquante. Pour ce marxiste non-communiste
qu'est Barthes (on lui prête des sympathies trotzkistes) entouré de communistes et bientôt d'ex-
communistes, comme les membres du commité de rédaction d'Arguments, il était nécessaire, s'il voulait
se maintenir dans la mouvance progressiste, d'être toujours sur le qui-vive et de peser à tout instant les
implications politiques des livres, des pièces de théâtre, des paroles, des faits et gestes : c'est ce que fait
scrupuleusement Barthes et notamment dans ses Mythologies, petits essais précieux où le capitalisme,
l'impérialisme et la société bourgeoise sont habilement dépouillés de leurs oripeaux de bonhommie et
de naturel. Mais si ces critiques fines et impitoyables de la «société de consommation» à la période de
la décolonisation peuvent passer pour brillantes, il faut admettre qu'elles ne relèvent en rien de l'avant-
garde littéraire. C'est seulement à l'occasion des premiers romans de Robbe-Grillet que Barthes
embrasse publiquement la cause littéraire expérimentale, tout en continuant à louer Brecht et à
promouvoir un théâtre politique visant un public populaire. Or, si l'oeuvre de Robbe-Grillet peut être
lue comme une critique et un dépassement du «roman bourgeois», son contenu politique est pour le
moins discret et problématique. C'est pourquoi Barthes, qui associe «humanisme» et «bourgeoisie»
(comme au sein du cliché «humanisme bourgeois», en vogue à l'époque stalinienne), va insister sur
l'antihumanisme de Robbe-Grillet, et mettre en avant son refus de l'intériorité, de la psychologie, et son
dédain de la métaphysique : aux yeux de Barthes, Robbe-Grillet est un matérialiste conséquent.
Lorsque Barthes sera ultérieurement forcé d'admettre qu'il existait aussi un «deuxième» Robbe-Grillet,
non pas «chosiste» mais «humaniste» (celui que le critique américain Bruce Morrissette révéla en 1963
dans un livre que Barthes préfaça d'ailleurs, et que Robbe-Grillet ne répudia pas) l'enthousiasme
matérialiste de l'auteur des Mythologies se refroidit. En effet, il devenait impossible à Barthes de
concilier l'expérimentation formelle de Robbe-Grillet (voire son éxotisme) avec la visée «progressiste»
puisque la motivation idéologique de ce formalisme relevait de l'«idéologie bourgeoise» que Barthes
combattait au premier chef.
C'est alors que Barthes devint compagnon de route de la revue Tel Quel, qui paraîssait depuis 1960,
mais qui prit son virage expérimental et politique vers 1963. Les Essais critiques de Barthes, volume
qui regroupait aussi bien des articles des années cinquante consacrés à Brecht, au théâtre populaire,
puis à Robbe-Grillet, que des travaux récents de teneur plus «sémiologique», furent publiées dès 1964
par la collection Tel Quel des éditions du Seuil, collection où parut ultérieurement la majorité des
ouvrages de Barthes. C'est d'ailleurs par ses livres (qui réunissaient souvent des articles originellement
publiés ailleurs) plutôt que par ses collaborations ponctuelles (articles, entretiens) que Barthes se
rattache à Tel Quel. On peut noter en effet que Barthes publia dans Critique (nº 218, juillet 1965) sa
première étude sur l'oeuvre de Philippe Sollers, directeur de Tel Quel. Barthes jugea cette étude assez
importante, au plan critique et théorique, pour la republier, augmentée de ses propres gloses, dans
l'ouvrage collectif Théorie d'ensemble (le Seuil, collection Tel Quel, 1968), qui constitue le manifeste
du collectif Tel Quel dans sa phase sémiologique, révolutionnaire et terroriste. Désormais, les textes et
les livres de Philippe Sollers allaient constituer le corpus à partir duquel Barthes élaborait sa théorie du
«texte»; ils forment l'occasion, pour ce converti à la révolution sémiologique, d'adopter des attitudes, de
formuler des points de vue très divergents par rapport aux positions qu'il avait défendues auparavant,
non sans dogmatisme parfois.
Alors que dans les années soixante l'oeuvre de Robbe-Grillet se met à «coller», à «attacher», à aquérir
une profondeur suspecte aux yeux de Barthes, celle de Sollers lui apparaît comme une écriture toujours
«naissante», caractérisée par la fluidité, l'instabilité, le neutre et l'ouverture. Barthes écrit déjà à son
propos en 1965 dans «Drame, poème, roman»:
“Drame est aussi bien la remontée vers un âge d'or, celui de la conscience, celui de la parole. Ce temps
est celui qui s'éveille, encore neuf, neutre, intouché par la remémoration, la signification. Ici apparaît
le rêve adamique du corps total, marqué à l'aube de notre modernité par le cri de Kierkegaard : mais
donnez-moi un corps!”.
De Drame à Paradis (1981), qui parut en feuilleton dans Tel Quel du vivant de Barthes, les livres de
Sollers : Nombres 1968, Lois 1972, H 1973, marquèrent pour Barthes les jalons d'une «remontée vers
un âge d'or», l'approche et la présentation d'un «corps total» intouché encore par le sens, une
effervescence, un pur jaillissement sans retombée, sans figement, sans chute dans l'accompli. Cette
utopie réalisée d'une pure productivité sans produit (ou d'une «performance» infinie), cette scription en
devenir et sans clôture, ce grouillement de virtualités, c'est ce que Barthes appelle texte (en s'efforçant
de rendre au mot un sens «étymologique»). Et ce texte, c'est du moins le postulat ou le voeu de Barthes,
ne cesse d'attaquer et de ronger tout ce que la culture fige et institutionnalise, à commencer par la
langue elle-même, dont le texte ne conserve la morphologie et la syntaxe (la phrase) que sous rature.
On se souvient que lorsque Barthes s'était fait le champion de Robbe-Grillet, c'était pour exercer sur
lui, dans une certaine mesure, une discrète surveillance : louanges et mises en garde. Ecrivains et
lecteurs devaient se prémunir contre de possibles, contre de probables déviations. Si Robbe-Grillet est
un peu suspect au moment où Barthes le prend en main, c'est parce qu'il n'est plus un inconnu, son
écriture existe, elle appartient même à ce qu'on appelle encore à cette époque une «école», celui du
«nouveau roman». Robbe-Grillet ne va pas tarder à devenir célèbre, à être objet de thèses, de livres,
d'exégèses, bref à se métamorphoser en auteur (au moment où l'auteur est mort et anathème). Avec
Sollers, rien de tel. Barthes ne formule pas la moindre réserve envers son oeuvre. Pas de mise en garde
à propos de manquements virtuels ou potentiels, et pourtant! Cette magnanimité peut s'expliquer d'au
moins deux façons. En premier lieu, Sollers et ses camarades de Tel Quel sont si bruyants, agressifs et
péremptoires qu'il serait niais d'exercer sur eux la douce pression morale dont est capable la gauche
bien-pensante à laquelle Barthes reste viscéralement attaché. Mais surtout, Barthes estime -et c'est la
principale prémisse de son argument- que Philippe Sollers, personnage extrêmement en vue sur la
scène parisienne, est aussi, est surtout un écrivain très méconnu, en butte aux sarcasmes de la critique.
Il est donc juste de prendre sa défense. Ainsi l'article consacré à H (publié dans Critique, n° 318 de
1973 et repris dans Sollers écrivain, pp 55-78), fait-il un tour d'horizon satirique des reproches adressés
au dernier «roman» de Sollers : fausse nouveauté, effet de mode, snobisme, littérature de chapelle,
obscurité, indécrottable bourgeoisie... Barthes (capable, est-il besoin de le dire, d'asséner de telles
imputations dans sa propre critique dramatique) répond calmement et ironiquement, en utilisant un
procédé argumentatif dont il dénonce d'ailleurs l'usage par autrui dans le même article, celui de
l'amalgame : tous ces critiques, en tant que contempteurs de Sollers, quel que soit leur bord, sont à
mettre dans le même sac : celui de la mauvaise foi.
Du fait que Sollers écrivain est méconnu et honni, que ses textes sont à peine lus et très mal, et que ces
textes sont au demeurant la concrétion labile et ouverte (si l'on peut dire) de la modernité absolue,
Barthes estime licite de mitiger à son profit la lutte anti-auteur dont il s'est fait, avec Michel Foucault,
le principal instigateur. En effet, s'il existe des agglomérats (l'homme et l'oeuvre) qui provoquent, du
fait de la tradition critique, un irrésistible désir de dissociation et de retour au texte, il peut exister au
demeurant, et particulièrement aujourd'hui, des disjecta membra, peu lus, mal lus, réputés
inintelligibles, ni faits ni à faire, qui gagneraient à être rassemblés et rattachés à leur producteur, lui-
même figure trop effacée, menacée d'invisibilité par un éclat mondain de mauvais aloi. C'est le cas de
livres comme Nombres, Lois, H, ou Paradis que personne ne rattache, sinon de façon anecdotique et
souvent insultante à l'écrivain Philippe Sollers. Il s'agit donc, pour Barthes critique, de construire un
Sollers auteur. Opération analogue à celles que menaient Les Cahiers du cinéma, avec le succès qu'on
sait : des films méconnus, quasiment anonymes étaient l'objet d'une analyse stylistique (et autre) et
«attribués» à un obscur réalisateur de studio qui devenait, ipso facto, un auteur, c'est-à-dire un nom
reconnu auquel s'attache un corpus. Une telle volonté se manifeste sans ambage sur la couverture du
mince volume rassemblant plusieurs textes de Barthes sur Sollers : Sollers écrivain, comme on disait
aux Cahiers : Howard Hawks, cinéaste.
On peut s'empêcher de saisir une nuance de repêchage dans un tel titre : manifestement, le syntagme De
Gaulle écrivain n'a pas tout à fait le même sens que Malraux écrivain. Le second titre est en quelque
sorte redondant et tautologique, tandis que le premier attire l'attention sur un des pans de l'activité du
général. Sollers écrivain : c'est dire, sciemment ou non, que Sollers n'est pas principalement écrivain,
qu'il est également écrivain, comme on disait naguère que Dubuffet était écrivain et comme on dit
encore que Michaux est peintre. L'affirmation comporte donc un élément de réserve, ou de défi[1].
Ce flottement n'est pas dommageable, du fait que Barthes veut alors éviter de figer, de monumentaliser
Sollers. Va pour écrivain, mais pas pour auteur : les deux abîmes menacent le panégyriste et l'objet de
sa louange : le rattachement de textes modernes admirés de Barthes, mais trop peu lus, à un auteur
éponyme (Sollers), ne doit pas aboutir à un culte de la personnalité. C'est, du moins en principe, et
selon les impératifs idéologiques de l'époque auxquels Barthes souscrit d'autant plus qu'il a contribué à
les imposer, tout le contraire qui est recherché : écrivain, soit, mais anti-auteur. Au point que le texte
sollersien (une fois enregistrée la paternité) doit être dit d'autant plus impersonnel («le corps [et le
corpus] total est impersonnel») qu'il est l'oeuvre d'un écrivain méconnu, presque un inconnu.
Cependant (et nous esquivons ici une analyse de l'analyse barthésienne des textes de Sollers) il se
produit, non pas selon la logique mais selon la contingence, que Barthes ne peut se limiter à inventer
l'écrivain Sollers et sa paradoxale impersonnalité. Car après tout Sollers -le Philippe Sollers
pseudonyme mais de chair et d'os- est l'ami de Barthes. Envers lui, Barthes éprouve non seulement de
l'admiration -enfin de l'admiration pour ses «textes»- mais aussi une véritable affection. Cela est-il -
selon les codes en vigueur- dicible? Scriptible? Difficilement, d'autant que l'amitié en question ne
relève pas de la «perversion», qui serait moins embarrassante à obliquement avouer. Certes Barthes
aurait pu se taire à ce sujet, mais le tout Paris intellectuel sait l'amitié qui lie Barthes à Sollers, une
amitié qui va, en tout bien tout honneur, au-delà des manoeuvres telquelliennes. Pour éviter le ridicule,
il faut parler : Barthes choisit donc de parler contre ceux qui seraient susceptibles d'imputer au
copinage l'éloge sincère que Barthes fait de Sollers : l'aveu d'affection est donc entouré d'une grosse
bouffée de feinte indignation :
Quand aura-t-on le droit d'instituer et de pratiquer une critique affectueuse, sans qu'elle passe pour
partiale? Quand serons-nous assez libres (libérés d'une fausse idée de l'«objectivité« pour inclure dans
la lecture d'un texte la connaissance que nous pouvons avoir de son contenu? Pourquoi -au nom de
quoi, par peur de quoi- couperais-je la lecture du livre de Sollers de l'amitié que j'ai pour lui?[2]
C'est le bon sens même. Homais n'aurait pas mieux dit : on serait même tenté de dire: «C'est bien bien
naturel« . Il y a manifestement une «bonne objectivité», qui ne s'interdit pas les inflexions affectueuses,
voire même les mouvements de passion découlant d'un jugement chaleureusement équitable, et puis il y
a la mauvaise, celle que prônent les pions bourgeois du positivisme et du scientisme, dont le critique
(post)moderne sait dénoncer les illusions, voire la turpitude de classe : la bonne objectivité est une
version presque familiale de l'esprit de parti qui conférait leur objectivité au jugements staliniens, la
mauvaise est un fétiche de la raison non dialectique. Ou quelque chose comme ça.
Après un léger frisson, choisissons de sourire, non sans saluer le courage qu'une telle déclaration (aussi
biaisée soit-elle) exigeait d'un Barthes essentiellement timoré et tributaire de l'opinion de ses pairs, qui
risquaient de «ne pas comprendre» l'amitié de Barthes pour un homme jugé frivole, arriviste et
superficiel.
D'où l'exclamation apotropaïque «au nom de quoi, par peur de qui«, éjaculation visant à écarter une
divinité maléfique, ou du moins une féroce transcendance. Barthes a vraiment peur de transgresser
l'«objectivité critique« au profit de Sollers qui n'appartient même pas à une des minorités en faveur
desquelles le principe d'objectivité peut et doit être transgressé. Il est dangereux de se dire
publiquement ami de Sollers. Mais Barthes surmonte sa crainte, passe outre. Il transforme son
interrogation en performatif. Barthes est courageux, hardi même, car l'amitié c'est, après tout, le topos
humaniste par excellence, derrière Montaigne se profile Cicéron ou pire, les copains de Jules Romains.
Rupture importante. Grâce à Sollers, Barthes commence à se libérer des impératifs les plus tenaces, les
plus pesants : ceux qui relèvent de la paradoxa minoritaire, ceux qui s'opposent au principe de la bêtise,
aux idées reçues, aux mythologies bourgeoises.
Défendre Sollers publiquement : premier pas qui sera suivi (non sans rechutes) de beaucoup d'autres.
Barthes tributaire, en dépit de sa verve précieuse, d'un discours lourdement idéologique et contrôlé par
autrui, va commencer à rompre, à s'écarter, à exorciser le surmoi politique. Par osmose, Barthes va
acquérir un peu de la désinvolture de Sollers, qui semble être devenu pour lui un modèle de vie.
Sollers, celui qui autorise la liberté. Autrement dit : on peut se foutre (ou dire qu'on se fout) de l'opinion
d'autrui et prospérer. Le cadeau de Sollers à Barthes est l'allure dégagée de certains de ses grands textes
tardifs. Du moins est-ce la raison de cette affection proclamée, et qui, me semble-t-il, n'a pas été tout à
fait partagée.
Notes
[1] Au cours du colloque Roland Barthes qui eut lieu à New York University en avril 2000, Alain
Robbe-Grillet révéla que l'opuscule en question avait été publié par le Seuil à la demande expresse de
Sollers.
[2] «Par dessus l'épaule», Critique nº 318, 1973, repris dans Sollers écrivain, p, 78 (Il s'agit du
«roman» H)par