ATLANTEDELLE GUERREE DEI CONFLITTIDEL MONDOTerza edizione
ATLANTEDELLE GUERRE E DEI CONFLITTIDEL MONDO
Associazione 46° Parallelo
Terza edizioneDedicata a Vittorio Arrigoni
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ATLANTE DELLE GUERRE E DEI CONFLITTI DEL MONDOTERZA EDIZIONE
Direttore ResponsabileRaffaele Crocco
Capo RedattoreFederica Ramacci
In redazioneBeatrice Taddei SaltiniDaniele Bellesi
Hanno collaboratoPaolo AffatatoAndrea BaranesBarbara BastianelliGiulia BondiPietro CavallaroFrancesco CavalliCristian ContiniAngelo d’Andrea Angela de RubeisElena DundovichStefano FantinoAngelo FerrariMarina FortiFederico FossiEmanuele GiordanaAlessandro GrandiAdel JabbarFlavio LottiEnzo ManginiLuisa MorgantiniMichele NardelliEnzo NucciIlaria PedraliAlessandro PiccioliAmedeo RicucciAlessandro RoccaOrnella SangiovanniLuciano ScalettariCristiano TinazziLorenzo TrombettaRoberto Zichittella
Un ringraziamento speciale aLaura Boldrini, portavoce dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR)
RedazioneAssociazione 46° Parallelo
Via Piazze 34 - Trento
www.atlanteguerre.it
Foto di copertinaGuerriglieri per la liberazione della Libia al check-pointdi Ras Lanuf si preparano per la battaglia contro i soldatidi Gheddafi. ©Fabio Bucciarelli / LUZphotowww.fabiobucciarelli.com
associazione culturale
Testata registrata pressoil Tribunale di Trento n° 1389RSdel 10 luglio 2009
Tutti i diritti di copyright sono riservati
ISSN: 2037-3279ISBN-13: 978-8888819945
Finito di stampare nel novembre 2011Grafiche Garattoni - Rimini
Progetto grafico ed impaginazioneDaniele Bellesi
Progetto grafico della copertinaDaniele Bellesi
3
AlgeriaCiad
Costa d’AvorioGuinea Bissau
LiberiaLibia
NigeriaRepubblica Centrafricana
Repubblica Democratica del CongoSahara Occidentale
SomaliaSudan
Sud SudanUganda
ColombiaHaiti
AfghanistanCina/Tibet
FilippineIndia
IraqKashmir
PakistanThailandia
Timor EstTurchiaYemen
Israele/PalestinaLibano
Siria
CeceniaGeorgiaKosovo
Nagorno KarabachPaesi Baschi
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9498
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Indice569111315171921232527293132
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196197198201203206209210213215217221223225226229233235238241242245
Editoriale Raffaele CroccoSaluti AmministratoriIntroduzione Raffaella BoliniIstruzione per l’uso Raffaele CroccoLa situazione Raffaele CroccoIl mondo in movimento Laura BoldriniIl controllo delle risorse/1 Angelo FerrariIl controllo delle risorse/2 Ass. di Promozione Sociale EllissoBanche e guerra Andrea BaranesEvoluzione dei conflitti Elena DundovichVittime di guerra/1 Luisa MorgantiniVittime di guerra/2 Enzo NucciInformazione e guerra Amedeo RicucciAfricaUn nuovo Stato per avere speranza Enzo Nucci
SCHEDE AFRICA
Inoltre EtiopiaAmerica LatinaLa bussola del Pianeta punta il Sud America Raffaele Crocco
SCHEDE AMERICA LATINA
Inoltre Messico - Nicaragua/CostaricaInoltre - Messico, fantasmi senza diritti Stefano FantinoAsiaGiovani e social media. Il futuro della pace è qui Paolo Affatato
SCHEDE ASIA
Inoltre Birmania - Corea del Nord/Sud - India - Iran - KirghizistanMedio OrienteCambia lo scenario Signori, arriva la Turchia Adel Jabbar
SCHEDE MEDIO ORIENTE
Inoltre PalestinaEuropaUn’occasione fallita. Le crisi del Mediterraneo Amedeo Ricucci
SCHEDE EUROPA
Inoltre CiproSPECIALE SVOLTA ISLAMLe rivolte del mondo islamicoNel mondo islamico è tempo di cambiamento Amedeo RicucciEgitto - Siria - TunisiaAltri stati coinvoltiChe bello Facebook Roberto ZichittellaInfografica social network Cristian Contini Al Jazeera, voce araba che sfida i grandi network Amedeo RicucciIn Iran tutti in piazza per sostenere le rivolte Federica RamacciQuattro piccole storie per un mondo che cambia Giulia BondiNazioni Unite - I Caschi Blu Raffaele CroccoLe missioni OnuVittime di guerra/3 Federico FossiVittime di guerra/4 Luciano ScalettariVittime di guerra/5 Stefano FantinoRiflessioni sulla guerra Michele NardelliBeni a rischio, il caso Hebron Federica RamacciGruppo di lavoroGlossarioFontiRingraziamenti
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Idea e progetto
Associazione 46° ParalleloVia Piazze 34 - Trento
Edizione
Editrice AAM Terra Nuova S.r.l. Via Ponte di Mezzo, 150127 - FirenzeTel. +39 055 3215729 Fax +39 055 [email protected]
Associazione 46° ParalleloVia Piazze 34 - [email protected]
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Con il contributo di
PROVINCIA DI
PESARO E URBINO
CONSIGLIO REGIONALE
DEL TRENTINO-ALTO ADIGE
Con il patrocinio di
Con il supporto di
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È un termometro impazzito quello che ha misurato la temperatura del Mondo, negli ultimi dodici mesi. La colonna di mercurio è arrivata a temperature da febbre alta con le rivoluzioni – lo saranno state davvero? – del mondo arabo e islamico, finite in vittoria o finite nel sangue. Sono continuate le guerre in Africa, gli attentati. È iniziata la guerra in Libia, che
doveva essere breve e umanitaria, ed è finita con la morte di Gheddafi. È terribile questa idea della “guerra umanitaria”, della “guerra giusta”. Si è fatta strada negli anni per giustificare interventi armati e partecipazione attiva a conflitti. È diventata, questa idea, la grande maschera che usiamo per spiegare e spiegarci che, a volte, fare la guerra è indispensabile per portare ”pace, giustizia e democrazia”. Così, abbiamo inculcato ai cittadini la convinzione che ci possono essere guerre tollerabili, a cui partecipare. Purché, ovvio, siano lontane, in altri luoghi, magari esotici. Il conflitto in Libia è un buon esempio di questo modo di pensare molto moderno. Tanto moderno da essere condiviso da destra e sinistra: a sdoganarlo, all’inizio degli anni ’90, furono il democratico Bill Clinton e il laburista Tony Blair. L’opinione pubblica si è divisa fra chi riteneva giusto intervenire per bloccare il massacro dei ribelli e dar loro una mano per conquistare la libertà e chi pensava fosse assurdo andare a bombardare Gheddafi, considerato un buon amico pochi giorni prima. Sembra siano pochi coloro che hanno pensato che, forse, non è una soluzione mettere fine ad una guerra con una guerra, uccidere per evitare che si uccida. Contraddizioni, quelle di sempre, le stesse che condizionano la politica internazionale. Le medesime che fanno delle Nazioni Unite uno strumento troppo spesso insufficiente. Lì, al Palazzo di Vetro, a settembre è però successo qualcosa di davvero importante. Abu Mazen, Presidente dell’Autorità Palestinese, è andato a chiedere agli Stati membri dell’Onu che venga riconosciuta l’esistenza dello Stato di Palestina, ammettendolo all’Assemblea Generale. L’idea ha contro Israele, avrà il veto di Stati Uniti e Unione Europea, ma ha nel mondo più appoggi di quanti si creda. E soprattutto ha nel fondo la possibilità di tracciare un cammino verso la pace fra israeliani e palestinesi, mettendo all’angolo le fazioni integraliste degli uni e degli altri, le stesse che da decenni sabotano ogni serio tentativo di dialogo. L’episodio ha in ogni caso rimesso l’Onu al centro delle cose del mondo. Ha ridato respiro ad una istituzione internazionale in permanente difficoltà politica ed economica, ma ancora centrale per chi spera in soluzioni rapide ed eque dei conflitti del Pianeta. Tutto, ancora, passa di lì e la cosa è talmente evidente che le grandi nazioni – o chiunque abbia a cuore solo i propri affari – fanno di tutto per svuotare le Nazioni Unite di ruolo e credibilità. Quella credibilità che, ad esempio, era stata persa nella strage di Srebrenica, il 9 luglio del 1995. Le truppe serbe di Mladic, quel giorno, massacrarono più di 8mila uomini musulmani davanti a 600 Caschi blu olandesi, comandati dal colonnello Thorn Karremans. Gli uomini dell’Onu erano lì per garantire una “zona protetta” alla popolazione bosniaca. Non fecero nulla, in nome delle “regole d’ingaggio” che – dissero – impedivano loro di intervenire. In luglio, quest’anno, un tribunale olandese ha riconosciuto la responsabilità di quei soldati olandesi nel massacro, condannando l’Olanda a risarcire le famiglie di alcune vittime. Sono passati sedici anni, ma un po’ di giustizia è fatta. E un po’ di aria buona – anche in questo caso di credibilità – al mondo è arrivata dai Premi Nobel del 2011. Si chiedeva fosse dato alle donne africane, in parte è stato così. Lo hanno assegnato a due donne africane, Ellen Johnson – Sirleaf e Leymah Gbowee e a una donna yemenita, Tawakkul Karman. Un premio condiviso fra chi condivide la lotta all’ingiustizia e alla corruzione, fra chi si batte da sempre per affermare diritti che sulla carta sono elementari, ma nei fatti non esistono. Le donne di tutto il mondo sanno bene cosa significa vivere con diritti monchi. La speranza è che assegnar loro il Nobel non sia stato solo un modo per farle star buone.
Il DirettoreRaffaele Crocco
Un Palazzo di vetro sempre più fragile.Sono ambigue le guerre umanitarie
Editoriale
UNHCR/R. Gangale
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Introduzione
Il movimento per la pace ha sempre avuto un andamento ad onde: periodi di grande – spesso immensa – partecipazione e visibilità, in cui si sono rafforzate generazioni intere di attivismo sociale, alternati a lunghi momenti di immersione. In una delle fasi di bassa marea esce questa nuova edizione dell’Atlante, a quasi un decennio dalla manifestazione del 15 febbraio
del 2003 e di quei centodieci milioni in tutto il mondo contro la guerra in Iraq che il New York Times definì “la seconda superpotenza mondiale”. In dieci anni il mondo è cambiato, e tanto. È ancora una volta cambiato l’assetto del mondo e questa volta la crisi è in occidente, e nel modello di economia e di società che ha esportato in tutto il pianeta. È crisi economica e finanziaria, è ancor di più crisi sociale ed ecologica, crisi di civilizzazione. Le società europee e nordamericane hanno distribuito in giro per il mondo tanto sfruttamento e guerra, mentre costruivano e difendevano la loro potenza. Ma al contempo hanno sempre prodotto uno straordinario impegno civile per i diritti umani, per il disarmo, contro la guerra, per la solidarietà e la giustizia globale. Oggi sono impegnate a fare i conti con i propri problemi. Ci dibattiamo fra il precariato, la mancanza di lavoro, il furto di futuro per i giovani, la povertà che avanza a grandi passi dentro al ceto medio, la dissoluzione delle garanzie e dei diritti sociali che pensavamo conquistati per sempre. E la solidarietà internazionale sembra a molti apparire come un lusso per i tempi buoni. Qualcosa per cui non c’è spazio, quando i diritti da difendere sono i propri e quando il sud del mondo è a casa nostra. Eppure sono migliaia i gruppi organizzati, le associazioni, gli insegnanti e gli studenti, le parrocchie e i centri sociali che continuano a fare avanti e indietro con il mondo, a raccogliere fondi e a fare campagne, a stringere alleanze con le comunità schiacciate dalle guerre e dai conflitti. Eppure non si contano quelli che ogni momento dell’anno, giorno e notte, agiscono a fianco dei migranti e dei richiedenti asilo. Eppure le rivoluzioni democratiche nel Maghreb hanno ispirato milioni giovani e meno giovani, dando a ciascuno un po’ di coraggio in più, e più fiducia nel cambiamento possibile. La marea costruisce le spiagge, erode le rocce, cambia la faccia delle coste. Anche quando le onde non si vedono e il mare sembra calmo, rimane enorme la sua energia e la sua forza trasformatrice. A quella parte di cittadinanza che non accetta di fronte alla crisi di chiudere le porte in faccia al mondo spetta un compito impegnativo in questi tempi duri: dimostrare che proprio nel mondo sta la soluzione dei problemi di casa nostra. Che nessuno può salvarsi da solo. Bisogna parlare certo alla coscienza della nostra gente, ma c’è bisogno soprattutto di parlare alla intelligenza di ognuno. C’è bisogno di diffondere sapere e conoscenza. Affinare gli strumenti, le proposte, le alternative possibili per passare dalla lotta alla sopravvivenza alla società della convivenza. L’Atlante ci aiuta tanto, in questo impegno per conquistare, uno dopo l’altro, persone e comunità a un progetto di un mondo giusto.
Raffaella BoliniPresidenza Nazionale Arci
Non chiudiamo le porte Contro la guerra parliamo all’intelligenza
UNHCR/P. Wiggers
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Piccola guida alla lettura
di questo AtlanteAnche quest’anno meglio scrivere qualche breve istruzione per l’uso di questo Atlante. È un pas-saggio che riteniamo fondamentale, proprio per evitare malintesi in un libro che racconta cose “sensibili”, cioè oggetto di polemica e preconcetti.Iniziamo allora ricordando che le parole possono avere più significati, possono essere interpretate, piegate, rielaborate per giustificare, spiegare, convincere. Anche le scelte grafiche, la collocazione di pezzi e articoli possono lasciar spazio a dubbi, domande, possono indicare propensioni politiche o di parte. Per evitare tutto questo, queste righe sono essenziali. Cominciamo.L’elemento principale, in questo libro, è proprio la forma grafica, la scelta di essere Atlante. Come vedrete, ogni guerra ha esattamente lo stesso spazio, il medesimo numero di pagine. Questo per evitare di dare ad una maggiore importanza rispetto alle altre. È una scelta “politica”, che vuole mettere tutte le guerre allo stesso livello. Così, le schede conflitto sono tutte di 4 pagine, divise rigorosamente per continente, come in un Atlante, appunto.Attenzione: in questo – che è un Atlante particolare – troverete delle schede conflitto, non delle “schede – Paese”. Qui si disegna un profilo geografico ad una guerra e, quindi, vi sono schede che non corrispondono a Stati o Nazioni, ma ad aree di conflitto. È una differenza fondamentale.Quest’anno non daremo in questa pagina le definizioni di Guerra o Conflitto o di altri termini “am-bigui” nell’informazione. Vi rimandiamo al Glossario che troverete nelle ultime pagine. Leggetelo, perché è importante per avere un criterio univoco e senza incertezze. Le definizioni che diamo non sono scientifiche, lo ripetiamo sempre, ma sono una scelta, fatta dopo giorni di discussione. E danno un indirizzo preciso alla lettura.Vi diciamo, poi, che troverete, sotto le carte geografiche di ogni scheda conflitto, i dati sulla situa-zione profughi e rifugiati. È stata realizzata in collaborazione con l’Alto Commissariato per i Rifu-giati dell’Onu e si aggiunge al tradizionale rapporto sul tema che pubblichiamo, come tradizione, nelle ultime pagine.Altra avvertenza: il Sud Sudan. Stato nuovo, nato nell’estate del 2011, non avevamo ancora a dispo-sizione una carta geografica. Così abbiamo lavorato sulla vecchia carta del Sudan per com’era sino allo scorso anno, rielaborandola graficamente. Non potevamo, per ora, fare diversamente.Altre istruzioni: le foto che trovate in questo Atlante ci sono state fornite dall’Alto Commissariato dei Rifugiati, altre sono tratte da video di reporter sparsi in tutto il mondo. Sono quelli che tecnica-mente si chiamano “frame”, cioè fermi immagine di un filmato. Per questo, a volte, possono sem-brare di qualità strana, magari mosse o sgranate. Le abbiamo volute e scelte per la loro efficacia, per la capacità di raccontare tutto in una sola immagine.Un’ultima cosa: le carte geografiche sono quasi tutte messe a disposizione dalle Nazioni Unite, per questo sono in inglese.Dovrebbe essere tutto.
Buona lettura.
Istruzione
per l’uso
Raffaele
Crocco
128
Come leggerele Mappe
Nella Mappa Onu, qui sopra, troverete
solamente indicato lo Jammu and
Kashmir poichè si tratta dell’antico
nome dell’intera area contesa da
India, Pakistan e Cina.
La Mappa, qui a destra, indica invece
la spartizione di fatto dei territori da
parte dei suddetti Stati, con diversa
denominazione, mai riconosciuta a
livello internazionale.
129
Nell’ultimo scorcio del 2011 il Kashmir sembra profondamente mutato, per la prima volta da quando nel 1989 è cominciata una insurrezio-ne separatista in questo territorio conteso tra India e Pakistan. Un segnale è che il trend della violenza è in calo, dopo vent’anni di rivolta ar-mata diventata una “guerra a bassa intensità” combattuta da milizie infiltrate dal territorio pakistano. A tutto agosto 2011 il South Asia Terrorism Portal registra 146 morti (di cui 32 civili) in episodi di attacchi armati e/o attentati. In tutto il 2010 ne aveva registrati 375 (di cui 36 civili), ma ancora nel 2006 i morti supera-vano il migliaio. Il drastico calo nella militanza armata è confermato dai comandi militari. Il 23 maggio 2011 il comandante delle forze indiane in Kashmir diceva a un quotidiano locale che la scorsa primavera “non ci sono stati episo-di di infiltrazione”. In giugno la stampa locale riferiva che presto forze indiane e pakistane cominceranno pattugliamenti comuni lungo la Linea di Controllo (il confine di fatto che taglia il Kashmir). Il 31 agosto uno scontro di frontiera è costato la vita a tre soldati pakistani, con una scia di accuse reciproche: ma è stato il primo incidente dell’anno, in passato erano routine. Un secondo segnale è l’appello di un influente leader separatista, Syed Ali Shah Geelani, alla lotta pacifica. Geelani è l’82enne capo della Jamiat Islami del Jammu e Kashmir, un partito religioso che nell’89, con il suo braccio armato Hizb-ul Mojaheddin, è stato tra i protagonisti dell’insurrezione anti-indiana; nel 2003, quando il Governo di New Delhi ha avviato colloqui con la dirigenza nazionalista kashmira, Geelani gui-dava il fronte che rifiutava il dialogo. Ora però lancia segnali distensivi: “La nostra lotta (...) sarà pacifica”, ha dichiarato il 22 aprile 2011. L’evento che ha trasformato la scena in Kashmir
è stato, nell’estate 2010 tutto inter-no. Protagonisti sono stati dei ra-gazzi, giovanissimi e disarmati, che hanno cominciato ad affrontare le forze di sicurezza lanciando sassi. Queste hanno reagito in modo bru-tale. L’11 giugno un ragazzo di 17 anni è rimasto ucciso. Non ci sono state scuse né inchieste. Sono se-guite altre dimostrazioni, altri morti e quindi altre proteste. Le proteste dichiaravano un solo obiettivo: l’abrogazione delle «leggi nere», i poteri speciali delle Forze armate autorizzate a fermare, perquisire, arrestare e anche sparare individui sospetti. All’inizio di luglio il capo del Governo di Jammu e Kashmir – Omar Abdullah che aveva susci-tato tante speranze, quando è stato eletto nel 2009 – ha chiesto rinforzi a New Delhi, e l’esercito indiano è tornato a dispiegarsi in Kashmir per la prima volta da parecchi anni.
Situazione attuale
e ultimi sviluppi
Quell’estate sono morti 112 giovani manifestan-ti (non compaiono tra le vittime del conflitto: non rientrano nella categoria di vittime di scon-tro armato). Il Governo di Jammu e Kashmir si è ostinato ad accusare “forze esterne”, allusione al Pakistan, di manovrare i ragazzi per impedire la normalizzazione in Kashmir. Solo a distanza di un anno il chief minister Abdullah ha compiuto un gesto distensivo: il 29 agosto 2011 ha annun-ciato l’amnistia per quanti sono stati arrestati durante la “rivolta delle pietre”. Ne beneficeran-no circa 1.200 persone. Se i segnali di cambia-mento porteranno la pace, è presto per dire.
Generalità
Nome completo: Azad Kashmir
Bandiera
Lingue principali: Kashmiri, Urdu, Hindko,
Mirpuri, Pahari, Gojri
Capitale: Muzaffarabad
Popolazione: 3.965.999
Area: 13.297 Kmq
Religioni: Buddista, musulmana,
induista, sikh
Moneta: Rupia
Principali
esportazioni:
n.d.
PIL pro capite: n.d.
KASHMIR
I “figli del conflitto”Li hanno chiamati i «figli del con-
flitto». Sono loro che hanno dato
una svolta inaspettata alla realtà
del conflitto in Kashmir. Sono poco
più che ventenni, a volte adole-
scenti. Sono cresciuti negli anni
‘90, nel momento peggiore del
conflitto nella valle del Kashmir,
quando il movimento separatista
di massa era stato ormai spiazzato
dalle milizie «jihadi» manovrate
dai servizi. Hanno conosciuto solo
guerra, repressione, esecuzioni
extragiudiziarie, raid notturni. Non
hanno mai visto le loro città senza
i sacchi di sabbia dei paramilitari,
i posti di blocco, le umilianti per-
quisizioni. Finché si sono rivoltati:
in modo spontaneo, all’uscita dalle
scuole, lanciando pietre contro
le forze di sicurezza – che hanno
risposto come se avessero di fron-
te dei terroristi: 112 ragazzi sono
stati uccisi. L’intifada di Srinagar
ha spiazzato le autorità indiane
ma anche i leader nazionalisti
kashmiri, dai più moderati ai più
oltranzisti: tutti scavalcati da quei
giovani che non vedono futuro, e
non aspettano nulla da un dialogo
che si trascina da troppi anni.
Generalità
Nome completo: Jammu e Kashmir
Bandiera
Lingue principali: Hindi, Inglese
Capitale: Jammu e Srinagar
(rispettivamente capitali
invernale ed estiva dello
Jammu e Kashmere)
Popolazione: 11.729.000
Area: 101.387 Kmq
Religioni: Musulmana ma nella
regione Jammu prevale
la hindu e in quella del
Ladakh quella buddhista
Moneta: Rupia
Principali
esportazioni:
n.d.
PIL pro capite: n.d.
130
Quadro generale
Per cosa si combattePer India e Pakistan il Kashmir è una contesa territoriale (vedi “il background storico”): e seb-bene da entrambe le parti ci siano stati tentativi coraggiosi di formulare ipotesi di compromesso (ad esempio riconoscere la “Linea di controllo”, attuale confine di fatto, come una frontiera internazionale aperta), questi sono per ora ri-masti vani. La pace in Kashmir dipende da un lato dalle alterne relazioni bilaterali tra India e Pakistan, dall’altro dalla capacità dell’India di trovare un assetto democratico e consensuale con le forze sociali e politiche del Kashmir.Sul piano delle relazioni bilaterali, è un momen-to di impasse. Dieci anni fa i due Paesi sem-bravano a un passo dalla guerra: dopo l’attacco di un commando suicida al parlamento di New Delhi, nel dicembre 2001, l’India ha schierato il suo esercito lungo la frontiera con il Pakistan, che ha fatto altrettanto, e per un lungo anno le due potenze nucleari del subcontinente sono rimaste in massima allerta. Poi la tensione si è allentata, soprattutto sotto la pressione degli Stati Uniti, preoccupati dell’escalation tra due suoi alleati in un Regione così delicata. Nel 2003 il Governo indiano ha proclamato scon-fitta la guerriglia jihadi e offerto il dialogo alla dirigenza nazionalista del Kashmir. Tra il 2005 e il novembre 2008 tra India e Pakistan è comin-ciato il ciclo di dialogo finora più promettente dal 1947: come misura di «fiducia reciproca» era perfino ripreso il servizio di autobus tra il Kashmir indiano e la parte occupata dal Pa-kistan, per la prima volta da decenni. Nel di-cembre 2008 gli attacchi terroristici a Mumbai hanno riportato il gelo. Poi c’è stato l’attacco all’ambasciata indiana a Kabul, nel febbraio 2010; attribuito ai Taleban, sono emerse pro-ve del coinvolgimento del Isi, il servizio di in-telligence militare pakistano: a riprova che la competizione tra India e Pakistan si gioca an-che in Afghanistan. I contatti tra New Delhi e Islamabad sono ripresi solo nell’agosto 2011 con un incontro tra ministri degli Esteri, e senza entusiasmo. Sul piano interno, il dialogo avvia-to nel 2003 ha fatto emergere tutte le divisioni
nella leadership kashmira. La All Party Hurriyat Conference («Conferenza della libertà»), cartel-lo delle forze nazionaliste del Kashmir formato nel 1993, era già allora discorde su questioni strategiche fondamentali: dall’obiettivo (indi-pendenza, annessione al Pakistan?) alle forme di lotta (pacifica? armata?). Gli indipendentisti rivendicano il referendum per l’autodetermi-nazione, raccomandato da una risoluzione dell’Onu nel 1948. Ma per alcuni “autodetermi-nazione” significa scegliere tra India e Pakistan, per altri include una terza opzione, l’indipen-denza – esclusa però sia a New Delhi sia a Isla-mabad. Intanto, la militarizzazione del territorio resta. Il numero di soldati dispiegati nella Valle è solo leggermente calato, il Kashmir continua a sentirsi sotto occupazione. E la “rivolta delle pietre” nel 2010 ha riportato il conflitto alla sua origine: un movimento popo-lare per maggiori libertà politiche e per i diritti fondamentali riconosciuti dalla Costituzione in-diana a ogni cittadino.
Il conflitto del Kashmir è una delle crisi regionali più prolungate del subcontinente indiano. È un conflitto allo stesso tempo interno (all’India) e tra stati (India e Pakistan): e questa duplice na-tura fa della verdeggiante vallata del Kashmir, circondata da ghiacciai himalayani là dove si toccano India, Pakistan e Cina, una polveriera con implicazioni regionali che riverberano fino all’Afghanistan.Il conflitto interno è esploso alla fine degli anni ‘80, quando un movimento di protesta nello stato indiano di Jammu e Kashmir è sfociato in una ribellione armata che ha raggiunto nei momenti peggiori l’intensità di una guerra civile. Questa però è alimentata dalla contesa territoriale tra le due potenze nucleari del subcontinente in-diano: India e Pakistan hanno combattuto per
il Kashmir due guerre dichiarate (nel 1948-49 e nel 1965) e una non dichiarata (nell’estate del 1999), accompagnata da una lunga «proxy war», guerra “di prossimità” per interposti guerriglieri infiltrati dal Pakistan, accusa l’India - Islamabad ha sempre respinto l’accusa, dichiarando di dare ai fratelli del Kashmir solo “sostegno morale e politico”. Il conflitto del Kashmir è uno dei problemi irrisolti della Spartizione del 1947, quando dalla vecchia India britannica sono nate due nazioni separate, il Pakistan musulmano e l’India multireligiosa e secolare benché a maggioranza indù. Il principa-to di Jammu e Kashmir (che includeva i territori di Jammu, Kashmir e Ladakh) fantasticò di resta-re indipendente ma infine optò per l’India, con un atto formale che ne fece uno stato dell’Unione in-
UNHCR/T. Irwin
Il profiloL’odierno stato di Jammu &
Kashmir (come già l’antico prin-
cipato dallo stesso nome) include
tre territori distinti. La valle del
Kashmir a maggioranza musulma-
na è l’oggetto di contesa tra India
e Pakistan, ma lo stato include
anche il Jammu, a maggioranza
hindu, e il Ladakh a maggioranza
buddhista. Oggi l’intero stato fa
poco più di 10milioni di abitanti, di
cui 5,4milioni nel Kashmir (il 54%
della popolazione), 4,4milioni nel
Jammu e poco meno di 250mila
nel Ladakh. Il territorio sotto
controllo pakistano, chiamato Azad
(“libero”) Kashmir, ha all’incirca
400mila abitanti.
131
Parveena Ahangar
Una notte di agosto, nel
1990, la polizia ha bussato a
casa di Parveena Ahangar,
nel popolare quartiere di
Dobhi Mohallah a Srinagar.
«Cercavano militants», ribelli
armati, «e hanno preso mio
figlio per interrogarlo». Aveva
16 anni. Da quella notte la
signora Ahangar ha seguito
ogni possibile traccia per
ritrovare il suo ragazzo:
comandi di polizia, tribunali,
ospedali, comandi dell’esercito,
uffici governativi. Invano.
Suo figlio era scomparso.
Ma era solo uno dei tanti:
le organizzazioni per i diritti
umani parlano di 5, forse
6mila scomparsi, prelevati di
solito dalla polizia, talvolta dai
ribelli. Così nel 1995, con altre
trecento persone come lei,
Parveena Ahangar ha formato
l’Associazione dei genitori
delle persone scomparse, che
ora presiede. Hanno un solo
obiettivo, dice: rintracciare figli
o mariti scomparsi. In primo
luogo, costringere il governo
ad ammetterne l’esistenza.
«Devono dire dove sono i
nostri figli». L’Associazione
ha raccolto testimonianze di
padri, madri, «mezze vedove»
- così sono chiamate le donne
il cui marito è scomparso,
forse morto, ma chissà.
Aiuta a contattare avvocati
ed esperti di diritti umani, a
scrivere petizioni, organizzare
dimostrazioni.
I PROTAGONISTI
diana in un quadro di ampia autonomia. La deci-sione presa dal locale maharaja Hari Singh (indù) con l’accordo dei notabili nazionalisti guidati da Sheikh Abdullah (musulmano) fu sgradita ai diri-genti pakistani, che rivendicavano il Kashmir, a popolazione in maggioranza musulmana. La di-sputa è sfociata nel 1948 nella prima guerra tra India e Pakistan. La linea di cessate-il-fuoco ne-goziata con la mediazione delle Nazioni unite nel 1949 è da allora il confine di fatto: a Ovest il set-tore sotto controllo pakistano (circa un terzo del territorio, capitale Muzaffarabad) a Est la parte sotto sovranità indiana (circa il 60% del territorio originale, capitali Srinagar e Jammu). Una pic-cola parte di ghiacciai all’estremo Nord (10%) è occupato dalla Cina dal 1962. Le risoluzioni delle Nazioni Unite del 1948 e ‘49 chiesero al Pakistan di ritirare le proprie forze dal territorio occupato e sollecitavano un referendum perché i kashmiri potessero decidere del proprio futuro. Il Pakistan non si ritirò, resta in quello che chiama Azad (“li-bero”) Kashmir; l’India se ne fece una scusa per non indire mai il plebiscito. Il periodo post indipendenza ha visto un cre-scente attrito tra le classi dirigenti kashmire e il Governo centrale dell’Unione indiana, che ha via via eroso il regime di autonomia del Jammu e Kashmir. La disaffezione è esplosa nel 1989 in una protesta civile ha coinvolto un ampio schieramento sociale e politico, dall’Università ai sindacati ai partiti nazionalisti. Alla fine di quell’anno risalgono le prime azioni armate con-tro obiettivi governativi a Srinagar: l’insurrezione
era cominciata.La risposta dello stato centrale indiano è stata dura, e l’escalation inesorabile. Il primo grup-po armato, Jammu e Kashmir Liberation Front (Jklf), è stato presto sbaragliato: erano giovani con idee di lotta di popolo, il loro leader Yasin Malik fu presto arrestato e nel ‘94 il Jklf ha ri-nunciato alla lotta armata. Ma ormai altri prota-gonisti avevano preso il sopravvento: il Hizb-ul Mojaheddin, braccio armato del partito conser-vatore (e filopakistano) Jamiat Islami, a sua vol-ta scavalcato da altre sigle (Jaish-e Mohammad, Lashkar-e-Taiba). Erano i primi anni ‘90 e in Kashmir confluivano armi e combattenti provenienti dall’Afghanistan formati alla jihad, la “guerra santa” (nella sua accezione politico-militare), e sostenuti dal Isi, il servizio di intelligence militare pakistano.La lotta di “liberazione nazionale” era così di-ventata la guerra di una comunità religiosa. E con i combattenti «stranieri» è arrivato un islam di stampo taleban estraneo alla tradizione sufi del Kashmir. È arrivato anche il terrore: attentati contro civili, bombe nei mercati, rappresaglie. Gli hindù del Kashmir, i pandit, sono stati costretti a fuggire. Il Governo centrale ha mandato l’eser-cito e corpi paramilitari a contrastare i ribelli, la valle è stata militarizzata. È stata una guerra largamente manovrata da servizi segreti, ma è la popolazione del Kashmir che ha pagato il prezzo più alto: tra 50 e 80mila persone sono morte dal 1989 al 2010, in gran parte civili. Senza contare migliaia di desaparecidos e una scia di ingiu-stizie e violazioni dei diritti umani: la guerra ha travolto le forze sociali, sindacati, forze politiche, gruppi per i diritti umani. E questo è il problema di oggi.
UNHCR/B.Baloch
ISBN-13: 978-8888819945
€ 20,00