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L’intervistasabato 26 gennaio 2013 laRegioneTicino 2SpecialeLa giornatadella memoria

di Erminio Ferrari

L’oblio, il passare del tempo ‘che tutto macina’insidiano il ricordo e la conoscenza della Shoahe quindi di tutti i crimini successiviIncontro con Nedo Fiano, sopravvissutoal campo di sterminio di Auschwitz

Milano – Nedo Fiano fu arre-stato il 6 febbraio 1944 in via Ca-vour a Firenze. Una pistola pun-tata alla schiena e l’avvertimen-to di non tentare di fuggire.

Quando fu in cella, uno dei de-tenuti gli chiese per quale reatoera stato messo dentro. «Nessu-no, risposi, è che sono ebreo». Equello gli disse: «Ma lo sai che voivi ammazzano tutti?».

No, Nedo non lo sapeva. Nonriusciva neppure a immaginar-lo. «Da bambino ero stato un ba-lilla, figuriamoci, e mi divertivoun mondo con tutte quelle mes-sinscene». Poi, sì, c’erano state leleggi razziali («passavo davantia una biblioteca nella quale avreisempre voluto entrare, finché ungiorno lessi sulla porta: vietatol’ingresso agli ebrei») ma che illoro esito estremo sarebbe statoAuschwitz, quello no, non riusci-va a concepirlo.

Ma quando si trattò di fuggireda casa «trovammo molte portechiuse. Anche i conoscenti ci re-spingevano. Sapete, dicevano, ab-biamo i ragazzi, e se viene la poli-zia... Finché mio padre trovò unuomo che ci aprì la casa, ringra-ziando dio per poterlo fare. Veni-te, disse, questa è casa vostra».

Non bastò. Ad Auschwitz,Nedo arrivò (transitato per ilcampo italiano di Fossoli) il 23maggio, per essere privato delnome, al cui posto gli furono ta-tuati una lettera e un numero A5405.

La giubba da Haftling, comevenivano denominati i detenuti,ce l’ha ancora, appesa nello stu-dio della sua casa milanese, tra-boccante di libri. La maggiorparte dei quali dedicati alla Sho-ah. Lui stesso è autore di tre vo-lumi (Il coraggio di vivere, Ilpassato ritorna, Berlino-Au-schwitz... Berlino; tutti con l’edi-tore Monti di Saronno) e peranni è stato una voce instanca-bile della memoria: nelle scuole(sarà di nuovo in Ticino, il 7 feb-braio prossimo) nelle istituzio-ni, nei mezzi di informazione.

E anche oggi che i ricordi si af-fastellano nel disordine del tem-po che se ne va, la sua faticosa te-stimonianza dà ancora conto diciò che sta sul crinale tra l’indi-cibile e quanto del male può es-sere invece conosciuto e detto.

Se Primo Levi arrivò a soste-nere che veri testimoni dell’abis-so furono solo coloro che non nefecero ritorno, i sommersi, ancheNedo riconosce che le molte pa-gine pur fondamentali, memora-bili, scritte su quell’evento nonriusciranno mai a tradurre«l’angoscia profonda, la pauraradicale, l’annullamento del pri-gioniero nel campo di sterminio».

Perché questa era la condizio-ne: «Il campo era pervaso dal ter-rore. Una condizione nella qualele stesse persone potevano esseretrasformate in ladri, vili, tradito-ri. Posso dire che nel campo c’era-no qua e là degli atti di solidarie-tà, ma pochi. Non parlerei di attid’eroismo. Ripeto, prevaleva lapaura. Una traumatizzata indif-ferenza per la situazione altrui epoi per la propria, anticameradella fine. E sulla solidarietà bi-sogna intendersi: c’era chi solida-rizzava mettendo a rischio la pro-pria vita, chi spendendo un aiutominimo, ma non si andava oltre.

Dal risveglio, alle 4.30 del mat-tino, in poi c’erano pochi ritaglidi tempo per parlare o provare adaiutare un compagno, ma moltorari. Le violazioni della consegnadel silenzio sarebbero state puni-te. Il forno era sempre acceso».

E la lotta muta, sorda, per so-pravvivere non concedeva spaziall’altruismo, se non a prezzo al-tissimo e talvolta definitivo. Delresto, la condizione degli Häf-tlinge era quella di esseri alla to-tale mercé dei carcerieri, o delcaso. Il capriccio di una Ss, uncontingente da avviare alla ca-

mera a gas ancora incompleto,un inconsapevole appuntamen-to con il destino potevano signifi-care la vita o la morte.

«E in ogni caso [e di nuovo tor-na la corrispondenza con la vocedi Levi], per avere qualche possi-bilità di sopravvivere, bisognavaessere assegnati ad un lavoro inqualche misura privilegiato». Sedi privilegio si può parlare perquello che toccò a Nedo.

‘Vidi arrivare mia nonnae svenni’

«Eravamo da poco arrivati adAuschwitz, quando, allineati inuna baracca, ci fu chiesto da unufficiale Ss chi sapeva parlare te-desco. Alcuni si fecero avanti, mafurono respinti. Poi toccò a me.Conoscevo quella lingua, avendo-la appresa dal mio amatissimononno. L’ufficiale mi chiese dadove venivo; e io, in ottimo tede-sco, risposi: da Firenze. Caro ami-co, disse quello, è la città più bellache conosca: arte, belle donne».

E a Nedo, divenuto interprete,venne affidato un posto “privile-giato” nell’Aufräumenskom-mando, quella cenciosa squadradi detenuti incaricati di “acco-gliere” i deportati scaricati sullaRampa dai treni piombati in ar-rivo da tutta Europa.

«Il nostro kommando era com-posto da una ventina di persone.Eravamo tutti stravolti nel vede-re in quale stato arrivavano sullaRampa vecchi, malati, bambini,immediatamente avviati alle ca-mere a gas, senza assolutamente

potere far niente. Non potevamoparlare: le Ss correvano da unaparte all’altra del convoglio, con iloro cani al guinzaglio.

Ricordo bene quando vidi arri-vare mia nonna, stravolta da unviaggio spaventoso, incredula,ignara di dove si trovava e per-ché. Vedendola mi sono precipita-to verso di lei, ma poi sono svenu-to, e i miei compagni mi hannonascosto in qualche modo. Ho ri-schiato di finire con lei nel forno».

A lungo, Nedo ha portato in séla lacerazione di quella situazio-ne. Un sentimento velenoso dicolpevolezza, per essere statoimpiegato, obbligato, nel funzio-namento del meccanismo disterminio. Infamia nell’infamia:fare della vittima un “colpevo-le”, o far sì che tale si sentisse.

Questo il “privilegio” toccatoa Nedo, leggere negli occhi diquelle persone lo sgomento, lasorpresa più dolora, l’intuizioneanimale, forse, della morte vici-na. E non poter rispondere senon con il silenzio e la coscienzache la loro sarebbe stata prestola propria.

«Volevano sapere dove eranoarrivati, che cosa gli avrebberofatto, sfiniti e impauriti dopo unviaggio infernale. Non potevamorispondere se non a monosillabi.Non potevano allacciare un di-scorso, ma qualcosa scappava.Nessuno di noi, tuttavia, aveva ilcoraggio di dire: qui ammazzanola gente. Cercavamo di tranquil-lizzarli. Come si può dire a unapersona: verrete gasati e bruciatinell’arco di 24 ore?

Un giorno giunse un convogliodal quale scese il segretario dellacomunità ebraica di Firenze Bru-no Coen. Mi riconobbe e mi chiese:Nedo, che cosa ci fanno ora? Io glirisposi: andrete alla doccia. E in-vece andavano a morire. Macome potevo dirgli la verità? Avràvissuto forse altre quattro oredopo quel rapido dialogo, e speroche perlomeno in quelle poche orenon sia stato travolto dall’ango-scia. Non fu un atto di eroismo,ma di solidarietà in un quadro diviolenza, paura, morte. Ancoraoggi non so se accusarmi perquella bugia o assolvermi».

L’unico sentimentoera il terrore

Categorie che rimandano acolpa e innocenza, a bene e male,a Dio o nulla. Nedo, lei era cre-dente, allora? C’era spazio peruna qualsivoglia fede nel cam-po?

«Il solo sentimento era il terro-re, la sola speranza era quella disalvarsi. Eravamo tutti terroriz-zati. C’era posto per il male e mol-to poco per il bene.

Vorrei poter dire che c’era an-che spazio per la fiducia nell’aiu-to di dio; ma nella realtà era av-venuta una demolizione totaleanche dei sentimenti religiosi,delle manifestazioni di umanità.La paura se li era portati via».

Sopravvivere, dice soventeNedo. Nel campo, certo, ma“dopo”? Sopravvivere a quelpassaggio estremo si è rivelatoimpossibile anche per figure chepure erano riuscite a rielaborareanche attraverso la scritturaun’esperienza tanto radicale.Capaci di riflessioni universali,guide per l’umanità succedutaalla Shoah, a distanza di annidall’uscita dal campo di stermi-nio si sono uccisi Primo Levi,Jean Amery, le cui opere sonopatrimonio del nostro tempo edel prossimo. «Li ha uccisi – ri-flette Nedo – il veleno che si è in-trodotto in noi e che in qualcunoha continuato ad agire troppo alungo. Qualcun altro si è salva-to». Sommersi e salvati, anche“dopo”.

Perché per tutti il “ritorno” èstato una prova durissima. «Iosono stato fortunato – si com-muove Nedo. – Ero il solo soprav-vissuto della mia famiglia, ma

riuscii a trovare un’ancora di sal-vezza nell’amore della ragazzache sarebbe diventata mia moglieRirì».

“Prima”, tuttavia c’era statoun episodio che per Nedo non èfacile raccontare. Avvicinadrammaticamente, pericolosa-mente le figure della vittima edel carnefice. Rende ambigua-mente incerto discernere tracolpa individuale e colpa collet-tiva. Germaine Tillon, nel suofondamentale Ravensbrück qua-si si rimproverava di aver pensa-to ai “tedeschi” come popolo col-pevole (“di aver fatto delle distin-zioni: ‘loro’ hanno fatto questo,‘noi’ non lo faremmo”). E ancheNedo riconosce che sì, talvolta siritrova a pensare in quei terminiai “tedeschi”, e se ne dispiace.Ma la storia è un’altra: quando ilcampo di Auschwitz fu smantel-lato, i prigionieri (quelli che ce lafecero) vennero trasferiti nel la-ger di Buchenwald, e fu lì cheNedo venne liberato dagli ame-ricani. «Ero ridotto malissimo emi misero in una specie di ambu-latorio (per la prima volta ritro-vavo delle lenzuola sotto di me)affidato alle cure di un ufficialemedico tedesco della Wehrmacht,prigioniero a sua volta degliamericani. Quell’uomo seppe dame che ero reduce da Auschwitz,mi curò con una dedizione incre-dibile. Poteva sembrare affetto.Mi faceva bene, nonostante fossetedesco. Non so se era in buonafede o stava soltanto cercando disalvarsi. Ma di sicuro si sentivain colpa nei miei confronti. Nonsapevo che cosa pensare, maquando lo trasferirono ci abbrac-ciammo, ricordo bene i suoi ca-pelli bianchi e il desiderio chesempre mi è rimasto di poterlo in-contrare un giorno».

E non è che la ricostruzione diuna persona sia una cosa sem-plice come a raccontarla. Alcontrario: moltissimi sopravvis-suti scelsero (o non furono capa-ci di uscirne) il silenzio, per nonvenire ogni volta scagliati alfondo del pozzo. Molti atteserodecenni prima di “ricordare” inpubblico, tanta era la paura dirivivere ciò che avrebbero rac-contato.

Nedo no. «Al contrario, ho do-vuto raccontare, parlare da subi-to. Faceva paura a me stesso ciòche avevo dentro. Ho sempre pen-

sato che parlarne mi avrebbe aiu-tato a liberarmene. Ed è statocosì, benché non del tutto: il vuotoche l’esperienza del campo di ster-minio ha scavato dentro la miapersona, quello resta, resteràsempre».

Ma il silenzio di molti super-stiti nasceva anche da un timorepreciso, quello di non esserecreduti. Non vi crederanno, av-vertivano le Ss del campo. E lapur vaga possibilità che avesse-ro ragione bastò a chiudere labocca a molti che pure avrebbe-ro parlato.

Lei, Nedo, non ha mai temutodi non essere creduto? «Non l’hotemuto, l’ho dato per scontato. Hoconosciuto cose talmente spaven-tose, che ho sempre messo in contoche qualcuno potesse non credereal nostro racconto, potesse noncapirlo».

‘Il tempomacina tutto’

Ed è probabilmente questa lachiave della memoria resa pub-blica: l’affidarsi a una voce e fi-darsi di quanto quella voce rac-conta. Ed è la sua vulnerabilità:credute o no le voci si esaurisco-no. I documenti, si dice, restano,e fondano la storia di un evento.La storia,la scienza storica, puòessere un argine all’oblio? «Sto-ria e memoria – corregge Nedo –hanno marciato insieme, anchealimentandosi a vicenda. Mavede, il tempo macina tutto».

E allora perché una “Giornatadella memoria”? Non rischia diessere un monumento e perciòdi conoscere la sorte dei monu-menti: appena inaugurati servo-no a ricordare, poi a scattare fo-tografie ai loro piedi, infine a es-sere vilipesi?

«Sono certo che avverrà così. Èla forza del tempo: travolge tutto.Non c’è cosa che sia rimasta in-toccata dal tempo. C’è una lettera-tura dedicata alla Shoah, c’è sta-ta una cinematografia, si fa tea-tro. Malgrado ciò, so che tutto puòandare perso».

“Può”, non “deve”.Quando, tornato a Firenze con

indosso la giubba di Haftling,Nedo trovò il coraggio di salirenella casa di famiglia, la trovòsvuotata di tutto. V’era rimastasolo una scarpa, marrone, di suofratello.

Una matricola al posto del nome

M. A

LBON

ICO

Rirì e Nedo

S. S

LAVA

ZZA

La memoriadi Nedo

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