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Rivista del Dipartimento di Scienze storiche archeologichee antropologiche dell’antichità

Sezioni di Archeologia e Storia dell’arte greca, romana e tardo-anticae di Etruscologia e Antichità italiche

Fondatore: giulio q. giglioli

Direzione Scientifica

m. paola baglione, luciana drago, enzo lippolis, mariangela marinone, laura michetti

gloria olcese, maria grazia picozzi, franca taglietti

Direttore responsabile: fausto zevi

Redazione:

franca taglietti, fabrizio santi

Vol. LXI - n.s. 112010

Estratto

«L’ERMA» di BRETSCHNEIDER - ROMA

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ArchCl LXI, 2010, pp. 429-490

COLLEZIONI NUMISMATICHE DELL’ OTTOCENTO NAPOLETANO *

gli esordi del giovane fiorelli

«[Il Fiorelli] in età giovanissima fu addetto alla scuola di un certo don Benigno Tuzzi, di Napoli. Egli abitava in un primo piano presso la piazza della Pignasecca. Don Benigno Tuzzi era raccoglitore di monete antiche, e ne aveva una conoscenza assai profonda. La sua scuola era assai semplice; aveva due scolari soltanto: Giuseppe Fiorelli e Raffaele Garrucci, che erano allora due giovanetti. Quando la mattina questi giovani entravano da lui, don Beni-gno pigliava un sacchetto di monete antiche e le distribuiva in sufficiente numero sopra un tavolino dichiarando di ciascuna il soggetto e poi confondendole tra di loro. Poi obbligava i giovanetti a riordinarle secondo la classificazione che ne aveva fatta. […] Don Benigno era un uomo assai singolare: abitava in primo piano dove era una grande finestra che comuni-cava con un grande balcone. Nella sua casa entravano soltanto i due scolari e nessun’altra persona. Con lui viveva una donna, che potremo meglio chiamare una serva, la quale non era libera di uscire mai di casa, neanche per andare a fare la spesa per il vitto. Dimodochè, quando si avvicinava il mezzogiorno, don Benigno in persona apriva la finestra, passava sul balcone e, legato ad un cordino, faceva scendere sulla piazza un panierino, dentro il quale il carnacottaro poneva quanto era necessario per il pranzo di don Benigno e della donna. Don Benigno Tuzzi aveva dunque una particolare predilezione per Giuseppe Fiorelli che era divenuto giovane abbastanza vigoroso, sicché il Tuzzi poté far calcolo sopra di lui per averlo compagno in un grande viaggio che si proponeva di fare e che fece. Egli possedeva un caval-lo ed un trabiccolo buono per non più che due persone, cioè don Benigno e Fiorelli. Il viag-gio che don Benigno aveva in animo di fare era lunghissimo. Si trattava di andare da Napoli a Benevento, e poi a Foggia e poi, risalendo lungo l’Adriatico, per le Marche e la Romagna, andare fino a Modena per vedere Don Celestino Cavedoni e sentire il parere di lui sopra certe monete. Però lo scopo del viaggio non era solo questo. Don Benigno, che aveva tante conoscenze, profittava della strada per fare acquisto di monete e venderne anche qualcuna, quando avesse avuto la fortuna di farlo a buon prezzo. Il viaggio insomma era un affare, che doveva essere coronato dall’incontro con don Celestino. Il Fiorelli si fermava spesso a rac-

* Sono molti i debiti che si contraggono con un Maestro ma è assai raro che a quelli scientifici se ne affianchi-no altrettanti connessi alla sfera umana ed emotiva; questo scritto è un modesto segno di riconoscenza non soltanto per quanto dal suo insegnamento ho potuto apprendere ma, soprattutto, per quanto ha saputo dare di ciò che non è possibile imparare.

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contare con una certa compiacenza questo incontro. Don Benigno Tuzzi aveva portato una quantità di monete della cui spiegazione non era certissimo ed aspettava intorno ad esse il parere del Cavedoni. Era curioso, diceva il Fiorelli, il modo col quale il Cavedoni risponde-va. Presa in mano la moneta sulla quale era nato il dubbio ed intorno alla quale don Benigno aspettava il giudizio dell’amico, questi faceva subito un segno di sorpresa che fosse nato il dubbio, mentre al parere di lui, nessun dubbio avrebbe potuto esserci. Viceversa, se era il Cavedoni a mostrare al Tuzzi qualche pezzo che non riusciva a classificare, don Benigno, rispondendo in dialetto napoletano, diceva subito che cosa era quella moneta e don Celestino faceva la faccia della meraviglia. Il Fiorelli, raccontando ciò, non mancava mai di aggiunge-re che il Cavedoni era molto brutto e che anche riguardo alla cura della sua persona lasciava molto a desiderare».

Con questo suggestivo racconto Felice Barnabei (1842-1922) (Fig. 1) apriva l’ampia sezione delle sue Memorie di un archeologo1 dedicata all’epica giovinezza del suo men-tore, Giuseppe Fiorelli (1823-1896) (Fig. 2), al quale era stato professionalmente e uma-namente legato sin dal 1865, all’epoca del suo primo arrivo a Napoli e del suo debutto nell’archeologia. Il carattere aneddotico e, a tratti, encomiastico (almeno limitatamente alla versione data alle stampe) della porzione “fiorelliana” delle Memorie del Barnabei – frutto della rielaborazione a posteriori dei racconti e delle “confidenze” dello stesso Fiorelli – ha in parte contribuito ad alimentare il mito del celebre archeologo napoletano, le cui altale-nanti fortune, fin da quando era ancora in vita, avevano finito per coincidere mirabilmente con quelle dell’epopea risorgimentale, della quale fu testimone privilegiato prima in virtù dei suoi stretti legami con il conte di Siracusa, Leopoldo di Borbone – fratello del re delle Due Sicilie Ferdinando II – e, poi, per il suo ruolo da protagonista nella concezione e nella direzione delle principali istituzioni create dal neonato Stato per la tutela e la salvaguardia delle antichità. L’archeologia novecentesca, infatti, aveva individuato in Fiorelli il proprio “nume-fondatore”, ascrivendolo in quell’empireo degli eroi risorgimentali dal quale, non senza difficoltà, si sta cercando negli ultimi anni di “recuperarlo” per ricostruirne, scremati i toni celebrativi, la reale personalità scientifica e ricollocarla in modo più appropriato nel panorama culturale contemporaneo, italiano e internazionale2.

1 Pubblicate postume nel 1933, sono state oggetto recentemente di una accurata riedizione critica (barnabei, delpino 1991) che tiene conto delle diverse redazioni manoscritte dell’opera. Per il passo in questione vd. ibid., p. 140 con ulteriori riferimenti bibliografici. Colgo l’occasione per rivolgere un sincero ringraziamento al Prof. Filip-po Delpino che ha sempre incoraggiato l’interesse di chi scrive per la storia dell’archeologia e lo ha arricchito con spunti critici e costanti stimoli.

2 Come ha evidenziato Stefano De Caro (de caro 1994), la riedizione delle Memorie di Barnabei, integrata con i suoi appunti inediti, ha fornito contributi significativi per una rilettura critica e, per così dire, “demitizzata” della biografia fiorelliana. I limiti e le debolezze di Fiorelli, che affiorano a tratti dalle pagine inedite del Barnabei, vanno tuttavia interpretati alla luce degli intenti e della prospettiva dell’archeologo di Castelli. Quest’ultimo, infatti, inglobando nella sua autobiografia ampi squarci della vita del suo mentore e diretto predecessore poneva, in modo più o meno consapevole, le basi di un confronto che se, da un lato, lo avrebbe indirettamente nobilitato, dall’altro,

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Le pagine relative agli esordi del giovane Fiorelli, tuttavia, più delle altre ci restituiscono uno squarcio fededegno della condizione del collezionismo numi-smatico della prima metà dell’Ottocento non solo a Napoli ma, più in generale, nel resto della Penisola, un panorama nel quale potevano trovarsi a interagire pro-tagonisti nobili e notabili, quali il mode-

Fig. 1. felice barnabei (1842-1922). Ritrat-to: Napoli 1870 ca. (da barnabei, delpino 1991, Fig. 78).

indubitabilmente, avrebbe rischiato di oscurarlo, come poi di fatto avvenne anche dopo la loro edizione postuma, essendo esse quasi del tutto scevre di quei toni e di quelle constatazioni che contraddistinguono gli appunti e le ver-sioni manoscritte dell’opera. Sul Fiorelli si vedano da ultimi: scatozza höricht 1987, pp. 865-880; genovese 1992; de angelis 1993; barbanera 1998, pp. 19 ss., con bibl. alle pp. 198-9, nota 101; Atti Fiorelli 1999; sul “giovane” Fiorelli vd. in particolare: milanese 1995; fraschetti 1999; milanese 1999. Per la “fortuna” del Fiorelli fra gli studiosi tedeschi si veda da ultimo pirson 1999, lavoro nel quale vengono messi in luce giudizi non sempre lusinghieri sulla sua personalità scientifica (Mommsen-Henzen 16/XI/1845: «Costui [Fiorelli], l’Instituto deve cercare di attirarlo a sé; non diventerà mai un Avellino, ma è il più capace fra i giovani studiosi di qui»; Henzen-Gerhard, 20/III/1865: «Fiorelli è un Associato e un appassionato, privo di erudizione ma anche di pre-sunzione)» in contrasto almeno apparente con gli onori dei quali venne insignito, legati non sempre a questioni di “merito” quanto di “opportunità”.

Fig. 2. giuseppe fiorelli (1823-1896). Ritratto: Napoli 1865 ca. (da barnabei, delpino 1991, Fig. 80).

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nese Celestino Cavedoni (1795-1865)3 (Fig. 3), accanto a singolari e caratteristi-ci comprimari che, come l’“oscuro” don Benigno, risultavano non meno preparati e influenti dei primi, tanto da travalicare con la propria fama e il proprio operato le soglie anguste del Regno delle Due Sicilie4. Le testimonianze relative a tale periodo raccolte dal Barnabei meritano di essere integrate con quelle più scarne tra-mandate in prima persona da Fiorelli nei suoi Appunti autobiografici. Il passo è relativo al 1843 anno in cui Fiorelli, dopo l’apprendistato con don Benigno, dava alle stampe appena ventenne la sua prima monografia:

«I 3 anni passati nella familiarità di Benigno Tuzii mi diedero agio di conoscere pratica-

mente, con la scorta di lui, migliaia e migliaia di monete, che egli teneva in serbo per farne commercio, e mi porsero altresì occasione di avvicinare i principali venditori e raccoglitori di esse, che erano in quel tempo Michele Santangelo, il conte Milano, il principe di Sangior-gio, il canonico Iorio, Michele Tafuri, Salvatore Fusco, Gennaro Riccio, Domenico Catala-no, Carlo Bonucci, Ascherson, Gio. Battista Casanova, Onofrio Pacileo, Raffaele Gargiulo, Raffaele Bacone, Pasquale Lambrisi, i fratelli De Crescenzo, i fratelli Mazzola, ed il siciliano

3 Su Cavedoni vd. bortolotti 1866 e f. parente, s.v., in DBI 1979, vol. XXIII, con bibl. 4 Le informazioni disponibili su Benigno Tuzii (questa sembra essere la grafia corretta del cognome, sebbene

lo stesso Fiorelli la riporti in altre varianti) sono assai limitate (barnabei-delpino 1991, p. 86 e nota 18 a pp. 97-8, p. 140 e p. 403); “lavorò” al medagliere del Museo Borbonico nel 1840 e nel 1844 e, fra il 1838 e il 1842, fu tra i suoi principali fornitori (fiorelli 1864, pp. 120 e 166); il legame con il Museo di Napoli farà sì che Cave-doni, all’epoca della visita ricordata da Barnabei (che dovette aver luogo poco dopo il 10/XII/1840), in una lettera indirizzata all’Avellino lo designasse «espertissimo Sig. D. Benigno Tuzi, Ispettore del R. Medagliere Borboni-co», inducendo Minervini a postillare: «Tuzi non fu mai Ispettore del R. Medagliere, era un esperto negoziatore di antiche monete che non aspirò giammai a fama di dottrina» (bortolotti 1866, p. 552; di un altro soggiorno modenese del Tuzii, nell’agosto del 1847, fa menzione Cavedoni in BullArchNap 1859, p. 34); al 1834 almeno risalivano i suoi rapporti con il collezionista vibonese Vito Capialbi, come testimonia una lettera di quest’ultimo al Kellermann edita in v. capialbi, Opuscoli varii, Napoli 1849, v. III, p. 141. Sul condiscepolo di Fiorelli, Raffaele Garrucci (1812-1885, gesuita e celebre archeologo ottocentesco, ultimo esponente della tradizione erudita storico-antiquaria, autore, fra le altre cose, dell’opera Le monete dell’Italia antica, Roma 1885, apparsa postuma, alla quale apportò alcune lievi correzioni lo stesso Fiorelli: barnabei-delpino 1991, p. 140), vd. C. ferone, s.v., in DBI 1999, vol. LII, con bibl.; per un giudizio critico sulla sua opera numismatica vd. cantilena 1996, p. 72, nota 7.

Fig. 3. celestino cavedoni (1795-1865). Ritratto, Università di Modena, Sala Consiglio.

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Giuseppe Cuoco, esimio falsificatore di ogni genere di monete. I quali sapendomi scolare del Tuzii, che tutti reputavano il maggior conoscitore di tal sorta di antichità, ricorrevano spes-so al mio giudizio, o mi facevano arbitro dei loro negozi, dandomi modo di vedere tutto ciò che dalle province capitava agli orefici ed agli antiquari di Napoli, e di acquistare talvolta monete inedite e rare, poco stimate o non avvertite da altri. Diedi così principio ad un meda-gliere, che l’ottimo padre mio ingrandì notevolmente, comprandomi la raccolta del Catalano, ed alquanti sacchi di monete di bronzo, abbandonate dal Tuzii nelle mani di un suo creditore; nel qual medagliere composto unicamente di monete urbiche, ebbi il piacere di annoverare monete rarissime, in particolare della Magna Grecia e dell’Apulia, dove in quegli anni erano più frequenti gli scavi.Primo frutto dei miei studi fu una memoria, intitolata Osservazioni sopra talune monete rare di città greche5, che pubblicai nell’aprile del 1843, e che il Braun, nel presentare all’Istituto, chiamò erudita opera in cui erano trattate con molta diligenza le medaglie di Taranto e di Turii, raccomandando l’esame di sì dotto lavoro ai numismatici per eccellenza. Quest’opera mi valse l’onore di una recensione del Cavedoni, la nomina di corrispondente dell’Accade-mia Ercolanese, e dell’Istituto archeologico di Roma. Era più di tutto quello che potevo spe-rare da un primo lavoro, fatto senza alcun indirizzo scientifico, essendo il Tuzii affatto ignaro di letteratura classica, e riboccante di astruserie e simbolismi, malamente appresi dallo Spi-cilegio6 del Cavedoni»7.

L’orgoglio col quale Fiorelli ricordava, quasi incredulo, i successi consegui-ti all’indomani del suo precoce debutto non destano meraviglia se si tiene conto del carattere approssimativo e quasi dilettantesco della sua formazione8, legata più all’esperienza sul campo che alla riflessione e alla rielaborazione teorica e afflitta da quei limiti e da quelle lacune che sin da giovane egli dovette individuare nel suo improvvisato maestro e dai quali, nonostante notevoli sforzi da autodidatta, non sem-brerebbe essere riuscito del tutto a emanciparsi se è nel vero quanto asseriva Felice

5 fiorelli 1843. La monografia era stata preceduta da due contributi pubblicati quand’era appena diciotten-ne: g. fiorelli, “Medaglie inedite di Taranto”, in BullInst 1841, pp. 172-174 (dedicato a un piccolo gruppo di monete inedite comprese nella sua collezione personale); id., “Scavi di Taranto”, ibid., pp. 186-188. Per un elenco delle pubblicazioni di Fiorelli vd. palumbo 1913. Per la recensione del Braun a fiorelli 1843 citata più avanti nel testo vd. e. braun, in BullInst 1843, p. 92; per quella di Cavedoni vd. cavedoni 1844. Nel 1846 Fiorelli fondò e curò l’edizione degli Annali di Numismatica, rivista che, nonostante i propositi e l’egida dell’Instituto di Corrispondenza, ebbe effimera durata.

6 cavedoni 1838. 7 fiorelli 1939, pp. 23-4.8 A 18 anni Fiorelli aveva conseguito la laurea in giurisprudenza e aveva cominciato il suo apprendistato da

avvocato per poi interromperlo a vantaggio delle sue vere passioni. Com’era costume all’epoca, durante tutta la sua adolescenza aveva potuto coltivare, grazie al sostegno del padre (un militare di origini lucerine, trasferitosi a Napoli sedicenne e, per meriti conseguiti sul campo, divenuto Maggiore del Genio), i suoi interessi antiquari e, in partico-lar modo, numismatici, prima con insegnanti privati e, poi, alla “bottega” del Tuzii (fra i 17 e i 20 anni) a latere dei suoi studi universitari. Sulla formazione di Fiorelli vd. l’introduzione del nipote a. avena in fiorelli 1939.

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Barnabei diversi anni dopo: «Il Fiorelli, per esempio, sapeva il latino fino a un certo punto, ed era del tutto digiuno di greco»9.

Gli onori conseguiti in patria e all’estero con quel suo primo scritto mostrano, tutta-via, come una preparazione dilettantesca non venisse percepita quale limite insormonta-bile in un’epoca in cui l’archeologia stentava ancora a emanciparsi dall’antiquaria erudita di stampo settecentesco e, ben lungi dall’aver individuato un proprio metodo, guardava confusamente all’epigrafia, alla numismatica e alla filologia come gli strumenti cardine per l’interpretazione e la ricostruzione del passato. Nella Napoli della prima metà dell’Ot-tocento luoghi privilegiati per la discussione delle problematiche archeologiche non erano ancora la aule universitarie10 quanto piuttosto i locali della libreria Detken in piazza del Plebiscito (poi, dai primi del '900, rilevata dal padre di Werner Johannowsky che ci piace ricordare in questa sede), vicino ai portici di S. Francesco di Paola, che, più dei circoli letterari o di Accademie come quella Ercolanese, erano divenuti il punto d’incontro per gli intellettuali di tutta la provincia che vi convergevano per conoscere e farsi conoscere e per discutere le ultime novità editoriali italiane e straniere, giunte spesso su quei banchi dopo aver fortunosamente aggirato i rigidi controlli della censura borbonica11. Altro teatro

9 barnabei-delpino 1991, p. 88. La testimonianza di Barnabei contrasta con un lusinghiero giudizio con-seguito all’età di 9 anni e cit. in palumbo 1913, p. 3: «Don Giuseppe Fiorelli, di anni nove, appena iniziato nel Metodo [Poliglotto], all’apertura dell’Istituto [Fuoco] (1 gennaio 1832), ora è valorosissimo nell’italiano e nel latino. Col concorso del Quadro, non solo interpreta ogni frase classica, ma ponendovi senno, potrebbe interpreta-re ogni testo di lingua».

10 La prima cattedra di archeologia presso l’Università di Napoli venne istituita con decreto di Ferdinando I nel 1816 e affidata, in seguito a un concorso dagli esiti assai contestati, al giovanissimo Bernardo Quaranta (1796-1867) neolaureato in giurisprudenza, che la detenne ininterrottamente dal 1816 al 1860 (torraca et Al. 1924, pp. 536 s.; cerasuolo 1987, p. 23; rispoli 1987, pp. 506 ss.); la titolatura dell’insegnamento – Archeologia e Letteratura greca e, dal 1850, Lingua e Archeologia Greca - mostra tuttavia come il taglio tematico prevalente fos-se quello umanistico e filologico, sicché è possibile affermare che la prima vera e propria Cattedra di Archeologia dell’ateneo partenopeo sia stata quella istituita nel 1860 a opera del Ministro della Pubblica Istruzione Francesco De Sanctis e affidata a Giuseppe Fiorelli: vd. russo 1928, pp. 129 e ss.; adamo muscettola 1999. Sulle vicen-de relative all’istituzione delle prime cattedre di archeologia in Italia vd. catoni 1993; sull’Università di Napoli nell’800 vd. da ultimo tessitore 1997.

11 Sul ruolo della libreria Detken (fondata nel 1836 da Albert Detken, tedesco di Brema, titolare di un grande emporio librario in relazione commerciale con le più insigni librerie europee e americane) nel panora-ma intellettuale della Napoli borbonica si vedano ancora le Memorie di Barnabei: «Uno dei luoghi più repu-tati, in cui era possibile incontrarsi con i dotti che dimoravano a Napoli era la libreria del tedesco Alberto Detken, […] quasi un club dove convenivano giornalmente quanti si occupavano di antichità. […] Nella libre-ria Detken […] era possibile insomma mettersi al corrente di ogni novità. Il Fiorelli non vi mancava mai e la sua presenza era considerata una fortuna per molti di quelli che vi convenivano, specialmente se forestieri» (barnabei-delpino 1991, pp. 99 e 139 con bibl. alla nota 1 di p. 106; vd. inoltre croce 1929, pp. 264, 295-296, mascilli migliorini 1997, p. 28); a un incontro con Fiorelli nella libreria Detken dovette il suo destino anche Giulio De Petra, divenuto nel 1875 suo successore alla guida del Museo Archeologico di Napoli (scatozza höricht 1987, p. 881).

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di erudite discussioni era costituito dai salotti della nobiltà napoletana di antica e recente formazione, avida di ospitare nelle sue stanze gli studiosi più acclamati e, spesso, di inco-raggiarne le ricerche con atti di vero e proprio mecenatismo. A una di queste famiglie, in particolare, il giovane Fiorelli dovette non solo la sua introduzione nell’ambiente aristo-cratico napoletano ma anche la fortuna del suo brillante esordio, com’è possibile desumere dalla stessa dedica del suo primo scritto: «Al chiarissimo cavaliere D. Michele Santange-lo, membro della Reale Accademia ercolanese di archeologia e di altre società letterarie, insigne conoscitore d’ogni antico monumento». Un attestato di stima, quello di Fiorelli, che venne ben presto ricambiato con alti onori da parte del Ministro degli Interni Nicola Santangelo, fratello di Michele, il quale, nel 1844, lo nominò prima Ispettore addetto alla Soprintendenza Generale degli Scavi di Antichità di Napoli e, poi, nel 1847 Ispettore de’ R. Scavi di Pompei; a questi incarichi si era aggiunto nel 1848 quello altrettanto prestigio-so e impegnativo del riordino del medagliere del Real Museo Borbonico, al quale si era dedicato fino ad allora, con scarsi frutti, Francesco Maria Avellino, il più autorevole numi-smatico napoletano, direttore del museo e degli scavi del regno sin dal 1839.

Passione dilettantesca per l’antico e collezionismo sono, con le debite proporzioni, le matrici che accomunano l’esperienza di studiosi come Fiorelli e, prima ancora di lui, Arditi e Avellino con quella di celebri collezionisti come i Santangelo, in un’epoca in cui le raccolte di antichità erano una consuetudine vissuta più nel privato che nel pubblico e il concetto di tutela muoveva allora i suoi primi timidi passi nella legislazione dell’Italia preunitaria12. Non è un caso quindi che l’opera prima di Fiorelli traesse linfa dalla sua stessa collezione privata di monete e dalle primizie che aveva potuto osservare nelle rac-colte dei suoi illustri protettori, amici e, talvolta, “clienti”.

Le radici del collezionismo napoletano, numismatico e non solo, tuttavia, posso-no essere rintracciate in tempi ben più lontani e possono, per certi versi, coincidere con quella che è la storia del principale medagliere partenopeo, quello del Real Museo Bor-bonico, le cui vicende sono inestricabilmente avvinte alle stesse sorti del Regno e al cui riordino, come si è visto, Fiorelli aveva legato sin dalla prima giovinezza il suo nome.

gli studi numismatici e la “riscoperta” della mAgnA grAeCiA: il '500

È merito di Arnaldo Momigliano prima e di Carmine Ampolo poi13 avere evidenzia-to come la riscoperta della Magna Graecia e della realtà culturale che è sottesa a questa

12 Perfettamente condivisibile a tale proposito il lucido e sintetico giudizio espresso da Guzzo su Fiorelli e sul clima culturale dell’“archeologia vesuviana” del XIX secolo: «La sua formazione, quasi da autodidatta, rispecchia il clima angusto dell’antiquaria napoletana: e la sua febbrile ed appassionata attività pompeiana precostituisce l’autoreferenzialità di questa disciplina settoriale» (guzzo 1997, p. 57). Sulla legislazione dei beni culturali nel Regno delle Due Sicilie vd. dalla negra 1987, pp. 36-48 e d’alconzo 1999.

13 Vd. ampolo 1985, pp. 52 ss. con bibl. precedente a p. 370 e ampolo 2005b.

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entità topografica sia stata effettuata nella seconda metà del Cinquecento in opere incen-trate prevalentemente sulla documentazione numismatica come i Sicilia et Magna Grae-cia. Historiae urbium et populorum Graeciae, ex antiquis numismatibus liber I (Bruges 1579) dell’olandese Hubert Goltz (1526-1583)14, autore di diversi altri scritti di erudizio-ne antiquaria, o i Rariora magnae Graeciae numismata (Roma 1592), editi pochi anni dopo da Prosperus Parisius.

Sulla scia della riflessione storiografica umanistica15 – l’intuizione del valore testi-moniale delle monete risaliva infatti sino al Petrarca – e alla luce delle acquisizioni dei primi trattati di topografia storica del Biondo e dell’Alberti, oggetto di ulteriori perfezio-namenti da parte del Clüverius e dello Holstenius, le monete nelle opere del Goltzius e del Parisius, come in quelle della maggior parte degli eruditi del XVI e del XVII secolo, venivano considerate per la loro natura incorruttibile16, per la ripetitività dei tipi, per la diffusione e per le loro stesse analogie funzionali e concettuali con la monetazione con-temporanea, la principale base documentaria per la ricostruzione storica e sociale dell’an-tichità17. L’esame dei soggetti in esse ritratti fuso con l’interpretazione delle legende loro associate costituivano spesso la chiave di volta per l’individuazione dell’iconografia di un determinato personaggio (A. Fulvio, F. Orsini), l’identificazione di un monumento o per la ricostruzione di uno specifico episodio storico o leggendario fra quelli sovente raffigu-rati nelle emissioni di età repubblicana, così come le liste di “popoli e città” che potevano essere desunte dall’esame delle monete di “stile greco” ponevano le basi per una ricompo-sizione del panorama corografico del Mediterraneo antico. La decifrazione di tali “codici” costituiva tuttavia, molto spesso, un mero ed effimero esercizio di erudizione, pronto a essere costantemente scalzato in seguito a nuove acquisizioni o a più audaci e dotte elu-cubrazioni. La mancanza di sistematicità, la limitatezza delle sintesi e l’assenza di una puntuale riflessione critica potevano, inoltre, dar luogo a fantasiose quanto libere interpre-tazioni in virtù delle quali sembrava lecito ipotizzare una equazione diretta fra il soggetto raffigurato su una moneta e il suo contesto di rinvenimento.

Gli anni in cui il Goltzius e il Parisius delineavano le loro sintesi sono quelli in cui operava, al servizio del Cardinale Alessandro Farnese, come bibliotecario e consulen-

14 Opera che andava a completare i Graecia, sive historiae urbium et populorum Graeciae ex antiquis numi-smatibus restitutae libri quatuor (Bruges 1576) dando nel complesso l’idea di una grecità d’Occidente contrapposta a quella della madrepatria; instancabile viaggiatore, raccoglitore e compilatore il Goltzius, dopo le aspre critiche di Eckhel che aveva evidenziato l’elevatissimo numero di falsi contenuti nei suoi scritti, è stato riabilitato e corret-tamente inquadrato nella temperie coeva solo a partire dai primi del ‘900. Sul Goltzius vd. babelon 1901, coll. 102-105.

15 Sugli albori degli studi numismatici si vedano babelon 1901, coll. 89-135; panvini rosati 1980; giard 1980; la guardia 1984. Sul Petrarca numismatico: magnaguti 1907; panvini rosati 1970, p. 254.

16 e. spanheim, Dissertatio de praestantia et usu numismatum antiquorum, Roma 1664; schnapp 1994, pp. 162-164.

17 cantilena 2001, p. 13 ss.

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te di antichità, uno dei più celebri e influenti antiquari e numismatici del XVI secolo, Fulvio Orsini (1529-1600)18, artefice per conto dell’illustre prelato di uno dei più ricchi medaglieri d’Europa, espressione del gusto e delle tendenze del tempo e oggetto di pro-gressivi accrescimenti nel corso del secolo seguente all’epoca del suo trasferimento nella Galleria Ducale di Parma e fino alla sua confluenza, per lascito testamentario, fra i beni della dinastia dei Borbone, erede, tramite Elisabetta Farnese (1692-1766), dei possedi-menti e dei titoli farnesiani19.

dai farnese ai borbone: la “rinascita” dell’antico nella napoli di carlo iii

Ultima discendente dei duchi di Parma e Piacenza, Elisabetta Farnese, all’indomani dei trattati di Utrecht e Rastadt (1713-14) che, fra le altre cose, avevano stabilito l’an-nessione all’Austria del Regno di Napoli dopo secoli di dominazione iberica, era andata in moglie al re di Spagna Filippo V di Borbone (1683-1746), appena divenuto vedovo, al quale, nel 1716, avrebbe dato un discendente, Carlo (1716-88), destinato a ereditare, in quanto figlio di secondo letto, i soli titoli materni. Nota per la sua determinazione20, Elisabetta seppe con paziente astuzia orientare la politica spagnola verso l’Italia e costru-ire in tal modo il destino del figlio, divenuto, sotto la sua tutela e guida, prima duca di Parma e Piacenza (1731-34 col nome di Carlo I), poi re di Napoli (1734-59 col nome di Carlo VII) e, infine, coronando le aspirazioni materne, re di Spagna (1759-88) col nome di Carlo III (Fig. 4).

Una volta strappato il Regno di Napoli agli Austriaci nel 1734, Elisabetta dispose il trasferimento nella capitale partenopea di una parte delle ricche collezioni farnesia-

18 Autore nel 1570 delle Imagines et elogia virorum illustrium et eruditorum ex antiquis lapidibus et numi-smatibus expressa e nel 1577 delle Familiae Romanae quae reperiuntur in antiquis numismatibus ab Urbe condita ad tempore divi Augusti, per i suoi interessi nell’identificazione fisiognomica dei personaggi del passato veniva ritenuto da Ennio Quirino Visconti il “padre dell’iconografia antica” e uno dei pochi numismatici meritevole di essere preso in considerazione, secondo l’illustre giudizio di Bartolomeo Borghesi (nella dedica all’Aldini che apre la prima centuria delle sue Decadi: borghesi 1862-1897, vol. I, p. 136: «Ond’io mi protesto che di proposito non imprendo ad esaminare se non le opinioni dei cinque principali scrittori di questa serie, dell’Orsino cioè, del Pati-no, del Vaillant, dell’Avercampo e dell’Eckhel)». Sull’Orsini vd. da ultimi cellini 2004, carbonell manils, barreda pascual 2005 e la bibl. citata alla nota 15.

19 Sul Medagliere Farnesiano e il suo ruolo nello sviluppo degli studi numismatici vd., da ultima, cantilena 1995 e cantilena 2001, con bibl. prec.

20 È celeberrimo quanto ebbe ad affermare su di lei Federico II di Prussia detto il Grande: «Il cuore di un romano, la fierezza di uno spartano, la costanza di un inglese, l’astuzia di un italiano, la vivacità di un francese, formarono questa donna singolare. Ella cammina audacemente al compimento dei suoi disegni; non vi è cosa che sappia stupirla, niente che sappia fermarla». Su Elisabetta e, in generale, sui Farnese vd. drei 1954, nasalli rocca 1969 e Farnese 1995.

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ne conservate a Parma21, le quali vennero accolte provvisoriamente e in gran disor-dine nelle stanze del Palazzo Reale fino al loro trasferimento nella villa fatta costru-ire appositamente fra il 1738 e il 1759 sulla collina di Capodimonte22. Il Meda-gliere Farnesiano, oggetto prima del suo trasferimento a Napoli di innumerevoli studi e di una edizione parziale in dieci tomi23, seguì le stesse sorti del resto del-la collezione sebbene, per la sua fama e il suo interesse, fra il 1736 e il 1738, fosse oggetto di una risistemazione e provviso-ria esposizione a cura di Marcello Venuti e Bernardino Lolli24, per essere poi trasfe-

Fig. 4. carlo iii borbone (1716-1788). Dipinto di Anton Raphael Mengs, 1761 (Museo del Prado, Madrid).

21 Lo statuario farnesiano, invece, venne trasferito da Roma solo a opera del successore di Carlo III, Ferdi-nando I, a partire dal 1786, a cura del pittore Filippo Hackert e dell’antiquario Domenico Venuti: de franciscis 1963, pp. 36-39 e, da ultimo, gasparri 2007.

22 Sullo stato di disordine delle raccolte farnesiane al loro arrivo a Napoli vd. fittipaldi 1995, pp. 7 ss. Sul Palazzo Reale di Capodimonte: molaJoli 1961.

23 Dell’opera (intitolata I Cesari in oro […] raccolti nel Farnese Museo colle loro congrue interpretazioni), rimasta largamente incompleta ma da considerare senz’altro uno degli esempi più importanti di catalogo di una col-lezione numismatica fra quelli editi fra il XVII e il XVIII secolo, apparvero fra il 1694 e il 1721 i primi otto volumi a cura del gesuita Paolo Pedrusi, e, fra il 1724 e il 1727, i restanti due a cura di Pietro Piovene il quale, dedican-do il nono al Duca Francesco Farnese, scriveva significativamente: «L’inclito genitore di V.A. Ranuccio Secondo fu quello che col Museo Farnese e col Mondo fecesi un merito nuovo […] facendo pubblico un Tesoro che per tant’anni tenuto s’era racchiuso: e’l’fé in primo col disporlo alla veduta di tutti in bella serie, e poi rendendolo ancora più pubblico per via delle stampe».

24 Il Venuti (1700-1755), erudito e antiquario cortonese di chiara fama, aveva seguito a Napoli nel 1734 Carlo III il quale gli aveva affidato l’incarico di Soprintendente della Libreria Reale e del Museo Farnesiano, per poi rientrare in patria nel 1740 (sull’attività del Venuti a Napoli e su quella di suo figlio Domenico – 1745-1817; diret-tore della manifattura di porcellane di Capodimonte dal 1779 e Soprintendente Generale agli Scavi di Antichità del Regno dal 1784 al 1799 – vd. guerrieri 1979; d. gallo in barocchi, gallo 1985, pp. 53 ss.; strazzullo 1991; milanese 1996-97, pp. 349 ss. con bibl. alla nota 10; castorina 1996-97, pp. 311 ss. e, su Domenico, 315 ss.; d’alconzo 1999, p. 80, nota 25); il Lolli era stato soprintendente alla Galleria farnesiana e, dopo il suo tra-

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rito a Capodimonte sin dal 1758, anno in cui ebbe modo di esaminarlo e apprezzarlo Winckelmann25.

I venticinque anni di regno trascorsi a Napoli da Carlo III furono contraddistinti da una straordinaria messe di successi culturali oltre che militari. Particolarmente signifi-cativi furono quelli conseguiti in campo “archeologico”, in virtù dei quali, nell’arco di pochi decenni, cambiò radicalmente la percezione stessa dell’antichità e, conseguente-mente, quella dei processi interpretativi e cognitivi che ne caratterizzavano fino ad allora lo studio, come mostrano le prime teorizzazioni storico-artistiche di Winckelmann (che, già nel 1757, scriveva: «Mi studio di offrire un lavoro originale [la Geschichte der Kunst des Alterthums, pubblicata poi nel 1764], che tratti precipuamente dello stile delle opere degli antichi scultori egizii, etruschi, e greci […] Ho anche un’intenzione secondaria, che è quella di dare scacco matto allo studio dei meschinelli antiquarii di Roma […]

sferimento, dal 1738 conservatore delle preziosità del Regio Guardaroba (fittipaldi 1995, pp. 7 ss.). Sul primo allestimento del medagliere nelle sale del Palazzo Reale si veda la testimonianza di Charles de Brosses, presidente del Parlamento di Borgogna, che, dopo aver criticato i ritardi nella risistemazione delle collezioni, il 24/XI/1739, scriveva: «Il tutto è rimasto finora nel più completo disordine, e solo da poco comincia a trovare una sistemazione, a cura del signor Venuti, sovrintendente alle gallerie; è un gentiluomo fiorentino, molto esperto, soprattutto per quanto concerne le medaglie […] La raccolta della famiglia Farnese è una delle più belle e delle più complete che esistano in Europa. Mi ha affascinato specialmente il modo indovinato e razionale nel quale esse sono disposte, in grandi vetrine poco profonde, munite di inferriato e distese orizzontalmente su cavalletti. Le medaglie sono alline-ate in file orizzontali; sono infilate, o sembrano esserlo, in bacchette di rame, come pesciolini allo spiedo. Le due estremità degli spiedini terminano ai lati della vetrina entro fessure nelle quali è possibile farle girare; in questo modo è agevole, pur senza poter né toccare né rimuovere le medaglie, vederle con tutta comodità, da diritto e da rovescio, e anche tutti i rovesci di una stessa fila» (de brosses 1973, p. 248). Le “filze” di rame viste da de Bros-ses e descritte anche dai visitatori successivi costituiranno poi, durante il riordino curato dall’Avellino nell’800, l’indizio per distinguere le monete della raccolta farnesiana da quelle acquisite successivamente: milanese 1995, pp. 179 ss.

25 «Le medaglie sono disposte in venti gran tavoloni coperti di una stiaccia e sottil rete di rame. Tutte sono incastrate in bacchette di bronzo, le quali si voltano in modo che si può vedere il diritto e il rovescio. Le ho esami-nate, levatane la stiaccia, giornate intere» (J.J. wincKelmann, Lettera al consiglier Bianconi cit. in cantilena 1989, p. 72, nota 1 con bibl.; sulla visita a Capodimonte del Winckelmann vd. inoltre molaJoli 1961, p. 22 e cantilena 1995, pp. 147-148; su Winckelmann a Napoli vd. scatozza höricht 1987, pp. 815 ss., con bibl. alla nota 1). Nel 1708, come documenta un importante inventario (cantilena 1995, loc. cit.), il medagliere farne-siano contava più di 9000 esemplari ai quali, in seguito all’acquisto della collezione di N.J. Foucault nel 1724, se ne sarebbero aggiunti altri 8000, per un totale stimabile in oltre 17000 monete al momento del trasferimento a Napoli. Il trasloco dal Palazzo Reale e la loro risistemazione a Capodimonte vennero affidati al padre somasco Giovanni Maria Della Torre (1710-1782) – cultore delle scienze fisiche e mattematiche piuttosto che antiquario ma prediletto dal re perché le sue particolari competenze avrebbero potuto contribuire alla comprensione dei fenomeni vulcanici che avevano causato la distruzione delle città vesuviane – il quale diresse il Museo e la Quadreria farnesiana sino alla morte, coadiuvato negli ultimi anni dal padre Eustachio d’Afflitto che gli sarebbe poi succeduto rimanendo in carica fino al 1784. Su Della Torre vd. i cenni biografici contenuti nell’opera del Castaldi sull’Accademia Ercola-nese, della quale era accademico sin dall’anno della fondazione nel 1755: castaldi 1840, pp. 240-245.

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Di monete e di cose che non gettano molta luce sul progetto, che ho incominciato, non mi curo né punto né poco […]»26) e, fra la fine del XVIII e il principio del XIX secolo, l’esplosione del neoclassicismo come fenomeno culturale, artistico e di gusto27. Scoperte quali quelle di Ercolano, nota già dal 1710 ma oggetto di scavi regolari solo a partire dal 1738 per volontà del re, di Pompei nel 1748, di Stabia nel 1749 e della Villa dei Papiri indagata fra il 1750 e il 1761, avevano restituito di colpo “vitalità” all’antico e avevano posto con sorprendente efficacia l’accento sulle potenzialità dell’“archeologia” – intesa anche come attività di raccolta e registrazione dei dati sul campo28 – per la risoluzio-ne delle più disparate questioni interpretative legate alla ricostruzione storica e sociale dell’antichità, integrate criticamente con i dati delle discipline cardine dell’antiquaria: la filologia, la numismatica e l’epigrafia. I semi per lo sviluppo di una sensibilità che potremmo oggi definire “contestuale” erano stati piantati, ma i primi frutti avrebbero cominciato a essere colti solo nel secolo seguente; come rilevava Fausto Zevi nel 1980, quella degli scavi di Ercolano e Pompei è «una vicenda che, pur nelle molte occasioni perdute resta sempre la massima operazione dell’antiquaria del secolo, e, comunque la si riguardi, una delle tappe fondamentali dell’archeologia di ogni tempo»29.

La testimonianza del sorgere di una maggiore consapevolezza dell’importanza del dato contestuale lato sensu può tuttavia essere già colta dall’emanazione, nel 1755, del-le note prammatiche con le quali Carlo III fornì uno dei primi strumenti legislativi per la tutela delle antichità nell’Italia preunitaria. Attraverso queste, infatti, ponendo signi-ficative limitazioni al diritto di proprietà, si affermava il principio della conservazione nel luogo (o, per lo meno, nello Stato) di origine dei monumenti antichi30, un princi-pio che lo stesso re, con un gesto dal profondo significato simbolico, volle onorare, al momento della sua partenza per Madrid il 6 ottobre del 1759, sfilandosi dal dito l’anello pompeiano che era sempre solito portare per destinarlo alle raccolte di antichità ch’egli lasciava in Napoli, presso il Palazzo di Capodimonte e il Museo di Portici31. Come ha

26 J.J. wincKelmann, Lettera al sig. Genzmar a Stargard del 20/IX/1757, trad. di C. Fea in Opere, vol. IX, Prato 1832, pp. 227 s.

27 praz 1959; Knight 1995.28 Ne sono prova, ad esempio, le planimetrie realizzate dagli ingegneri Bardet e Weber, quest’ultimo, in par-

ticolare, noto per la sua “sensibilità archeologica”, spesso osteggiata da Gioacchino D’Alcubierre, direttore degli scavi.

29 zevi 1980, p. 58; su queste problematiche vd. inoltre zevi 1988, Ercolano 1993 e pagano 2005.30 Nota prammatica LVII: «Nessuna persona di qualunque stato, grado o condizione che sia, ardisca d’ora

in avanti di estrarre o fare estrarre, o per mare, o per terra, dalle Province del Regno per Paesi Esteri qualunque monumento antico […] senza che preceda l’espressa licenza di S. M., e ciò sotto la pena della perdita della roba che s’estrae e di tre anni di galea per gl’Ignobili, e d’anni tre di relegazione per li Nobili [..]». Sulle prammatiche del 1755, ispirate all’editto Valenti emanato nel 1750 nello Stato Pontificio, vd. fittipaldi 1995, pp. 25 ss.; d’alcon-zo 1995; d’alconzo 1999. Sul quadro legislativo preunitario vd. più in generale speroni 1988 e emiliani 1996.

31 L’anello in questione è l’inv. 25181 edito in breglia 1941, p. 75, n. 599 e p. 133, nota 26; siviero 1954, n. 436; Pompei 1976, cat. 49. Sulla vicenda e sull’anello vd. guzzo 1995 e d’alconzo 1995, pp. 75-76 con bibl.

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ben evidenziato Paola D’Alconzo e come rivela la stessa politica borbonica degli anni seguenti segnata da uno stridente contrasto fra aspirazioni illuministe e pretese assoluti-ste, quell’atto non era dettato da alcun fine pubblicistico, se non nel senso di una totale identificazione fra Stato e Monarchia che avrebbe permesso al suo successore di gestire le raccolte museali come una proprietà personale, assimilando all’asse ereditario di origi-ne farnesiana anche i nuclei aggregatisi a esso successivamente ed esercitandone il pos-sesso con modalità che, paradossalmente, ne avrebbero poi garantito, almeno in parte, la tutela e la salvaguardia32.

da carlo iii a ferdinando i: la “riscoperta” della mAgnA grAeCiA nel secolo dei lumi

Circondatosi di illustri eruditi e letterati provenienti dalle province del Regno e dal resto d’Italia e d’Europa, Carlo III, prima di lasciare Napoli nelle mani del piccolo Ferdi-nando IV (poi divenuto Ferdinando I; 1751-1825) che avrebbe proseguito la politica pater-na sotto la guida illuminata del ministro Bernardo Tanucci (1698-1783; toscano, discepo-lo di L.A. Muratori e maestro a sua volta dei fratelli Venuti, giunto a Napoli col re nel 1734 al momento del suo insediamento), aveva posto le basi per una rinascita intellettuale, artistica e architettonica della città ispirata a quei presupposti culturali e razionalisti propri dell’incipiente illuminismo. A tal fine, la riscoperta dell’antico doveva essere accompa-gnata da adeguate pubblicazioni che, attraverso sontuosi apparati iconografici – espressio-ne del gusto e dell’estro del tempo, sulla scorta di opere come L’antiquité expliquée del Montfaucon pubblicata nel 172233 – ne illustrassero i risultati per maggior gloria del re, piuttosto che per il semplice compiacimento degli appassionati e degli antiquari, dato che volumi come Le antichità di Ercolano esposte (apparse fra il 1757 e il 1792) erano stati concepiti per essere offerti quale dono esclusivo ai principali sovrani e dignitari d’Europa, venendo meno a qualsivoglia intento divulgativo34. Le stesse contraddizioni connotavano,

32 d’alconzo 1999, passim e, in particolare, pp. 135-136; sul carattere “allodiale” (e, quindi, privato) delle collezioni borboniche, sancito dal Decreto con il quale, all’epoca della seconda Restaurazione il 22/II/1816, veniva istituito il Reale Museo Borbonico, vd. la chiara sintesi di milanese 1995.

33 schnapp 1994, pp. 208 ss.34 Su queste problematiche vd. diffusamente zevi 1980, id. 1981, id. 1988, d’alconzo 1999, pp. 33-34,

nota 8, e i vari contributi editi in Vesuvio 1998 (vd. in particolare gli articoli di a. castorina e f. zevi, e. chiosi e A. d’iorio, h. eristov). Scriveva a tale proposito l’abate Galiani al ministro Tanucci lamentando le modalità selettive di distribuzione dell’opera: «A dirla schietta, giacchè questo libro non si vende, a me pare che meglio si darebbe a chi ci ha reso servigio, può rendercene molti altri e che lo intende, che non a tanti Celti, Vandali, Breto-ni ignoranti, che non ci hanno reso servizio alcuno» (cit. in Knight 1995, p. 154, con rif.). Su Ferdinando Galiani (1728-1787) vd. s. de maJo, s.v., in DBI 1998, vol. LI e foraboschi 1990, con bibl.; membro dell’Accademia dal 1755 e ambasciatore del Regno di Napoli a Parigi fra il 1759 e il 1769, economista ante litteram, fu tra i primi a occuparsi della moneta antica in una prospettiva storico-economica, dandone prova in una dissertazione giovanile rimasta a lungo inedita Sullo stato della moneta ai tempi della guerra Trojana per quanto ritraesi dal Poema di

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almeno in parte, le raccolte museali fatte allestire nel Museo Ercolanense35 – realizzato, a partire dal 1750, in un’ala del Palazzo Reale di Portici al fine di accogliere le antichità delle città vesuviane e rimasto in uso fino al 1799, anno in cui i materiali che ornavano le sue 18 sale vennero provvisoriamente trasferiti a Palermo – e nel palazzo di Capodimonte, alle quali si poteva accedere con modalità molto restrittive che, oltre a calmierare il numero dei visitatori, prevedevano limitazioni anche alla possibilità di prendere appunti o trarre schizzi degli oggetti esposti36, cosa che destò non poca indignazione fra gli antiquari e gli appassionati del tempo, vista la sostanziale inaccessibilità delle pubblicazioni finanziate dal re, la snervante lentezza della loro stampa e la crescente curiosità dell’opinione pubblica. Per far fronte alle critiche e accelerare l’opera di edizione – che, nel 1747, era stata affidata per “simpatie politiche” a Ottavio Antonio Bayardi37 – Carlo III istituì, nel 1755, lo stesso anno delle prammatiche, la Regale Accademia Ercolanese38, chiamando a farne parte quin-dici fra i più noti e apprezzati studiosi nel campo delle scienze antiquarie e non solo, desti-nati a essere sostituiti solo dopo la loro morte. Fra questi, oltre a personaggi come il Padre somasco Della Torre, responsabile delle raccolte farnesiane di Capodimonte, o lo Zarrillo, suo successore, figuravano eruditi del livello di Alessio Simmaco Mazzocchi (1684-1771) (Fig. 5), prelato capuano, principale artefice, attraverso gli scritti e le riflessioni teoriche che avevano seguito il ritrovamento nel 1732 delle Tabulae Heracleenses39, della risco-perta della grecità d’Occidente, nonché responsabile, per quel che concerneva qualunque monumento di antichità (eccetto i dipinti e le sculture affidate, rispettivamente, a G. Bonito e J. Canart, non a caso un pittore e uno scultore), del rilascio della “licenza” per “l’estrazio-ne”, come stabilito nella prammatica LVIII che lo definiva «uomo dotato non solamente di somma perizia in sì fatte cose, ma anche di una gran probità, ed onoratezza»40. Grazie ai Commentarii del Mazzocchi, infatti, ai tesori della romanità delle città vesuviane venivano

Omero, letta nell’Accademia degli Emuli nel 1748 e poi parzialmente confluita, nel 1750-51, nel suo celebre tratta-to Della moneta.

35 Sul Museo di Portici vd. allroggen-bedel, Kammerer-grothaus 1983; fittipaldi 1995, pp. 18 ss.; cantilena 2008; per l’originario allestimento del Museo vd. le testimonianze dei viaggiatori francesi raccolte in grell 1982, pp. 123-167 e quella del toscano Puccini del 1783, in ferri missano 1995.

36 scatozza höricht 1987, pp. 819-820.37 maiuri 1937, p. 42.38 Sulle origini e i “limiti” dell’Accademia vd. d’alconzo 1995, pp. 38 e ss., con rif. alle note 10 e 13 e la

bibl. supra cit. alle note 25 e 34. 39 Sulla loro scoperta e il significato culturale dell’edizione curata dal Mazzocchi (Commentarii in Regii

Hercolanensis Musei Aeneas Tabulas Heracleenses, Neapoli 1754-55, ma diffusa solo a partire dal 1758) vd. ampolo 1985, pp. 58 e ss. e, da ultimo, id. 2005a, con bibl. prec. Sul Mazzocchi, in generale, borraro 1979 e ceserani 2007; come molti altri eruditi e notabili contemporanei Mazzocchi possedeva un pregevol museo numismatico che donò al re Ferdinando I e che dovette confluire nelle raccolte del Real Museo (giustiniani 1797-1816, vol. 6, p. 356).

40 d’alconzo 1999, p. 146, app. 4.

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ad affiancarsi i fasti di quella Megale Hellas che, agli occhi degli intellettuali napoletani del Settecento, più di Roma, costituiva il modello culturale e artistico del quale il neonato Regno di Napoli retto da Carlo III (al quale, nello stesso 1734, era andata ricongiungendosi anche la Sicilia) poteva e doveva sentirsi erede, non solo intellettuale, ma anche politico.

L’ampia Diatriba de Magnae Graeciae contenuta nel I volume dei Commentarii costituiva, in tal senso, il primo esempio moderno di trattazione sistematica delle pro-blematiche storico-antiquarie della Magna Grecia. Esse, infatti, venivano approfondite mediante il confronto di tutte le fonti disponibili, letterarie, numismatiche, epigrafiche e, più latamente, archeologiche, e sottoposte a un approfondito vaglio critico, secondo i migliori dettami della storiografia e dell’antiquaria contemporanee – discipline affinate e traghettate nell’illuminismo grazie all’opera di studiosi come G.B. Vico (1668-1744), L.A. Muratori (1672-1750) e S. Maffei (1675-1755) – sul quale, tuttavia, pesava ancora l’ingombrante fardello delle ricostruzioni storiche veterotestamentarie che, riconducendo

Fig. 5. alessio simmaco mazzocchi (1684-1771). Monumento funebre, Cappella di Santa Restituta, Duomo di Napoli (foto v. nizzo).

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l’esperienza umana a una fittizia unità postdiluviana, rendevano legittime le più astruse e velleitarie comparazioni linguistiche.

Le tesi del Mazzocchi proponevano una nuova interpretazione in chiave pitagorica del concetto stesso di Magna Grecia, le cui origini venivano fatte risalire non alla vastità dei territori ma alla doctrinarum magnitudine che avrebbe contraddistinto quelle terre prima dell’arrivo dei Romani, una teorizzazione, quest’ultima, che, sottintendendo piut-tosto esplicitamente un parallelismo con la fioritura intellettuale della Napoli contempo-ranea, poneva i presupposti letterari e concettuali che sono alle fondamenta del Platone in Italia di Vincenzo Cuoco (1770-1823), pubblicato nel 1804, quando, fra le alterne vicende delle conquiste napoleoniche assimilate a quelle dei Romani, venivano gettati i primi semi dei futuri sentimenti risorgimentali e si diffondeva la coscienza di quella pre-sunta superiorità culturale dell’Italia pre-romana sostenuta già da Vico quasi un secolo prima (de antiquissima Italorum sapientia)41.

La riscoperta letteraria e filosofica della Magna Grecia era accompagnata da quella dei suoi straordinari monumenti che, per la prima volta, venivano inclusi negli itinerari del Grand Tour42, come avvenne nel caso dei templi di Paestum43, visitati da Winckel-mann nel 1758 e oggetto di illustrazione nei più celebri resoconti di viaggio dell’epoca come il Voyage pittoresque del Saint-Non (Paris 1781-1786) o nelle stampe dei Piranesi e del Guattani.

alle radici del collezionismo antiquario napoletano del '700: dalla raccolta del duca di noJa alla nascita del reAl museo

Il fervore culturale della Napoli carolina, nonostante le pretese accentratrici dei Bor-bone e le ricordate prammatiche, da un lato aveva dato notevole impulso alla fioritura di collezioni private fra gli aristocratici del Regno, bramosi di emulare il loro re, e, dall’altro, aveva ravvivato il mercato antiquario partenopeo, facendo convergere a Napoli commer-cianti e collezionisti di tutta Europa bramosi di intraprendere scavi per proprio conto e di formare raccolte di antichità da esibire in patria, cosa che fece lievitare notevolmente il loro prezzo, come lamentava, fra gli altri, Goethe nel 178744. Fra i più celebri collezionisti

41 cerasuolo 1987a; tessitore 1997, p. 60.42 Grand Tour 1997.43 Sulla riscoperta di Paestum vd. pontrandolfo 1996, cipriani, avagliano 2005. 44 «Si pagano adesso grandi somme per i vasi etruschi e certamente vi sono fra questi dei belli e magnifici

esemplari. Non c’è forestiero, che non ami possederne qualcuno»: dal Viaggio in Italia di J. W. Goethe, 9/III/1787, cit. in porzio, causa picone 1983, p. 76; vd. inoltre ibid. gli schizzi autografi del Goethe raffiguranti i dettagli di alcune monete riprodotti a p. 75 (n. 54) e a p. 77 (nn. 58-59), a riprova degli interessi antiquari e numismatici del letterato di Weimar di cui vi sono molte testimonianze anche nella sua corrispondenza: «[…] oggi siamo stati […] a Capodimonte dov’è una grande collezione di quadri, di medaglie, ecc.; non è ben disposta, ma vi sono oggetti

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del tempo figura notoriamente W. Hamilton (1731-1803) (Fig. 6) che, nei circa quarant’an-ni in cui fu ambasciatore di sua maestà britannica a Napoli (dal 1764), fu in grado di rac-cogliere due distinte collezioni, la prima, oggetto – sul modello delle Antichità di Ercolano – di una prestigiosa edizione in 4 volumi illustrati da d’Hancarville fra il 1766-6745, vendu-ta nel 1772 al British Museum e, la seconda, messa insieme fra il 1789 e il 1791, anch’es-sa documentata in una prestigiosa, sebbene graficamente più modesta, edizione (1791-95) con le tavole di Wilhelm Tischbein (1751-1829), rivelatasi poi particolarmente preziosa in seguito al naufragio della raccolta durante il suo trasporto in Inghilterra nel 179846.

Una descrizione interessante delle condizioni del collezionismo napoletano nei pri-mi anni di regno di Carlo III ci è offerta da un “testimone esterno” ma, grazie alla sua fervida attività epistolare47, molto ben informato sui fatti, il fiorentino Anton Francesco

di valore […] Tutto ciò che ci arriva nel Nord alla spicciolata, monete, gemme, vasi, come anche i mezzi alberi di limone, fanno in massa ben altro effetto qui, ove cotesti tesori sono indigeni: presso di noi la rarità dei lavori d’arte fa loro acquistare maggior pregio; qui invece non s’impara a stimare se non l’ottimo» (goethe 1987, p. 33). L’aumento della richiesta di “vasi etruschi” e, conseguentemente, anche quello del loro prezzo, risaliva già alla metà del secolo, come testimonia la corrispondenza del Gori (masci 2003, p. 137). Una vivida testimonian-za dei meccanismi e delle “insidie” del mercato antiquario partenopeo (e, in particolare, di quello numismatico) dell’ultimo quarto del XVIII secolo è offerta dal carteggio di Alberto Fortis (1741-1803), naturalista e geologo patavino attivo a Napoli per circa un ventennio sino al 1793, recentemente valorizzato in toscano 2004 ed ead. 2006, pp. 134 ss., dal quale si desume come anche il celebre Melchiorre Delfico (1744-1835; autore, fra le altre cose, dell’opera Dell’antica Numismatica della città di Atri nel Piceno…, Teramo 1824) possedesse la più bella e scelta collezione d’urbiche che si possa vedere a Napoli (lettera di Fortis a Tommaso degli Obizzi – collezionista patavino, per conto del quale effettuava acquisti di antichità e, in particolare, di monete – Napoli 6/VII/1790, cit. in toscano 2006, p. 154), raccolta che, in seguito agli eventi che ne causarono la fuga da Napoli dopo i fatti del 1799, gli venne derubata al momento dell’imbarco da Pescara (sul Delfico collezionista vd. da ultimo marino 2005). A riprova della diffusione anche nelle parti più remote del Regno dei rudimenti della cultura antiquaria è significativo quanto scriveva Fortis all’Obizzi il 6/XI/1790 da Molfetta, durante una delle sue “escursioni mone-tarie”, asserendo che «non v’è più un angolo del Regno dove si possa pescare coglioni in fatto d’anticaglie! Tutti mandano a Napoli, e mandano anche le bazzecole» (ibid., p. 162); il 22/XI da Terlizzi aggiungeva: «Non potete immaginarvi quale furore nummario sia entrato per tutte le province» (ibid., p. 163), un “furore” che, a suo dire, era stato alimentato «per le mattìe degl’Inglesi, e Furlocchi» (Fortis all’Obizzi, 11/XII da Terlizzi, ibid., p. 164).

45 d’hancarville 2004.46 Sull’attività collezionistica di Hamilton, spesso segnata da episodi incresciosi quali, nel 1787, la ricetta-

zione di reperti trafugati dal Reale Museo di Portici (d’alconzo 1999, pp. 65-67, p. 80, nota 28), vd. da ultimi: Knight 1990, JenKins, sloan 1996, castorina 1996-97; s. schutze in d’hancarville 2004 e milanese, de caro 2005. Fra i materiali della prima collezione Hamilton figuravano ca. 6000 monete antiche: babelon 1901, col. 186. Fra le raccolte acquisite da Hamilton vi era anche quella del Conte Grassi di Pianura (vd. avanti alla nota 50).

47 I carteggi e i manoscritti goriani, conservati nella biblioteca Marucelliana di Firenze, sono stati oggetto negli ultimi anni di studi monografici e accurate (sebbene ancora parziali) edizioni, che hanno messo in luce la fitta trama di contatti costruita da Gori nei suoi lunghi anni di attività, restituendo uno spaccato dell’antiquaria settecen-tesca di straordinaria importanza: masci 2003; de benedictis, marzi 2004; gambaro 2008.

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Gori (1691-1757), autore di alcune delle più celebri opere dell’antiquaria dell’epo-ca (fra le quali merita di essere ricordato il Museum Florentinum, Firenze 1740-1742, uno dei più importanti scritti catalogici dell’erudizione settecentesca italiana, il cui primo volume era dedicato alle raccol-te numismatiche medicee48), il quale, nel 1742, scriveva:

«Facendo ora passaggio ad accennare le Gallerie Napolitane, merita il primo onore di essere rammentata con la più singolar lode, la Regia. Pieno di Vasi Etruschi49 di ogni gene-re è il museo del Sig. Don Felice Mastrilli, assai ben fornito d’Idoli scavati nel Sannio. Né dissomigliante è quello del signor Con-sigliero Porcinaro, che è il più compito di quanti ne siano in quella Metropoli. Succede a questi quello del Sig. Francesco Enrigo de’ Grassi, conte di Pianura, e del dottissimo Sig. Matteo Egizio, Bibliotecario di Sua Maestà; e del nobile Sig. Del Tufo. La Biblioteca dei PP. Teatini a’ SS. Apostoli, è ornata intorno di moltissimi Vasi Etruschi, in questa passati per eredità del celebre Valletta […]. Non vi è poi Palazzo in Napoli di alcun gran Signore,

in cui per ornamento delle stanze, degli appartamenti non si vedano Vasi Dipinti, e di ottima simmetria e lucentezza»50.

Fig. 6. william hamilton (1731-1803). Dipinto di Pompeo Batoni, 1778 (Museo del Prado, Madrid).

48 Sul Gori numismatico vd. babelon 1901, col. 167; panvini rosati 1970, p. 257; panvini rosati 1980, p. 288.

49 Sull’origine dei vasi figurati Gori intrattenne una vivace polemica con gli antiquari napoletani – in parti-colare con Matteo Egizio (1674-1745; sul quale vd. m. ceresa, s.v., in DBI 1993, vol. XLII, con bibl.) che, il 29/III/1739, gli scriveva: «vengo a’ vasi, che chiamansi Etruschi […] in un di essi leggeasi di quadrato e legittimo carattere Greco […] argomento che gli artefici fussero stati Greci, e non Etruschi. Dalla gran copia, che se ne ritruova in varie parti della campagna Felice di qui conghiettavamo che i nostri antichi ne mandavano in Toscana, e non più lo contrario» – i quali da tempo sostenevano una loro origine greca a scapito di quella etrusca per la qua-le “parteggiavano”, con evidenti intenti campanilistici, gli studiosi dalla “scuola toscana”. Su queste problematiche vd. diffusamente masci 2003, pp. 53-63; gambaro 2008, pp. 21-22.

50 gori 1742, p. CCXLV s. Per una rassegna delle principali collezioni di antichità napoletane del XVII e XVIII sec. vd. inoltre giustiniani 1797-1816, vol. 6 (1803), pp. 353-357 (con menzione delle raccolte del duca di Sora, dei marchesi di Grottole e Montorio, di G.B. Manso marchese di Villa, di G.B. della Porta, di F. Imperato e F. Picchiatti, del card. F. Buoncompagno, dei principi di Monetemiletta, della Rocca e di Conca, di Francesco Errico

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Fra i protagonisti della vita culturale della Napoli carolina – omesso dal Gori poiché si dedicò all’antiquaria e al collezionismo solo dopo il 1744 – va senza dubbio incluso Giovanni Carafa Duca di Noja (1715-1768), le cui raccolte, ancora oggi malnote, ven-nero inglobate fra quelle borboniche pochi anni dopo la sua morte, nel gennaio del 1771, grazie all’interessamento di Camillo Paderni e del Ministro Tanucci51. Originario di una delle più illustri famiglie della Terra di Bari, Giovanni Carafa si distinse in occasione della guerra di Velletri (1744) guidando, col grado di colonnello, un reggimento di fan-teria reclutato nelle sue terre d’origine; per tali meriti venne incluso (1747) fra i Genti-luomini di Camera di Carlo III, ossia nella cerchia di aristocratici più vicina al re, cosa che gli permise di tornare a coltivare i suoi interessi eruditi che, come per altri studiosi dell’epoca52, spaziavano dalle scienze naturali e matematiche – dal 1738 era lettore d’ot-

Crasso [scil. Grassi], di A.S. Mazzocchi, del barone Ronchi, dei PP. Domenicani di S. Caterina a Formello – andata dispersa in seguito agli eventi del 1799 – e di M. Egizio). Sul collezionismo settecentesco napoletano vd. hasKell 1980, castorina 1996-97, masci 2003, pp. 11-14 e pp. 129 ss. con ampia bibl., rao 2007 e, in generale, cese-rani, milanese 2007; sul “Museo Mastrilli” vd. lyons 1992; sulla collezione Valletta, formatasi a partire dalla fine del '600, vd. masci 1999; sulla collezione di Francesco Grassi (1685-1762; accademico Ercolanese dal 1755), conte di Pianura, costituita in particolare da un ricco medagliere assai lodato dal Mazzocchi, vd. castaldi 1840, pp. 166-168: «formò una speciosa biblioteca ed un pregevole museo numismatico ricco benanche di altre antica-glie […] Nel suo palazzo baronale di Pianura raccolse anche delle inscrizioni antiche in marmo […]. [Dopo la sua morte] del suo museo fece acquisto il cavaliere Hamilton». Per la collezione Picchiatti, dispersa già alla fine del '600, vd. la nota 91. Prima del XVII secolo non sono note a Napoli significative raccolte di antichità e, in partico-lare, numismatiche a eccezione di quella messa insieme da Alfonso d’Aragona durante il suo regno (1442-1458), nella quale erano comprese monete greche e romane (babelon 1901, coll. 86-87) e di quella raccolta dal suo consigliere, Diomede Carafa (1406 ca.-1487) nel palazzo che porta oggi il suo nome e che, nel 1813, passò ai San-tangelo (vd. avanti), nella quale, tuttavia, non sembra figurasse un medagliere (persico 1899, pp. 88 s.; milanese 1996, p. 171 e p. 178, nota 6 con bibl.).

51 Lettera di B. Tanucci a Carlo III dell’8/I/1771 cit. in d’alconzo 1999, p. 57, nota 58: «[…] Finalmente dopo tante difficoltà sull’apprezzo del Museo del Duca di Noja suscitate da quell’Ancarville Lorenese mercante d’Antichità [P.-F. H. d’Hancarville, 1719-1805, sul quale vd. la bibl. cit. alla nota 46], e avventuriere sfrattato da molti Stati, che Kaunitz introdusse con G. Duca, Cavalcanti, e Canisio Deputati del Re han riferito il consenso di Noja all’apprezzo antico con qualche piccola mutazione, per la quale il prezzo non passa molto li 12mila duc. […]». Sul Carafa vd. u. baldini, s.v., in DBI 1976, vol. XIX, con bibl. prec. cui adde villarosa 1834, vol. II, pp. 56-62, bevilacqua 1995, sforza 2005. La biografia del Carafa, secondo l’impostazione data ai suoi Ritratti da C.A. da Rosa (Marchese di Villarosa), era introdotta da un sonetto che merita di essere riportato: «Ne’ degni studj del felice ingegno \ spiegò costui il ben temprato acume; \ del ver nel calle al desiato segno \ Lui scorse di Matesi il chiaro lume.\ Indi all’invito del guerriero Nume \ altro volse nel cor nobil disegno \ e seguendo degli Avi il bel costume \ diè armati od armi al minacciato Regno. \ Alfin nell’alta antichità s’immerse, \ e ogni raro Cimelio appien pregiato \ prodigo all’occhio indagatore offerse. \ E vi sarà chi più maligno o folle \ dica che in nobil cuna un uom già nato \ in ozio viva neghittoso e molle?».

52 Si veda, ad esempio, il caso del padre Della Torre cit. supra alla nota 25 o quelli del Capecelatro e del Minervino cit. avanti alla nota 92; lo stesso Hamilton, come noto, costituisce un luminoso esempio di tale comunio-ne di interessi; su queste problematiche vd. da ultima toscano 2007.

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tica e matematica nell’Università di Napoli – all’antiquaria. Assecondando il suo estro enciclopedico, il Carafa mise insieme una raccolta che, a imitazione delle wunderkam-mern seicentesche, coniugava le “cose naturali” con le antichità, per raccogliere le quali aveva girato tutta Europa ed era entrato in contatto con i maggiori intellettuali del tempo, come ricordava il Marchese di Villarosa:

«Finita la guerra […] si invogliò di mettere in ordine un museo di produzioni terrestri e marittime. Ma qual ne fosse la cagione, abbandonato il pensier delle cose naturali, si vol-se ad ordinare un museo di antichità riguardanti specialmente il nostro Regno. […] Ebbe il contento di vedere appena nato, assai presto cresciuto un museo pieno di cose singolarissime contenente una raccolta di più migliaia di medaglie le quali recarono molta luce a parecchie cose state fino a quei dì oscure qual fu la scoperta di esservi state 25 altre città nel Regno oltre le conosciute nella Storia antica che avevano il dritto di batter moneta. Ed eran degne di attenzione in questo museo alcune pitture etrusche fatte a fresco conservate meraviglio-samente53, rarissimi mosaici di grandissimo valore, molti bronzi ed infinite gemme54 delle quali 900 annulari, quantità di vasi italo greci delle più belle forme, molti originali marmi ed inscrizioni Greche e Latine55, lucerne moltissime, statue e bassi rilievi tutte cose degne di ammirazione e di studio agli amatori dell’archeologia. Oltre di tutto ciò, si ammirava quivi uno strabocchevole numero di stampe de più valenti incisori Italiani e d’Oltremonti, gran quantità di disegni originali di famosi professori ed una bellissima raccolta di quadri di insi-gni dipintori […]. Da per tutto ricevè quelle significazioni di onore dovute alla sua celebrità e ciò non solo da letterati che conobbe fra quali si contano il Buffon, il Conte di Chailus, il Prevosto Gori, il Marchese Maffei, il Voltaire, M. Pellerein, il Prevosto Venuti, il Dr. Lami, M. Preslein, Pietro Musckembroech […]. Fu cosi grande la fama del di lui sapere e del suo dovizioso museo che i colti stranieri che qua venivano eran solleciti di visitarlo e nel partirne eran costretti dire che niuna più singolar gemma o più preziosa poteva ivi essere osservata, di quel che fosse il padrone medesimo lauto, mostravasi cortese ed affettuoso con tutti».

53 Da identificare con quelle a lungo considerate pestane ma di provenienza nolana oggi conservate nel Museo Archeologico di Napoli: JenKins 1996 e la scheda di v. sampaolo, in Napoli 1996, pp. 252-254, cat. 17.1-4.

54 Alcune delle quali poi cedute all’Hamilton: JenKins, sloan 1996, pp. 203-206, nn. 93-106.55 Sulla raccolta di iscrizioni, anch’essa entrata nelle collezioni borboniche, vd. gervasio 1856, pp. 11-12:

«Non saprei dire con accerto quando e come passarono nel Real museo i marmi letterati che aveva nel suo palagio raccolti il Duca di Noja D. Giovanni Carafa signore napoletano, nel quale non saprebbesi che più ammirare se l’ardore per lo studio delle antichità e specialmente della numismatica, ovvero l’amore per riunire a buon dato antichi monumenti, e farne generosamente copia a letterati che frequentavano la sua dotta conversazione, servendo in tal modo al progresso della scienza. Dopo l’immatura sua morte […] la sua raccolta di anticaglie d’ogni genere, nella quale distinguevasi quella de’ marmi letterati, dovette esser acquistata pel Real museo, ove sono i detti mar-mi, e ve n’ha qualcuno ch’è ancor segnato col nome dell’antico possessore. Questi marmi del Duca di Noja sono i ruderi di quei ch’esistevano una volta ne’ palagi e nelle ville di alcune famiglie magnatizie e doviziose di Napoli, e ve n’ha taluno che appartenne già alla raccolta di Adriano Guglielmo Spatafora, e molti ancor ve ne hanno di quei che avevano riuniti i signori Maza nobili Salernitani nell’amena villa di loro proprietà a Mergellina».

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Come mostra il brano citato, Carafa affiancò sempre all’attività di raccolta un’at-tenta riflessione teorica dandone prova in diversi scritti, fra i quali ne vennero editi solo alcuni incentrati su tematiche scientifiche. La morte prematura e l’impegno e le spese profuse per la realizzazione della Carta Topografica della città di Napoli (Fig. 7) – l’opera più importante alla quale è legato il suo nome, apparsa postuma nel 1775, dopo la cessione della collezione di antichità ai Borbone compiuta dal figlio Pompeo per estin-guere i debiti contratti dal padre nell’impresa – gli impedirono di dare alle stampe alcuni suoi scritti antiquari andati dispersi dopo la sua morte, fra i quali figurava un Libro delle monete del Regno56 contenente il catalogo della sua collezione numismatica, nel quale, secondo quanto testimoniano diversi autori, avrebbe identificato 25 nuove zecche di città della Magna Grecia, oltre quelle già note57.

L’intuito del Duca di Noja non si manifestò soltanto nella ricerca scientifica e anti-quaria ma traspare con chiarezza anche in un brano della sua Lettera ad un amico…, pubblicata anonimamente nel 1750, nel quale, elencando ciò che mancava a Napoli per farne una città europea, sembra anticipare sulla carta le linee guida della politica cultura-le perseguita e, in parte realizzata, da Carlo III e, poi, da Ferdinando I:

«Ma la nostra città […], ha presentemente più d’alcuna città grande d’Europa necessità d’essere riordinata ed a un migliore stato ridotta. Mancano in essa […] le abitazioni de’ principi reali, colle loro corti distinte e separate, edifizj ove possa riporsi il nobilissimo Museo Farnese, colle singolari meravigliose pitture, ed antichità dissotterrate, altri in cui siano le macchine Fisiche, ed Astronomiche, l’Osservatorio Celeste, l’Orto de’ Semplici, il

56 L’opera viene menzionata con questo titolo da Origlia nel 1754 (g. origlia, Istoria dello studio di Napoli, vol. 2, p. 295), anno in cui, stando a quest’ultimo, doveva già trovarsi sotto torchio. Qualche dato in più lo si può dedurre da A. Gervasio (gervasio 1856, p. 11, nota 1) che, nel 1856, affermava che «conservasi ancora presso l’egregio mio amico D. Scipione Volpicella il Catalogo del medagliere posseduto dal Carafa in 4 volumi fol. dallo stesso compilato», opera da identificare plausibilmente con quella menzionata da Origlia e nota anche ad altri auto-ri. Gervasio (loc. cit.) menziona inoltre un altro scritto del Carafa Sull’arte figulina degli antichi che incominciossi a pubblicare nella Stamperia Reale colla stessa magnificenza che i volumi delle Antichità di Ercolano. Presso il cav. Francesco Carelli già Segretario perpetuo della Reale Accademia Ercolanese io vidi anni sono alcuni fogli di detta opera che giungevano fino al 4 Capitolo. L’unica opera edita sulla collezione Carafa (f. daniele, Spiegazio-ne di alcuni monumenti del Museo Carafa, Napoli 1778) risultava di difficile reperimento già per Fiorelli che scri-veva (fiorelli 1864, p. 118, nota 1): «Mancano affatto le notizie riguardanti il medagliere posseduto dal Duca di Noia […] quantunque siavi una descrizione di quella raccolta scritta dal Daniele […] tirata a soli dodici [tredici in gervasio 1856] esemplari […]. Mi è noto peraltro che quel libro, consistente di sole 8 pagine numerate e 40 tavole, oltre una grande maschera scenica impressa sul titolo, ed il ritratto in rame del Carafa inciso dall’Aloja, non contiene alcuna descrizione di monete, ma bensì la dichiarazione dei monumenti espressi nelle tavole, cioè più figurine, amuleti, mattoni con bolli, frutta e fiori di terracotta, vasi greci dipinti, otto gemme, due bassirilievi mar-morei, due statuette, un vaso ed una mano pantea di bronzo, ed un musaico esprimente Teseo ed il Minotauro».

57 Vd. quanto scriveva al riguardo giustiniani 1797-1816, vol. 6, pp. 354-5 riportando il testo di una lettera del Carafa (la porzione di seguito sottolineata): «Il nostro Gio. Caraffa Duca di Noia raccolse pure un ricco museo

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Teatro Anatomico, il Museo delle rarità naturali, il Serraglio degli animali, edifizj, che niuna delle Città, anche mezzanamente ricche, purché culte siano, non mancano, in Napoli restano ancora da fare […]»58.

di pregevolissime medaglie. In una lettera da lui diretta a Gio. Bernardino Tafuri colla data di Napoli 10 Aprile 1756 leggesi che avea l’idea di formare il medagliere del solo nostro Regno di Napoli, rapportando qualunque sorta di moneta, o medaglia, che avessero nominate i nostri primi Padri abitatori di questo Regno, loro colonie, città, e Repubbliche, cominciando dall’Etrusche, Greche, Latine, ed infino al nostro tempo, e con tanto fervore, che sono ormai nell’incetta giunto ad averne acquistato sino al numero di tredici in quattordici mila, delle quali quasi due terzi sono di argento. Col carteggio, ch’io mi lusingo impetrare da V.S. Illustriss., le darò conto dell’ordine, che io terrò nell’opera; per ora solo le dico che ne ho incominciata l’edizione coll’impressione di moltissimi rami, che se l’aggraderanno in risposta ce l’invierò, e così continuerò nella progressione dell’opera; e dopo di aver pregato il Tafuri, che avendone esso, gliele vendesse, gli soggiunge, che se ciò non volesse fare gliele favorisse in baratto con altrettante d’Imperiali Consolari, di Famiglie, o di città greche, ed oltramontane rarissime, che ne ho una grandis-sima quantità in tutti i metalli, o barattarle con gemme antiche, come camei, corniole, sardoniche, diaspri, ed altre pietre orientali incise, delle quali ho formata una collezione di circa tremila».

58 [g. carafa], Lettera ad un amico contenente alcune considerazioni sull’utilità e gloria che si trarrebbe

Fig. 7. g. carafa duca di noJa: carta topografica di napoli (1775). Particolare della dedica.

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Le istanze di Carafa, almeno per quel che concerneva le raccolte di antichità, ver-ranno soddisfatte sin dal 1759, prima con l’inaugurazione del Palazzo di Capodimonte, e poi, nel 1777, con la trasformazione del vecchio Palazzo degli Studi nel Real Museo (l’aggettivo Borbonico, infatti, subentrerà per decreto solo dal febbraio del 1816), luogo destinato ad accogliere, negli anni seguenti, non solo le collezioni antiquarie esistenti a Capodimonte, ma anche lo statuario Farnese, trasferito da Roma a partire dal 1786, e, tra il 1805 e il 1822, le raccolte dell’Herculanense Museum di Portici, venendo a costituire il principale polo culturale e artistico partenopeo per la presenza, nei suoi locali, anche di laboratori, scuole di pittura, scultura e restauro, dell’Accademia di Belle Arti – erede del-la Reale Accademia del Disegno creata da Carlo III – e della Biblioteca Reale59.

Se l’eredità materiale del Carafa venne raccolta nel 1771 con l’annessione della sua collezione fra le antichità farnesiane conservate a Capodimonte60, quella intellettuale venne quasi del tutto trascurata in seguito alla dispersione dei suoi principali manoscritti antiquari. Perché venisse tracciata una sintesi sulle antiche zecche della Magna Grecia

da una esatta carta topografica della città di Napoli e del suo contado, Napoli 1750, pp. 20-21. Sul significato e l’importanza culturale della Carta topografica del Carafa vd. de seta 1969, vol. I, pp. 217-223 e vol. III, p. 17. Sulla politica culturale borbonica nei primi anni del regno di Ferdinando IV vd. d’alconzo 1999, pp. 62 ss. Sui musei e le istituzioni scientifiche nella Napoli ottocentesca vd. fratta 1997.

59 de franciscis 1963, pozzi paolini 1977 e, in generale, Napoli 1977; de caro 1997. Sul trasferimento e i primi allestimenti del Real Museo e, in particolare, dello Statuario Farnese vd. d’alconzo 1999, pp. 73-74 e la bibl. cit. a p. 82, nota 46, milanese 2000 e i vari contributi editi in gasparri 2007. Stando a una testimonianza del Giustiniani sembra che nel 1803 il medagliere fosse ancora conservato a Capodimonte da dove poi, nel 1806, sarebbe stato trasferito a Palermo (giustiniani 1797-1816, vol. 6, p. 358). Sul Museo di Portici vd. la bibl. cit. alla nota 35. Fra i testimoni del trasferimento da Roma a Napoli della scultura più rappresentativa dello statuario, l’Ercole farnese, vi fu Goethe che registrò le sue impressioni in alcune lettere del 1787 per le quali vd.: porzio, causa picone 1983, p. 126.

60 Vd. supra la bibl. cit. alla nota 51. La collezione Carafa venne inglobata nelle raccolte di antichità preesi-stenti senza alcuna distinzione (la testimonianza del Gervasio sopra citata mostra, tuttavia, come almeno su alcune delle iscrizioni fosse riportato, ancora alla metà dell’800, il nome del loro primo proprietario) e senza che, a quanto pare, se ne redigesse un apposito inventario. La cosa è particolarmente problematica per la parte più cospicua della raccolta, il medagliere, di cui non è nota neppure l’esatta consistenza («più migliaia di medaglie», stando al Villa-rosa; fra le 13000 e le 14000 stando a quanto scriveva Carafa a Tafuri nel 1756, loc. cit. alla nota 57) ma che, per certo, doveva contenere moltissime monete delle zecche della Magna Grecia, che andavano a integrare il campione farnesiano, ricco prevalentemente di esemplari romani, repubblicani e imperiali. Poco prima dell’acquisto della collezione Carafa erano entrati a far parte del medagliere borbonico altri nuclei monetali fra i quali, nel 1736, la raccolta di Vincenzo Marchese (erede del Presidente Antonio Maria di Palermo) composta da «1325 medaglie e monete antiche, d’oro, argento e bronzo, acquistate dopo esame di Marcello Venuti» (schipa 1902, p. 727; barocchi, gallo 1985, p. 53 con bibl. alla nota 12), dopo il 1738 alcune monete romane imperiali d’oro appar-tenute ad Alessandro Albani (cantilena 1995, p. 148) e, infine, un gruppo di monete romane d’oro e d’argento acquistate dal Marchese Grimaldi nel 1754 (Documenti inediti 1878-80, vol. 2, pp. XII-XIV e 225-227). Fra le acquisizioni minori effettuate verso la fine del secolo può essere ricordata quella del ripostiglio di Tiriolo del 1788, oggetto d’esame in cantilena 1996, pp. 68-69.

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si dovette infatti aspettare la monumentale opera di sistematizzazione delle conoscenze numismatiche fino ad allora acquisite realizzata da Joseph Hilarius Eckhel (1737-1798) (Fig. 8) alla fine del secolo (Doctrina numorum veterum, Vienna 1792-98, 8 voll.), nel redigere la quale il gesuita austriaco poté avvalersi, in particolare per la parte greca, della straordinaria mole di materiali riversati da Joseph Pellerin (1684-1782; ricordato fra i contatti illustri del Carafa col nome Pellerein) nei 10 volumi del Recueil de médailles (Paris 1762-1778) (Fig. 9), nei quali aveva catalogato l’imponente collezione di 33.500 monete che, grazie al suo ruolo di intendente generale delle forze armate navali francesi, aveva rastrellato in tutto il Mediterraneo e che poi, nel 1776, vendette a Luigi XVI61.

La Dottrina delle monete antiche dell’Eckhel, com’è universalmente condiviso, aprì una nuova pagina nella storia degli studi numismatici i quali, attingendo dalle discipline fisiche e naturali quei principi della classificazione tassonomica sviluppati pochi decenni prima dal Linnaeus, vennero acquisendo un grado di scientificità e di maturazione critica che erano mancati all’antiquaria settecentesca e che, in Italia, dettero i loro primi frutti nel secolo seguente nell’opera di studiosi del calibro di Sestini, Carelli, Avellino, Bor-ghesi, Cavedoni e, infine, Fiorelli.

le vicende del medagliere borbonico dall’istituzione della repubblica napoleta-na alla fine del “decennio francese”

Gli anni finali del XVIII secolo furono determinanti per le sorti delle collezioni bor-boniche e, in particolare, per quelle del medagliere. I lavori di trasferimento, accorpa-mento e riordino delle raccolte avevano infatti creato una grande confusione di cui vi è memoria fra molti testimoni contemporanei. Ad avvantaggiarsi di tale stato di cose furo-no in tanti, talvolta anche grazie alla complicità di coloro i quali erano stati preposti alla tutela, come rivelano le accuse di ricettazione mosse a carico di Hamilton e come sem-brerebbe essere accaduto nel caso di Mattia Zarrillo – dal 1784 curatore delle raccolte di Capodimonte – che Fiorelli considerava responsabile del depauperamento di una parte consistente del medagliere62.

61 Su Eckhel e Pellerin, oltre alla bibl. cit. alla nota 15, vd., rispettivamente, Nicolet-Pierre 1987 e dembsKi 1987, per Pellerin, sarmant 1994, ad indicem.

62 Su Hamilton vd. supra la bibl. cit. alla nota 46. L’Abate Mattia Zarrillo (1729-1804, conosciuto anche come “Zarrilli”) – rinomato antiquario, incluso fra i primi quindici accademici ercolanesi, era noto per la sua vis polemica di cui dette prova prima criticando alcune sviste di Winckelmann sugli scavi di Ercolano e poi discutendo con Arditi in merito all’interpretazione di una iscrizione su un vaso di Locri – nel 1784 era subentrato a D’Afflitto nella direzione del Museo di Capodimonte (vd. supra nota 25); sebbene al momento di entrare in carica avesse chiesto di redigere un inventario delle collezioni ritenendo che «molte di esse» fossero state «furtivamente aliena-te» (d’alconzo 1999, pp. 63-64) venne in seguito bollato da Fiorelli (fiorelli 1864, p. 119) come «uomo di dubbia fama, creduto autore della dispersione di molte monete vendute a’ stranieri, e segnatamente al d’Ennery».

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Fig. 8. J.h. ecKhel (1737-1798). A sx. frontespizio del I vol. della Doctrina numorum veterum (Vienna 1792).

Fig. 9. J. pellerin (1684-1782). A sx. frontespizio del I vol. del Recueil de médailles (Paris 1762).

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Le perdite più cospicue, tuttavia, ebbero luogo in occasione delle vicende che por-tarono all’istituzione della Repubblica Napoletana nel 1798 e al trasferimento a Palermo di Ferdinando I, protrattosi, nonostante la riconquista di Napoli nel 1799, sino al 180163. In seguito a tali eventi, infatti, 1250 monete vennero derubate dal medagliere di Capodi-monte e poi vendute al Benkowitz che le portò con sé all’estero dove vennero individua-te e studiate da Sestini64.

Furti ancor più consistenti dovettero avvenire fra il 1806 e il 1808, in seguito al tra-sferimento del medagliere a Palermo conseguente alla riconquista francese del Regno

Simpatizzante dei Francesi durante il breve episodio della Repubblica Partenopea, nel 1799 fu costretto a trasfe-rirsi a Parigi dove venne impiegato presso il cabinet des médailles. Su Zarrillo vd. castaldi 1840, pp. 251-254 (“Zarrilli”); d’alconzo 1999 s.v. e, in part., p. 56, nota 27 e p. 79, note 9-10. Su Michelet d’Ennery (1709-1786) – tesoriere della città di Metz e consigliere del re, appassionato numismatico, definito dal Blanchet: «coriphée des nummophiles, ou plutôt des numismanes» – e la sua raccolta di monete, che contava circa 22000 esemplari, vd. [campion de tersan, f.-p. gosselin], Catalogue des médailles antiques et modernes… du Cabinet de M. d’En-nery, Paris 1788; babelon 1901, col. 181; a. blanchet, in Revue numismatique 1902, pp. XXI-XXIX; giard 1980, p. 242; sarmant 1994, pp. 140 s.

63 de franciscis 1963, pp. 39-40. Domenico Venuti (sul quale vd. alla nota 24), che all’epoca ricopriva il delicato incarico di Soprintendente agli Scavi, fu accusato di non aver ben curato l’imballaggio dei beni trasferiti a Palermo dal Re e, per presunte simpatie giacobine, nel 1799 venne destituito dai suoi compiti (che negli anni seguenti verranno progressivamente assunti dal suo successore, Felice Nicolas) e allontanato dalla corte (castori-na 1996-97, pp. 315 ss. con bibl.; milanese 1996-97, p. 351 e ss., con bibl. alla nota 12).

64 Le fonti relative a tale accaduto sono limitate e non sembra esservene traccia nella documentazione ufficia-le e in quella archivistica nota. La notizia è riportata in d. sestini, Descrizione delle Medaglie Greche e Romane del fu Benkowitz, Berlin 1809 e ripresa in fiorelli 1864, p. 119, nota 2. Un cenno è anche in c.p. landon, Nouvelles des arts, peinture, sculpture, architecture et gravure, Vol. 5, Paris 1805, pp. 365-366: «M. Benkowitz vient d’exposer à Berlin une collection précieuse d’antiquité, qu’il rapporte d’Italie. Cette collection consiste prin-cipalement en monnayes rares, bronze et vases étrusques. Presque tous les vases sont parfaitement bien conservés; les peintures dont ils sont décorés méritent surtout une attention particulière. On remarque parmi les bronzes la tête d’un Jupiter Ammon et un caducée surmonté d’une tête de bélier. Les médailles sont au nombre de 1200. On ne sera pas fâché de lire le jugement que l’abbé Sestini, connu par ses recherches numismatiques, en a porté. Ces médailles, dit-il, faisaient autrefois partie du Musée Farnèse; plusieurs d’entre elles nous sont déja connues par la description que Prédussi [scil. Pedrusi] en a faite. On sait que ce Musée a été transféré à Naples, et joint aux médaillers de Foucault et de Drom. J’y ai revu avec plaisir la petite médaille de Domitien dont parle Vaillan; mais surtout celle d’Adrien, citée par le même auteur, que les habitans de Pergame firent frapper […]. Comme j’ai cette médaille sous les yeux, je puis observer que Vaillant a sans doute oublié de parler d’un cavalier à cheval qui se trouve au revers. Je présume que ce Jupiter assis est Jupiter Delios, et cette femme sabine épouse d’Adrien. Cette collection contient encore plusieurs médailles égyptiennes très-intéressantes». Karl Friedrich Benkowitz (1764-1807) fu un drammaturgo e poeta tedesco; lasciò memoria dei suoi viaggi in Italia in diversi scritti che testimoniano anche i suoi interessi collezionistici (K f. benKowitz, Helios der Titan, oder, Rom und Neapel: eine Zeitschrift aus Italien, Leipzig 1803; id., Das italienische Kabinet, Leipzig 1804; id., Reise von Neapel in die umliegenden Gegenden, Berlin 1806). Fu a Napoli nel 1802 (garcía y garcía 1998, vol. 1, p. 186) ed è forse in tale occasio-ne che poté accedere alle monete farnesiane.

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di Napoli e alla nuova fuga di Ferdinando I in Sicilia. Stando ai documenti raccolti da Fiorelli e, prima ancora, oggetto di esame da parte di Avellino65, infatti, le monete del medagliere borbonico inviate in Sicilia ascendevano a 28927 – frutto della fusione fra quanto era sopravvissuto delle raccolte conservate a Capodimonte e di quelle del Museo Ercolanese di Portici (che, da solo, ne contava ben 16245 nel 1787) – delle quali, in base a un elenco compilato a Palermo l’8 marzo del 1808, ne sopravvivevano soltanto 20939, meno della metà del totale presumibile prima dei furti e delle depauperazioni citate66.

Nei dieci anni di reggenza francese nel corso dei quali il Regno di Napoli venne guidato da Giuseppe Bonaparte prima (1806-08) e da Gioacchino Murat poi (1808-15), la politica culturale partenopea ebbe un grande momento di fervore con esiti che, para-dossalmente, si ponevano in continuità rispetto a quanto era stato realizzato o, sempli-cemente, ideato dai Borbone67. I Francesi, infatti, portarono avanti i progetti di risi-stemazione e di incremento delle raccolte del Real Museo al fine di colmare le lacune conseguenti al trasferimento a Palermo della parte più significativa delle collezioni. Sul piano legislativo vennero approntati dei provvedimenti che ricalcavano e, sul modello del Chirografo di Pio VII del 1802 (emanato per reagire alle depredazioni napoleoni-che degli anni precedenti)68, accentuavano quanto previsto dalle prammatiche del 1755, fornendo degli strumenti normativi che, da un lato, avrebbero dovuto porre freno alle possibilità di “estraregnazione” degli oggetti antichi e, dall’altro, sottoporre a una ade-guata regolamentazione l’esecuzione di scavi per la ricerca di antichità, in modo tale da assicurare al Real Museo i materiali di maggior pregio fra quelli rinvenuti e favorire al contempo l’istituzione di una organica rete di musei provinciali che diffondesse anche in periferia il gusto e la sensibilità per le cose antiche, evitandone la distruzione e la

65 Scriveva Avellino nel 1841 in un articolo rimasto inedito cit. in milanese 1995, p. 189, nota 33: «Le sven-ture, le invasioni straniere, e le rapine degli ultimi anni del secolo scorso, e de’ primi del corrente, e (dobbiamo dirlo con dolore) anche non poche dilapidazioni annullarono quasi integralmente questo immenso tesoro: e quasi tavole del naufragio se ne salvarono solamente alcune monete trasportate in Palermo […] novellamente in Napoli ricondotte nel massimo disordine e confusione».

66 fiorelli 1864, p. 119, nota 3, ripreso senza sostanziali modifiche o integrazioni da tutti gli autori che si sono occupati successivamente delle vicende del medagliere borbonico. Vd. in particolare: breglia 1955 (si noti, tuttavia, come parte dei totali riportati dalla studiosa non coincidano con quelli menzionati da Fiorelli); cantilena 1995, p. 148 e note 66-67 a p. 151 con bibl. Stando ai dati discussi precedentemente (vd. supra alle note 25 e 60) il medagliere conservato a Capodimonte, prima dei depauperamenti subiti, doveva aggirarsi intorno ai 32-33000 esemplari, frutto della fusione fra le circa 17000 monete farnesiane e quelle acquisite a Napoli a partire dal 1736 fra le quali spiccava, senza dubbio, la raccolta Carafa, che 15 anni prima della sua cessione, nel 1756, ascendeva già a 13-14000 esemplari (vd. nota 57). A queste monete andavano aggiunte quelle del Museo Ercolanese di Portici che, stando a un elenco del 1787 accuratamente rielaborato da Fiorelli (loc. cit., pp. 113-118), ammontavano a 16245 esemplari, 4317 dei quali disposti in serie e i restanti 11928 tenuti in disparte perché duplicati, per un totale com-plessivo, accorpate le due collezioni, vicino alle 49000-50000 unità.

67 milanese 1996a; milanese 1996-1997; d’alconzo 1999, pp. 85-120.68 d’alconzo 1999, pp. 87-90.

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dispersione e inibendone la decontestualizzazione. La responsabilità dell’attuazione di un disegno di così vasta portata venne affidata a uno dei principali esponenti dell’ari-stocrazia di provincia, il marchese Michele Arditi (1746-1838) (Fig. 10), nominato, il 18 marzo del 1807, Direttore generale del Museo di Napoli e Soprintendente degli Scavi d’Antichità69. Giureconsulto di formazione e professione e “archeologo” per pas-sione70, prima della nomina l’Arditi – originario di Presicce, piccolo paese del Capo di Leuca dove ancora oggi si conserva l’antico palazzo di famiglia – si era distinto in entrambe le discipline, dando prova delle sue vaste competenze in una serie di scritti che ebbero una certa risonanza fra gli eruditi del tempo e che gli valsero l’inclusio-ne, nel 1787, fra i membri dell’Accademia Ercolanese71 e, nel 1790, la convocazione all’interno di un organismo deputato alla stima delle antichità acquistate per conto del re72. Abile organizzatore e pragmatico esecutore, Michele Arditi, con una sensibilità archeologica che precorreva i tempi e che negli ultimi anni gli è stata correttamente riconosciuta73, fu in grado di concretizzare con notevole rapidità gran parte degli inca-richi che gli erano stati affidati, gettando le linee guida che sono alla base del Decreto promulgato da Giuseppe Bonaparte il 16/II/1808 e che verranno poi, in parte, riprese nei Decreti ferdinandei del 182274, riorganizzando gli scavi di Pompei sia dal punto di vista logistico che metodologico75, assecondando gli interessi antiquari e collezionisti-

69 milanese 1996a, p. 275; d’alconzo 1999, p. 105.70 «Illustre archeologo e giureconsulto» lo definiva il pronipote, Giacomo Arditi, in un breve ma interessante

ritratto dell’illustre parente (trascurato da quasi tutti i suoi successivi biografi), contenuto nella sua principale opera: arditi 1994, s.v. “Presicce”, pp. 492-496. Per ulteriori cenni biografici vd., in particolare, castaldi 1840, pp. 74-78; gabrieli 1938, con riferimenti al vastissimo epistolario ancora oggi mal noto; a. pironti, s.v., in DBI 1962, vol. IV; taglialatela 1995; nizzo 2004, pp. 481-483.

71 Ripristinata e dotata per la prima volta di uno statuto nel 1787 per volontà di Ferdinando I, dopo un periodo di inattività, il 17/III/1807, venne sostituita dal Bonaparte con la Reale Accademia di storia ed antichità a sua volta rimpiazzata da quella di Storia e belle lettere il 20/V/1808: castaldi 1840, pp. 38 ss.; d’alconzo 1999, p. 104 e p. 117, nota 77.

72 Fra le sue prime pubblicazioni antiquarie figurano le seguenti: m. arditi, La epifania degli Dei appo gli antichi, Napoli 1788 (ristampata nel 1819); id., Illustrazione di un antico vaso trovato nelle ruine di Locri, Napoli 1791 (opera che fu oggetto di aspre discussioni con Zarrillo – vd. supra nota 62 – nella quale Arditi dava ampio spazio alla documentazione numismatica traendo spunto da essa per risolvere questioni topografiche come l’identi-ficazione di una città di OPPA nella Locride, documentata da una delle monete della collezione del Duca di Noja); id., Le lucerne ed i candelabri di Ercolano e contorni incisi con qualche spiegazione, VIII tomo delle Antichità di Ercolano, Napoli 1792 (volume al quale contribuirono in parte anche altri autori); id., Il porto di Miseno, Napoli 1808. Per l’inclusione nell’Accademia Ercolanese vd. castaldi 1840, p. 75. Per la nomina del 1790 vd. d’al-conzo 1999, pp. 80-81, nota 31 con bibl.; del comitato, presieduto da Domenico Venuti, facevano parte anche Ignarra, La Vega e Minervino.

73 Vd., in particolare, milanese 1996a, de caro 1998, milanese 2001.74 dalla negra 1987, pp. 38-39 e 83-84; guzzo 1993, pp. 47 s.; milanese 1996a.75 d’alconzo 1999, pp. 108-109 con riferimenti bibliografici.

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ci di Carolina Bonaparte (1782-1839)76, curando il primo allestimento organico del-le sale del Real Museo, riformandone l’amministrazione77 e favorendone l’incremento con acquisti come quello della Collezione Borgia78 e, infine, assicurando continuità, per quel che concerneva la “tutela” e la “valorizzazione” delle antichità, fra la prima e la seconda Restaurazione e facendosi garante dei delicati processi di transizione dal governo francese a quello borbonico che ne confermò gli incarichi anche dopo la desti-tuzione di Murat nel 1815.

76 Sorella di Giuseppe e regina di Napoli dal 1808 per il matrimonio con Murat, Carolina rimase affascinata dagli scavi di Pompei ed Ercolano, ai quali spesso presiedeva personalmente (mascoli et Al. 1981, pp. 28 ss.); fra il 1808 e il 1815 fece allestire nei suoi appartamenti privati una raccolta di antichità nota come Museo Pala-tino, nella quale erano confluiti non solo reperti delle città vesuviane ma anche i materiali di un sepolcreto greco affiorato negli scavi per l’ampliamento del Museo nel 1810 (giustiniani 1814) e il corredo dell’ipogeo Monte-risi-Rossignoli rinvenuto nel 1813 a Canosa. Nel 1816 il Museo Palatino venne inglobato nelle raccolte del Reale Museo Borbonico salvo una parte trasferita all’estero dalla regina; l’8/III/1826 ciò che sopravviveva di quest’ultima porzione venne acquisito da Ludwig di Baviera e oggi si conserva nella Staatliche Antikensammlungen di Monaco. Su Carolina e il Museo Palatino vd. de franciscis 1963, p. 44; pozzi paolini 1977, p. 10; mazzei 1991; de caro 1998; pouzadoux 2005. Nella parte della raccolta espatriata da Carolina e successivamente dispersa figu-rava anche un cospicuo nucleo di monete preromane un tempo appartenute alla collezione di Giuseppe Capecelatro (valente 1965, p. 245, nota 1; un altro nucleo di questa collezione verrà acquistato nel 1821 dal re di Danimarca, esso constava di «[…] dugentotre vasi, così detti etruschi, cento cinquanta pezzi di bronzo antichi, settantadue terre-cotte, sei pezzi di vetri antichi e diversi frammenti di terre-cotte ed i seguenti quattordici pezzi di marmo, cioè un’ara, un tripode, con logoratissime figure a bassorilievo, dieci teste al naturale (due delle quali forse moderne) un torso con testa di putto anche al naturale, un vaso moderno a due manichi con bassorilievo di figure che rap-presentano forse un Baccanale, diversi frammenti […]»: fardella 2000, p. 213 e la bibl. cit. avanti alla nota 82), e a quella di Francesco Carelli (sul quale vd. alle note 83 e 86) che la vendette alla regina nel 1811: «E dobbiamo altresì condolerci che il suo bel Medagliere venduto da lui perchè fosse collocato nel pubblico Museo, ed a quella vece ritenuto nelle sue private stanze da Carolina Murat, al partir ch’ella fece da Napoli nel 1815 patì grave disa-stro. Poiché lasciati da lei intatti gli armadi allorché s’imbarcò, ed essendo paruto ad alcun del suo seguito che non dovessero cosi abbandonarsi que’preziosi cimelii, forzati gli scrigni, furono le medaglie parte insaccate alla rinfusa e portate via, parte obliate: queste da altri prese caddero in mano de rivenduglioli di Napoli; quelle anda-rono ad arricchire colle altre del Museo Capecelatro il gran Medagliere imperiale di Vienna» ([R.L.], “Francesco Carelli”, in Annali civili del regno delle Due Sicilie, 1, 1833, pp. 85-86); «Il cav. Francesco Carelli […], fin da gio-vine […], prese a farsi una scelta collezione di Monete antiche della Magna Grecia e d’altre regioni dell’Italia e la venne poscia grandemente arricchendo nel decorso di quaranta e più anni. Quella insigne collezione fu da Giu-seppe Bonaparte acquistata per la pubblica Biblioteca di Napoli; ma madama Murat se la volle assolutamente in casa sua, donde poi se la recò seco quando partì da quel Regno; ed è grandemente a dolere che non se ne sappia il successivo destino» (cavedoni 1851, pp. 46-47).

77 Come dichiarerà con orgoglio Arditi in una relazione anonima risalente alla metà del 1812: «Il locale del Real Museo di Napoli, edificio forse unico in tutta l’Europa, a me fu consegnato dalle mani dei miei predecessori quasi come un magazzino informe, anzi quasi come una sudicia stalla» (cit. in pozzi paolini 1977, p. 9; mila-nese 1996-97, pp. 381 ss. e nota 83). Sui primi allestimenti del Real Museo vd. milanese 1996-97; id. 2000; id. 2001a.

78 pantuliano 2001; milanese 2001; ciccotti 2001; germano, nocca 2001; nocca 2001.

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arditi, carelli, avellino: collezionismo e “scienze numismatiche” nella napoli del principio del xix secolo

Michele Arditi nel dar compimento alla politica culturale dei napoleonidi non tra-scurò le sue passioni intellettuali ma, al contrario, trasse vantaggio dalle occasioni che scaturivano dai suoi molteplici incarichi per incrementare la sua personale raccolta di antichità e di monete (che avrebbe poi donato al Real Museo Borbonico)79, per tessere una fitta trama di contatti e per riversare le sue conoscenze in una vasta serie di lavori antiquari la maggior parte dei quali, purtroppo, destinata a rimanere inedita80. Fra tali

79 arditi 1994, p. 492: «Fondatore ed organizzatore del Museo nazionale di Napoli […], Direttore dello stesso Museo finchè visse, e cui donò largamente monete, medaglie, vasi italo-greci, marmi, ed altre anticaglie, come alla Biblioteca annessa, pergamene, codici membranacei, libri di antichissime edizioni, autografi e scritti di gran pregio e valore». La composizione della collezione di Arditi all’atto della sua immissione nel medagliere del Museo (l’esatta data di acquisizione è incognita ma, di sicuro, almeno una parte della raccolta dovette pervenire prima del 1833, anno in cui Avellino ne fa menzione trattando del deposito di medaglie paleografiche: avel-lino 1833, pp. 99 e 119) è nota attraverso una sommaria descrizione di Fiorelli (fiorelli 1864, pp. 158-165) che ne rimarcava la consistenza e l’importanza. Va sottolineata, tuttavia, una contraddizione almeno apparente nei dati riportati da Fiorelli in merito alla consistenza numerica della donazione. Egli infatti specifica che essa fu di «7350 monete scelte tra le più rare della collezione», ma dandone l’elenco (che attinge «dai notamenti che se ne serbano») riporta un totale di ben 7746 esemplari, 3326 antichi e 4420 medievali e moderni, che non è chiaro se corrisponda a quelle effettivamente immesse nel museo oppure alla totalità della collezione prima che ne fossero selezionati i pezzi più rari.

80 L’elenco delle pubblicazioni edite e inedite di Arditi conservate fra le carte di famiglia è in arditi 1994, pp. 493-496, dove vengono riportate 116 voci relative ad altrettanti scritti, solo 19 dei quali pubblicati. Fra gli scritti a carattere numismatico, oltre a La Iapigia numismatica citata nel testo, figura anche una Illustrazione delle monete dei mezzi tempi e una [Illustrazione] della moneta Fidelitas Brundusina; di particolare interesse anche lo scritto Primi tentativi per una raccolta Generale delle iscrizioni del Regno che sembra prefigurare le Inscriptiones Regni Neapolitani edite da Mommsen nel 1852 (sulle prime raccolte di iscrizioni nel regno di Napoli vd. maiuri 1937, pp. 47 ss.). Qualche divergenza nei titoli e nel numero dei manoscritti può essere constatata nell’elenco redatto da Gabrieli nel settembre del 1937 (gabrieli 1938, pp. 295-297), nel quale venivano enumerati soltanto 53 mano-scritti contro i 90 citati nel secolo precedente da Giacomo Arditi, circostanza che potrebbe essere imputata sia a perdite e/o rimescolamenti, che al poco tempo a disposizione per la consultazione. Nell’elenco Gabrieli spicca lo scritto “12. «Monete del Regno di Napoli»: carteggio”, che nel titolo ricorda il Libro delle monete del Regno del Carafa (vd. supra nota 56) ma che, dalla notazione del Gabrieli, sembrerebbe consistere piuttosto in una raccolta epistolare su tematiche numismatiche; al n. 42 figura il lavoro “«Moneta di Brindisi», con l’iscrizione «Fidelitas Brundusina»” già riscontrato e, al n. 45, le “«Monete napoletane, per Pietro La Sena»”, che non compare nell’elen-co del pronipote; manca invece all’appello la Iapigia numismatica che potrebbe essere stata successivamente accor-pata ad altri opuscoli o che, invece, potrebbe essere riconosciuta nelle citate Monete del Regno. Di un saggio auto-grafo di Arditi dal titolo Numismata cum bove, dedicato alle monete col motivo del toro androprosopo, vi è infine menzione nell’elenco dei manoscritti di Camillo Minieri Riccio: minieri riccio 1868, Vol. 2, p. 262, n. 280 (si noti come sul medesimo tema s’era cimentato anche Avellino nel 1809, in uno scritto – Osservazioni sul toro a volto umano tipo di talune medaglie della Italia e della Sicilia – poi ristampato nel primo volume degli Opuscoli: avellino 1826, pp. 81-153).

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scritti ne figurava uno dal titolo particolarmente interessante, La Iapigia numismatica, opera sul cui contenuto non è noto nulla ma dalla cui intestazione sembra lecito supporre che potesse trattarsi di un catalogo commentato delle monete attribuite alle zecche della sua terra di origine, il Salento, gran parte delle quali dovevano essere incluse nella colle-zione privata che Arditi andò formando almeno sin dal principio del secolo81, acquistan-do esemplari nel ricco mercato partenopeo e contribuendo in prima persona, attraverso scambi e compravendite, alla loro diffusione fra le principali raccolte italiane ed estere82.

Il taglio dato da Arditi al suo scritto sembrerebbe trovare un plausibile riflesso nella sezione Messapia dell’opera Nummorum veterum Italiae del Carelli – che nella sua pri-ma redazione risaliva al 181283 – nella quale venivano discusse distintamente le monete

81 La raccolta numismatica dell’Arditi, per quanto a nostra conoscenza, viene nominata per la prima volta nel 1803 da Giustiniani (giustiniani 1797-1816, vol. 6, p. 359 cit. avanti alla nota 95) e poi, nel 1805, da Caron-ni (caronni 1805, pp. 187-188; sul padre barnabita Felice Caronni vd. n. parise, s.v., in DBI 1977, vol. XX; parise 1993, pp. 245-246; cagni 1996), che acquisì direttamente dal marchese salentino tre monete della zecca di Ugento. Fra gli acquisti più importanti effettuati da Arditi figura il noto deposito di medaglie paleografiche entrato a far parte della sua collezione prima del 1825-26 (parise 1982, pp. 103-104; cantilena 1996). Su Arditi numismatico si vedano maggiulli 1871, pp. 118 s., pp. 137 ss., tondo 1979, p. 72, n. 19 e, da ultimo, nizzo 2004, con cenni specifici al suo ruolo nella diffusione fra i principali medaglieri italiani ed europei delle monete ugentine e, più in generale, di quelle delle “zecche della Messapia” (vd. quanto scriveva nel 1818 a tale proposito romanelli 1815-18, vol. 2, p. 43: «Si aspetta di giorno in giorno, che il signor cavaliere Arditi colla solita sua erudizione, e diligenza, dia in luce i suoi schiarimenti sopra queste monete [quelle di Ugento], che in gran numero ha raccolte, per rendere la dovuta gloria a questa regione, e per soddisfare alla giusta curiosità degli antiquarj eruditi»). È probabile che Arditi abbia dato un significativo incremento alla sua raccolta nel lungo periodo in cui, in seguito alle sfortunate vicende della Repubblica Napoletana, si ritirò nella sua terra natale, fra il 1799 e il 1801; è certo tuttavia che i suoi interessi numismatici risalissero almeno al decennio precedente, come si desume dal conte-nuto delle sue prime opere a stampa di carattere antiquario (vd. supra nota 72).

82 Un’attività di scambio e/o compravendita è certamente documentata con F. Caronni (cit. alla nota prece-dente), con Christian Frederik, il futuro re Cristiano VIII di Danimarca (nizzo 2004, p. 482, nota 29; 1786-1848, re dal 1839, appassionato collezionista, noto, fra le altre cose, per l’acquisto della collezione dell’ex arcivescovo di Taranto Giuseppe Capecelatro nel 1821 che aveva supplito a quello non riuscito della collezione Borgia, tentato dal suo predecessore Federico VI nel 1805: babelon 1901, col. 310; milanese 2001, p. 55; ciccotti 2001, pp. 156-157; milanese 2005, p. 113), con C.T. Falde (cantilena 1996, p. 74, nota 47, la cui collezione venne poi immessa nelle raccolte reali di Danimarca) e, forse, con il duca de Luynes (ibid.); dopo il 1827 è testimoniato, infi-ne, l’invio da parte di Arditi di 600 monete, fra le quali 300 magno greche, per il medagliere di Berlino (AA.VV., Zur Geschichte der Königlichen Museen in Berlin: Festschrift zur Feier ihres fünfzigjährigen, Berlin 1880, p. 135; babelon 1901, col. 204). La trama di rapporti (e, quindi, forse anche di scambi) intessuta da Arditi dovette essere tuttavia ben più ampia, come dimostra la vastità del suo epistolario, noto solo attraverso i cenni di gabrieli 1938.

83 L’opera, dispendiosissima a causa dell’alto numero di tavole, venne stampata senza l’apparato grafico sin dal 1812 e pubblicata postuma dal figlio nel 1833 col titolo Equitis Francisci Carelii nummorum veterum Italiae quos ipse collegit et ordine geographico disposuit descriptio; nel 1834 Avellino pubblicò – dedicandolo al mini-stro e collezionista Nicola Santangelo – un opuscolo Adnotationes in Francisci Carellii Numorum veterum Italiae descriptionem… anch’esso privo di illustrazioni e, pertanto, di scarsa utilità essendo peraltro edito in soli cento

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delle città di origine messapica laddove invece, in altre trattazioni aderenti all’impianto eckheliano divenuto sin da subito predominante, queste ultime risultavano incluse con le tarantine nella “regione numismatica” della Calabria84.

La rielaborazione del “modello” eckheliano riflessa negli scritti citati testimonia tut-tavia come, per merito di sintesi monumentali quale quella del gesuita austriaco, si fos-sero rinnovati gli stimoli per una più compiuta riflessione sulle emissioni monetali delle zecche dell’Italia preromana; gli antiquari napoletani, infatti, erano perfettamente con-sapevoli che per la ricostruzione della storia monetaria di tali zecche fossero necessari ulteriori approfondimenti critici anche alla luce dell’immenso materiale inedito conser-vato nelle raccolte “pubbliche” e, soprattutto, private del Regno, da integrare, necessaria-mente, con una rilettura aggiornata e approfondita di quello che fino ad allora era stato pubblicato e che, molto spesso, era noto attraverso riproduzioni alquanto approssimative fra le quali andavano peraltro espunte innumerevoli falsificazioni.

In questa impresa si era andata cimentando una nuova generazione di studiosi italiani come il celebre Domenico Sestini (1750-1832), curatore del riordino del medagliere medi-ceo di Firenze85, e, a Napoli, oltre ad Arditi (le cui opere numismatiche, rimaste inedite, non lasciarono tracce significative nella storia degli studi), il citato Carelli (1758-1832)86

esemplari. Nel 1843 E. Braun per conto dell’Instituto di Corrispondenza acquistò dagli eredi del Carelli dugento tavole incise in rame con la prova in carta di altro rame smarrito, di cui affidò l’edizione e lo studio a Celestino Cavedoni. Quest’ultimo – dopo aver riscontrato «i disegni delle 2.482 Medaglie delineate nelle 200 Tavole» e aver-ne distinto «quelli che furono ritratti dalle Monete originali da non pochi altri che manifestamente mostrami rico-piati sopra i disegni non sempre fedeli di opere numismatiche anteriormente pubblicate e da alcuni altresì ricavati dal Golzio e da altri numografi di fede dubbia e discreditata» – superate con l’aiuto di Braun e Mommsen ulteriori traversie, nel 1850 portò al termine l’impresa pubblicando a Lipsia il volume Francisci Carellii numorum Italiae veteris tabulas CCII, edidit Caelestinius Cavedonius. Accesserunt Francisci Carellii descriptio F.M. Avellinii in eam adnotationes che resta ancora oggi l’edizione di riferimento per l’opera di Carelli. Su queste vicende, oltre alla bibl. riportata alla nota 86, vd. diffusamente cavedoni 1851, da cui sono tratte le citazioni sopra riportate.

84 nizzo 2004, p. 479.85 Sul Sestini vd. da ultimo tondo 1990.86 Nato a Conversano (Bari) da una famiglia di giureconsulti, venne avviato dal padre Bernardo alla carriera

legale; giovanissimo cominciò a coltivare gli studi numismatici grazie all’interessamento di Francesco Acquaviva d’Aragona conte di Conversano, proprietario di una ricca collezione di monete greche e romane; nel 1786 diven-ne segretario del principe di Caramanico, viceré di Sicilia, al cui seguito si trasferì a Palermo. In Sicilia Carel-li conobbe Gabriello Lancellotto Castello principe di Torremuzza (1727-1794), erudito e celebre collezionista di monete (autore, fra le altre cose, di una Siciliae populorum et urbium regum quoque et tyrannorum veteres nummi saracenorum epocham antecedentes, Palermo 1781, che costituì la base documentaria della sezione siciliana della Descriptio del Carelli), grazie al quale ebbe modo di continuare a coltivare la sua passione. Nel 1795, alla morte del Caramanico, perduto l’impiego, Carelli rientrò a Napoli e si dedicò per alcuni anni alle sole attività di studio e ricerca. Nel 1802, in seguito agli accordi stipulati con la pace di Firenze, venne inviato da Ferdinando I a Parigi per consegnare a Napoleone alcuni reperti ercolanesi spettanti alla Francia; ivi rimase per tre anni rientrando in patria nel 1805 dopo un lungo viaggio di studio in Europa e in Italia che lo portò a visitare molte collezioni e a

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e, soprattutto, Francesco Maria Avellino (1788-1850)87 (Fig. 11), precocissimo autore di monografie e saggi sul tema, quali il celeberrimo Italiae veteris numismata (Napoli 1808-14), il cui primo volume apparve quand’egli era appena ventenne e aveva contemporanea-

stringere contatti con illustri eruditi quali Marini, Lanzi, Stefano Borgia, Cattaneo, Visconti e altri. Fra il 1806 e il 1815, grazie ai buoni rapporti con i regnanti, ricoprì importanti incarichi ministeriali e, dal 1807, venne accolto nella Accademia di storia, erede della ercolanese (vd. supra nota 71), di cui divenne segretario perpetuo dal 1817 e fino alla morte. Nel 1814, insieme all’Arditi e al Rosini, fece parte di una commissione preposta alla valutazione della collezione borgiana entrata poi nelle raccolte del Reale Museo (milanese 2001, p. 55, nota 6 e la bibl. cit. alla nota 78). La sua attività di erudito e antiquario rimase quasi integralmente inedita, salvo un elogio funebre del Torremuzza e una Dissertazione esegetica intorno alle origini e al sistema della sacra architettura presso i Greci, pubblicata nel 1831 nel X volume delle Antichità Ercolanesi. Nel 1811 vendette a Carolina Murat la sua celebre collezione di monete dell’Italia antica (vd. nota 76), principale oggetto di studio della sua Descriptio nummorum veterum (vd. nota 83), mentre un cospicuo nucleo di monete romane (558 ess.) e post-antiche (210 ess.), cedute al governo, entrarono prima del 1815 nella Biblioteca del Monastero di Monteoliveto per poi passare, il 18/X/1827, al Real Museo Borbonico (romanelli 1815, parte III, p. 23; fiorelli 1864, pp. 136 e 145-148). Sul Carelli vd. in generale castaldi 1840, pp. 106-112; s. rinaldi tufi, s.v., in DBI 1977, vol. XX, con bibl.

87 Figlio dell’architetto e ingegnere Gioacchino, F.M. Avellino, parallelamente a una regolare formazione giuridica (che, dopo un breve praticantato da avvocato, l’avrebbe portato a ricoprire nel 1806 l’incarico di uffi-ziale del ministero di giustizia), venne avviato agli studi classici dal precettore Onofrio Gargiulli (1748-1816; sul Gargiulli vd. gigante 1987) da cui poi, nel 1815, avrebbe ereditato la cattedra di lettere greche presso l’ateneo napoletano. Sin dall’età di nove anni cominciò a interessarsi di numismatica, dandone una prima prova nel 1801 in un’opera rimasta inedita (Numismata aurea, argentea, aenea impp. Romanorum a Pompeo Magno ad Heraclium usque in Francisci M. Avellini Museo extantia, cit. in scatozza höricht 1987, p. 829) nella quale discuteva di alcune monete comprese nella sua già ricca collezione (minervini 1850, p. 4: «Studiati appena gli elementi del latino idioma il fanciullo […] mostrava grande inclinazione a possedere antiche medaglie; sicché sovente ne facea ricerca, e ne formava oggetto delle sue puerili investigazioni»; la collezione Avellino, secondo babelon 1901, col. 300, sarebbe confluita nel medagliere di Ludwig di Baviera dopo il 1821; tuttavia, nel 1850, il nipote Minervini – loc. cit., p. 29 – lascia intendere che essa – o un nucleo costituito dopo la vendita – fosse ancora conservata fra i beni di famiglia, come testimonia la pubblicazione in minervini 1856, p. 159, tav. I, 12-15 di 4 monete della rac-colta e come conferma una lettera del figlio, Teodoro Avellino, conservata fra le Carte Fiorelli della Bibl. Naz. di Napoli del 25/III/1851 – Mss. S. Martino 779 ter, busta 8 – nella quale si prega Fiorelli «di volere col vostro como-do dare un’ultima occhiata ad alcune monete rimanenti della classe delle Urbiche, sulle quali il Signor Minervini desidera sentire il vostro parere, onde poterne chiudere l’inventario legale, che rimane tuttora sospeso»); a questo manoscritto seguì nel 1804 la prima opera a stampa, anch’essa a carattere numismatico, con la quale ebbe inizio una prolifica attività erudita, i cui frutti migliori vennero poi riediti nei suoi celebri tre volumi di Opuscoli (avel-lino 1826, 1833, 1836). La fama riscossa con tali lavori gli valse l’inclusione nelle più illustri accademie (fra le quali, nel 1814, quella di Storia e Belle Lettere di cui divenne Segretario perpetuo nel 1832, succedendo al Carelli, vd. supra nota 86) e, nel 1808, la nomina a precettore dei figli di Murat, cui seguì, nel 1810, quella a conservatore del medagliere donato da Capecelatro a Carolina Bonaparte (prima affiancando Gaetano Gagliardi e, poi, dal 1811, in modo autonomo; sulla collezione Capecelatro vd. supra nota 76); nel 1819 gli venne affidato il compito del riordino del Medagliere borbonico al quale si sarebbe dedicato ininterrottamente fin quasi alla morte (milanese 1995, pp. 176 ss.); nel 1823 divenne membro della commissione dei restauri di Pompei e, infine, nel 1839, suc-cesse all’Arditi quale Direttore del Reale Museo Borbonico e Sovrintendente degli scavi del Regno. Sull’Avellino

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vd. castaldi 1840, pp. 79-82; minervini 1850; p. treves, s.v., in DBI 1962, vol. IV, con toni critici sulla sua “coscienza storiografica” che vanno tuttavia mitigati alla luce di quanto emerso negli studi successivi alla voce del Treves e in quelli citati avanti alla nota 88; scatozza höricht 1987, pp. 825-845 con bibl. prec.; cantilena 1996, p. 72, nota 7; milanese 1996-97, p. 403.

88 Sul ruolo degli Annalen e delle pubblicazioni dell’Avellino nella storia degli studi numismatici vd. parise 1993, cantilena 1996, p. 67.

Fig. 10. michele arditi (1746-1838). Ritratto (da milanese 1996-1997, Fig. 6).

mente già avviato la pubblicazione del Giornale Numismatico (1808-12), rivista periodica che aveva lo scopo di ravvivare in Italia (e, soprattutto, nel napoletano) un dibattito che, a livello europeo, era stato da poco rilanciato dagli Annalen der Numismatik dello Schlicher-groll (Lipsia 1804)88.

Ad Avellino, in particolare, si deve una lucidissima definizione dell’archeologia che, seppur datata al 1832, riflette compiutamente quelli che sin dall’inizio del secolo furono i principi teorici che l’avrebbero poi emancipata rispetto alla tradizione antiquaria sette-centesca avendo essa, alla pari delle scienze naturali, l’esigenza precipua di «conosce-re, ordinare e porre sotto gli occhi altrui le accurate serie de’ fatti», in una prospettiva

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mutuata dall’empirismo illuminista che faceva sì che la nuova disciplina potesse essere considerata una «statistica de’ fatti antichi […] fondata sulle massime della sola osser-vazione, e della rigorosa deduzione»89.

Gli apparati grafici delle opere numismatiche di Avellino e Carelli, seppure anch’es-si gravati da sviste ed errori che vanno almeno in parte imputati a limiti tecnici ed eco-nomici perfettamente comprensibili, sembrano appunto adeguarsi ai presupposti meto-

Fig. 11. francesco maria avellino (1788-1850). Ritratto (da minervini 1850).

89 avellino 1832, pp. 119 s., 125. Tale concetto verrà poi ribadito dal nipote, Giulio Minervini, nell’elogio funebre di Avellino: «L’archeologia non altrimenti che le scienze naturali, è tutta sperimentale, e tien la sua base ed il suo fondamento sull’accurata osservazione de’ fatti. L’archeologo, siccome il naturalista, dall’esame di dif-ferenti fatti diligentemente osservati, risale alla ricerca di verità ignote ed ascose: e 1’uno e l’altro sono dedicati a ritrovare non già ad inventare. In tal modo considerata l’archeologia è una scienza che ha principii certi, e fondati nell’umano raziocinio. Quindi va senza alcun dubbio distinto 1’archeologo positivo da chi disperde i voli del suo ingegno in fantastiche conghietture» (minervini 1850, p. 15). Sull’affinità fra la numismatica e le scienze naturali vd. anche le considerazioni espresse da F. Lenormant nella prefazione al suo celebre corso: lenormant 1878, pp. XVI ss.

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dologici e scientifici precedentemente delineati; essi, infatti, offrivano al pubblico una documentazione piuttosto accurata, frutto, in molti casi, di un riscontro autoptico degli autori, i quali, il più delle volte, riproducevano esemplari inclusi nelle loro raccolte o ai quali avevano potuto avere diretto accesso, accompagnandone spesso la descrizione con notazioni relative al loro peso e misura in modo analogo a quanto veniva fatto nei trattati aventi per oggetto le scienze fisiche e naturali. Non è quindi un caso che molte delle collezioni numismatiche napoletane formatesi tra il XVIII e il XIX secolo fossero di proprietà non solo di archeologi ma anche di medici e naturalisti come Minervino, Capecelatro (Fig. 12), Poli, Cotugno, che nelle loro raccolte amavano associare artifi-cialia, come le monete o, anche, reperti paletnologici ed etnografici, ai naturalia, quali conchiglie, fossili, minerali, ecc.

La formazione di un medagliere privato trova riscontro fra molti esponenti dell’aristo-crazia e della borghesia partenopea, continuatori di una tradizione collezionistica che, come si è visto, affondava le sue radici nella prima metà del Settecento e che a Napoli era garan-tita da una affluenza costante e qualitativamente elevata di monete e altre antichità, propor-zionata all’altissima richiesta del mercato locale e internazionale. I continui rivolgimenti politici intercorsi fra le due Restaurazioni resero tali traffici ancora più floridi grazie all’af-flusso dei beni sottratti agli ordini religiosi e al declino delle famiglie aristocratiche legate all’uno o all’altro dei regimi succedutisi al governo, le quali finivano spesso con l’essere fagocitate dagli esponenti di una “disinvolta” borghesia capace di destreggiarsi e trarre van-taggio dal generale clima di incertezza per prendere poi il posto, reinsediati i Borbone, dei nobili che aveva contribuito a destituire, come avvenne nel caso dei Santangelo90.

Testimoni dell’epoca, Arditi, Carelli e Avellino ebbero modo anch’essi di formare delle cospicue raccolte, frutto non tanto delle loro disponibilità economiche quanto piuttosto delle competenze acquisite sul campo, coltivando con l’ausilio di precettori e in forme talvolta dilettantesche quella passione per gli studi antiquari che costituiva spesso il corollario priva-to di una carriera che poi, pubblicamente, secondo il costume allora diffuso fra i laici bene-stanti, dopo una adeguata quanto precoce formazione giuridica, poteva espletarsi nell’eser-cizio più o meno attivo della pratica forense. Nei casi citati la “passione privata” finì, anche in virtù delle loro indiscusse capacità, col prevalere sulla professione pubblica che, tuttavia, non venne mai del tutto abbandonata, come accadde nel caso di Avellino che, oltre ad essere investito delle più alte responsabilità archeologiche del Regno, per la sua attività forense seppe meritarsi un busto nel tribunale di Napoli, dando al contempo prova della sua ver-satilità intellettuale in campo universitario, nel quale passò con disinvoltura dalla cattedra di letteratura greca (1815), a quelle di economia politica (1821), di istituzioni giustinianee (1824) e di pandette (1844) per poi divenire, nel 1830, anche rettore; una poliedricità che era tutt’altro che isolata trovandosene riscontro, fra gli altri, anche in Arditi, capace di alternare all’antiquaria e alla giurisprudenza interessi musicali, letterari, filologici e darne prova al medesimo livello nello studio di un vaso greco come in quello di un documento svevo.

90 milanese 1996.

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La sintesi degli aspetti menzionati, seppure con diverse gradazioni, può essere con-siderata il minimo comune denominatore dell’antiquaria partenopea almeno sino al terzo quarto del XIX secolo, come testimonia l’esperienza di Fiorelli che ne è, forse, l’ultima e più alta incarnazione.

La guida del Romanelli, apparsa nel 1815, mostra con chiarezza quale fosse la situa-zione del collezionismo numismatico napoletano all’alba della definitiva restaurazione borbonica, prima che facesse ritorno da Palermo (nel 1817) il medagliere inviatovi nel 1806 da Ferdinando I:

«Noi avevamo una volta un nobil museo numismatico acquistato dal re Carlo III dalla sua ere-dità Farnesiana. La prima serie conteneva le monete romane consolari, o familiari e la seconda abbracciava la serie delle monete imperiali, che diedero origine all’opera del p. Pedrusi gesui-ta. Altre monete appartenevano a diversi antichi regni. Era stato accresciuto dal nostro re colla famosa raccolta della monete urbiche e specialmente osche, etrusche e greche delle nostre anti-chissime città, dal gabinetto del duca di Noja. Pe’ passati disastri questo gabinetto si è disperso. Si cerca ora di ripristinarlo non essendo difficile in un regno feracissimo di questi oggetti, e che

Fig. 12. giuseppe capecelatro (1744-1836). Ritratto (da L’Omnibus Pittoresco, n. 9 del 17 maggio 1838).

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si chiama la terra classica di antichità. Nella biblioteca di Monteoliveto abbiamo una scelta serie numismatica di tutti i nostri re, da Ruggiero sino al presente tempo. […] Appartenne al peritissimo numismatico cav. D. Francesco Carelli ed al medico Notaroberti da’ quali fu venduta al governo. Dopo de musei regj non dobbiamo omettere di fare un cenno de’ musei particolari, che si serbano da’ nostri eruditi. Ne passati tempi la nostra città fioriva per varj rispettabili musei. Si distingueva […] quello di antichità di Giuseppe Valletta, il rinomato di Francesco Picchiatti, in cui si conta-vano 20 mila monete antiche, sei mila pietre incise, cento trenta anelli d’oro, trecento statuette di bronzo e moltissimi vasi da sacrificj: […] il miscellaneo di s. Catterina a Formello e finalmente del conte Egizio, del duca di Noja, del Mazzocchi, del barone Ronchi, dell’Ignarra e di altri non pochi91. A’ nostri tempi abbiam veduto i tre bellissimi musei numismatici di monsig. Capecelatro, dell’ab. Minervino e del cav. Carelli, che non esistono più92. Ora ci resta il museo del cav. Arditi ricchissimo di monete greche, che riguardano specialmente il nostro regno, come anche di fami-liari e d’imperiali in gran numero e cospicuo per una serie de’ nostri re: il museo del cav. Avellino

91 Per le collezioni Valletta, Egizio e le altre menzionate fra quelle del '600 e del '700 vd. la bibl. cit. alla nota 50. Per Francesco Antonio Picchiatti (1617-1694; architetto di origini ferraresi, antiquario e collezionista per conto proprio e per quello del vicerè Gaspar Méndez de Haro, marchese del Carpio; De Dominici scrisse di lui: «fu caro al marchese del Carpio […] e per lui viaggiò per l’Italia facendo raccolta di medaglie antiche, statuette, disegni di mano di valentuomini, ed ebbe egli ancora maraviglioso studio di antichità, e buoni libri, e disegni, che rimasero appresso di lui per la morte di quel signore, oltre quelle cose che per proprio diletto ei possedeva. Ma dopo la sua morte andò a male ogni cosa pel poco giudizio de’ suoi eredi che a poco a poco disuniron sì bel museo; alla cui fama molti forestieri venivano apposta a vederlo, e per conoscere il Picchiatti il quale era stimato un perfetto antiquario») e la sua importante collezione vd. de dominici 1742 (ed. 1846), vol. 4, pp. 123-124, cacciotti 1994 (per gli interessi numismatici del vicerè de Haro vd. in particolare p. 174, nota 20), marias 1997 e iasiello 2003. Alcuni materiali della collezione Picchiatti confluirono in quella della famiglia dei Grassi, conti di Pianura (giustiniani 1814, pp. 31-32) mentre un nucleo di antichità “egizie” sarebbe entrato nelle raccolte del Museo Borbonico (celano, chiarini 1856-60, vol. 5, p. 34); per quel che concerne il medagliere è noto che «[Picchiatti] lasciò erede […] del suo famosissimo museo d’antichità, di medaglie e marmi, che teneva in grandissima quantità e pregiatissime, e particolarmente d’oro e d’argento, che si valuta più di 50.000 scudi […] una sua sorella ancor lei vecchia d’età» (nicolini 1907, p. 25, nota 1).

92 Sulle collezioni Capecelatro e Carelli vd. supra alle note 76, 82 e 86. Su Giuseppe Capecelatro (1744-1836, noto anche come Capece-Latro), arcivescovo di Taranto e celeberrimo erudito e collezionista, presidente dell’Accademia di storia dal 1807, ministro degli interni fra il 1808 e il 1809, vd. candia 1837, castaldi 1840, pp. 99-103 e p. stella, s.v., in DBI 1975, vol. XVIII. L’abate Ciro Saverio Minervino (1734-1805), originario di Molfetta, coltivò al contempo le scienze naturali e l’antiquaria, formando una raccolta di antichità e naturalia; nel 1778 pubblicò a Napoli, insieme a Domenico Tata, l’opera Dell’etimologia del Monte Vulture nella quale, facendo sfoggio di vasta erudizione e scarso senso critico, per dimostrare l’origine vulcanica della valle dell’Ofanto, ricorreva ad alcune raffigurazioni impresse sulle monete della sua stessa collezione, delle quali forniva nelle tavole finali una illustrazione (cenni biografici in [L. V.], s.v., in de tipaldo 1834-45, vol. 6, pp. 406-409 e villani 1904, pp. 624-626). Dopo la morte i suoi numerosi manoscritti (fra i quali figurava un Indice delle monete e delle medaglie fuse ovvero battute nelle regioni che ora formano il Regno di Napoli) e la sua collezione andarono dispersi; quest’ultima veniva così descritta in gatti 1825, p. 62, nota 1: «Incli-natissimo allo studio della storia naturale, raccolse un gran numero di oggetti riguardanti principalmente il ramo mineralogico, sopra tutto di concrezioni e petrificazioni di varie specie. Applicatosi poi all’antiquaria, unì al suo museo dei prodotti della natura una preziosa raccolta di vasi etruschi, di medaglie greche, latine,

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che ne ha puranche delle rare, e delle aneddote: del cav. Cotugno, che ha cercato di raccogliere molte monete greche della sua Daunia93: e finalmente del principe di s. Giorgio, del sig. Santan-gelo, e del canonico Jorio94, le cui collezioni abbracciano monete osche, greche e romane»95.

longobarde e gotiche, di antiche monete urbiche, tra le quali vedeansene delle molte rare»; de tipaldo 1834-45, loc. cit., p. 407: «Formò egli un pregiatissimo museo di storia naturale e di antichità, nel quale ammira-vasi una bellissima raccolta di oggetti petrificati, ed un altra di monete urbiche. Questo in tanta considera-zione era tenuto per la scelta e rarità degli oggetti di cui era formato, che tutti coloro che hanno discorso del Minervino […] lo hanno sempre ricordato. […] Aveva egli in mente di donarlo alla città di Molfetta sua patria insieme colla numerosa sua libreria, ma per la morte sopraggiunta egli non poté compiere siffatto generoso pensiero […]. Essendogli succeduto un nipote affatto degenerato da lui, la sua libreria, il suo museo e gli stes-si manoscritti nel breve giro di pochi mesi furono tutti dissipati e dispersi. Se non che parecchi di questi ultimi ed alcuni oggetti di quel museo vennero sottratti dall’universale distruzione che li minacciava dal suo dotto e chiarissimo concittadino cav. Vincenzo Volpicella». Sul frequente connubio fra antiquaria e scienze naturali nella Napoli della fine del XVIII e l’inizio del XIX sec. che accomuna personalità come Capecelatro (racco-glitore e studioso, oltre che di monete, anche di conchiglie e testacei), Minervino, Poli e che trova riscontro in umanisti della generazione precedente quali Della Torre e Di Noja, vd. toscano 2006 e toscano 2007.

93 Per le collezioni Arditi e Avellino vd. supra alle note 81, 82 e 87. Non è noto il destino della collezione numismatica del celebre naturalista e medico rubastino Domenico Cotugno (1736-1822), morto senza discenden-za lasciando erede usufruttuaria la moglie Ippolita Ruffo, alcuni parenti e l’Ospedale degli Incurabili (de tipal-do 1834-45, vol. 1, pp. 290-295). Stando alle poche fonti disponibili essa doveva essere ricca di monete daunie, raccolte dal Cotugno nella sua terra natale anche con l’aiuto di Francesco Jatta (scotti 1823, pp. 64-65, nota 2: «Fin dalla prima età egli amò di acquistare preziosi oggetti che meritar potessero la considerazione delle per-sone istruite. Da Ruvo portò nella Capitale una buona raccolta di antiche monete: ma un giovane ospite gliele involò. Posteriormente avendo fatto sapere agli Orefici, ch’egli amava di comperarne, moltissime n’ebbe non solo appartenenti alle antiche città della Magna Grecia, ma eziandio Familiari, ed Imperiali. I suoi discepoli, ed amici sparsi pel nostro Regno accrebbero sempre più il suo Museo: e parecchi infermi da lui guariti con siffatti doni gli mostravano la loro gratitudine»; sui rapporti con gli Jatta di Ruvo e, in particolare con Giovanni, suo pronipote, vd. Jatta 1844, p. 33).

94 La raccolta De Jorio (1768-1851; canonico della cattedrale di Napoli dal 1805, dov’è sepolto accanto a Mazzocchi, fu conservatore della galleria de’ vasi etruschi nel musco borbonico e socio dell’Accademia Ercolane-se dal 1811, soprantendente agli scavi pompeiani ed ercolanesi e commessario delle antichità e belle arti; sul De Jorio vd. il necrologio anonimo edito in Annali delle Scienze Religiose s. 2, vol. IX, 1851, pp. 461-470, navarro 1855, pp. 121-157, milanese 1996-97, p. 403) è menzionata da Fiorelli nel 1843 (vd. supra nota 7), ma non ne è nota la destinazione dopo questa data (rochette 1840, p. 187, testimonia il passaggio di almeno un es. della col-lezione De Jorio in quella del duc de Luynes). Il medagliere del Principe di San Giorgio, Domenico Maria Odoardo Spinelli (1788-1862; socio onorario dell’Accademia Ercolanese dal 1822 e ordinario dal 1833, fu il predecessore di Fiorelli nel ruolo di Direttore generale del Museo Reale Borbonico e Sopraintendente agli scavi dopo la morte dell’Avellino e sino al 1862; su di lui vd. castaldi 1840, pp. 237-239 e ricca 1869, vol. IV, pp. 122-131 con riferimenti alla sua vasta produzione scientifica che comprende, oltre a studi su monete greche, romane, cufiche e medievali, anche la Descrizione di alcune monete Urbiche inedite del Museo del Principe di S. Giorgio e della collezione del Canonico de Jorio, Napoli 1821), ricordato anch’esso da Fiorelli, figura ancora nel 1856 fra quelli studiati dal Minervini per il suo Saggio (minervini 1856, prefazione). Per il Museo Santangelo vd. avanti.

95 romanelli 1815, parte III, pp. 22-24. Nel 1803 L. Giustiniani (1761-1824), nella voce Napoli del suo Dizionario menzionava, fra quelle “esistenti”, le seguenti collezioni: «Il ch. D. Domenico Cotugno si ha formato

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il medagliere borbonico fra la restaurazione e l’unità d’italia: dall’acquisto della collezione borgia a quello della collezione santangelo

Nel 1819, dando inizio al lavoro di riordino affidatogli da Ferdinando I, Don Francesco M. Avellino, incaricato della classificazione del medagliere Reale trovò le medaglie di esso in parte custodite in talune spranghe di ferro, ed in parte disor-dinatamente messe insieme in talune casse senza alcuna distinzione96. Le ingenti spoliazioni sofferte dal medagliere nell’ultimo ventennio ne avevano ridotto la con-sistenza a poco meno di 21000 esemplari, un nucleo assai modesto per numero e qua-lità rispetto a quella che doveva esserne l’entità originaria (vicina probabilmente alle 50000 unità), ulteriormente svilito dalla mancata annessione delle collezioni Capece-latro e Carelli che, seppur destinate originariamente alle raccolte statali, migrarono all’estero al seguito di Carolina Murat. L’ingresso nel 1815 dei 416 nummi onciali della collezione Borgia (il cui acquisto, avviato sotto Murat, venne saldato dopo il ritorno dei Borbone) costituì uno dei primi passi compiuti da Ferdinando I per ripri-stinare non solo il volume ma anche la fama di quello che era stato uno dei medaglieri più celebri d’Europa97.

La storia del medagliere borbonico negli anni seguenti è costellata da una serie quasi costante di incrementi, frutto di ponderati acquisti, di doni o di accessioni conseguen-ti alle attività di scavo pubbliche o private che si susseguivano in tutte le province del

un niente spregevole museo numismatico, e tiene delle nostre monete urbiche veramente rarissime. Il ch. D. Ciro Saverio Minervino ha formato ancora un pregevole museo di antiche monete urbiche, tralle quali sonovi delle rare, oltre di una buona raccolta di cose petrifìcate. D. Francesco Carelli aveasi formato un museo numismatico che avea del pregio, ed avea in pensiere di stampare la serie delle monete Tarantine colle sue spiegazioni. Il Cav. D. Michele Ardito ha similmente raccolte delle monete urbiche» (giustiniani 1797-1816, vol. 6, pp. 358-359; veniva inoltre citata la collezione di Giuseppe Saverio Poli menzionata, tuttavia, limitatamente alla parte naturali-stica ed etnografica). Le descrizioni di Giustiniani e Romanelli possono essere confrontate con quella più sintetica edita dopo il ritorno dei Borbone in de Jorio 1819, pp. 28-32: «Non sono pochi gli amatori delle antichità nella nostra capitale, come ancora nel regno. Ne indicherò alcuni, i quali posseggono non ispregevoli raccolte di meda-glie, vasi ed altri oggetti antichi. In Napoli. Vasi, medaglie, bronzi, pietre incise ec.: Monsignor Capecelatro arci-vescovo di Taranto, Cavaliere Carelli, D. Domenico Cotugno, Canonico de Jorio, Duca di Miranda, D. Francesco Santangelo, Principe di S. Giorgio Spinelli, Principe di Torella. Raccolte numismatiche: Cavalier Arditi, Cavalier Avellino, D. Nicola Cangemi, Giudice Diodati, D. Salvatore Fusco. Questi tre ultimi sono principalmente per le monete del nostro Regno da Ruggiero I, re normanno. [in nota:] Non mancano in Napoli delle collezioni di oggetti antichi per gli amatori che desiderano farne acquisto. D. Pietro Luigi Moschini ne possiede una ben ricca».

96 Dalla relazione del Rosini del 19/VIII/1823, cit. in milanese 1995, p. 179, nota 9. Fiorelli riferisce che l’incarico gli sarebbe stato affidato il 13/V/1820 e che avrebbe dovuto coadiuvarlo nel riordino Gabr. Rossetti che dopo pochi mesi fu costretto ad esulare dalla patria (fiorelli 1864, p. 119); la documentazione archivistica discussa da Milanese testimonia tuttavia che il lavoro venne intrapreso a partire dal 1819 e che, in tale data, il volu-me della raccolta doveva aggirarsi intorno ai 30000 esemplari.

97 Sulla probabile consistenza originaria del medagliere vd. sopra alla nota 66; sulla collezione di Carolina Murat vd. la nota 76. Sull’acquisto della collezione Borgia vd. sopra la bibl. cit. alla nota 78.

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collezioni numismatiche dell' ottocento napoletano 469

regno. Nel 1864 Giuseppe Fiorelli delineò una rapida sintesi dello sviluppo della colle-zione numismatica del Museo di Napoli nel primo cinquantennio del XIX secolo, ancora oggi la principale fonte sull’argomento98; ad essa si rinvia per un maggiore approfondi-mento di tali tematiche che, in questa sede, sono riassunte nella forma di un grafico (Fig. 13) nel quale si è cercato di tracciare, a grandi linee, quanto è noto sull’evoluzione del medagliere borbonico tra il 1734 e il 186599.

98 fiorelli 1864. Fra le tappe principali dell’incremento delle raccolte borboniche meritano di essere ricor-date le seguenti: il 18/X/1827 venne annesso il medagliere della Regia Università degli Studi (appartenuto un tem-po alla Biblioteca del Monastero di Monteoliveto), composto da 2657 esemplari (558 antichi e 2099 medievali o moderni), parte dei quali provenivano dalle raccolte Carelli (vd. nota 86) e Notaroberto (676 post-antichi); in momenti diversi degli anni '20 vennero selezionate e comprate 190 monete della collezione del marchese Enrico Carlo Forcella (nobile palermitano, amministratore generale della Real Casa e de’ Siti Reali in Sicilia sotto Fer-dinando II, fu autore dei Numismata aliquot Sicula, nunc primum a March. Henrico Forcella edita, Napoli 1825, incentrati sugli esemplari inediti della sua raccolta che andavano a integrare le monete pubblicate dal Torremuzza, sul quale vd. sopra alla nota 86), tutte antiche; nel 1831 venne acquisito il medagliere del Re Francesco I, composto da 2000 esemplari (185 antichi e 1815 moderni); fra il 1826 e il 1837 Arditi donò 7746 monete del suo medagliere (vd. nota 79); il 12/XII/1833 venne acquisita una selezione di 241 monete della raccolta del Barone Luigi Genova; nel 1836 fu la volta del medagliere del naturalista pugliese Giuseppe Saverio Poli (1746-1825; allievo a Molfetta del conterraneo Minervino, sul quale vd. sopra alla nota 92, fu precettore del principe ereditario Francesco I di Borbone e primo direttore del gabinetto di fisica dell’Università di Napoli; si occupò di meteorologia, fisica e zoo-logia, pubblicando, fra le altre cose, una descrizione dei molluschi del Regno delle Due Sicilie con tavole illustrate raffiguranti molti degli esemplari inclusi nella sua collezione; quest’ultima comprendeva anche reperti etnografici, fossili, minerali e macchine d’astronomia e di fisica che andarono in parte dispersi negli anni convulsi della lati-tanza borbonica; al suo ritorno dalla Sicilia, nel 1800, decise di dedicarsi alla raccolta di monete progettando anche di «scrivere un trattato, che titolar volea la Filosofia ovvero la Storia ragionata della Numismatica» che non vide però mai la luce; la sua collezione veniva così descritta dal nipote Olivier Poli: «lasciò l’immenso suo museo numi-smatico a Sua Maestà il Re. Questa preziosa collezione contiene, oltre alle monete di tutti i tempi e di quasi tutte le culte nazioni, la serie delle medaglie de’ romani Pontefici, tranne assai poche; altre di quelle varie reali Dinastie che hanno imperato nel nostro paese; la riunione de’ magnifici medaglioni battuti in Russia fin dal regno di Pietro il Grande, e tutte le monete e medaglie coniate dai Napoleonici nelle varie epoche del loro passeggero esaltamen-to. Si ha il motivo di sperare che il nostro munificente Monarca farà unire siffatte alle altre di storia naturale già cedute alla corte da questo scienziato e che sotto il nome di Museo Poliano, sono state da parecchi anni rendute di pubblico uso»; sul Poli vd. gatti 1825, olivier poli 1825, toscano 2006, pp. 59-70), composto da 17809 esemplari di cui 8645 antichi e 9164 post-antichi al cui riordino si dedicò nel 1844 il neoassunto ispettore Fiorelli (milanese 1995, pp. 186-187); fra il 1838 e il 1842 è documentato l’acquisto di 613 monete antiche da Benigno Tuzii (vd. sopra alla nota 4); nel 1858, infine, vennero cedute dal conte Francesco Del Balzo (1805-1882) 523 monete antiche che, insieme ad altri oggetti, facevano parte della collezione della Regina Maria Isabella Borbone-Spagna (1789-1848; seconda moglie del Re Francesco I e madre di Ferdinando II, raccolse nella villa di Capodi-monte che porta il suo nome una raccolta composta sia da curiosità naturali ed etnografiche che da antichità che poi lasciò al suo secondo consorte F. Del Balzo, fra le quali S. D’Aloe, nel 1845, ricordava «una collezione di antiche monete autonome, familiari, imperiali in oro, in argento ed in bronzo, disposte ad ordine alfabetico, fra le quali la più gran parte di rarissimo pregio, e di perfetta conservazione» (s. d’aloe in aJello et Al. 1845, v. II, pp. 344-345; un’altra descrizione del Museo è in navarro 1855, p. 131 e, con poche varianti, nelle principali guide dell’epoca).

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Studi recenti condotti da A. Milanese e R. Cantilena hanno messo in evidenza la cura con la quale Avellino procedette nell’opera di riordino, cercando di registrare negli inventari che andava man mano compilando tutte le informazioni disponibili riguardo la possibile origine di ciascun esemplare e mantenendo distinti i nuclei monetali in base a esse100. Come ha rimarcato Milanese, tale metodo, pur corrispondendo perfettamen-te ai migliori principi della moderna museologia, non era probabilmente dettato da una sensibilità premonitrice dell’Avellino quanto piuttosto dalla necessità di individuare e ricostruire i diversi nuclei della raccolta in modo tale da rendere riconoscibile, a fronte di eventuali contestazioni, quanto effettivamente rientrava nelle proprietà allodiali della casa regnante, in ossequio alle prescrizioni dettate dal regio decreto del 22/II/1816101. Si deve tener conto, tuttavia, che almeno per quel che concerneva le acquisizioni di data recenziore Avellino poteva essere mosso da stimoli metodologici di altra natura, quali la consapevolezza dell’importanza dei dati contestuali e associativi che talora accompagna-vano i singoli nuclei monetali. Come infatti aveva già evidenziato Bartolomeo Borghesi (1781-1860) e come successivamente sanciranno gli studi del suo “discepolo” Celestino Cavedoni e quelli di Theodor Mommsen, si cominciava proprio allora a intuire che dati di questo tipo potevano fornire fondamentali informazioni per un migliore inquadramen-to delle emissioni monetali non solo da un punto di vista meramente topografico (con-statazione che, come si è visto, era già nota ai numismatici del XVII e XVIII secolo) ma soprattutto in una prospettiva storico-economica102.

Tale modo di procedere, tuttavia, comportò un notevole rallentamento nell’opera di riordino, ulteriormente aggravato dal progressivo accumulo di incarichi lavorativi che, nel 1839, erano culminati con la sua nomina a successore dell’Arditi nella direzione del

99 Data la lacunosità e l’approssimazione delle informazioni disponibili il grafico, nel quale si è cercato di for-nire una seppur generica distinzione fra le monete antiche e quelle moderne, è puramente indicativo. In particolare si deve tener conto che non è noto quante monete fossero presenti nelle raccolte del Museo nel 1817, al momento del rientro delle casse trasferite in Sicilia. Se è corretto il dato relativo alla presenza di 30000 esemplari al momento dell’avvio del riordino del medagliere (testimoniato da una relazione congiunta Avellino-Rosini risalente al 1822: milanese 1995, pp. 178-179 e nota 9) bisogna supporre che a Napoli fossero rimaste fra le 8000 e le 9000 monete che si sarebbero poi aggiunte a quelle rientrate da Palermo e di cui, nell’incertezza, si è deciso di non tener conto nel grafico. Negli elenchi redatti da Fiorelli, inoltre, non si fa quasi mai menzione delle monete rinvenute negli sca-vi delle città vesuviane che dovettero contribuire in modo significativo all’incremento del medagliere.

100 cantilena 1995, eAd. 1996, cantilena, giove 2001, milanese 1995, id. 1999 con bibl. prec.; vd. inoltre quanto accennato al riguardo alla nota 24.

101 «Dichiariamo che tutto quello che contiensi attualmente nel Real Museo Borbonico e tutto quello che di nostro ordine vi sarà in avvenire depositato, è di nostra libera proprietà allodiale, indipendente dai beni della Corona. Riserbiamo a Noi la facoltà di disporne […]»: milanese 1995, passim e la bibl. sopra cit. alla nota 32.

102 Come ha chiaramente evidenziato parise 1993, p. 246: «[…] Le Decadi di Bartolomeo Borghesi (1821-40) […], secondo l’espressione di Mommsen, avrebbero segnato un’epoca nuova per gli studi sulla moneta roma-na. Lo studio delle vicende dei monetieri, la spiegazione delle diverse tipologie, così come la datazione e la valu-tazione dei ripostigli conoscevano con Borghesi il primo consapevole tentativo di analisi scientifica». Gli spunti

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Fig. 13. il medagliere del museo archeologico nazionale di napoli. Evoluzione cronologica della raccolta: 1734-1865 (Elaborazione v. nizzo).

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Museo e degli scavi del Regno. Il progredire delle scienze numismatiche aveva frattan-to reso non più procrastinabile l’opera di edizione del ricchissimo medagliere borbonico che, salvo la pubblicazione più o meno episodica di singoli esemplari in innumerevoli studi di dettaglio, era rimasto sostanzialmente sconosciuto ai più non essendo regolar-mente accessibile sin dalla fine del secolo precedente e non essendo stato oggetto di alcuna trattazione sistematica dopo il trasferimento delle monete farnesiane da Parma a Napoli. Fu probabilmente per fornire una risposta agli eruditi che deprecavano tale situazione che il Ministro degli Interni Nicola Santangelo, nel 1838, interrogò Avelli-no sullo stato dei lavori e il tempo necessario per portarli a compimento, ottenendo da questi un immediato resoconto dal quale si poteva evincere che le monete fino ad allora «classificate ed annotate nel Catalogo in cinque distinte Collezioni» (greca, romana, moderna e due di duplicate) assommavano a 38012 fra le quali figurava anche una parte significativa delle più recenti accessioni che, comportando un costante incremento del medagliere, facevano sì che il lavoro di riordino fosse inevitabilmente perenne e, con esso, la stampa del catalogo103. Nel 1840, in seguito a un grave furto che aveva privato la raccolta di «molte rare medaglie di oro e di argento»104, si decise di affidare a Stani-slao D’Aloe il compito di conservatore del medagliere per far fronte ai crescenti impe-gni del Direttore e rendere al contempo possibile, dal 28/VI/1841, una apertura al pub-blico della collezione, con modalità che, tuttavia, risultavano ancora assai restrittive. Nel 1844 l’ulteriore procrastinarsi dei lavori di sistemazione e di edizione nonché alcu-ne significative divergenze sui metodi e le modalità d’azione aggravarono ulteriormen-te l’attrito fra Avellino e Nicola Santangelo il quale, anche in vista del VII Congresso degli scienziati italiani che si sarebbe svolto a Napoli nel settembre del 1845 e del quale era stato nominato Presidente Generale, decise di prendere in mano la situazione sol-lecitando Avellino a completare il riordino, a procedere alle consegne della raccolta e a fornire il numero esatto delle monete in essa conservate, cosa che, inoltre, avrebbe dovuto fugare le dicerie di quanti sospettavano che la sua celebre collezione di famiglia si fosse arricchita con monete e oggetti illecitamente sottratti al Museo Borbonico105.

metodologici elaborati da Borghesi e di cui si trovano tracce anche nel secolo precedente (Kinns 1990) avrebbero avuto poi compiuta formulazione a opera di Mommsen che, nel 1860, con la Geschichte des römischen Münzwe-sens aprì una nuova fondamentale pagina nella storia degli studi numismatici. In Italia le suggestioni dell’erudito sanmarinese vennero raccolte, in particolare, da Cavedoni che, nel 1854, con Il Ragguaglio storico archeologico dei precipui ripostigli antichi di medaglie consolari e di famiglie romane, produsse la prima monografia scientifica integralmente incentrata sullo studio dei ripostigli monetali. Su Borghesi vd. fraschetti 1982, panvini rosati 1982, crawford 1990; su Cavedoni vd. la bibl. sopra cit. alla nota 3. Fra le prove di una “sensibilità contestuale” dell’Avellino spicca quella relativa al ripostiglio di monete paleografiche per il quale vd. la bibl. cit. alla nota 81.

103 Rapporto Avellino del 9/V/1838 cit. in milanese 1995, pp. 179-181 e note 9, 14-15. Nel 1845 il meda-gliere sarebbe asceso a «quarantamila e più» esemplari secondo gli informati compilatori di aJello et Al. 1845, v. II, p. 178.

104 fiorelli 1864, p. 160.105 Per tali sospetti e accuse vd. milanese 1995, p. 184, nota 22, id. 1996, p. 174 e giove 1996, p. 194.

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Per accelerare l’opera, il Ministro affiancò all’anziano Direttore il giovane Giuseppe Fiorelli che, il 29/V/1844, fresco reduce dall’apprendistato del Tuzii e assai stimato per le sue prime pubblicazioni, venne nominato Ispettore con incarichi specifici relativi al medagliere106.

L’impatto di Fiorelli con Avellino non fu dei migliori, sebbene quest’ultimo avesse manifestato apprezzamento per le pubblicazioni del suo giovane collega; a dividerli non era soltanto il consistente gap generazionale quanto piuttosto una profonda divergenza metodologica nell’impostazione da dare al riordino del medagliere. Galvanizzato dal nuovo incarico e forte della fiducia dei Santangelo che, probabilmente, contavano sulle sue capacità per una velocizzazione dei lavori, Fiorelli sin da subito propose un rinnova-mento delle procedure che, a suo dire, avrebbe dovuto permettere di completare la risi-stemazione della raccolta e la sua edizione nei tempi previsti. Le sue proposte, tuttavia, incontrarono la netta ostilità di Avellino il quale si rifiutò di adottare un metodo che, pre-vedendo l’accorpamento dei diversi nuclei monetali secondo l’ordine cronologico e tipo-logico prima della redazione dei loro inventari descrittivi (e non dopo, come egli aveva sempre fatto), avrebbe comportato inevitabilmente (in mancanza di accurate descrizio-ni e di adeguate annotazioni metriche) la loro decontestualizzazione, come di fatto poi sarebbe avvenuto. Non essendo possibile pervenire a un compromesso, nell’estate del 1846, Fiorelli fu costretto ad abbandonare provvisoriamente il suo incarico per assume-re poi, nel maggio del 1847, quello di Ispettore degli scavi di Pompei. Nonostante, nel 1848, egli tornasse con Giovanni Vincenzo Fusco107 a occuparsi del medagliere – impri-mendo al riordino quell’impostazione rigettata dall’Avellino – le vicende personali che lo coinvolsero negli anni seguenti impedirono che l’opera venisse portata a termine, sic-ché, nel 1864, poco tempo dopo essere succeduto al Principe di San Giorgio nel ruolo di Direttore del Museo Nazionale, Fiorelli amaramente ancora constatava:

«È noto […] che l’Avellino rimasto solo al lavoro lo condusse innanzi per 30 anni accingen-dosi più volte a stampare il catalogo del medagliere che per circostanze inesplicabili non vide mai la luce, sebbene non mancassero sussidi e collaboratori in epoche diverse, onde più speditamente procedere alla pubblicazione di quel libro, che dovea porre fine alle incertezze surte sulla identità ed il numero delle antiche monete serbate nel Museo […]. Onde per com-pensi straordinari all’autore, ed a coloro che lo avevano in alcun modo coadiuvato, furono

106 milanese 1995, pp. 182 e ss.; a questo scritto si rinvia per una ricostruzione attenta e dettagliata delle vicende del riordino del medagliere di seguito sintetizzate.

107 Sull’opera di Giovanni Vincenzo Fusco (1819-1849) e del padre di questi Salvatore (1772-1849), grandi raccoglitori di carte antiche e di monete medievali (quest’ultimo ricordato già nel 1819 da De Jorio fra i principali collezionisti napoletani: vd. sopra alla nota 95), vd. diffusamente d’avella 1850, sulla loro collezione numisma-tica vd. S. d’aloe in aJello et Al. 1845, v. II, p. 320:«Il giudice di gran corte criminale Salvatore Fusco pos-siede una importante e ricca collezione di monete, la quale prende cominciamento dalla caduta dell’impero sino a’ nostri giorni».

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spese oltre Lire 50 mila, senza che fosse perciò più noto il medagliere di quello che lo era nel 1820, quando ne venne ordinata per la prima volta la stampa»108.

Dall’alto del suo nuovo incarico Fiorelli cercò di rimediare a quell’inutile dispendio di mezzi e di persone, di cui sentiva il peso non solo rispetto all’Istituto che rappresen-tava ma, soprattutto, di fronte alla comunità scientifica internazionale, nei riguardi della quale mostrò sempre una particolare sensibilità109. Dedicando tutto se stesso all’opera di riordino del medagliere e di una parte delle raccolte minori, fu in grado – fra il 1866 e il 1871 – di dare finalmente alla luce i primi sei volumi del Catalogo delle collezio-ni numismatiche110, i quali vennero accolti con entusiasmo dai cultori della materia per l’amplissima mole del materiale esaminato (oltre 53000 esemplari), sebbene l’edizione si limitasse a fornire descrizioni molto spesso insufficienti rispetto alle esigenze scienti-fiche dell’epoca e fosse del tutto sprovvista di tavole illustrative e di adeguati riferimen-ti metrici che consentissero non solo un puntuale inquadramento ma anche il semplice riconoscimento delle singole monete e delle loro varianti e dalla quale, peraltro, risultava espunto un numero imprecisabile, ma cospicuo, di esemplari duplicati e/o mal conserva-ti, destinati a giacere dimentichi e senza collocazione per i decenni seguenti111. L’opera tanto attesa nasceva quindi con gravi limitazioni che ne pregiudicavano un proficuo uti-lizzo in mancanza di quei necessari approfondimenti che Fiorelli stesso aveva auspica-to e che, ancora oggi, sono lungi dall’essere compiuti. Tale arretramento, tuttavia, non

108 fiorelli 1864, p. 120.109 Si veda a tal proposito una lettera inviata da Fiorelli a Henzen l’11/IV/1864 conservata presso l’archivio

dell’Istituto Archeologico Germanico (Sachgruppe II; su carta intestata Soprintendenza G.le e Direzione del Museo Nazionale e degli scavi di antichità): «Cariss.o Amico / Vi ringrazio della gentile profferta per la stampa del volu-me del Gerhard, e certamente vorrei anche io mostrargli l’altissima stima che in Italia si fa della sua dottrina. Solo desidero che mi accordiate un poco di tempo, trovandomi ora sommerso in molti lavori assai faticosi, e di poca reputazione, ma che non di meno sento l’obbligo di compiere, trovandomi a capo del Museo. Intendo dire del Catalogo generale, al quale lavoro indefessamente senza aiuti né consigli. Sono ora a collocare le iscrizioni, divi-dendole per città e regioni; stampo contemporaneamente il catalogo delle monete che si attendeva dal 1820, quello degli oggetti preziosi e l’altro della raccolta pornografica. Ho riveduto il terzo volume della nuova serie dei papiri, confrontando le incisioni con gli originali, eseguite quelle già da molti anni, e ora si va stampando il vol. quarto. Aggiungete le cure quotidiane richieste dagli scavi di Pompei e per l’amministrazione di un numeroso personale, e vedrete che il vostro amico non è molto indiscreto, se vi chiede di sapere quale sia l’ultimo termine assegnato per la presentazione degli articoli […]». Colgo l’occasione per ringraziare vivamente il Dott. Th. Fröhlich per avermi permesso di accedere ai preziosi archivi del DAI.

110 fiorelli 1866a, id. 1866b, id. 1867, id. 1870a, id. 1870b, id. 1871.111 breglia 1955, pp. 154-155: «Purtroppo nonostante tale mirabile sforzo […] il riordinamento del Meda-

gliere napoletano restava incompiuto. Da un lato, infatti, erano da riordinare le numerose medaglie della raccolta del Museo Nazionale e le monete romane (repubblicane e imperiali), della collezione Santangelo, cui si aggiunge-vano monete moderne e medaglie italiane ed estere della stessa raccolta, dall’altro, ogni gruppo di quelli catalo-gati dal Fiorelli aveva lasciata una serie, talora considerevole di relitti, costituiti non solo dagli esemplari falsi o

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va imputato integralmente ai limiti scientifici del Fiorelli numismatico di cui si è fatto cenno al principio di questa trattazione, ma alla mole stessa del lavoro che con le sue sole forze dovette compiere e che, proprio nel 1865, era stato pesantemente aggravato dall’acquisto della celeberrima collezione Santangelo, per conseguire il quale Fiorelli si era strenuamente e incisivamente battuto.

La collezione Santangelo era l’ultima sopravvissuta delle grandi raccolte familiari formatesi nei decenni convulsi compresi fra le due Restaurazioni e, sin dal 1815, una delle più note e apprezzate del Regno di Napoli. Iniziata a opera del marchese Francesco (1754-1836), giureconsulto e uomo politico dai vastissimi interessi letterari e collezio-nistici e dalla spiccata propensione per gli affari, essa crebbe considerevolmente grazie alla passione e all’abilità dei suoi due figli, Nicola (1786-1851), Intendente dal 1812 in gran parte delle province del Regno e, dal 1831, Ministro degli Affari Interni, e Michele (1796-1876), cultore di numismatica e artefice principale del medagliere112 (Fig. 14). Ospitata dal 1813 nel palazzo che era appartenuto a una delle più antiche e importanti famiglie dell’aristocrazia napoletana (i Carafa di Maddaloni, poi Colubrano, noti sin dal '400 per la loro passione collezionistica e inesorabilmente decaduti durante il decennio

sospetti, bensì anche da altro materiale che per essere costituito da doppi o da pezzi consunti, e comunque sciupa-ti, non erano stati inclusi dal Fiorelli nella raccolta […]. Il disordine, pertanto, lamentato dal Fiorelli agli inizi del suo lavoro si era ridotto ma non cancellato definitivamente […]; i suoi successori […] trovavano ormai costituito il medagliere napoletano ma ne trovavano compromesse le sorti. Da un lato infatti i nuclei in disordine lasciati dal Fiorelli erano destinati a germinare e moltiplicarsi, per sopravvenire di nuovi minori incrementi […], dall’altro lo stesso riordinamento Fiorelli […] aveva irrimediabilmente pregiudicate infinite possibilità scientifiche del mate-riale, col distruggerne, per la parte proveniente da scavo, tutti i dati di provenienza. Perdita determinata dal cri-terio collezionistico ottocentesco, inteso a valorizzare unicamente gli esemplari migliori, e pertanto inevitabile in quel periodo, ma che non sarà mai deplorato abbastanza oggi che il patrimonio delle nostre raccolte vale, non più e non soltanto per la bellezza o la rarità del singolo pezzo, ma soprattutto per quel che essi rappresentano come documento di storia». Le condivisibili parole di biasimo della Breglia vanno integrate con le considerazioni di Milanese (milanese 1995), che permettono di calare più compiutamente l’operato di Fiorelli nel suo tempo. Egli, infatti, pur perseguendo i migliori criteri espositivi in auge nei principali medaglieri della sua epoca, trascurò quella che era la peculiarità delle raccolte napoletane il cui incremento, diversamente dai consueti meccanismi collezioni-stici, era spesso direttamente legato alle attività di scavo e di ricerca sul territorio che facevano sì che, talvolta, fosse conservato il nesso fra le monete e il loro contesto di provenienza; tale omissione, tuttavia, comportò probabilmente un vantaggio pratico di ben più vasta portata che non dovette sfuggire allo stesso Fiorelli, poiché l’unificazione delle raccolte impedì agli eredi dei Borbone di reclamare quella parte delle collezioni che loro apparteneva, essendo essa di proprietà allodiale. Per quanto attiene alla forma data ai suoi Cataloghi si deve tener conto che l’obbiettivo perseguito dall’archeologo napoletano era unicamente quello di dare una sommaria cognizione delle raccolte, non essendo possibile, per questioni di tempo e di disponibilità economiche, produrre una edizione corredata di tavole e visto anche che i mezzi tecnici allora disponibili non permettevano una puntuale misurazione del peso dei singoli esemplari che tenesse conto di discrimini, in molti casi, infinitesimali.

112 Sui Santangelo e la loro collezione vd. milanese 1996, id. 2005, lista 1996; sul medagliere vd. fio-relli 1866, id. 1867, giove 1996, ead. 2001, ead. 2007. Formata da Francesco che rilevò con abili mosse finanziarie i patrimoni mobiliari di alcune delle più celebri famiglie aristocratiche napoletane come i Carafa di

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Fig. 14. la famiglia santangelo (1840 ca.). Collezione privata: seduto a sx. Nicola (1786-1851), in piedi a dx. Michele (1796-1876), alle spalle del busto del padre, Francesco (1754-1836) (da milanese 2005, Fig. 1).

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francese)113, la collezione fu per molti anni meta di viaggiatori ed eruditi che spesso si contendevano il privilegio di pubblicarne qualche inedito tesoro grazie alla liberalità e a una consapevole dose di esibizionismo dei suoi munifici possessori, i quali, inoltre, come nel caso di Fiorelli, ne incoraggiavano lo studio con opere di vero e proprio mece-natismo. Nel 1845 il palazzo dei fratelli Santangelo fu il teatro del sontuoso ricevimento offerto dal Ministro Nicola agli scienziati italiani convenuti a Napoli per celebrarvi il loro VII Congresso; le guide dell’epoca testimoniano quale fosse l’ordine delle colle-zioni, degno di competere con gli allestimenti delle raccolte pubbliche delle principali corti europee, compresa quella del Museo Borbonico. Il medagliere, in particolare, era ospitato in una delle stanze del palazzo compresa fra la quadreria e il gabinetto delle stampe; le monete, accuratamente distribuite secondo l’ordine cronologico e i miglio-ri requisiti museografici del tempo, erano disposte per serie in appositi armadi uno dei quali, peraltro, appartenuto al celebre Carelli114. Tale ordinamento sembra fosse curato personalmente da Michele Santangelo il quale, come altri suoi illustri predecessori quali Carafa e Arditi, ne stava approntando il catalogo per la pubblicazione. Tale opera, tutta-via, come nei casi citati, rimase manoscritta e andò poi irrimediabilmente dispersa nono-

Colubrano e i Caracciolo di Torchiarolo, la collezione venne poi accresciuta dal figlio Nicola che seppe far fruttare l’incarico da Intendente (preposto, fra le altre cose, al controllo degli scavi privati) per soddisfare i suoi personali interessi collezionistici, piegando a suo vantaggio quello che oggi propriamente definiremmo un “conflitto di inte-ressi”. Divenuto ministro la sua passione per le antichità e una certa consapevolezza diffusa del suo agire spregiudi-cato dettero agio non solo a semplici critiche ma a vere e proprie accuse, per difendersi dalle quali, come si è accen-nato (vd. sopra con bibl. alla nota 105), Nicola cercò di mettere in atto una politica di “trasparenza” nella gestione delle raccolte del Museo Borbonico la quale, tuttavia, non fu sufficiente a por freno a quegli attacchi (mossigli, fra gli altri, dal Settembrini) che nel 1847 lo costrinsero a dimettersi, nello stesso anno in cui aveva dovuto cedere la sua parte della raccolta al fratello Michele. Come ha rilevato Milanese, è possibile che in quest’ultimo atto vada ravvisata l’origine dei dissesti familiari dei Santangelo che, nell’arco di appena 15 anni, li avrebbero indotti a pri-varsi del loro celebre museo privato.

113 Vd. sopra alla nota 50.114 Una accurata descrizione del palazzo Santangelo e, in particolare, della disposizione della collezione

numismatica venne pubblicata proprio in occasione del citato congresso degli Scienziati Italiani a cura dell’allora conservatore del medagliere borbonico, Stanislao D’Aloe (in aJello et Al. 1845, v. II, pp. 326-327); da essa dipendono, più o meno letteralmente, quasi tutte le altre descrizioni dell’epoca citate in milanese 1996, p. 178, nota 5. Il brano di D’Aloe merita di essere trascritto perché costituisce una delle poche testimonianze disponibili dell’allestimento di un medagliere privato nella Napoli della prima metà dell’800: «[…] Dopo le stanze della qua-dreria apresi quella delle medaglie e monete di oro, di argento e di bronzo. Di questa ricchissima e ben ordinata raccolta senza alcun dubbio la classe delle monete autonome delle città e dei popoli d’Italia è la più variata di quante si conoscano, noverando essa molte monete inedite, moltissime della più grande rarità, e tutte di conser-vazione perfetta. A questa fan seguito le monete ponderarli (aes grave), assegnate o portanti il nome di varie città italiane. Le monete degli antichi popoli di Europa, oltre l’Italia, e quelle delle città, de’ popoli e de’ re dell’Africa e dell’Asia, e tutte le coloniali son raccolte in armadio separato. L’armadio delle monete delle famiglie romane comprende ancora gli assi di Roma, tanto fusi che coniati, con le diverse frazioni di essi, non pure che tutte quelle monete coniate col nome di Roma in varie città d’Italia, una volta attribuite generalmente alla Campania. L’ar-

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stante questi vi avesse posto mano diversi anni prima del 1838115 e, nel 1856, avesse già fatto approntare numerosi disegni dei quali, con la consueta prodigalità, concesse l’uso al Minervini per il suo Saggio, oltre il permesso di far disegnare alcune altre mone-te, cosa che lo studioso contraccambiò menzionando la Collezione Santangelo al primo posto fra le raccolte napoletane di cui si era avvalso per le sue ricerche, quali quelle di Luigi Sambon, dell’avvocato Giuseppe Lauria, del Principe di San Giorgio, del padre Luigi Tortora, del signor Domenico dei Baroni Oliva e di Francesco Mongelli116. Al pro-getto di edizione del suo medagliere Michele Santangelo lavorava ancora nel giugno del 1865117, pochi giorni dopo (31/V) aver formalizzato il contratto con il quale, «indotto

madio delle monete imperiali contiene la serie degli imperatori occidentali ed orientali, e termina con la cadu-ta dell’ultimo impero. Alla serie imperiale fa seguito, in altro armadio, quella delle monete battute ne’ ducati di Napoli, di Benevento, di Amalfi e di Gaeta, ne’ principati di Salerno e di Capua, nella contea di Teano, e quindi venendo a quelle del ducato di Puglia e della gran contea di Sicilia, si aggiunge a Ruggeri, e da costui a’ nostri giorni. Formano le branche di quest’ultima classe di monete quelle battute in molte città d’Italia nel medio-evo, e son riposte in apposito armadio, in cui sono pure collocate le altre delle città straniere. In altri piccioli armadi, fuori de’ già indicati, si contengono medaglie e monete di re, di papi e di uomini illustri in ogni ramo di umano sapere. Il catalogo di questo rinomato medagliere si sta dottamente elaborando dal cavalier Michele Santangelo per vedere a suo tempo la pubblica luce, ad utilità della scienza». La disposizione descritta ricorre anche nelle relazioni redatte in occasione dell’acquisto e si protrarrà, in parte, nei cataloghi editi da Fiorelli; sugli armadi della collezione Santangelo, oggi custoditi con essa nel Museo di Napoli, vd. giove 1996, p. 191 e figg. a p. 192.

115 Come testimonia una lettera del 27/VII/1838 inviata da Millingen a Emil Braun e parzialmente riportata in milanese 2005, p. 114: «[…] Ho veduto la collezione dei vasi di Santangelo che è molto ricca in soggetti e forme. […] Esso pensa di farli disegnare e pubblicare, ma il male è che in questo paese non si finisce niente. Il catalogo del medagliere cominciato da tanti anni non è ancora finito».

116 minervini 1856, prefazione. Salvo quelle Santangelo, San Giorgio (cit. sopra alla nota 94) e di L. Sambon (antiquario e numismatico parigino trasferitosi a Napoli intorno alla metà del secolo, fu autore, nel 1863, delle Recherches sur les anciennes monnaies de l’Italie méridionale e padre di Giulio e Arthur, 1867-1947, il quale, nel 1903, ne proseguirà l’opera pubblicando Les monnaies antiques de l’Italie: cantilena 1996, p. 72, nota 7), tutte le altre raccolte dovettero formarsi nel secondo quarto del XIX secolo non essen-dovene specifica menzione in altri scritti. Fra le collezioni numismatiche di questo periodo può essere ricor-data anche quella del Castaldi cit. da s. d’aloe in aJello et Al. 1845, v. II, pp. 333-334: «Il consigliere di suprema corte di giustizia Giuseppe Castaldi tiene una scelta collezione di monete autonome, spettanti per la maggior parte alla Magna Grecia, ed una raccolta di monete dei nostri re, con molti medaglioni, alla quale fa seguito una compiuta serie di medaglie di uomini illustri».

117 Tale circostanza è documentata in una lettera sinora inedita conservata fra le Carte Fiorelli della Biblio-teca Nazionale di Napoli (Mss. S. Martino 780 bis, Carte Fiorelli, busta 108, foglio 3): «Napoli li 28 Giugno 1865 / Gentilissimo Signor Commendatore / Prima di restituire il bozzo [sic!] del contratto all’Avvocato del Municipio desidero di parlarvi onde assodare e consacrare nel contratto medesimo una qualche frase riguardante la sicurez-za ed il decoro di entrambi, come vi spiegherò, le quali toccano un poco il mio amor proprio, e solamente con un accordo fra noi possono modificarsi. / Desidero ancora prima di dare la consegna del medagliere dare un colpo di occhio ad una ventina di monete di cotesto Museo Nazionale, e ciò perché per mia particolare memoria sto pren-dendo delle note per qualche moneta della mia collezione che passerà al Municipio. / Per queste ragioni vi prego

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da più che imperiose circostanze»118, cedeva per 215000 lire al Municipio di Napoli per destinarla al Museo Archeologico (dove sarà allestita e inaugurata il 27/I/1867) l’intera collezione sventando il rischio che venisse venduta all’estero in virtù di un contratto pre-cedentemente stipulato con gli antiquari Rollin e Feuardent. L’acquisto della collezione Santangelo (il cui medagliere, forte di oltre 42000 esemplari, avrebbe sostanzialmente raddoppiato quello del Museo Nazionale) costituì uno dei più limpidi successi conseguiti da Fiorelli negli anni della sua direzione. Grazie al suo impegno, al suo intuito e alle sue conoscenze, infatti, gli fu possibile evitare un deprecabile espatrio che avrebbe privato la Nazione di una delle più celebri raccolte private esistenti in Italia, come era accaduto nel 1862 con la collezione del marchese Campana passata al Louvre. Il medagliere del Museo di Napoli veniva in tal modo risarcito delle pesanti sottrazioni subite al principio del secolo e poteva tornare nuovamente a vantare una posizione di prestigio fra le altre raccolte d’Europa119.

di darmi un appuntamento, onde possa recarmi in cotesto Museo, nel giorno e nell’ora nella quale posso trovarvi alquanto disoccupato, tanto più che nel momento i miei mali fisici mi danno un poco di tregua. / Ardisco pregarvi ancora di darne una prevenzione alla porta giacché io non posso dare un solo passo senza poggiarmi. / Attendo un sollecito grato riscontro, e mi segno / Vostro servo ed antico amico / Michele Santangelo».

118 M. Santangelo, Napoli 18/VI/1865, cit. in milanese 1996, p. 177 e giove 1996, p. 191.119 Nel 1866, seguendo l’esempio di Michele Santangelo, anche Gennaro Riccio (noto antiquario, fornitore

in più occasioni del Museo Borbonico e autore di opere numismatiche molto apprezzate al suo tempo ma giudicate assai modeste dalla critica moderna; fiorelli 1864, p. 177, babelon 1901, col. 245, parise 1993, p. 248, can-tilena 1996, p. 72, nota 7) propose in vendita al Municipio la sua celebre collezione, come testimonia una lettera inedita inviata in tale data a Fiorelli e conservata fra le sue Carte nella Bibl. Naz. di Napoli (Mss. S. Martino 780 bis, busta 98): «Onorevolissimo Sig. Commendatore / Giusta il Dilei saggio consiglio l’avantieri mi recai imman-tinente dall’egregio Signor Barone Nolli. Si ricordò benissimo delle trattative antecedenti per lo acquisto del mio medagliere consolaro=romane. Mi assicurò che sarebbesene occupato sollecitamente nominando all’uopo la Commissione, da Lei, Sig.r Commendatore, presieduta, e mostrando piacere di vederle schierate le monete in due camere piene. Mi onoro manifestarle quanto è occorso in questa facenda, onde esserle di norma, senza distrarla dalle Sue gravi e molteplici cure con altra mia visita. Mi rimetto al Dilei cuore, dignità, ed alta giustizia perché non sia defraudato ne miei interessi. L’anno passato mentre stava al casino a S. Giorgio a Cremano mi pervenne dal Signor Birch Conservatore aggiunto al Museo Britannico proposta di cedere la mia collezione numismatica al Museo medesimo per Cinque mila sterline, corrispondenti a docati trentamila della nostra vecchia moneta. Ma siccome avrei perduto bastantemente sul prezzo effettivo costatomi, mi denegai. Non so chi indusse mio genero Sig.r Ghirelli, dopo la vendita del Museo Santangelo, a far acquistare anche il mio medagliere al Municipio. Io allora mi mostrai aderente, ed anche al prezzo del Museo inglese, per l’onore di lasciare al paese questa rara col-lezione, costatami immense cure e fatiche per 36 anni. Il cholera e la dimissione del Nolli interruppe la trattativa. Spero che ora si riattacchi con migliori auspizj, e si venga a conclusione. Io son contento di Seimila docati nell’at-to del contratto, ed il resto in due o tre rate annuali, con l’interesse del 5 per cento a scalare, siccome dichiarai all’onorevole Sig. Sindaco, stipulando la scrittura in tai sensi. / Perdoni per carità questa filastrocca perché mi occorreva farle conoscere gli antecedenti, ed i dati dello affare, che costituisce la piccola mia fortuna e delle mie figlie. / Sommamente grato e tenutissimo ad ogni atto di Sua scrupolosa giustizia, con più profondo rispetto mi onoro dichiarare immutabilmente. / Di Lei Signor Commendatore / D.mo Aff.mo Servitor Vero / Gennaro Riccio /

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Quando il giovane Barnabei cominciò a frequentare Fiorelli nel 1865 lo trovò total-mente assorto nel lavoro di riordino e di edizione del medagliere. Con le sue impressioni e i suoi ricordi vogliamo chiudere questo contributo:

«Giuseppe Fiorelli era dedito allora totalmente a catalogare le monete. Posava sul suo tavo-lino un sacchetto dal quale traeva fuori un pezzo alla volta che strofinava con uno scopetti-no per levare la polvere e leggervi la leggenda che infine pazientemente trascriveva sopra fogli, che venivano a costituire il manoscritto del grande catalogo. […] Occuparsi di monete era per Fiorelli una manifestazione di vita e non gli costava alcuna pena, anzi era quasi un riposo tanto è vero che egli mentre ripassava le monete, ripulendole col suo scopettino e tra-scrivendo le leggende, dava contemporaneamente udienza alle persone che quasi di continuo venivano al Museo per parlare con lui spinte perlopiù da interessi»120.

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120 barnabei-delpino 1991, p. 86.

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SUMMARY

In 1734, Elisabetta Farnese transferred the celebrated Farnese medal and coin collection from Parma to Naples together with other collections of art and antiquities, which subse-quently formed the first nucleus of the Bourbon Royal Collections. In a short time, it rapidly grew thanks to an extraordinary series of discoveries that occurred during the enlightened Caroline season. Thereafter the history of the Royal Collections merged with that of the

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Kingdom of the Two Sicilies with serious consequences, particularly in the period between the two Restorations. Seriously depleted, the collection was increased partly by the progres-sive acquisition – through purchases and donations – of some of the most important private coin collections in the Kingdom of the Two Sicilies, such as that of the Duke of Noja, of Arditi, of Poli, of Santangelo… to name but a few. At that time, many collectors and anti-quarians – such as Carelli, Arditi, Avellino and Fiorelli – were involved in the study and/or reorganization of the Bourbon medal and coin collection. This contribution is dedicated to their stories as human beings and collectors, and to the history of the Medal Collection of the National Archaeological Museum of Naples between 1734 and 1865.