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Fausto Vecchio, Un nuovo capitolo nella "saga" del data retention: la Corte costituzionale della Repubblica Ceca dichiara l'incostituzionalità degli atti di attuazione della Direttiva

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Rivista elettronica del Centro di Documentazione Europea

dell’Università Kore di Enna

UN NUOVO CAPITOLO NELLA “SAGA” DEL DATA

RETENTION: LA CORTE COSTITUZIONALE DELLA

REPUBBLICA CECA DICHIARA

L’INCOSTITUZIONALITÀ DEGLI ATTI DI

ATTUAZIONE DELLA DIRETTIVA 2006/24/CE

Fausto Vecchio Assistant professor nell'Università Kore di Enna

Lo scorso 22 marzo, dichiarando l’incostituzionalità dei provvedimenti normativi

interni che davano attuazione alle previsioni contenute nella Direttiva 2006/24/CE, l’Ústavní

soud della Repubblica Ceca ha aumentato il numero di giurisdizioni costituzionali che hanno

rilevato i problemi di costituzionalità nel dare attuazione alle disposizioni europee in materia

di data retention: dopo le pronunce dei loro colleghi bulgari, romeni, tedeschi, ciprioti e

ungheresi, anche i giudici di Brno hanno accolto le ragioni di quanti si sono lamentati dei

pericoli connessi ad un sistema massivo di raccolta preventiva dei dati informatici ed

elettronici. Dal punto di vista del diritto costituzionale europeo, la pronuncia ceca appare di

grande interesse perché offrendo una nuova riconferma delle argomentazioni proposte dal

Bundesverfassungsgericht in occasione della decisione sul mandato di arresto europeo, mostra

il modo in cui si sta consolidando una certa concezione delle relazioni tra gli ordinamenti.

Nel ricostruire i fatti che hanno portato alla pronuncia dei giudici cechi può essere utile

mettere in evidenza che la vicenda si svolge nel quadro di una procedura di controllo

inaugurata da un gruppo di cinquantuno deputati che lamentano l’incostituzionalità della

legge 125/2005 (Legge sulle comunicazioni elettroniche) e del connesso decreto 485/2005. I

ricorrenti sostengono che imporre ai gestori dei network di telecomunicazioni l’obbligo di

registrare tutti i dati relativi alle comunicazioni effettuate con i sistemi di nuova generazione

(sms, mail, connessioni internet, telefonia voip, ect.) e l’obbligo di mettere queste

informazioni a disposizione delle autorità investigative vale ad allontanare la Repubblica Ceca

dagli schemi istituzionali propri dello stato di diritto: il sistema realizzato dalle norme

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impugnate integra una chiara violazione dell’art. 8 della Convenzione europea dei diritti

dell’uomo e, senza rientrare nell’ambito delle limitazioni consentite dall’art. 4 della Carta dei

diritti e delle libertà fondamentali (che nel sistema ceco ha rango costituzionale), viola gli art.

2, 3, 7 e 13 della Carta ceca (da cui la giurisprudenza nazionale generalmente desume

l’obbligo costituzionale di non interferire con la vita privata). Inoltre, mostrandosi

consapevoli del legame che corre tra le disposizioni oggetto del pronunciamento e la Direttiva

2006/24/CE, i ricorrenti chiedono al giudice costituzionale di sospendere il loro giudizio e di

sollecitare un cambio di orientamento interpretativo da parte della Corte di giustizia:

denunciando possibili violazioni dei Trattati, essi chiedono ai magistrati del Lussemburgo di

rivedere il giudizio - espresso con la decisione C – 301/06, Irlanda c. Parlamento europeo e

Consiglio, del 25 febbraio 2009 - secondo cui la pratica del data retention sarebbe conforme

al diritto comunitario. Secondo il ragionamento giuridico alla base del ricorso, insomma, le

norme impugnate, al di fuori della copertura offerta dal principio di proporzionalità, ledono

alcuni diritti fondamentali riconosciuti dall’ordinamento costituzionale, dall’ordinamento

convenzionale e dall’ordinamento comunitario e pertanto, dopo l’accertamento pregiudiziale

del giudice europeo, devono essere dichiarate incostituzionali.

Questa posizione viene contestata in maniera abbastanza tiepida dai rappresentanti

istituzionali della Camera dei Deputati e del Senato che intervengono nel procedimento ai

sensi dell’art. 42 e dell’art. 69 del regolamento della Corte. In particolare, lo speaker del

Senato, dopo aver ribadito la correttezza formale dell’iter normativo seguito dai due

provvedimenti si esprime in favore della costituzionalità delle norme impugnate perché ritiene

che le violazioni denunciate non sussistano: la registrazione dei dati relativi alle

comunicazioni (orario, durata, interlocutore etc.) è da tenere concettualmente distinta

dall’intercettazione dei contenuti delle comunicazioni e non rientra nell’ambito delle norme

invocate.

A fronte di una controversia che si incentra essenzialmente sul contenuto dell’obbligo

costituzionale di non interferire con la vita privata dei cittadini, la Corte costituzionale mostra

una grande sensibilità nei confronti della comparazione giuridica e, oltre a richiamare la

propria giurisprudenza costituzionale, richiama i riferimenti normativi e i precedenti

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giurisprudenziali della Corte europea dei diritti dell’uomo e di altri sistemi costituzionali

(principalmente Germania e Stati Uniti). Risultato di questa analisi comparata è la

conclusione secondo cui «apart from the traditional definition of privacy in its space

dimension (protection of the home in a broader sense) and, in connection with the

autonomous existence and public authority, undisturbed creation of social relationships (in a

marriage, family or society), the right to respecting private life also includes the guarantee of

self-determination in the sense of primary decision-making of an individual about

themselves». Partendo da questo concetto tanto ampio, i giudici costituzionali riconoscono

che, a prescindere dalla mancanza di una norma che esplicitamente riconosca la possibilità di

determinare le informazioni sensibili che sono accessibili ai terzi, il costituente ceco non si è

limito a riconoscere soltanto i classici diritti all’integrità psicofisica e all’inviolabilità delle

comunicazioni private, ma secondo uno schema consolidato nelle esperienze democratiche ha

riconosciuto un diritto all’«informational self-determination» e ha garantito la possibilità di

disporre delle informazioni relative alle proprie comunicazioni.

Una volta smentita la ricostruzione proposta dallo speaker del Senato e una volta

chiarito che la Carta ceca dei diritti fondamentali non si limita a garantire soltanto il contenuto

delle comunicazioni, la Corte sceglie una via procedurale diversa da quella suggerita dai

ricorrenti e preferisce invece imboccare la strada indicata dalla giurisprudenza costituzionale

tedesca a partire dalla pronuncia sul mandato di arresto europeo (BVerfGE, 113, 273,

Darkanzali, del 18 luglio 2005). Così, per risolvere la questione relativa alle modalità di

intervento su provvedimenti che hanno origine da una previsione europea, i giudici di Brno

statuiscono (senza addurre ulteriori argomenti) che la vicenda ha rilevanza esclusivamente

interna perché la Direttiva europea lascia al legislatore nazionale i margini di spazio necessari

per adempiere gli obblighi costituzionali. In effetti, diversamente da quanto avevano fatto i

loro colleghi rumeni (sentenza 1.258/2009 dell’8 ottobre 2009), i giudici cechi non si

spingono sino a censurare apertamente la Direttiva e, confinando le loro critiche in una parte

significativamente intitolata obiter dictum, giustificano il loro intervento in relazione a

previsioni lasciate alla disponibilità del legislatore nazionale: i provvedimenti di attuazione

sono incostituzionali soltanto nella misura in cui non definiscono chiaramente le modalità di

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intervento da parte del potere pubblico, non contemplano l’obbligo di informare l’interessato

dell’avvenuto accesso alle sue informazioni sensibili, non specificano in maniera univoca i

termini entro cui i provider sono obbligati a cancellare i dati raccolti, non limitano l’utilizzano

dei dati alla prevenzione di determinate tipologie (particolarmente gravi) di crimini e non

prevedono specifiche misure di prevenzione degli abusi. Insomma, come dire che, malgrado i

dubbi e le perplessità espresse attraverso gli obiter dicta, l’incostituzionalità non deriva dalla

astratta previsione di un meccanismo di data retention, ma piuttosto è la conseguenza delle

modalità concrete con cui il legislatore ha trasposto l’atto normativo europeo.

Malgrado l’attenzione riposta dal giudice ceco e malgrado la pronuncia sia ispirata da

una genuina (e da questo punto di vista apprezzabile) volontà di evitare che l’origine europea

delle norme impugnate si trasformi in un pretesto per abbassare gli standard nazionali di

protezione dei diritti fondamentali, la decisione offre spunti per una riflessione critica sulla

configurazione delle relazioni degli ordinamenti. Infatti, per un verso è vero che in ragione

della delicatezza delle prescrizioni della Direttiva e in ragione dell’atteggiamento troppo

indulgente della Corte del Lussemburgo, la dichiarazione di incostituzionalità si rivela utile

per bloccare (almeno provvisoriamente) e rivedere l’applicazione di una normativa che

oggettivamente presenta alcuni profili abbastanza inquietanti. Per contro, però, al di là del

fatto che la motivazione insiste su un profilo formale (la rilevanza esclusivamente interna

delle previsioni impugnate) che mal si concilia con l’idea di costituzione materiale e con la

concezione evolutiva di sovranità usate dallo stesso giudice costituzionale per giustificare la

costruzione europea, appare assai discutibile la scelta di mutuare l’impianto argomentativo

della decisione tedesca sul data retention e di non utilizzare lo strumento del rinvio

pregiudiziale: seguendo le orme della decisione con cui il Bundesverfassungsgericht

(BVerfG., 1 BvR 256/08, Data retention, del 2 marzo 2010) ha negato la necessità di adire

l’istituzione giudiziaria sovranazionale e ha provveduto ad annullare direttamente le norme di

attuazione della Direttiva 2006/24, l’Ústavní soud smentisce lo spirito collaborativo che, a

detta di molti commentatori, ha fin qui caratterizzato la sua giurisprudenza “europea” e si

espone alle stesse critiche che la dottrina ha riservato al Tribunale federale.

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Alla luce di questa rapida disamina pare possibile concludere che, pur essendo dettata

da un sincero desiderio di garantismo, la soluzione individuata per il caso in questione non

appare complessivamente soddisfacente. Innanzitutto, dichiarando l’incostituzionalità totale

degli atti impugnati, i giudici di Brno impediscono l’attuazione di una normativa comunitaria

che per quanto problematica resta ancora formalmente vigente e, almeno teoricamente,

espongono il loro paese al rischio di una procedura di infrazione. Inoltre, mostrando sfiducia

nei confronti della giurisdizione del Lussemburgo, essi spezzano l’obbligo di leale

collaborazione che dovrebbe ispirare le relazioni tra i giudici e contravvengono agli obblighi

imposti dalla giurisprudenza europea sulla base dell’art. 234 TCE (ora art. 264 TFUE). Infine,

ed è probabilmente il punto più rilevante, essi falliscono nell’obiettivo di riuscire a garantire

adeguati standard di protezione dei diritti perché, per limitare le loro censure all’attività

legislativa interna, essi hanno finito comunque per aprire la via ad una pratica che resta

comunque assai discutibile. Preferibile sarebbe invece stato incalzare la Corte di giustizia

affinché si decida a dichiarare l’invalidità di una direttiva che presenta evidenti problemi di

costituzionalità e affinché finalmente scriva l’ultimo capitolo di una vicenda giurisprudenziale

che ha già messo in luce le contraddizioni dell’attuale modello di relazioni tra gli ordinamenti

e che ormai ha assunto i caratteri di una vera e propria “saga”.

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