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Codice deontologico: illeciti e sanzioni
Materiale didattico
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INDICE 1. Rapporti con il cliente e con la parte assistita .................................................. 3
2. Rapporti con i colleghi, terzi, controparti e istituzioni forensi ........................... 37
3. Doveri dell'avvocato nel processo ................................................................ 52
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1. Rapporti con il cliente e con la parte assistita
1. - Struttura del nuovo codice deontologico
Il codice deontologico forense del 2014 si compone di 73 articoli raccolti in sette
titoli. Nel Titolo I (artt. 1-22) vengono riportati i principi generali, contenenti i
presupposti per affermare la responsabilità disciplinare, ma soprattutto i doveri che
l’avvocato deve osservare nell’esercizio della professione, doveri che sono enunciati
senza una specifica sanzione, atteso che la loro violazione non è perseguibile
autonomamente ma solo nelle ipotesi previste nei successivi titoli del codice
deontologico.
Nel Titolo II (artt. 23-37) vengono illustrati i singoli “comportamenti”
dell’avvocato nei rapporti con il cliente e con la parte assistita, e la sanzione
disciplinare applicabile per ogni illecito deontologico. In particolare viene scandito il
momento della nascita del rapporto professionale, con gli obblighi informativi e
“particolari divieti”.
Nel Titolo III (art. 38-45) vengono trattate le problematiche deontologiche nei
rapporti con i colleghi, con indicati gli illeciti deontologici e le connesse sanzioni
disciplinari. In particolare è previsto che nel proprio studio l’avvocato dovrà favorire la
crescita formativa dei collaboratori, compensandone in maniera adeguata la
collaborazione. Una attenzione particolare è dedicata anche ai praticanti.
Nel titolo IV (artt. 46-62) si trattano dei doveri dell’avvocato nel processo, con le
relative sanzioni in caso di inosservanza, mentre il Titolo V (artt. 63-68) è dedicato
ai rapporti con terzi e controparti, ed il Titolo VI (artt. 69-72) tratta dei rapporti con
le istituzioni forensi.
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Chiude il codice il titolo VII (art.73), che si limita ad affermare che “Il presente
codice entra in vigore decorsi sessanta giorni dalla pubblicazione nella Gazzetta
Ufficiale”, codice che pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n.241 del 16.10.2014, è
entrato in vigore dal 15 dicembre 2014.
Il restyling del nuovo codice deontologico si è reso necessario per adeguare le
norme di comportamento all’evoluzione dei tempi e ai mutamenti della professione
forense, soprattutto all’esito della riforma di cui alla l. n. 247 del 2012.
Il nuovo codice deontologico, finalizzato al corretto esercizio della professione
forense, prevede la tipizzazione degli illeciti disciplinari e l’espressa indicazione delle
sanzioni, che corredano ogni fattispecie, con un meccanismo di aggravamento e di
attenuazione in relazione alla maggiore o minore gravità del fatto contestato.
Vengono di seguito illustrati gli illeciti deontologici previsti dal codice, con la
sanzione disciplinare prevista per ogni illecito deontologico, iniziando dalla “nascita”
del rapporto professionale.
2. - Divieto di attività professionale senza titolo e di uso di titoli inesistenti
L’art.2, comma 3, della legge n. 247 del 2012 statuisce che l’iscrizione ad un albo
circondariale è condizione per l’esercizio della professione di avvocato, ed il successivo
comma 7, che l’uso del titolo di avvocato spetta esclusivamente a coloro che siano o
siano stati iscritti ad un albo circondariale.
La materia così disciplinata è stata “ripresa” dal codice deontologico (art.36) che
sanziona disciplinarmente la violazione del divieto di attività professionale senza titolo
e di uso di titoli inesistenti, prevedendo per tale violazione la sanzione disciplinare
della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da sei mesi a un anno.
Infatti è previsto (art.36, comma 1) che costituisce illecito disciplinare:
- l’uso di un titolo professionale non conseguito;
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- lo svolgimento di attività in mancanza di titolo o in un periodo di
sospensione.
Viene, quindi, sanzionato l’uso di un titolo non spettante (es., praticante che usa il
titolo di avvocato). Naturalmente nel caso in cui il titolo viene “usato” da soggetto
non iscritto all’albo, nessuna sanzione disciplinare può essere applicata, essendosi in
presenza di soggetto non iscritto all’albo professionale (e condizione per l’illecito
deontologico è l’iscrizione all’albo professionale), ma il soggetto può subire
provvedimento penale per esercizio abusivo della professione.
Occorre precisare che il divieto di attività in mancanza di titolo si riferisce alla
attività riservata in esclusiva alla professione (es., attività giudiziale ma non attività
stragiudiziale). Infatti, ai fini della configurabilità del delitto di esercizio abusivo di una
professione (art. 348 codice penale), pur essendo sufficiente il compimento – senza i
necessari titoli abilitativi – di un solo atto tipico o proprio della professione, si pone
come condizione irrinunciabile la valenza professionale dell’atto medesimo (Cass.,
pen, sez.VI, 18 aprile 2016 n. 15957); ai fini penali, si rende sempre necessario
verificare la sussistenza e la commissione reali di un atto professionale “tipico”.
Non vi possibilità per il cittadino di difendersi personalmente neanche se
questi abbia delle approfondite conoscenze giuridiche che gli derivano dall’aver
conseguito una laurea in giurisprudenza. Per la difesa è fondamentale l’assistenza
dell’avvocato, salvo che per i casi previsti espressamente dalla legge (Tar
Liguria 18 maggio 2016 n. 504).
Costituisce illecito disciplinare (art.36, comma 2) anche il comportamento
dell’avvocato che agevoli o, in qualsiasi altro modo diretto o indiretto, renda
possibile a soggetti non abilitati o sospesi l’esercizio abusivo dell’attività di
avvocato o consenta che tali soggetti ne possano ricavare benefici economici, anche
e limitatamente al periodo di eventuale sospensione dell’esercizio dell’attività. La
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violazione a tali obblighi comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della
sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da due a sei mesi.
La responsabilità disciplinare viene estesa, quindi, anche ai soggetti – iscritti
all’albo professionale – che rendono possibile l’esercizio dell’attività professionale
forense a soggetti non abilitati (l’avvocato che chieda attività illegittima al praticante)
o sospesi.
3. - Conferimento dell’incarico e rinuncia al mandato
La problematica dei rapporti dell’avvocato con il cliente (e la parte assistita), non
può che iniziare dai doveri dell’avvocato in sede di conferimento dell’incarico
professionale.
E la disciplina del conferimento dell’incarico (art.23 codice deontologico) prevede
vari obblighi per l’avvocato in relazione al conferimento dell’incarico.
La norma, infatti, prevede che l’incarico è conferito dalla parte assistita; qualora
sia conferito da un terzo, l’incarico deve essere accettato solo con il consenso
della parte assistita (e va svolto nel suo esclusivo interesse). Per la violazione di
tale “obbligo” la sanzione disciplinare prevista è l’avvertimento.
E ciò in quanto non sempre la persona che conferisce l’incarico coincide con la
persona beneficiaria della prestazione; non sempre vi è coincidenza fra colui che
rilascia la procura alle liti ed il soggetto nel cui interesse viene svolta la prestazione
professionale.
La stessa norma (comma 2) statuisce che l’avvocato, prima di assumere
l’incarico, deve accertare l’identità della persona che lo conferisce e della
parte assistita (la sanzione disciplinare prevista è l’avvertimento).
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L’avvocato deve, quindi, accertare l’identità dei soggetti con cui si instaura il
rapporto professionale, stante peraltro la normativa dell’antiriciclaggio, che obbliga ad
“individuare” le generalità del cliente.
L’avvocato, dopo il conferimento del mandato, non deve intrattenere con il
cliente e con la parte assistita rapporti economici, patrimoniali, commerciali o
di qualsiasi altra natura, che in qualunque modo possano influire sul rapporto
professionale (comma 3). La sanzione disciplinare prevista è l’avvertimento.
La disposizione tutela il rapporto fiduciario avvocato/cliente escludendo il
perseguimento di utilità di altro tipo: l’avvocato deve evitare di avere con il cliente
rapporti estranei alla lite e al rapporto professionale (es., concedere prestiti al
cliente);
L’avvocato non deve consigliare azioni inutilmente gravose (comma 4). La
sanzione disciplinare prevista è la sospensione dall’esercizio dell’attività professionale
da uno a tre anni.
L’avvocato non deve, quindi, proporre azioni temerarie, palesemente illegittime,
che espongono il cliente a spese (oltre che al risarcimento del danno).
L’avvocato è libero di accettare l’incarico, ma deve rifiutare di prestare la
propria attività quando, dagli elementi conosciuti, desuma che essa sia
finalizzata alla realizzazione di operazione illecita (comma 5). La sanzione
disciplinare prevista è la sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da uno a
tre anni.
Viene ribadito che l’avvocato non è “obbligato” ad accettare l’incarico, ma nel
contempo che deve rifiutare l’incarico quando dagli elementi conosciuti possa
desumersi che l’azione da proporre tende a realizzare una operazione illecita.
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L’avvocato non deve suggerire comportamenti, atti o negozi nulli, illeciti o
fraudolenti (comma 6). La sanzione disciplinare prevista è la sospensione
dall’esercizio dell’attività professionale da uno a tre anni.
E così, ad esempio, l’avvocato non deve suggerire al cliente la realizzazione di atti
in frode alla legge, oppure “spingere” il cliente ad apporre la firma del genitore già
deceduto su una quietanza.
L’avvocato ha l’obbligo, però, di astenersi dall’accettare l’incarico e/o dal prestare
attività professionale, quando possa determinarsi un conflitto di interessi (art.24 cod.
deontologico).
Infatti, l’avvocato deve astenersi dal prestare attività professionale quando
questa possa determinare un conflitto di interessi della parte assistita e del
cliente o interferire con lo svolgimento di altro incarico anche non
professionale (art.24,comma 1). La sanzione disciplinare prevista per la violazione in
questione è la sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da uno a tre anni.
Viene così ad essere disciplinato il conflitto di interessi non solo reale ma anche
meramente potenziale. E così, ad esempio, l’avvocato non deve assumere la difesa di
un coniuge contro l’altro in una procedura giudiziale di separazione/divorzio, dopo
avere assistito congiuntamente entrambi i coniugi nella procedura di separazione
consensuale.
Il conflitto di interessi (sanzionato disciplinarmente) sussiste anche nel caso
in cui il nuovo mandato determini la violazione del segreto sulle informazioni
fornite da altra parte assistita o cliente, la conoscenza degli affari di una parte
possa favorire ingiustamente un’altra parte assistita o cliente, l’adempimento di un
precedente mandato limiti l’indipendenza dell’avvocato nello svolgimento del nuovo
incarico (comma 3). La sanzione disciplinare è la sospensione dall’esercizio
dell’attività professionale da uno a tre anni.
L’avvocato, quindi, non deve accettare l’incarico nel caso in cui con il nuovo
mandato possa utilizzare notizie o informazioni fornite da un precedente cliente, con
violazione del segreto professionale; il conflitto di interessi impedisce all’avvocato sia
l’accettazione dell’incarico che la prosecuzione.
Sempre con riferimento al conflitto di interessi, sono previsti particolari doveri
del difensore (art.49): l’avvocato non deve assumere la difesa di più indagati o
imputati che abbiano reso dichiarazioni accusatorie nei confronti di altro
indagato o imputato nel medesimo procedimento o in procedimento
connesso o collegato. Non solo, ma l’avvocato indagato o imputato in un
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procedimento penale non può assumere o mantenere la difesa di altra parte
nell’ambito dello stesso procedimento (art.49, comma 3). Per tali violazioni è
prevista la sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio dell’attività
professionale da sei mesi a un anno.
L’avvocato non può essere difensore nello stesso processo di altre parti con una
posizione difensiva ambigua.
Il dovere di astensione sussiste anche se le parti aventi interessi
configgenti si rivolgano ad avvocati che siano partecipi di una stessa società
di avvocati o associazione professionale o che esercitino negli stessi locali e
collaborino professionalmente in maniera non occasionale (art. 24, comma 5).
La sanzione disciplinare prevista è la sospensione dall’esercizio dell’attività
professionale da uno a tre anni.
L’avvocato non può, quindi, affidare la “parte” ad un collega di studio, ad un socio o
associato, al coniuge o genitore (avvocato).
L’avvocato nell’esercizio dell’attività professionale deve conservare la
propria indipendenza e difendere la propria libertà da pressioni o
condizionamenti di ogni genere, anche correlati a interessi riguardanti la propria
sfera personale (comma 2). La sanzione disciplinare prevista è la censura.
L’avvocato deve difendere la propria indipendenza sottraendosi a pressioni o
condizionamenti sia del cliente che da terzi soggetti (es., autorità pubbliche), per
assicurare l’effettività della difesa; nessun interesse personale del difensore può
“spingere” allo svolgimento di attività professionale, ad esempio al solo scopo di
maturare il compenso professionale.
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L’avvocato deve comunicare alla parte assistita e al cliente l’esistenza di
circostanze impeditive per la prestazione dell’attività richiesta (comma 4). La
sanzione disciplinare prevista per tale violazione è la censura.
L’avvocato deve, così, comunicare al proprio cliente sia circostanze riguardanti la
sua posizione personale, ad esempio, per essere associato di uno studio in cui opera
il difensore della controparte, oppure che per la materia a lui affidata non ha una
capacità professionale adeguata per tutelare gli interessi del cliente.
Particolari doveri ed obblighi sono a carico dell’avvocato non solo per
l’accettazione dell’incarico, ma anche per la rinuncia al mandato.
Infatti, l’art. 32 codice deontologico disciplina le “modalità” di rinuncia al mandato
da parte dell’avvocato e soprattutto le cautele che vanno osservate per non
danneggiare il cliente. E ciò in quanto, se è pur vero che l’avvocato può sempre
rinunciare al mandato (come peraltro prevede espressamente l’art. 2237 codice civile,
l’art.5 codice di procedura civile, l’art.107 codice di procedura penale, e l’art.41,
comma 1, legge n. 247 del 2012), atteso il rapporto di fiducia avvocato/cliente, è
altrettanto vero che la rinuncia deve essere effettuata senza danneggiare il cliente e la
parte assistita. La violazione dei doveri connessi alla rinuncia al mandato è sanzionata
con la censura.
La norma in questione stabilisce che l’avvocato ha la facoltà di recedere dal
mandato, con le cautele necessarie per evitare pregiudizi alla parte assistita
(art. 32, comma 1).
L’avvocato ha piena libertà di recedere dal rapporto professionale, senza obbligo di
indicare il motivo della rinuncia, atteso l’elemento fiduciario che caratterizza il
rapporto cliente/avvocato; del resto occorre ricordare che anche il cliente può
revocare il mandato, atteso che nell’ambito del mandato professionale, sia l’avvocato
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che il cliente possono recedere dal contratto, allorchè viene meno il rapporto fiduciario
che costituisce la base del rapporto professionale. Occorre evidenziare che la rinuncia
al mandato ha effetto dal momento in cui la dichiarazione di rinuncia viene a
conoscenza del cliente (Cass. 25 ottobre 1973 n. 2735).
Unico obbligo imposto all’avvocato, in caso di rinuncia al mandato, è di
recedere con le cautele necessarie per evitare pregiudizi alla parte assistita;
non sarebbe giustificabile una rinuncia al mandato senza l’adempimento di atti
processuali in scadenza (es., nomina di un consulente di parte).
In caso di rinuncia al mandato l’avvocato deve dare alla parte assistita un
congruo preavviso adeguato alle circostanze del caso concreto e deve
informarla di quanto necessario per non pregiudicarne la difesa (comma 2).
Ciò significa che l’avvocato deve comunque informare il cliente di ciò che è
necessario per non pregiudicare i suoi interessi, e quindi, l’avvocato deve comunicare
alla parte assistita eventuali atti da compiere per evitare decadenze, e, comunque
comunicare ciò che è necessario al nuovo difensore per proseguire la difesa.
E per evitare danni conseguenti alla rinuncia al mandato, è previsto che in caso di
irreperibilità della parte assistita, l’avvocato deve comunicare alla stessa la
rinuncia al mandato con lettera raccomandata all’indirizzo anagrafico o all’ultimo
domicilio conosciuto o a mezzo p.e.c.; con l’adempimento di tale formalità, fermi
restando gli obblighi di legge, l’avvocato è esonerato da ogni altra attività,
indipendentemente dall’effettiva ricezione della rinuncia.
Nell’ambito del solo processo penale, l’avvocato deve attendere anche il
decorso del termine per la difesa espressamente previsto dall’art.108 c.p.p.; nei casi
di rinuncia, revoca, incompatibilità o abbandono, il nuovo difensore - ovvero quello
designato d’ufficio - ha diritto ad un termine congruo non inferiore a sette giorni. Ne
consegue che il difensore di fiducia, cui sia stato revocato il mandato, dovrà
comunque presenziare all’udienza in quanto la revoca del difensore non ha effetto
fintanto che la parte non sia assistita da nuovo difensore e non sia decorso il termine
a difesa indicato dal codice di procedura penale.
L’avvocato, dopo la rinuncia al mandato, non è responsabile per la
mancata successiva assistenza, qualora non sia nominato in tempi ragionevoli
altro difensore (comma 4). L’avvocato che rinuncia al mandato non può, però, essere
tenuto allo ius postulandi a tempo indeterminato se il cliente non provvede alla sua
sostituzione. L’avvocato, quindi, non è tenuto a partecipare alle udienze dopo la
ricezione da parte del cliente della rinuncia al mandato e siano trascorsi “tempi
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ragionevoli” dalla rinuncia. L’avvocato deve comunque informare la parte
assistita delle comunicazioni e notificazioni che dovessero pervenirgli (comma
5).
A quanto sopra, aggiungasi che in ipotesi di sostituzione del collega nell’attività di
difesa, è espressamente previsto (art.45 codice deontologico) che nel caso di
sostituzione di un collega per revoca dell’incarico o rinuncia, il nuovo
difensore deve rendere nota la propria nomina al collega sostituito,
adoperandosi, senza pregiudizio per l’attività difensiva, perché siano
soddisfatte le legittime richieste per le prestazioni svolte. La violazione di tali
doveri comporta l’applicazione della sanzione disciplinare dell’avvertimento.
Il nuovo avvocato, quindi, non solo deve informare il precedente legale della
sostituzione, ma anche adoperarsi perché siano pagate le competenze del collega
sostituito; adoperarsi, non significa, però, che il nuovo difensore sia responsabile e/o
obbligato al pagamento del compenso al collega sostituito.
4. – Divieto di accaparramento della clientela
Il divieto di accaparramento di clientela (che è distinto dal divieto di pubblicità che
colpisce il dovere di riservatezza, mentre l’accaparramento colpisce la dignità e decoro
della professione) è dettagliatamente disciplinato dall’art.37 codice deontologico, che
sanziona la violazione del divieto di accaparramento della clientela con l’applicazione
della sanzione disciplinare della censura (comma 6).
La norma in questione (art.37) prevede che l’avvocato non deve acquisire
rapporti di clientela a mezzo di agenzie o procacciatori o con modi non
conformi a correttezza e decoro.
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Sono così vietati gli atti per acquisire clienti, sia attraverso agenzie o
procacciatori, sia attraverso modi non conformi a correttezza e decoro. E’ stato infatti
sanzionato, per violazione del divieto di accaparramento:
- l’avvocato che ha utilizzato i locali di una agenzia assicurativa, ricevendo i clienti
ed indicando il recapito sulla carta intestata (Cons. naz. forense 29 novembre 2012
n. 170);
- l’avvocato che ha rilasciato interviste a pagamento, decantando l’attività dello
studio (Cass., sez. un., 3 maggio 2013 n. 10304);
- l’avvocato che ha utilizzato moduli prestampati per acquisire deleghe presso
carrozzerie o agenzie assicurative;
- l’avvocato che offra prestazioni professionali, con pubblicità su un quotidiano, ad
un costo “molto basso” dovendosi parametrare l’adeguatezza del compenso al
valore e all’importanza della singola pratica trattata e non già determinarsi
forfettariamente senza alcuna proporzione all’attività svolta (Cons. naz. Forense n.
142 del 2015).
E’ stata ritenuta,invece, lecita l’acquisizione di clientela attraverso associazioni
sindacali, patronati, o altri enti.
E’ previsto, altresì, che l’avvocato non deve offrire o corrispondere a colleghi o a terzi
provvigioni o altri compensi quale corrispettivo per la presentazione di un
cliente o per l’ottenimento di incarichi professionali. Così come è vietata
l’offerta di omaggi o prestazioni a terzi ovvero la corresponsione o la
promessa di vantaggi per ottenere difese o incarichi.
Il comportamento dell’avvocato che offre “regali” o “compensi” a terzi (ma anche al
collega) per avere la difesa di un soggetto, è sanzionata in quanto con tale
comportamento viene ad essere violato il rapporto di fiducia avvocato/parte assistita.
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Per il divieto di accaparramento della clientela è, altresì, vietato all’avvocato:
- offrire, sia direttamente che per interposta persona, le proprie
prestazioni professionali al domicilio degli utenti, nei luoghi di lavoro, di
riposo, di svago e, in generale, in luoghi pubblici o aperti al pubblico;
- offrire, senza esserne richiesto, una prestazione personalizzata e, cioè,
rivolta a persona determinata per uno specifico affare.
Con i riferiti divieti si tutela la dignità della professione legale, che mal si concilia
con l’offerta di prestazioni nelle carceri, negli ospedali, luoghi di lavoro.
5. – Le regole dell’adempimento del mandato professionale
L’avvocato deve adempiere il mandato ricevuto con competenza e diligenza. Ne
consegue che l’accettazione di un incarico professionale presuppone la competenza a
svolgerlo, cioè la capacità di svolgere l’incarico in modo adeguato. L’avvocato, non
deve, quindi, accettare l’incarico se non è in possesso di una competenza
specifica per la questione sottopostagli (art.26, comma 1). Per tale violazione si
applica la sanzione disciplinare dell’avvertimento.
Ed, infatti, l’art.26, comma 2, precisa espressamente che l’avvocato, in caso di
incarichi che comportino anche competenze diverse dalle proprie, deve
prospettare al cliente e alla parte assistita la necessità di integrare l’assistenza con
altro collega in possesso di dette competenze. Anche per tale violazione si applica
la sanzione disciplinare dell’avvertimento.
In pratica, per assicurare la qualità delle prestazioni professionali, occorre per
l’avvocato la specializzazione.
Costituisce violazione dei doveri professionali anche il mancato, ritardato o
negligente compimento di atti inerenti al mandato o alla nomina, quando
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derivi da non scusabile e rilevante trascuratezza degli interessi della parte assistita.
Per tale violazione si applica la sanzione disciplinare della censura.
Per la sanzionabilità disciplinare dell’inadempimento citato, occorre che la
mancanza sia riferibile a una particolare trascuratezza, a prescindere dalla circostanza
che dall’inadempimento derivi un pregiudizio alla parte assistita. Costituisce così
illecito disciplinare, ad esempio, l’omessa costituzione in giudizio.
Obblighi sono imposti al difensore d’ufficio. Infatti, il difensore nominato d’ufficio,
ove sia impedito di partecipare a singole attività professionali, deve darne
tempestiva e motivata comunicazione all’autorità procedente ovvero incaricare
della difesa un collega che, ove accetti, è responsabile dell’adempimento dell’incarico
(art.26, comma 4). Per tale violazione si applica la sanzione disciplinare della
censura.
Il riferito dovere di informazione si inquadra nei doveri di collaborazione
dell’avvocato con la magistratura per un migliore funzionamento della giustizia:
l’avvocato deve informare l’Autorità procedente per ogni impedimento, ed attivarsi
(incaricando un collega per la difesa) per la migliore difesa dell’imputato.
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6. – I doveri di informazione dell’avvocato
In ordine ai doveri di informazione dell’avvocato nei confronti della parte assistita,
il codice deontologico (art. 27) “riprende” i doveri di informazione che sono già
indicati nella legge n. 247 del 2012.
Infatti, “riprendendo” quanto già indica la legge professionale, prevede che
l’avvocato deve informare chiaramente la parte assistita, all’atto
dell’assunzione dell’incarico, delle caratteristiche e dell’importanza di quest’ultimo
e delle attività da espletare, precisando le iniziative e le ipotesi di soluzione.
L’avvocato, quindi, all’atto dell’assunzione dell’incarico (ma anche durante lo
svolgimento) deve dare alla parte assistita, tutte le informazioni per concretizzare
l’attività difensiva: deve così informare il cliente/parte assistita delle caratteristiche
della lite, delle attività da espletare, delle iniziative e delle possibili soluzioni, delle
scelte tecniche.
L’obbligo di diligenza, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 1176, comma
2, e 2236 codice civile, impone all’avvocato di assolvere – sia all’atto del conferimento
dell’incarico, sia nel corso dello svolgimento del rapporto – anche ai doveri di
sollecitazione, dissuasione ed informazione del cliente, essendo il professionista tenuto
a rappresentare a quest’ultimo tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque
insorgenti, ostative al raggiungimento del risultato, o comunque produttive del rischio
di effetti dannosi. L’attività di persuasione del cliente al compimento o non di
un atto, ulteriore rispetto all’assolvimento dell’obbligo informativo, è però
concretamente inesigibile, oltre che contrastante con il principio secondo cui
l’obbligazione informativa dell’avvocato è un’obbligazione di mezzi e non di
risultato (Cass. 19 aprile 2016 n.7708).
L’avvocato ha il dovere giuridico e morale, nell’esplicazione della sua professione,
di astenersi dall’instaurare un giudizio aprioristicamente infondato, preceduto dal
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dovere di informazione, salvo che consti il consenso del cliente (Cass. 12 maggio 2016
n. 9695).
La violazione di tale dovere comporta l’applicazione della sanzione disciplinare
dell’avvertimento.
L’avvocato deve informare il cliente e la parte assistita anche sulla
prevedibile durata del processo e sugli oneri ipotizzabili; deve inoltre, se
richiesto, comunicare in forma scritta, a colui che conferisce l’incarico professionale, il
prevedibile costo della prestazione. Per tale violazione si applica la sanzione
disciplinare dell’avvertimento.
Sulla durata del processo (anche se la durata dipende soprattutto dalla
funzionalità degli uffici giudiziari), non è semplice fare previsioni, così sulle spese, che
dipendono dalla incombenze da espletare. Quanto ai costi, ed oneri ipotizzabili,
occorre fare riferimento alle spese di registrazione dei documenti, alle spese legali in
caso di soccombenza: naturalmente la comunicazione sui dati riferiti non può che
essere sommaria e generica, ma comunque sempre leale ed in buona fede.
L’avvocato, all’atto del conferimento dell’incarico, deve, inoltre, informare la
parte assistita chiaramente e per iscritto della possibilità di avvalersi del
procedimento di mediazione previsto dalla legge; deve altresì informarla dei
percorsi alternativi al contenzioso giudiziario, pure previsti dalla legge. Alla violazione
di tale dovere si applica la sanzione disciplinare dell’avvertimento.
L’avvocato, ove ne ricorrano le condizioni, all’atto del conferimento dell’incarico,
deve informare la parte assistita della possibilità di avvalersi del patrocinio a
spese dello Stato. Per tale violazione si applica la sanzione disciplinare
dell’avvertimento.
Stante il rilievo costituzionale e sociale della difesa, l’avvocato all’atto del
conferimento dell’incarico, deve “notiziare” la parte assistita della esistenza
della procedura di mediazione e conciliazione e dei mezzi alternativi per la
risoluzione delle controversie, nonché della possibilità di avvalersi del
patrocinio a spese dello Stato.
L’avvocato deve rendere noti al cliente ed alla parte assistita gli estremi della
propria polizza assicurativa. La sanzione disciplinare prevista è l’avvertimento.
L’obbligo di comunicare l’esistenza di una polizza assicurativa sulla responsabilità
civile per eventuali responsabilità del professionista è già previsto dall’art.12 della
legge professionale.
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L’avvocato, ogni qualvolta ne venga richiesto, deve informare il cliente e la
parte assistita sullo svolgimento del mandato a lui affidato e deve fornire
loro copia di tutti gli atti e documenti, anche provenienti da terzi, concernenti
l’oggetto del mandato e l’esecuzione dello stesso sia in sede stragiudiziale che
giudiziale (comma 6). Per tale violazione si applica la sanzione disciplinare della
censura.
Il cliente (ma soprattutto la parte assistita) ha diritto di ricevere, quindi,
dall’avvocato, notizie e documenti inerenti lo svolgimento del processo (es.,
provvedimenti del giudice, memorie anche della controparte, documenti prodotti,
corrispondenza, ad esclusione di quella scambiata tra colleghi che non deve essere
consegnata al cliente)
L’avvocato deve comunicare alla parte assistita la necessità del compimento di
atti necessari ad evitare prescrizioni, decadenze o altri effetti pregiudizievoli
relativamente agli incarichi in corso. Per tale violazione si applica la sanzione
disciplinare della censura.
L’avvocato, deve, quindi, comunicare alla parte assistita la necessità del
compimento di determinati atti per evitare prescrizioni, decadenze o pregiudizi. E
quindi, deve comunicare, ad esempio, al cliente l’avvenuta notifica della sentenza
sfavorevole con congruo anticipo rispetto alla scadenza del termine per proporre
eventuale gravame; così come deve rendere edotto il cliente delle conseguenze
derivanti da determinati atti processuali (es., deferimento giuramento decisorio).
L’avvocato deve riferire alla parte assistita, se nell’interesse di questa, il contenuto
di quanto appreso legittimamente nell’esercizio del mandato. Per tale violazione si
applica la sanzione disciplinare della censura.
Le notizie che l’avvocato deve riferire alla parte assistita riguardano l’oggetto del
giudizio: sono fuori di tale previsione, notizie riservate riferite ad altre vicende o
soggetti estranei al processo.
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7. – Dovere di corretta informazione
L’avvocato può dare informazioni sulla propria attività professionale,
sull’organizzazione e struttura dello studio, su specializzazioni e titoli scientifici. Ed
infatti, l’art.10 della legge n. 247 del 2012 statuisce che è consentita all’avvocato la
pubblicità informativa sulla propria attività professionale, sull’organizzazione e
struttura dello studio e sulle eventuali specializzazioni e titoli scientifici.
Ed il codice deontologico (art.35, comma 1), prevede che l’avvocato che dà
informazioni sulla propria attività professionale, deve rispettare i doveri di
verità, correttezza, trasparenza, segretezza e riservatezza, facendo in ogni
caso riferimento alla natura e ai limiti dell’obbligazione professionale.
Occorre evidenziare che il dovere di riservatezza dell’avvocato è posto a tutela
della sfera privata del cliente o della parte assistita e non anche di quella
della controparte. Infatti, il dovere di riservatezza è posto dal codice deontologico a
tutela della parte assistita, e sempre con riferimento al rapporto tra professionista e
cliente, e alle informazioni assunte in costanza di mandato, o al rapporto tra colleghi
relativo alla produzione corrispondente in giudizio (Cons. naz. Forense 10 giugno
2014 n. 84).
L’avvocato non deve dare informazioni comparative con altri professionisti
né equivoche, ingannevoli, denigratorie, suggestive o che contengano riferimenti a
titoli o incarichi non inerenti l’attività professionale. Anche tale “divieto” è previsto
nella legge professionale che all’art.10, comma 2, statuisce che la pubblicità e tutte le
informazioni diffuse pubblicamente con qualunque mezzo, anche informatico, debbono
essere trasparenti, veritiere, corrette e non devono essere comparative con altri
professionisti, equivoche, ingannevoli, denigratorie o suggestive. In ogni caso le
informazioni offerte devono fare riferimento alla natura e ai limiti dell’obbligazione
professionale.
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L’inosservanza ai riferiti divieti costituisce, come espressamente statuisce il comma
4 dell’art.10 della legge n. 247 del 2012, illecito disciplinare; il codice deontologico,
con l’art.35, comma 12, statuisce a sua volta che l’inosservanza in questione
comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della censura.
La corretta informazione riguarda anche l’uso dei titoli accademici. In ordine
alla utilizzabilità di titoli accademici, l’art.35, comma 4, è intervenuto nella materia
statuendo che l’avvocato può utilizzare il titolo accademico di professore solo
se sia o sia stato docente universitario di materie giuridiche, specificando in
ogni caso la qualifica e la materia di insegnamento.
L’iscritto nel registro dei praticanti può usare esclusivamente e per esteso
il titolo di “praticante avvocato”, con l’eventuale indicazione di “abilitato al
patrocinio” qualora abbia conseguito tale abilitazione.
La pratica dell’indicazione nella carta intestata dello studio di nominativi di
professionisti, c.d. collaboratori esterni, è stata ora espressamente disciplinata
statuendo il comma 6 dell’art.35 che non è consentita l’indicazione di nominativi
di professionisti e di terzi non organicamente o direttamente collegati con lo
studio dell’avvocato. L’indicazione di professionisti “esterni” naturalmente è lecita,
solo che occorre l’effettività della collaborazione.
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La problematica dell’utilizzo del nome di un avvocato defunto, è stata risolta dal
comma 7 dell’art. 35, statuendo che l’avvocato non può utilizzare
nell’informazione il nome di professionista defunto, che abbia fatto parte dello
studio, se a suo tempo lo stesso professionista non lo abbia espressamente previsto o
disposto per testamento, ovvero non vi sia il consenso unanime degli eredi. Il
problema era stato, peraltro, già risolto nel senso indicato dalla giurisprudenza della
Corte di cassazione (Cass., sez. un., 5 novembre 1993 n. 10942).
Nelle informazioni al pubblico l’avvocato non deve indicare il nominativo
dei propri clienti o parti assistite, ancorchè questi vi consentano. E ciò per la
riservatezza che caratterizza l’attività professionale.
Una delle materie deontologicamente più sensibili attiene alle modalità di
pubblicizzazione della propria attività da parte dei professionisti nel più ampio ambito
del rapporto tra norma deontologica e principi nazionali e comunitari in materia di
concorrenza. Il nuovo codice deontologico si muove tra la continuità e qualche
apertura, che comunque mantiene ferma la ritenuta specificità dell’attività delle
professioni intellettuali.
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L’avvocato può utilizzare ai fini informativi anche siti web con e senza re-
indirizzamento.
Per l’Antitrust limitare l’utilizzo di determinate piattaforme internet per la pubblicità
è violazione della libera concorrenza. Ed infatti con provvedimento numero 25868 (in
bollettino Agcm n.5 del 29.2.2016), confermato dal Consiglio di Stato, sez.VI, 22
marzo 2016 n. 1164, l’Antitrust ha sanzionato il Cnf con una sanzione per avere
“bocciato” il tentativo di un avvocato di farsi pubblicità su una piattaforma internet in
cui si è soliti praticare sconti particolari ai clienti ad essa affiliati, avendo così impedito
all’avvocato di avvalersi di uno strumento importante per la diffusione di informazioni
circa la propria attività e per la pubblicità e, ostacolando in tal modo la libera
concorrenza, danneggiando anche i consumatori.
Il Consiglio nazionale forense, accogliendo le osservazioni dell’Antitrust, ha di fatto
eliminato per l’avvocato le restrizioni all’uso dei social network e simili per la
pubblicità informativa; l’avvocato potrà, così, ricorrere a tutti gli strumenti offerti dalla
tecnologia per pubblicizzare il proprio studio (siti, blog, social network) senza
restrizioni, senza sconfinare, però, nella concorrenza aggressiva e spregiudicata, con
violazione del decoro della professione.
Nella seduta amministrativa del 23.10.2015 il CNF ha deliberato di modificare
l’art.35 del codice deontologico, abrogando i commi 9 e 10 ed inserendo nel
comma primo l’inciso “quale che siano i mezzi utilizzati per rendere le stesse”, onde
il nuovo comma 1 dell’art.35 recita “L’avvocato che dà informazioni sulla propria
attività professionale, quali che siano i mezzi utilizzati per rendere le stesse,
deve rispettare i doveri di verità, correttezza, trasparenza, segretezza e
riservatezza, facendo in ogni caso riferimento alla natura e ai limiti
dell’obbligazione professionale”. La modifica chiarisce la portata della norma
deontologica, aprendo alla libertà dei canali comunicativi ed eliminando il riferimento
specifico alla disciplina dei siti web che la previgente normativa vietava nel caso di re-
indirizzamento e/o in caso di contenuti di natura commerciale e/o pubblicitaria.
A seguito della nuova formulazione dell’art. 35 del codice deontologico (come da
comunicato del Consiglio Nazionale Forense in Gazzetta Ufficiale n. 102 del 3.5.2016),
dedicato al dovere di corretta informazione, è consentito all’avvocato libertà dei mezzi
comunicativi, quale che sia il mezzo utilizzato per rendere le informazioni ed
eliminando il riferimento specifico alla disciplina dei siti web. In altre parole, qualsiasi
mezzo è ammesso e, dunque, anche i siti web con e senza re-indirizzamento,
purchè l’informazione rispetti i doveri di verità, correttezza, trasparenza,
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segretezza e riservatezza, facendo in ogni caso riferimento alla natura e ai
limiti dell’obbligazione professionale, e rispettando i principi cardine della
professione di dignità e decoro.
D’ora in poi sarà, quindi, possibile pubblicizzare l’attività professionale
con qualsiasi mezzo, anche on line. Si aprono dunque nuove opportunità per gli
avvocati che sapranno sfruttare al meglio il canale web per migliorare i risultati del
business (acquisire nuova clientela e fidelizzare i già clienti con servizi innovativi).
In definitiva, si è in presenza di una nuova modalità di pubblicità dell’attività
professionale che, per quanto si discosti, in alcune sue componenti, dai modelli
tradizionali, presenta i caratteri di una attività lecita, espressione dei principi di libera
concorrenza. Occorre assicurare così la pubblicità informativa, con ogni mezzo, avente
ad oggetto l’attività professionale, le specializzazioni ed i titoli professionali posseduti,
la struttura dello studio ed i compensi delle prestazioni, ma è necessario che le
informazioni siano trasparenti, veritiere, corrette, non equivoche né ingannevoli o
denigratorie.
Le forme e le modalità delle informazioni devono comunque rispettare, come già
detto, i principi di dignità e decoro della professione: il messaggio pubblicitario e la
scelta dei mezzi per la sua diffusione devono in ogni caso ispirarsi a criteri di buon
gusto e all’immagine della professione. Le informazioni fornite devono essere
trasparenti, veritiere, corrette e non devono essere equivoche, ingannevoli,
denigratorie, comparative e suggestive. Non si può, così, pubblicizzare l’offerta di
prestazioni professionali a costi molto bassi senza alcuna proporzione all’attività svolta
(Cons. naz. Forense n.142 del 2015).
Equilibrio e misura sono i parametri che devono ispirare il rapporto dell’avvocato
con gli organi di stampa; vi è la necessità di un assoluto rispetto della discrezione e
riservatezza del cliente, nonché il dovere per l’avvocato di mantenere il riserbo su
quanto è sottoposto a segreto di indagine.
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8. - Riserbo e segreto professionale
L’avvocato deve mantenere riserbo e segreto professionale nell’esercizio dell’attività
professionale (art. 28 del codice deontologico), “obblighi” peraltro già previsti
dall’art.6, comma 1, della legge professionale (legge n. 247 del 2012).
E’ dovere, oltre che diritto, primario e fondamentale dell’avvocato, mantenere il
segreto e il massimo riserbo sull’attività prestata e su tutte le informazioni
che gli siano fornite dal cliente e dalla parte assistita, nonché su quelle delle quali sia
venuto a conoscenza in dipendenza del mandato.
Con tale disposizione si viene da una parte a colpire l’avvocato che viola il segreto
professionale, ma dall’altra anche tutelare l’avvocato nei confronti di chi vuole indurlo
a violare il segreto. Colui che si rivolge ad un avvocato deve essere sicuro che tutto
ciò che egli riferisce all’avvocato non venga portato a conoscenza di terzi, segreto che
va rispettato dall’avvocato sia per la singola vicenda della causa che per qualsiasi altra
circostanza.
L’obbligo del segreto va osservato anche quando il mandato sia stato
adempiuto, comunque concluso, rinunciato o non accettato.
L’obbligo di rispettare il segreto per l’avvocato non ha limiti temporali; l’avvocato
deve quindi rispettare il segreto anche quando il mandato non sia stato adempiuto o
concluso, oppure non sia stato accettato o accettato e successivamente rinunciato.
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L’avvocato ha il dovere di adoperarsi affinchè il rispetto del segreto
professionale e del massimo riserbo sia osservato anche da dipendenti,
praticanti, consulenti e collaboratori, anche occasionali, in relazione a fatti e
circostanze apprese nella loro qualità e per effetto dell’attività svolta.
L’obbligo di osservare il segreto professionale è assoluto ed inviolabile e riguarda
tutti i soggetti (es., collaboratori, dipendenti, praticanti) che cooperano con l’avvocato
nello svolgimento dell’attività professionale; deve essere garantita alla parte assistita
la massima segretezza e riservatezza dei fatti.
E’ consentito all’avvocato derogare ai doveri di riserbo e segretezza qualora la
divulgazione di quanto appreso sia necessaria:
- per lo svolgimento dell’attività di difesa;
- per impedire la commissione di un reato di particolare gravità;
- per allegare circostanze di fatto in una controversia tra avvocato e cliente o
parte assistita;
- nell’ambito di una procedura disciplinare.
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In ogni caso la divulgazione dovrà essere limitata a quanto strettamente necessario
per il fine tutelato (comma 4).
L’avvocato può derogare al dovere di riserbo e segretezza, non solo quando vi è il
consenso e l’autorizzazione della parte assistita, ma solo in ipotesi espressamente
individuate ed innanzi elencate. L’avvocato può, quindi, rivelare le notizie per ragioni
difensive, per impedire la commissione di un reato di particolare gravità (es., il cliente
che manifesta all’avvocato l’intenzione di commettere un omicidio), per allegare
circostanze di fatto in una controversia tra avvocato e cliente o parte assistita (es.,
controversia avvocato/cliente per il pagamento di una parcella, oppure per contrastare
azione di responsabilità), nonché nell’ambito di una procedura disciplinare (la
rivelazione è necessaria all’avvocato per difendersi da una incolpazione avanti gli
organi forensi).
La violazione ai riferiti doveri di riserbo e segreto professionale comporta
l’applicazione della sanzione disciplinare della censura, e nei casi in cui la violazione
attenga al segreto professionale, l’applicazione della sospensione dall’esercizio
dell’attività professionale da uno a tre anni.
9. – Accordi sulla definizione del compenso
Con l’accettazione dell’incarico è opportuno che cliente/avvocato pattuiscano anche
il compenso. E sull’accordo relativo alla definizione del compenso, il codice
deontologico (art.25, comma 1) detta disposizioni in ordine alla pattuizione del
compenso, senza prevedere, però, alcuna sanzione.
La norma citata afferma, riprendendo quanto prevede l’art.13 della legge n. 247 del
2012, che la pattuizione del compenso è libera.
E’ ammessa, infatti, la pattuizione a tempo, in misura forfettaria, per convenzione
avente ad oggetto uno o più affari, in base all’assolvimento e ai tempi di erogazione
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della prestazione, per singole fasi o prestazioni o per l’intera attività, a percentuale sul
valore dell’affare o su quanto si prevede possa giovarsene il destinatario della
prestazione non soltanto a livello strettamente patrimoniale.
L’avvocato ha, quindi, “piena” libertà di pattuire con il cliente il suo
compenso, atteso che sono venuti meno i riferimenti per il calcolo del suo compenso.
L’unica limitazione è che i compensi non devono essere manifestamente
sproporzionati, altrimenti scatta la sanzione disciplinare della censura, come
previsto espressamente dall’art.29, comma 9, del codice deontologico. Il compenso
può ritenersi sproporzionato od eccessivo solo al termine di un giudizio di
relazione condotto con riferimento a due termini di comparazione, ossia
l’attività espletata e la misura della sua remunerazione da ritenersi equa; solo una
volta che sia stato quantificato l’importo sproporzionato può essere formulato il
successivo giudizio di sproporzione o di eccessività che, come ovvio, presuppone che
la somma richiesta superi notevolmente l’ammontare di quella ritenuta equa (Cons.
Nazionale Forense 11 giugno 2015 n. 87).
Nella valutazione della rilevanza disciplinare del comportamento dell’avvocato, è
ininfluente l’eventuale preventiva pattuizione dei compensi con il cliente,
dovendosi comunque valutare se, nel caso concreto, i compensi pattuiti siano
proporzionati rispetto all’attività effettivamente svolta (Cons. naz. Forense 27 marzo
2014 n.181). E ciò in quanto i patti relativi alla predeterminazione dei compensi
dell’avvocato, pur di per sé validi, non possono comunque prevedere compensi
sproporzionati all’attività concordata o, in ogni caso, all’attività concretamente svolta;
la proporzionalità del compenso richiesto va valutata, quindi, a prescindere
dall’eventuale accordo con il cliente.
E’ stato riconosciuto (Cons. naz. Forense n.181 del 2014) deontologicamente
rilevante il comportamento dell’avvocato che, in una diffida stragiudiziale chieda,
oltre al pagamento della somma capitale richiesta per il cliente, anche un
importo a titolo di spese legali manifestamente sproporzionato con tale
richiesta. E ciò in quanto, la richiesta in sede stragiudiziale di un importo a titolo di
spese legali non può essere manifestamente sproporzionata rispetto all’oggetto della
diffida. L’avvocato può, quindi, chiedere alla controparte (con la lettera di diffida) un
compenso per tale attività, ma deve necessariamente parametrare la richiesta del
compenso in modo proporzionale all’oggetto della richiesta formulata per conto del
cliente.
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E’ stato sanzionato l’avvocato che ha pubblicato un box pubblicitario in un quotidiano
con evidenza palesemente suggestiva del costo minimale della prestazione offerta
(Cons. naz. Forense n.142/2015): è lesivo, quindi, del decoro professionale il box
pubblicitario se i prezzi sono troppo bassi. Il diritto di fornire informazioni sull’attività
professionale non può consistere nell’offerta di servizi professionali a prezzi
intrinsecamente non proporzionati all’attività svolta o offerta.
Il codice deontologico (art.25, comma 2) ribadisce il divieto del patto di quota
lite, stabilendo che sono vietati i patti con i quali l’avvocato percepisca come
compenso, in tutto o in parte, una quota del bene oggetto della prestazione o della
ragione litigiosa, divieto che si applica sia per l’attività giudiziale che
stragiudiziale. La violazione del patto di quota lite è sanzionato (art.25, comma 3)
con la sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale
da due mesi a sei mesi
Il patto di quota lite è l’accordo tra l’avvocato e cliente che attribuisce
all’avvocato, quale compenso della sua attività professionale, una quota dei
beni o diritti in lite; tale patto è vietato per l’avvocato in quanto con il patto di
quota lite per il difensore vi è la sostanziale partecipazione agli interessi della parte
(Cass. 21 luglio 1980 n. 4777).
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Il divieto del patto vieta all’avvocato la pattuizione diretta ad ottenere, quale
compenso, una percentuale del bene controverso oppure una percentuale rapportata
al valore della lite. Occorre, però, evidenziare che la parcella in percentuale al
valore dell’affare non viola il divieto del patto di quota lite, mentre la parcella
in percentuale collegata al risultato conseguito (in pratica alla somma attribuita)
viola il divieto del patto di quota lite.
La violazione del patto di quota lite non rileva sul compenso dell’avvocato, in
quanto l’avvocato ha comunque diritto di ricevere il compenso delle sue
prestazioni sulla base dei parametri, anche nel caso di soccombenza del cliente.
Diverso dal patto di quota lite è, invece, il palmario, che invece è lecito. Il
palmario è il compenso corrisposto o promesso dal cliente al difensore, in una misura
determinata, in sostituzione dell’onorario o in aggiunta allo stesso, con particolare
riferimento alla conclusione favorevole della lite o di una questione stragiudiziale.
10. – La richiesta di pagamento del compenso professionale.
L’art. 29 del codice deontologico disciplina vari “obblighi” e “doveri” dell’avvocato:
accordi sulla definizione del compenso; dovere di adempimento fiscale, previdenziale,
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assicurativo; gestione di denaro altrui; restituzione di documenti; azione contro il
cliente e la parte assistita per il pagamento del compenso.
L’avvocato, nel corso del rapporto professionale, può chiedere la
corresponsione di anticipi, ragguagliati alle spese sostenute e da sostenere,
nonché di acconti sul compenso, commisurati alla quantità e complessità delle
prestazioni richieste per l’espletamento dell’incarico. Alla violazione di tale obbligo si
applica la sanzione disciplinare della censura.
Occorre ricordare che, in base all’art. 2234 codice civile. il cliente, salvo diversa
pattuizione, deve anticipare al professionista le spese occorrenti al compimento
dell’opera e corrispondere acconti sul compenso, spese, acconti che devono essere
proporzionati all’entità della prestazione e al decoro della professione.
All’avvocato competono, quindi, il diritto di richiedere al cliente, nel momento del
conferimento dell’incarico, un fondo spese e un acconto dell’onorario, nonché il diritto
di richiedere l’integrazione nel corso della esplicitazione del mandato (Cass. 10
novembre 2006 n. 24046). La determinazione degli acconti, deve, perciò, essere
contenuta in comprensibili limiti professionali, rapportati alla definitiva possibilità di
estensione della parcella.
L’avvocato deve tenere la contabilità delle spese sostenute e degli acconti
ricevuti e deve consegnare, a richiesta del cliente, la relativa nota dettagliata. Per la
violazione di tale obbligo è prevista la sanzione della censura.
Sussiste per l’avvocato, quindi, un obbligo di rendicontazione delle somme che gli
vengono corrisposte come compenso per le prestazioni effettuate.
L’avvocato deve emettere il prescritto documento fiscale per ogni
pagamento ricevuto. Per la violazione di tale obbligo è prevista la sanzione della
censura
In ordine alla correttezza fiscale dell’avvocato, occorre ricordare che la mancata
fatturazione può determinare la sospensione dell’iscrizione all’albo professionale con
provvedimento dell’Agenzia delle entrate, in base all’art.2, comma 5, decreto legge
n.138 del 2011, convertito in legge n.148 del 2011.
L’avvocato non deve richiedere compensi o acconti manifestamente
sproporzionati all’attività svolta o da svolgere. Per la violazione di tale obbligo è
prevista la sanzione della censura
Pur essendo libera la pattuizione del compenso avvocato/cliente, poiché il
compenso deve essere sempre rapportato alla “entità” della prestazione svolta, non è
giustificabile la richiesta da parte dell’avvocato di un compenso “eccessivo” rispetto al
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lavoro svolto (Cass., sez. un., 26 febbraio 1999 n.103), e ciò vale soprattutto nel caso
in cui non vi è stato alcun accordo preventivo avvocato/cliente sul compenso.
L’avvocato, in caso di mancato pagamento da parte del cliente, non deve
richiedere un compenso maggiore di quello già indicato, salvo ne abbia fatto
riserva. Per la violazione di tale obbligo è prevista la sanzione della censura
Qualora l’avvocato, dopo avere presentato al proprio cliente una parcella per il
pagamento del compenso, non può successivamente, per le stesse attività, richiedere
una pagamento di importo maggiore, salvo espressa riserva nella parcella inviata.
Occorre, però, precisare che l’avvocato che abbia commesso un errore nel calcolare la
parcella presentata al cliente, può sempre rettificare l’importo indicato nella prima
parcella presentando una seconda parcella corretta (Cass. 18 gennaio 2013 n 1284).
L’avvocato non deve subordinare al riconoscimento di propri diritti, o
all’esecuzione di prestazioni particolari da parte del cliente, il versamento a questi
delle somme riscosse per suo conto.
L’avvocato non deve subordinare l’esecuzione di propri adempimenti
professionali al riconoscimento del diritto a trattenere parte delle somme
riscosse per conto del cliente o della parte assistita.
La violazione di tali obblighi comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della
sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da sei mesi a un anno.
L’avvocato non può trattenere somme a lui versate per conto del cliente, oppure
subordinare il versamento al cliente delle somme ricevute al riconoscimento di propri
diritti o all’esecuzione di prestazioni particolari. In pratica ciò che viene vietato e
sanzionato è la compensazione illegittima e anomala gestione di denaro altrui.
L’avvocato, nominato difensore della parte ammessa al patrocinio a spese
dello Stato, non deve chiedere né percepire dalla parte assistita o da terzi, a
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qualunque titolo, compensi o rimborsi diversi da quelli previsti dalla legge
(art. 29, comma 8).
Stante l’importanza della difesa d’ufficio della parte meno abbiente, l’avvocato
quando la parte è stata ammessa al patrocinio a spese dello Stato, non può chiedere
compensi, spese alla parte stessa o a terzi, diversi da quelli previsti dalla legge.
La violazione di tale dovere comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della
sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da sei mesi a un anno.
11. – Azione contro il cliente e la parte assistita per il pagamento del compenso
L’avvocato per agire giudizialmente nei confronti del cliente o della parte
assistita per il pagamento delle proprie prestazioni professionali, deve
rinunciare a tutti gli incarichi ricevuti. L’inosservanza a tale obbligo è sanzionata
con la censura.
E quanto prevede espressamente l’art.34 codice deontologico; l’avvocato deve,
quindi, rinunciare al mandato ed a tutti gli incarichi ricevuti ancora in essere o ancora
da svolgere. Non può agire contro il cliente in costanza di mandato.
12. – Gestione di denaro altrui e trattenimento somme a scomputo delle spettanze
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In ordine ai doveri dell’avvocato nella gestione del denaro ricevuto dal cliente o da
terzi nell’adempimento dell’incarico professionale, doveri che sono collegati ai doveri
di probità, dignità, decoro e indipendenza della professione e al dovere di diligenza, è
previsto (art. 30) che l’Avvocato deve gestire con diligenza il denaro ricevuto
dalla parte assistita o da terzi nell’adempimento dell’incarico professionale ovvero
quello ricevuto nell’interesse della parte assistita e deve renderne conto
sollecitamente. Per la violazione di tale obbligo è prevista la sanzione della censura
Occorre, quindi, per l’avvocato diligenza nella gestione del denaro ricevuto ma
anche nel relativo rendiconto, atteso che obbligo dell’avvocato è quello di comportarsi
con diligenza e rendere conto delle somme ricevute. Qualsiasi somma corrisposta
all’avvocato ed estranea al compenso professionale, deve essere custodita nel rispetto
di precise regole, con la sua fatturazione o con il versamento su apposito conto che ne
impedisce la libera disponibilità (Cass., sez. un., 4 dicembre 1992 n.12945).
L’avvocato non deve trattenere oltre il tempo strettamente necessario le
somme ricevute per conto della parte assistita, senza il consenso di
quest’ultima. Per la violazione di tale obbligo è prevista la sanzione disciplinare della
sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da sei mesi a un anno.
L’avvocato, per non incorrere nella infrazione disciplinare, deve mettere
immediatamente a disposizione della parte le somme riscosse per conto della stessa.
L’avvocato, nell’esercizio della propria attività professionale, deve rifiutare
di ricevere o gestire fondi che non siano riferibili ad un cliente. Per la
violazione di tale obbligo è prevista la sanzione disciplinare della sospensione
dall’esercizio dell’attività professionale da uno a tre anni.
Tale obbligo è connesso all’obbligo del professionista di individuare il cliente in
relazione alla norme relative all’antiriciclaggio.
L’avvocato, in caso di deposito fiduciario, deve contestualmente ottenere
istruzioni scritte ed attenervisi. Per la violazione di tale obbligo è prevista la
sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da sei
mesi a un anno.
L’avvocato depositario fiduciario di somme o documenti, per evitare di essere
coinvolto in situazioni “spiacevoli”, deve chiedere, per iscritto, istruzioni dal soggetto
interessato, che può essere il cliente ma anche la controparte.
L’avvocato non può trattenere le somme che incassa per conto del cliente
(art. 31).
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L’avvocato non può, quindi, trattenere le somme che incassa per conto del cliente,
né vi è la possibilità dell’avvocato di trattenere le somme, magari a scomputo delle
sue spettanze.
Al riguardo la norma citata (art.31, comma 1) stabilisce che l’avvocato deve
mettere immediatamente a disposizione della parte assistita le somme
riscosse per conto della stessa. E la violazione di tale obbligo è sanzionato con la
sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da uno a tre anni.
L’avvocato, invece, ha diritto di trattenere le somme da chiunque ricevute
imputandole a titolo di compenso (art. 31, comma 3):
a) quando vi sia il consenso del cliente e della parte assistita. Ciò significa che
l’avvocato che riceva somme dalla controparte può comunicare al cliente e alla
parte assistita che le stesse vengono trattenute a compensazione delle spettanze
per le prestazioni professionali svolte; ove sia negato il consenso del cliente e
della parte assistita deve, però, rimettere immediatamente le somme ricevute;
b) quando si tratti di somme liquidate giudizialmente a titolo di compenso a
carico della controparte e l’avvocato non le abbia già ricevute dal cliente o dalla
parte assistita. Ciò significa che nel caso in cui la controparte, a conclusione di un
giudizio, sia stata condannata al pagamento anche delle spese legali, l’avvocato
che riceve le somme in questione dalla controparte, ancorchè non sia distrattario,
ha diritto di trattenerle, sempreché non le abbia già incassate dal cliente o parte
assistita;
c) quando abbia già formulato una richiesta di pagamento del proprio
compenso espressamente accettata dal cliente. Ciò significa che in tale
ipotesi occorre il consenso della parte, consenso che può essere anche implicito.
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L’avvocato ha diritto di trattenere le somme da chiunque ricevute a
rimborso delle anticipazioni sostenute, con obbligo di darne avviso al cliente
(art. 31, comma 2). Ciò significa che l’avvocato può trattenere le somme ricevute a
rimborso delle anticipazioni sostenute (es., contributo unificato, tassa registrazione),
spese comunque sempre sorrette da uno specifico titolo (non è possibile, così,
trattenere le somme per le spese generali), con l’obbligo, però, per l’avvocato di dare
avviso al cliente della compensazione effettuata. L’inottemperanza a tale obbligo è
sanzionata con la sanzione disciplinare della censura.
13. – Restituzione di documenti
L’avvocato, se richiesto, deve restituire senza ritardo gli atti ed i
documenti ricevuti dal cliente e dalla parte assistita per l’espletamento
dell’incarico e consegnare loro copia di tutti gli atti e documenti, anche
provenienti da terzi, concernenti l’oggetto del mandato l’esecuzione dello stesso sia in
sede stragiudiziale che giudiziale (art. 33, comma 1). L’inadempimento a tale obbligo
è sanzionato con l’avvertimento.
Nel caso in cui la parte faccia espressa richiesta di restituzione, l’avvocato non ha,
quindi, il diritto di ritenzione degli atti e documenti di causa.
Al fine di adempiere l’obbligo disciplinare di restituire senza ritardo alla parte
assistita tutta la documentazione ricevuta per l’espletamento del mandato, non è
sufficiente lasciare la documentazione stessa nel proprio studio a
disposizione del cliente, giacchè il termine “restituire” di cui alla norma, implica una
condotta attiva da parte del professionista e non già la semplice messa a disposizione
(Cons. naz. Forense 16 aprile 2014 n. 68).
Premesso che il diritto di restituzione dei documenti è soggetto alla
prescrizione decennale, occorre ricordare che l’art. 2961 codice civile statuisce che
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gli avvocati sono esonerati dal rendere conto degli incartamenti relativi alle
liti dopo tre anni da che queste sono state decise o sono altrimenti terminate.
Lo stesso art. 2961, comma 3, prevede, però, che può essere deferito all’avvocato
giuramento decisorio perchè dichiari se ritiene o sa dove si trovano gli atti o le carte.
L’avvocato non deve subordinare la restituzione della documentazione al
pagamento del proprio compenso. La violazione di tale dovere è sanzionato con la
censura.
L’avvocato può estrarre e conservare copia di tale documentazione, anche senza il
consenso del cliente e della parte assistita.
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2. Rapporti con i colleghi, terzi, controparti e istituzioni forensi
1. - Rapporto di colleganza e doveri di lealtà e correttezza verso i colleghi
Incombono all’avvocato particolari “obblighi” comportamentali non soltanto nei
confronti del cliente e parte assistita, ma anche con i colleghi (c.d. rapporti di
colleganza), con i collaboratori dello studio, con i praticanti, con la parte assistita dal
collega.
In ordine al rapporto di colleganza, è opportuno e necessario (art.38, comma 1,
codice deontologico) che l’avvocato che intenda promuovere un giudizio nei
confronti di un collega per fatti attinenti all’esercizio della professione, deve
dargliene preventiva comunicazione per iscritto, salvo che l’avviso possa
pregiudicare il diritto da tutelare. La sanzione disciplinare prevista per tale
inadempimento è l’avvertimento.
Non è più necessaria, quindi, la preventiva comunicazione al Consiglio dell’Ordine
di cui alla previgente disciplina.
Non è necessaria la comunicazione al collega nemmeno ove gli addebiti riguardino
attività per la quale non è richiesta l’iscrizione all’albo (Cass. sez. un., 5 dicembre
2011 n.25930), trattandosi di attività non attinente all’esercizio della professione.
E’ opportuno, comunque, da parte dell’avvocato, una particolare attenzione e
cautela prima di iniziare una azione legale contro il collega.
Sempre nell’ambito del rapporto di colleganza, l’avvocato non deve (art.38,
comma 2) registrare una conversazione telefonica con un collega; la
registrazione nel corso di una riunione è consentita soltanto con il consenso
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di tutti i presenti. La sanzione disciplinare prevista per tale inosservanza è la
censura.
L’avvocato deve, quindi, astenersi dal registrare la conversazione con il collega, a
meno che la registrazione serve per documentare la formulazione di pretese illecite
del collega “registrato”; e ciò in quanto non bisogna mai dimenticare il dovere di
riservatezza nell’esercizio della professione forense.
Sempre per il principio di lealtà e correttezza verso i colleghi, nonché per la
riservatezza che caratterizza la professione forense, l’avvocato non deve riportare
in atti processuali o riferire in giudizio il contenuto di colloqui riservati
intercorsi con i colleghi. La sanzione disciplinare prevista per tale violazione è la
censura.
Tale obbligo tende ad assicurare all’avvocato il più “libero” dispiegarsi dell’attività
professionale, stante la riservata interlocuzione tra colleghi.
L’avvocato, stante il dovere di lealtà e correttezza verso i colleghi (e le istituzioni
forensi), non deve esprimere apprezzamenti denigratori sull’attività
professionale di un collega (art. 42, comma 1). La sanzione disciplinare prevista
per tale inottemperanza è l’avvertimento.
L’avvocato non deve, quindi, denigrare l’operato del collega evidenziando ad
esempio, fatti e circostanze senza alcuna attinenza con la questione giuridica per cui è
stato investito. Naturalmente è legittimo per l’avvocato esprimere parere su una
questione esaminata da altro collega; ciò che l’avvocato deve evitare è di formulare
giudizi denigratori sul collega, anche perchè vi è per l’avvocato il divieto di usare
espressioni offensive e sconvenienti.
L’avvocato non deve esibire in giudizio documenti relativi alla posizione
personale del collega avversario né utilizzare notizie relative alla sua
persona, salvo che il collega sia parte del giudizio e che l’utilizzo di tali
documenti e notizie sia necessario alla tutela di un diritto (art. 42, comma 2).
Per tale violazione la sanzione disciplinare prevista è l’avvertimento.
Stante il dovere di riservatezza che fa carico all’avvocato per i fatti che sono
estranei al giudizio, nonché il rapporto di colleganza che caratterizza la professione
forense, è vietato all’avvocato riferire di fatti attinenti alla persona del collega
avversario, fatti estranei al giudizio. Naturalmente nulla vieta all’avvocato di produrre
in causa atti di altra lite della controparte (ma non del collega).
Sempre in conseguenza del dovere di lealtà e correttezza verso i colleghi, l’avvocato
ha l’obbligo di soddisfare le prestazioni affidate ad altro collega. E’ previsto, infatti,
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che l’avvocato che incarichi direttamente altro collega di esercitare le
funzioni di rappresentanza o assistenza deve provvedere a compensarlo, ove
non adempia il cliente (art. 43, comma 1). Per l’inottemperanza a tale obbligo è
prevista la sanzione disciplinare della censura.
Il presupposto dell’obbligo gravante sull’avvocato di “pagare” il collega incaricato, è
che il collega sia stato incaricato direttamente dall’avvocato e non quanto il collega sia
stato incaricato direttamente dal cliente.
In presenza di procura alle liti “congiunta e disgiunta” ai fini della responsabilità del
dominus occorre fare riferimento al rapporto sostanziale della delega e non solo al
rapporto formale, in quanto occorre accertare se il rapporto si sia svolto
autonomamente. Esula dalla fattispecie in esame, quella relativa alla nomina di
“codifensori”, perché in quest’ultima ipotesi l’avvocato non risponde nei confronti del
codifensore.
La problematica è strettamente connessa al compenso dell’avvocato
domiciliatario (disciplinato in ordine al quantum dall’art. 8, comma 2, dm n. 55 del
2014). A tal riguardo il Consiglio nazionale forense, con decisione n.152 del 25
ottobre 2010, ha affermato che costituisce illecito disciplinare, poiché realizzato in
violazione dei doveri di correttezza e probità professionali, il mancato pagamento
delle prestazioni procuratorie affidate al collega.
Sempre nell’ambito del rapporto di colleganza e del principio di lealtà e correttezza
verso i colleghi, l’avvocato non può impugnare una transazione raggiunta con il
collega. Infatti, l’avvocato che abbia raggiunto con il collega avversario un
accordo transattivo, accettato dalle parti, deve astenersi dal proporne
impugnazione, salvo che lo stessa sia giustificata da fatti sopravvenuti o dei
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quali dimostri di non avere avuto conoscenza (art. 44). La violazione di tale
obbligo comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della censura.
Per ragioni di lealtà e correttezza è opportuno, quindi, che l’avvocato rinunci al
mandato piuttosto che assecondare eventuale richiesta del cliente per impugnare la
transazione già accettata dalle parti.
2. - Rapporti con i collaboratori dello studio e praticanti
Obblighi comportamentali a carico dell’avvocato sono previsti anche nei rapporti
con i collaboratori dello studio.
Infatti, l’avvocato deve consentire ai propri collaboratori di migliorare la
loro preparazione professionale e non impedire od ostacolare la loro crescita
formativa, compensandone in maniera adeguata la collaborazione, tenuto
conto dell’utilizzo dei servizi e delle strutture dello studio (art. 39). La sanzione
disciplinare prevista per tale violazione è l’avvertimento.
E così l’avvocato deve sia “migliorare la preparazione professionale” dell’avvocato
collaboratore dello studio, sia “compensandone in maniera adeguata la
collaborazione”, tenuto conto che l’avvocato utilizza comunque la struttura dello
studio.
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Obblighi a carico dell’avvocato sono previsti (art. 40) anche per i praticanti.
Infatti, l’avvocato deve assicurare al praticante l’effettività e la proficuità
della pratica forense, al fine di consentirgli un’adeguata formazione. La
sanzione disciplinare prevista per tale violazione è l’avvertimento.
E così l’avvocato, al fine di consentire al praticante una adeguata preparazione,
deve “istruirlo” nelle ricerche giurisprudenziali, nella gestione delle pratiche, ma anche
facendolo partecipare ai colloqui con il cliente e controparte. Per contro il praticante
deve svolgere la pratica con diligenza, tenendo presente che il praticante è tenuto tra
l’altro alla riservatezza e segretezza di quanto viene a conoscenza nello studio
dell’avvocato e nello svolgimento dell’attività professionale del dominus.
L’avvocato deve fornire al praticante un idoneo ambiente di lavoro e, fermo
l’obbligo del rimborso delle spese, riconoscergli, dopo il primo semestre di
pratica, un compenso adeguato, tenuto conto dell’utilizzo dei servizi e delle
strutture dello studio. La sanzione disciplinare prevista per tale violazione è
l’avvertimento.
Con l’obbligo dell’avvocato a garantire al praticante un ambiente di lavoro idoneo, si
tenta di evitare “l’ammasso” di praticanti in ristretto spazio materiale, certamente
poco dignitoso per il praticante.
L’avvocato che riceve la collaborazione del praticante, deve poi rimborsarlo delle
spese anticipate ma anche corrispondergli – dopo sei mesi – un compenso connesso
all’apporto ricevuto, tenendo comunque conto dell’utilizzo delle strutture dello studio.
L’avvocato deve attestare la veridicità delle annotazioni contenute nel
libretto di pratica solo in seguito ad un adeguato controllo e senza indulgere
a motivi di favore o amicizia. La sanzione disciplinare prevista per tale violazione è
l’avvertimento.
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L’avvocato che tiene presso lo studio un praticante deve controllare la veridicità
delle annotazioni che il praticante riporta nel libretto della pratica; pone, quindi, in
essere un comportamento deontologicamente rilevante l’avvocato che attesti
falsamente la veridicità di quanto scritto nel libretto della pratica (Cons. nazionale
forense 19 febbraio 2002 n. 3).
L’avvocato non deve incaricare il praticante di svolgere attività difensiva
non consentita. La sanzione disciplinare prevista per tale violazione è la censura.
Con tale obbligo si “vieta” all’avvocato di utilizzare il praticante illegittimamente:
es., facendogli firmare atti giudiziari, impiegando il praticante non abilitato nelle
udienze.
3. – Rapporti con la parte assistita
Particolari accorgimenti e “divieti” sono espressamente previsti per l’avvocato nei
rapporti con la controparte, anzi con la parte assistita da collega.
Infatti, l’avvocato non deve mettersi in contatto diretto con la controparte,
che sappia assistita da altro collega (art. 41, comma 1). E’ prevista per la
violazione di tale obbligo la sanzione disciplinare della censura.
L’avvocato, quindi, può intrattenere rapporti solo con il legale di controparte ma mai
direttamente con la controparte, sempreché il legale abbia conoscenza che la
controparte sia assistita da un legale.
L’avvocato, peraltro, non deve ricevere la controparte assistita da un
collega, senza informare quest’ultimo e ottenerne il consenso (art. 41, comma
4).
In deroga a quanto appena illustrato, è previsto che:
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- l’avvocato, in ogni stato del procedimento e in ogni grado del giudizio, può
avere contatti con le altre parti solo in presenza del loro difensore o con il
consenso di questi (art. 41, comma 2).
- l’avvocato può indirizzare corrispondenza direttamente alla controparte,
inviandone sempre copia per conoscenza al collega che lo assiste,
esclusivamente per richiedere comportamenti determinati, intimare messe in
mora, evitare prescrizioni o decadenze (comma 3).
La sanzione disciplinare prevista per la violazione è la censura.
Gli obblighi riferiti sono posti a salvaguardia del rapporto di colleganza. Né vale ad
escludere la responsabilità disciplinare la comunicazione della parte di avere dato
comunicazione al legale o che avrebbe revocato il mandato: occorre sempre
l’accertamento diretto del legale.
4. - Doveri ed obblighi verso i terzi
Nell’ambito dei doveri di probità, dignità, decoro e indipendenza dell’avvocato,
l’art. 63 codice deontologico indica i comportamenti che devono essere tenuti
dall’avvocato nei confronti dei soggetti collegati con l’esercizio della professione.
Ed infatti, l’avvocato, anche al di fuori dell’esercizio del suo ministero,
deve comportarsi, nei rapporti interpersonali, in modo tale da non
compromettere la dignità della professione e l’affidamento dei terzi. Tant’è
che l’avvocato deve tenere un comportamento corretto e rispettoso nei confronti
dei propri dipendenti, del personale giudiziario e di tutte le persone con le quali
venga in contatto nell’esercizio della professione. La violazione di tali doveri
comporta l’applicazione della sanzione disciplinare dell’avvertimento.
L’avvocato ha, altresì, l’obbligo di provvedere all’adempimento di
obbligazioni assunte nei confronti dei terzi (art. 64, comma 1). Non solo, ma
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è espressamente previsto (comma 2) che l’inadempimento ad obbligazioni
estranee all’esercizio della professione assume carattere di illecito
disciplinare quando, per modalità e gravità, sia tale da compromettere la
dignità della professione e l’affidamento dei terzi. La violazione di tali doveri
comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio
dell’attività professionale da due a sei mesi.
E così, ad esempio, è sanzionabile l’avvocato che:
- non provvede al pagamento delle retribuzioni ai dipendenti;
- non provvede al pagamento di effetti cambiari o assegni con relativi protesti.
Occorre evidenziare che la natura “privata” o “professionale” della inadempienza
non ha alcuna influenza sulla valutazione deontologica, atteso che, come già detto,
l’inadempimento in esame sanzionato riguarda tutte le obbligazioni anche quelle
estranee all’esercizio della professione: tali inadempimenti ledono tra l’altro la dignità
della professione.
L’avvocato deve ispirare il proprio contegno all’osservanza dei doveri di probità,
dignità e decoro, salvaguardandoli anche nella sua sfera privata: i fatti
disciplinarmente rilevanti non sono solo quelli che direttamente attengono all’esercizio
dell’attività professionale, ma valgono anche quelli estranei alla professione ma che
sono idonei a gettare discredito sull’immagine della categoria professionale.
La condotta del professionista, anche se non riguardi strictu sensu l’esercizio della
professione, è rilevante deontologicamente qualora leda gli elementari doveri di
probità, dignità e decoro e si rifletta negativamente sull’attività professionale,
compromettendo l’immagine dell’avvocatura quale entità astratta con contestuale
perdita di credibilità della categoria (Cons. naz. Forense n.145 del 24 maggio 2016).
5. - Le azioni contro la controparte
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L’avvocato può intimare alla controparte particolari adempimenti sotto
comminatoria di azioni, istanze fallimentari, denunce, querele o altre
iniziative, informandola delle relative conseguenze, ma non deve minacciare
azioni o iniziative sproporzionate o vessatorie (art. 65, comma 1). La sanzione
disciplinare prevista per tale violazione è la censura.
E così l’avvocato può intimare alla controparte il pagamento di somme o altro
adempimento, avvertendola che in difetto dell’adempimento verranno avviate azioni
giudiziarie (es., esecuzione forzata, istanza fallimento) a tutela dei diritti del cliente;
ciò che è precluso all’avvocato è la “minaccia” o l’uso di termini calunniosi o estorsivi.
L’avvocato che, prima di assumere iniziative, ritenga di invitare la
controparte ad un colloquio nel proprio studio, deve precisare che può essere
accompagnata da un legale di fiducia (art. 65, comma 2). La sanzione disciplinare
prevista per tale violazione è la censura.
E ciò in quanto, con la controparte l’avvocato può intrattenere rapporti quando essa
non sia già assistita da un avvocato; ed in tale caso è lecito per l’avvocato invitare la
controparte nello studio, ma avvertendola che può essere accompagnata da un legale
di fiducia.
La problematica dell’addebitabilità alla controparte delle spese legali per l’attività
stragiudiziale è stata risolta dall’art. 65, comma 3, nel senso che l’avvocato può
addebitare alla controparte competenze e spese per l’attività prestata in sede
stragiudiziale, purchè la richiesta di pagamento sia fatta a favore del proprio
cliente. La sanzione disciplinare prevista per tale violazione è la censura.
Occorre evidenziare che il creditore delle spese richieste dall’avvocato per l’attività
stragiudiziale, è la parte e non l’avvocato. La richiesta deve, comunque essere
contenuta.
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L’avvocato non deve aggravare con onerose o plurime iniziative giudiziali la
situazione debitoria della controparte, quando ciò non corrisponde ad
effettive ragioni di tutela della parte assistita (art. 66). La sanzione disciplinare
per tale violazione è la censura.
Allorchè l’avvocato agisca contro il cliente o parte assistita, oppure la controparte,
non deve aggravare la posizione con iniziative giudiziali che non corrispondono alle
ragioni di tutela della parte assistita (es., azioni vessatorie, persecutorie, estorsive).
E così l’avvocato non può fare una richiesta frazionata del credito con una
moltiplicazione delle azioni (e spesso di ricorsi ingiunzionali). Né può costituire valida
giustificazione della moltiplicazione delle azioni (es., ingiuntive) nemmeno l’eventuale
direttiva del cliente.
L’avvocato non deve, altresì, richiedere alla controparte il pagamento del
proprio compenso professionale, salvo che ciò sia oggetto di specifica
pattuizione e vi sia l’accordo del proprio cliente, nonché in ogni altro caso
previsto dalla legge (art.67, comma 1). La sanzione disciplinare per tale violazione
è l’avvertimento.
La regola è che il compenso deve essere pagato all’avvocato dal cliente e non richiesto
alla controparte, a meno che:
- non vi sia stata pattuizione specifica;
- vi sia stata soccombenza della controparte;
- vi sia stato accordo con definizione di un procedimento.
L’avvocato, nel caso di inadempimento del cliente, può chiedere alla
controparte il pagamento del proprio compenso professionale a seguito di
accordi, presi in qualsiasi forma, con i quali viene definito un procedimento
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giudiziale o arbitrale (art. 67, comma 2). Non è prevista alcuna sanzione
disciplinare per tale violazione.
E’ pacifico, avendo peraltro ribadito la legge professionale con l’art.13, comma 8, e
ripreso dal codice deontologico con l’art. 67, che allorchè transigono una controversia
le parti sono solidalmente responsabili per il pagamento del compenso ai legali, e
quindi l’avvocato può agire direttamente anche nei confronti della controparte.
6. – Assunzione di incarichi contro una parte già assistita
E’ sempre inopportuno assumere incarichi contro una parte già assistita in altro
procedimento, in quanto l’avvocato potrebbe “utilizzare” o “sfruttare” fatti e
circostanze apprese durante il precedente mandato. Peraltro già in passato la
questione più discussa è stata la “durata” per poter assumere un incarico contro l’ex
cliente (un anno, mesi, tempo ragionevole).
L’art. 68 del codice deontologico ha risolto la problematica, prevedendo
espressamente le condizioni che devono sussistere per accettare un incarico contro
l’ex cliente.
Infatti, è previsto che l’avvocato può assumere un incarico professionale
contro una parte già assistita solo quando sia trascorso almeno un biennio
dalla cessazione del rapporto professionale (art. 68, comma 1). Per tali violazioni
è prevista la sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio dell’attività
professionale da due a sei mesi.
Ulteriore condizione prevista è che l’avvocato non deve assumere un incarico
professionale contro una parte già assistita quando l’oggetto del nuovo incarico
non sia estraneo a quello espletato (art. 68 comma 2). Per tali violazioni è
prevista la sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio dell’attività
professionale da uno a tre anni.
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In ogni caso, è fatto divieto all’avvocato di utilizzare notizie acquisite in
ragione del rapporto già esaurito (art. 68, comma 3), ancorchè siano passati due
anni e l’oggetto del nuovo incarico sia diverso. Per tali violazioni è prevista la sanzione
disciplinare della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da uno a tre
anni.
E’ evidente che l’inottemperanza ai riferiti doveri determina violazione dei principi
di fedeltà, segretezza e riservatezza che caratterizzano l’esercizio della professione
forense.
Sempre per il principio di fedeltà, segretezza e riservatezza, è previsto che
l’avvocato che abbia assistito congiuntamente coniugi o conviventi in
controversie di natura familiare, deve sempre astenersi dal prestare la
propria assistenza in favore di uno di essi in controversie successive tra i
medesimi (art.68, comma 4). Per tali violazioni è prevista la sanzione disciplinare
della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da due mesi a sei mesi. Tale
preclusione è operante ancorchè sia passato un biennio dalla cessazione dell’incarico.
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In ordine alla assistenza di un minore, è previsto espressamente (art. 68, comma 5)
che l’avvocato che abbia assistito il minore in controversie familiari, deve
sempre astenersi dal prestare la propria assistenza in favore di uno dei
genitori in successive controversie aventi la medesima natura, e viceversa
(art.68, comma 5). Per tali violazioni è prevista la sanzione disciplinare della
sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da uno a tre anni.
7. – I doveri dell’avvocato nei rapporti con le istituzioni forensi
L’avvocato deve osservare particolari comportamenti sia nel momento in cui si
“candida” per essere eletto consigliere dell’Ordine, sia come avvocato nei suoi rapporti
con il Consiglio dell’ordine.
Ed infatti, in ordine alle elezioni e rapporti con le istituzioni forensi, è previsto (art.
69) che l’avvocato chiamato a far parte delle istituzioni forensi, deve
adempiere l’incarico con diligenza, indipendenza e imparzialità. Per tale
violazione la sanzione disciplinare prevista è la censura.
Occorre precisare che istituzione forense è non soltanto il Consiglio dell’Ordine ma
anche il Consiglio nazionale forense ed il Consiglio distrettuale di disciplina.
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E’ previsto, altresì, che l’avvocato che partecipi, quale candidato o quale
sostenitore di candidati, ad elezioni ad Organi rappresentativi
dell’Avvocatura deve comportarsi con correttezza, evitando forme di
propaganda ed iniziative non consoni alla dignità delle funzioni (art. 69,
comma 2). Tant’è che è vietata ogni forma di iniziativa o propaganda nella sede di
svolgimento delle elezioni durante le operazioni di voto (art. 69, comma 3). Non
solo ma nelle sedi di svolgimento delle operazioni di voto è consentita la sola
affissione delle liste elettorali e di manifesti contenenti le regole di svolgimento delle
operazioni (art. 69, comma 4). Per le violazioni dei citati commi 2-4 la sanzione
disciplinare prevista è l’avvertimento
Particolari obblighi sono previsti per l’avvocato nei rapporti con il Consiglio
dell’ordine (art. 70).
Infatti sono previsti dal citato art.70 obblighi di comunicazioni al proprio
Consiglio in ordine :
- a rapporti di parentela, coniugio o affinità con i magistrati;
- costituzione di associazione professionale;
- apertura di studi principali, secondari e di recapiti;
- estremi polizza assicurativa sulla responsabilità civile.
E per tali violazione la sanzione disciplinare prevista è l’avvertimento.
Esiste per l’avvocato anche un dovere di collaborazione con le istituzioni
forensi (art. 71). L’avvocato deve dare sollecita risposta ad eventuali richieste di
chiarimenti e/o notizie da parte delle istituzioni forensi. Un particolare obbligo è
previsto a carico dell’avvocato in ordine all’esame di abilitazione, sia per
l’avvocato candidato che per l’avvocato (art.72).
Infatti è previsto che l’avvocato che faccia pervenire, in qualsiasi modo, ad uno o più
candidato, prima o durante la prova d’esame, testi relativi al tema proposto è punito
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con la sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio dell’attività professione da
due a sei mesi; la sanzione aggravata (da uno a tre anni) nel caso in cui la violazione
è stata commessa da un avvocato commissario di esame.
Inoltre è previsto che il candidato che, nell’aula ove si svolge l’esame di
abilitazione, riceva scritti o appunti di qualunque genere e non ne faccia
immediata denuncia alla Commissione, è punito con la sanzione disciplinare della
censura. Nel caso del praticante avvocato, l’art.46, comma 9, legge n. 247 del
2012 prevede l’esclusione immediata dall’esame.
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3. Doveri dell’avvocato nel processo
1. - Dovere di difesa nel processo e rapporto di colleganza
Nell’ambito del dovere di fedeltà, di lealtà e correttezza per l’avvocato nello
svolgimento dell’attività professionale, si inquadra il dovere di difesa nel processo e
rapporto di colleganza.
E’ previsto, infatti, che nell’attività giudiziale, l’avvocato deve ispirare la
propria condotta all’osservanza del dovere di difesa, salvaguardando, per
quanto possibile, il rapporto di colleganza (art. 46, comma 1). La sanzione
disciplinare prevista per la violazione è l’avvertimento.
Da quanto sopra consegue che il dovere di difesa prevale sempre sul rapporto di
colleganza: l’avvocato non può subordinare gli interessi del proprio assistito per
“compiacere” il collega: l’interesse della parte assistita prevale sempre ed in ogni
caso. E così l’avvocato può associarsi ad un rinvio della udienza richiesto dal legale
avversario sempreché non venga pregiudicato il diritto del cliente.
E si è “precisato” che l’avvocato deve opporsi alle istanze irrituali o
ingiustificate che, formulate nel processo dalle controparti, comportino
pregiudizio per la parte assistita (art. 46, comma 3). La sanzione disciplinare
prevista per tale violazione è l’avvertimento.
L’avvocato non può “accogliere” richieste del collega avversario non consentite dalla
procedura o ingiustificate.
Sempre in ossequio al principio di colleganza e del dovere di lealtà e correttezza
verso i colleghi e le istituzioni forensi, è previsto (art.46, comma 2) che l’avvocato
deve rispettare la puntualità sia in sede di udienza che in ogni altra occasione
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di incontro con i colleghi, la ripetuta violazione del dovere costituisce illecito
disciplinare. La sanzione disciplinare prevista per la violazione è l’avvertimento.
L’avvocato in udienza, deve, quindi, attendere il collega nei limiti della
ragionevolezza, ed il ritardo non ecceda il limite ragionevole (Cons. nazionale forense
24 dicembre 2002 n.216).
Il difensore nominato di fiducia deve comunicare tempestivamente al collega,
già nominato d’ufficio, l’incarico ricevuto e, senza pregiudizio per il diritto di
difesa, deve sollecitare la parte a provvedere al pagamento di quanto dovuto
al difensore d’ufficio per l’attività svolta (art. 46, comma 4). La sanzione
disciplinare prevista per la violazione è l’avvertimento.
L’obbligo riferito si inquadra nel dovere di colleganza fra colleghi. Nel caso che dopo
la nomina di un difensore d’ufficio l’imputato nomina un difensore di fiducia,
quest’ultimo ha il dovere di informare tempestivamente il difensore d’ufficio per
evitargli di compiere attività professionale “inutile, ed invitare nel contempo il cliente a
pagare il difensore d’ufficio per eventuale attività professionale espletata.
Ed infatti è previsto (art. 49, comma 1) che l’avvocato nominato difensore
d’ufficio deve comunicare alla parte assistita che ha facoltà scegliersi un
difensore di fiducia e informarla che anche il difensore d’ufficio ha diritto ad
essere retribuito. A tale omissione si applica la sanzione disciplinare
dell’avvertimento.
L’avvocato, nell’interesse della parte assistita e nel rispetto della legge,
collabora con i difensori delle altre parti, anche scambiando informazioni, atti
e documenti (art. 46, comma 5). La sanzione disciplinare prevista per la violazione è
l’avvertimento.
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In ipotesi di difesa congiunta è previsto che l’avvocato, nei casi di difesa
congiunta, deve consultare il codifensore su ogni scelta processuale e
informarlo del contenuto dei colloqui con il comune assistito, al fine della
effettiva condivisione della difesa (art. 46, comma 6). La sanzione disciplinare
prevista per la violazione è l’avvertimento.
E’ evidente che nel caso in cui non si condivida la linea difensiva, l’avvocato può
sempre rinunciare al mandato, con tutte le cautele necessarie per non danneggiare il
cliente: non si può obbligare il codifensore ad una difesa “costretta”.
Nell’ambito del rapporto di colleganza, ma anche del dovere di lealtà e correttezza
che incombe per l’avvocato, l’avvocato deve comunicare al collega avversario
l’interruzione delle trattative stragiudiziali, nella prospettiva di dare inizio ad
azioni giudiziarie (art.46, comma 7). La sanzione disciplinare prevista per la
violazione è la censura.
E’ stato così sanzionato l’avvocato, per violazione del dovere di colleganza e lealtà,
che pur partecipando a una trattativa per la risoluzione consensuale di una causa di
separazione, abbia omesso di avvisare i colleghi di controparte ed abbia depositato un
ricorso per la separazione giudiziale (Cons. nazionale forense 29 maggio 2003 n.
115).
Aggiungasi che nel caso di impedimento alla partecipazione a singole
attività processuali, l’avvocato è comunque tenuto a darne tempestiva e motivata
comunicazione alla autorità procedente ovvero ad incaricare della difesa un collega
(Cons. naz. Forense 29 dicembre 2014 n. 212).
1. – Obbligo di dare istruzioni e informazioni al collega
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I rapporti fra l’avvocato dominus e l’avvocato corrispondente, sono
dettagliatamente illustrati nel codice deontologico (art. 47), in cui sono previsti
obblighi sia a carico del dominus che del collega corrispondente.
Ed infatti è previsto per il dominus che l’avvocato deve dare tempestive
istruzioni al collega corrispondente e questi, del pari, è tenuto a dare al
collega sollecite e dettagliate informazioni sull’attività svolta o da svolgere
(art.47, comma 1). L’elezione di domicilio presso un collega deve essergli
preventivamente comunicata e da questi essere consentita (comma 2). La
sanzione disciplinare prevista per la violazione di questi doveri è l’avvertimento.
Non è possibile, quindi, eleggere domicilio presso un collega senza averlo
preventivamente informato ed ottenuto il “consenso”.
Fra gli obblighi del corrispondente, è previsto (art. 47, comma 4), per tutelare la
parte assistita, che l’avvocato corrispondente, in difetto di istruzioni, deve
adoperarsi nel modo più opportuno per la tutela degli interessi della parte,
informando non appena possibile il collega che gli ha affidato l’incarico. La
sanzione disciplinare prevista per la violazione è l’avvertimento.
L’avvocato corrispondente non deve definire direttamente una
controversia, in via transattiva, senza informare il collega che gli ha affidato
l’incarico. La sanzione disciplinare prevista per la violazione è la censura.
L’avvocato corrispondente (c.d. domiciliatario) non solo quindi non può tenere
contatti diretti con la parte assistita (salvo espressa “autorizzazione”), ma non può a
maggior ragione transigere la causa senza l’autorizzazione del dominus o della parte
assistita; nel caso in cui vi sia stata l’autorizzazione della parte assistita è opportuno –
e necessario – che il corrispondente ne dia notizia al dominus.
2. - Divieto di produrre la corrispondenza scambiata con il collega
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In ossequio al dovere di segretezza e riservatezza che caratterizza la professione
legale, ai doveri di lealtà e correttezza verso i colleghi che l’avvocato deve osservare,
ed al rapporto di colleganza, è espressamente vietata all’avvocato di produrre in
giudizio la corrispondenza scambiata con il collega.
Infatti è previsto (art. 48, comma 1) che l’avvocato non deve produrre,
riportare in atti processuali o riferire in giudizio la corrispondenza intercorsa
esclusivamente tra colleghi qualificata come riservata, nonché quella
contenente proposte transattive e relative proposte. La sanzione disciplinare
prevista per la violazione è la censura.
Sono riservate, quindi, non solo la corrispondenza qualificata come riservata dalla
stessa parte ma anche la corrispondenza che, pur non qualificata espressamente
riservata, contenga proposte transattive scambiate e le relative risposte.
La corrispondenza tra colleghi può essere, però, scambiata solo in ipotesi
espressamente previste. Infatti è statuito (art.48, comma 2) che l’avvocato può
produrre la corrispondenza intercorsa tra colleghi quando la stessa:
a) costituisca perfezionamento e prova di un accordo;
b) assicuri l’adempimento delle prestazioni richieste.
La deroga al divieto di produrre la corrispondenza intercorsa con il collega nelle
due riferite ipotesi, è evidente la giustificatezza della deroga, in quanto nella prima
ipotesi la corrispondenza documenta una transazione della lite, mentre nella seconda
ipotesi la corrispondenza documenta l’adempimento della prestazione richiesta.
L’avvocato non deve consegnare al cliente e alla parte assistita la
corrispondenza riservata tra colleghi; può, qualora venga meno il mandato
professionale, consegnarla al collega che gli succede, a sua volta tenuto ad
osservare il medesimo dovere di riservatezza (comma 3). La sanzione
disciplinare prevista per la violazione è la censura.
E ciò in quanto il principio di riservatezza è sempre inviolabile e la riservatezza
sussiste prima e dopo il giudizio, ed anche in caso di cessazione del mandato o
successione di colleghi (Cons. nazionale forense 29 novembre 2012 n. 159).
Il precetto che inibisce la produzione in giudizio delle lettere riservate
scambiate con i colleghi non prevede eccezioni o esimenti (al di fuori di quelle
espressamente previste), trattandosi di canone deontologico che mira a
salvaguardare il corretto svolgimento dell’attività professionale, con il fine di non
consentire che leali rapporti tra colleghi possano dar luogo a conseguenze negative
nello svolgimento della funzione difensionale, specie allorchè le comunicazioni ovvero
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le missive contengano ammissioni o consapevolezze di torti ovvero proposte
transattive (Cons. naz. Forense 11 dicembre 2014 n. 177).
3. – Dovere di verità dell’avvocato
Il dovere di verità dell’avvocato nel processo, disciplinato dall’art. 50 del codice
deontologico, si inquadra nei doveri di lealtà e correttezza verso i colleghi e le
istituzioni forensi. La ratio della normativa in questione è quella di impedire
all’avvocato di trarre in inganno il magistrato mutando artificiosamente lo stato dei
luoghi.
E’ previsto (art. 50, comma 1), infatti, che l’avvocato non deve introdurre nel
procedimento prove o elementi di prova, dichiarazioni o documenti che
sappia essere falsi. La sanzione disciplinare prevista per la violazione è la
sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da uno a tre anni. Non solo ma è
ulteriormente precisato (art.50, comma 2), che l’avvocato non deve utilizzare nel
procedimento prove o elementi di prova, dichiarazioni o documenti prodotti o
provenienti dalla parte assistita che sappia o apprenda essere falsi. Vi è
l’ulteriore precisazione (art. 50, comma 3) che l’avvocato che apprenda, anche
successivamente, dell’introduzione nel procedimento, di prove, elementi di prova o
documenti falsi, provenienti dalla parte assistita, non può utilizzarli o deve
rinunciare al mandato. Per tali violazioni la sanzione disciplinare prevista è la
sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da uno a tre anni.
Corollario dei riferiti obblighi del difensore, è previsto (art.50, commi 4 e 5) che:
- l’avvocato non deve impegnare di fronte al giudice la propria parola
sulla verità dei fatti esposti in giudizio (l’avvocato deve essere estraneo alla
lite e deve sempre preservare la totale indipendenza);
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- nel procedimento, non deve rendere false dichiarazioni sulla esistenza
o inesistenza di fatti di cui abbia diretta conoscenza e suscettibili di
essere assunti come presupposto di un provvedimento del magistrato.
La sanzione disciplinare prevista è la sospensione dall’esercizio dell’attività
professionale da uno a tre anni.
Ad ulteriore rafforzamento dell’obbligo in questione è previsto che l’avvocato nella
presentazione di istanze o richieste riguardanti lo stesso fatto, deve
indicare provvedimenti già ottenuti, compresi quelli di rigetto (art. 50,
comma 6). La sanzione disciplinare per la violazione del comma 6 è l’avvertimento.
E ciò in quanto, stante il dovere di reciproco rispetto avvocati/magistrati,
l’avvocato deve rendere edotta l’autorità giudiziaria adita di eventuale provvedimento
negativo già emesso e le ragioni che giustificano una nuova domanda.
4. - La testimonianza dell’avvocato
La legge professionale (legge n. 247 del 2012, art.6, comma 5) espressamente
statuisce che “l’avvocato, i suoi collaboratori e i dipendenti non possono
essere obbligati a deporre nei procedimenti e nei giudizi di qualunque specie
su ciò di cui siano venuti a conoscenza nell’esercizio della professione o dell’attività di
collaborazione o in virtù del rapporto di dipendenza, salvo i casi previsti dalla legge”.
E’ pacifico, quindi, che l’avvocato non può essere obbligato a deporre come teste su
quanto appreso nell’esercizio della sua attività professionale (art. 200 codice di
procedura penale; art.249 codice di procedura civile). L’avvocato non può deporre su
fatti e circostanze “ricevute” dal cliente nell’esercizio dell’attività professionale.
Naturalmente il segreto può essere opposto solo per quanto appreso nell’esercizio
professionale, e non anche, ad esempio, per quanto appreso prima di ricevere il
mandato.
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Ed il codice deontologico (art. 51) disciplina la testimonianza dell’avvocato,
riprendendo quanto previsto dalla citata legge professionale, statuendo che
l’avvocato deve astenersi, salvo casi eccezionali, dal deporre come persona
informata sui fatti o come testimone, su circostanze apprese nell’esercizio
della propria attività professionale e ad essa inerenti.
Si precisa che l’avvocato deve comunque astenersi dal deporre sul contenuto
di quanto appreso nel corso di colloqui riservati con colleghi nonché sul
contenuto della corrispondenza riservata intercorsa con questi ultimi.
Per tali violazioni è prevista la sanzione disciplinare della censura.
Stante il principio di libertà per l’avvocato di accettare o meno l’incarico, è previsto
espressamente che qualora l’avvocato intenda presentarsi come testimone o
persona informata sui fatti, non deve assumere il mandato e, se lo ha
assunto, deve rinunciarvi e non può riassumerlo. Per tale violazione è prevista
la sanzione disciplinare della censura.
5. – Divieto di uso di espressioni offensive o sconvenienti.
Tra i doveri di lealtà e correttezza verso i colleghi e le istituzioni forensi, va
collocato il divieto di uso di espressioni offensive o sconvenienti da parte dell’avvocato
nei confronti di tutti i soggetti che partecipano al processo (es., magistrati, avvocati,
controparti, arbitri, consulenti tecnici, personale di cancelleria), divieto disciplinato
espressamente dall’art. 52 codice deontologico.
Infatti è previsto (art.52, comma 1) che l’avvocato deve evitare espressioni
offensive o sconvenienti negli scritti in giudizio e nell’esercizio dell’attività
professionale nei confronti di colleghi, magistrati, controparti o terzi. Per tale
violazione è prevista la sanzione disciplinare della censura.
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Ai sensi dell’art. 89 codice di procedura civile, delle offese contenute negli scritti
difensivi risponde sempre la parte, anche quando provengano dal difensore, sia
perché gli atti di quest’ultimo sono sempre riferibili alla parte, sia perché la sentenza
può contenere statuizioni dirette soltanto nei confronti della parte in causa (Cass. 19
febbraio 2016 n. 3274; Cass. 26 luglio 2002 n. 11063). Occorre evidenziare, altresì,
che ai sensi dell’art. 89 delle offese contenute negli scritti difensivi risponde sempre la
parte, anche quando provengano dal difensore, e destinataria della domanda di
risarcimento del danno ex art. 89, comma 2, codice di procedura civile, è
sempre e solo la parte (legittimata passivamente), la quale, se condannata, potrà
rivalersi nei confronti del difensore, cui siano addebitabili le espressioni offensive ove
ne ricorrano le condizioni (Cass. 9 settembre 2008 n. 23333).
L’utilizzo di toni minacciosi e intimidatori da parte di un avvocato nei
confronti di un collega è di per sé comportamento deontologicamente
rilevante, a prescindere dalla fondatezza o meno delle contestazioni mosse:
la maggiore o minore fondatezza delle censure mosse può rilevare unicamente nella
determinazione della sanzione da applicare (Cass. 15 settembre 2015 n. 18075).
Il divieto di uso di espressioni sconvenienti o offensive pone per l’avvocato il
preciso obbligo di evitare espressioni sconvenienti od offensive negli scritti in
giudizio e nell’attività professionale in genere, obbligo che persiste anche nelle
ipotesi di ritorsione, provocazione o reciprocità delle offese, le quali non
escludono l’infrazione della regola deontologica (Cass. n.11370 del 2016).
Naturalmente non è precluso all’avvocato esprimere il proprio pensiero con vigore e
calore, purchè non usi frasi ingiuriose tali da intaccare la dignità e il decoro del
collega.
Poiché il procedimento disciplinare è del tutto indipendente dalle valutazioni
compiute in sede civile o penale (Cons. nazionale forense 22 settembre 2012 n.122),
è da ritenersi che la cancellazione disposta dal giudice ex art.89 codice di procedura
civile non preclude l’azione disciplinare, ma nemmeno impone automaticamente
l’applicazione di una sanzione disciplinare.
E’ espressamente previsto che la ritorsione, la provocazione o la reciprocità
delle offese non escludono la rilevanza disciplinare della condotta (art. 52,
comma 2).
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6. - Rapporti con i magistrati
Particolari doveri sono imposti all’avvocato nei rapporti con la magistratura
(art.53), atteso che i rapporti con i magistrati devono essere improntati a
dignità e a reciproco rispetto; i rapporti tra avvocati e magistrati devono essere il
più possibile lineari e corretti.
L’avvocato, salvo casi particolari, non deve interloquire con il giudice in
merito al procedimento in corso senza la presenza del collega avversario.
L’avvocato deve essere il più possibile imparziale e “distaccato” con gli organi
giudicanti.
L’avvocato chiamato a svolgere funzioni di magistrato onorario deve
rispettare tutti gli obblighi inerenti a tali funzioni e le norme sulla
incompatibilità.
L’avvocato non deve approfittare di rapporti di amicizia, familiarità o
confidenza con i magistrati per ottenere o richiedere favori e preferenze, né
ostentare l’esistenza di tali rapporti.
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L’avvocato componente del Consiglio dell’Ordine non deve accettare incarichi
giudiziari da parte di magistrati del circondario, fatta eccezione per le nomine a
difensore d’ufficio. Tale prassi, peraltro, era già applicata “spontaneamente” presso
vario ordini.
I divieti e doveri dell’avvocato nei rapporti con la magistratura, ed innanzi riferiti si
applicano (art. 54) anche ai rapporti dell’avvocato con arbitri, conciliatori,
mediatori, periti, consulenti tecnici d’ufficio e della controparte.
La sanzione disciplinare applicabile per la violazione dei sopra riferiti doveri che
l’avvocato deve osservare nei rapporti con i magistrati, d altri soggetti, è la censura.
7. 8. - Rapporti con i testimoni e persone informate
Stante il principio di correttezza e lealtà processuale e di indipendenza
dell’avvocato, lo stesso deve astenersi, per quanto possibile, dall’intrattenersi con i
testimoni. Particolari cautele devono essere osservate dall’avvocato nei rapporti con i
testimoni e le persone informate.
Infatti, è previsto (art. 55, comma 1) che l’avvocato non deve intrattenersi con
testimoni o persone informate sui fatti oggetto della causa o del
procedimento con forzature o suggestioni dirette a conseguire deposizioni
compiacenti. Per tale violazione è prevista la sanzione disciplinare della sospensione
dall’esercizio dell’attività professionale da due a sei mesi.
Il principio del distacco del difensore dai testimoni è stato “attenuato” dal nuovo
codice di procedura penale. Infatti (art. 55, comma 2) il difensore, nell’ambito del
procedimento penale, ha facoltà di procedere ad investigazioni difensive nei
modi e termini previsti dalla legge e nel rispetto delle disposizioni emanate
dall’Autorità Garante per la protezione dei dati personali.
Sono previsti poi una serie di obblighi a carico del difensore :
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- deve mantenere il segreto sugli atti delle investigazioni difensive sul loro
contenuto, finchè non ne faccia uso nel procedimento (art. 55, comma 3);
- nel caso in cui il difensore si avvalga di sostituti, collaboratori, investigatori
autorizzati e consulenti tecnici, può fornire agli stessi tutte le informazioni e i
documenti necessari per l’espletamento dell’incarico (art. 55, comma 4);
- il difensore deve conservare scrupolosamente e riservatamente la
documentazione delle investigazioni difensive per tutto il tempo necessario o
utile all’esercizio della difesa (art. 55, comma 5);
- gli avvisi, che il difensore e gli altri soggetti da lui delegati sono tenuti a dare
alle persone interpellate ai fini delle investigazioni, devono essere documentati
per iscritto (art. 55, comma 6);
- il difensore non deve corrispondere alle persone interpellate, ai fini delle
investigazioni difensive, compensi o indennità, salvo il rimborso delle sole spese
documentate (art. 55, comma 7);
- per conferire con la persona offesa dal reato, assumere informazioni dalla stessa
o richiedere dichiarazioni scritte, il difensore deve procedere con invito scritto,
previo avviso all’eventuale difensore della stessa persona offesa; in ogni caso
nell’invito è indicata l’opportunità che la persona provveda a consultare un
difensore perché intervenga all’atto (art. 55, comma 8);
- il difensore deve informare i prossimi congiunti della persona imputata o
sottoposta ad indagini della facoltà di astenersi dal rispondere, specificando che,
qualora non intendano avvalersene, sono obbligati a riferire la verità (art. 55,
comma 9);
- il difensore deve documentare in forma integrale le informazioni assunte (art.
55, comma 10);
- il difensore non deve consegnare copia o estratto del verbale alla persona che
ha reso informazioni, né al suo difensore (art. 55,comma 11).
Per la violazione dei doveri, dei divieti, degli obblighi di legge e delle prescrizioni
previste ai commi 3,4 e 7, la sanzione disciplinare prevista è la sospensione
dall’esercizio dell’attività professionale da sei mesi a un anno. Per le violazioni
indicate nei commi 5,6,8,9,10 e 11 la sanzione prevista è, invece, la censura.
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9. – Ascolto del minore
La tutela del minore assume una particolare rilevanza ed attenzione nel codice
deontologico, soprattutto sulla necessità di ascolto del minore; occorre un
particolare impegno dell’avvocato per la difesa dei minori. Del resto, l’audizione dei
minori nei procedimenti giurisdizionali che li riguardano è un adempimento
necessario (Cass. 4 dicembre 2012 n.21662); e sulla materia è intervenuto anche
il legislatore con la legge 10.12.2012 n.219 ed il d.lgs. 28.12.2013 n. 154.
Il codice deontologico disciplina (art. 56) l’ascolto del minore, statuendo che
l’avvocato non può procedere all’ascolto di una persona minore di età
senza il consenso degli esercenti la responsabilità genitoriale, sempre che
non sussista conflitto di interessi con gli stessi.
Al fine di tutelare il minore dalle liti tra i genitori, e quindi per la sua serenità ed
integrità, è statuito che:
- l’avvocato del genitore, nelle controversie in materia familiare o
minorile, deve astenersi da ogni forma di colloquio e contatto con i figli
minori sulle circostanze oggetto delle stesse;
- l’avvocato difensore nel procedimento penale, per conferire con persona
minore, assumere informazioni dalla stessa o richiederle dichiarazioni scritte,
deve invitare formalmente gli esercenti la responsabilità genitoriale, con
indicazione della facoltà di intervenire all’atto, fatto salvo l’obbligo della
presenza dell’esperto nei casi previsti dalla legge e in ogni caso in cui il minore
sia persona offesa dal reato.
La violazione dei doveri e divieti per l’ascolto del minore comporta l’applicazione
della sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale
da sei mesi a un anno.
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10.- Rapporti con organi di informazione e attività di comunicazione.
Particolare attenzione è dedicata dal codice deontologico ai rapporti dell’avvocato
con la stampa (e con la comunicazione in genere). Infatti è previsto (art. 57) che
l’avvocato, fatte salve le esigenze di difesa della parte assistita, nei rapporti con
gli organi di informazione e in ogni attività di comunicazione, non deve :
- fornire notizie coperte dal segreto di indagine;
- spendere il nome dei propri clienti e assistiti;
- enfatizzare le proprie capacità professionali, sollecitare articoli o
interviste e convocare conferenze stampa.
L’avvocato deve in ogni caso assicurare l’anonimato dei minori.
Occorre ricordare che l’art.10, comma 4, della legge n. 247 del 2012 qualifica
espressamente come illecito disciplinare l’inosservanza delle disposizioni sulla
informazione.
L’inosservanza alle citate disposizioni sui rapporti con gli organi di informazione
ed attività di comunicazione comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della
sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da due a sei mesi.
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11.- Notifica in proprio, calendario del processo, astensione dalle udienze.
Il compimento di abusi nell’esercizio della facoltà di notificazione prevista
dalla legge n. 53 del 1994 costituisce illecito disciplinare (art. 58), sanzionato con
l’applicazione della sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio dell’attività
professionale da due a sei mesi.
Anche l’osservanza del calendario delle udienze è disciplinata dal codice
deontologico (art. 59), prevedendo che il mancato rispetto dei termini fissati nel
calendario del processo civile, ove determinato esclusivamente dal
comportamento dilatorio dell’avvocato, costituisce illecito disciplinare,
sanzionato con la sanzione disciplinare dell’avvertimento. Peraltro occorre evidenziare
che la stessa legge prevede che il mancato rispetto dei termini fissati nel calendario
del processo può costituire violazione disciplinare.
Sulla astensione dalle udienze dell’avvocato, una compiuta disciplina è dettata
dall’art. 60 del codice deontologico, facendo chiarezza su dubbi e perplessità
verificatesi in passato, stante peraltro una giurisprudenza non sempre lineare in
materia, tant’è che vi è stato anche l’intervento della Corte costituzionale (Corte cost.
27 maggio 1996 n. 171) che ha affermato che l’astensione degli avvocati non è
inquadrabile nello sciopero, ma è espressione della libertà di associazione.
E’ previsto (art. 60, comma 1) che l’avvocato ha diritto di astenersi dal
partecipare alle udienze e alle altre attività giudiziarie quando l’astensione
sia proclamata dagli Organi forensi, ma deve attenersi alle disposizioni del
codice di autoregolamentazione. Per tale violazione la sanzione disciplinare
prevista è l’avvertimento.
Il diritto di astensione dalle udienze è, quindi, subordinato alla duplice condizione:
- che sia proclamata dagli organi forensi;
- che sia conforme al codice di autoregolamentazione.
Il diritto di astenersi dalle udienze, da parte del difensore che aderisca ad una
protesta di categoria, è configurabile anche in relazione alle udienze camerali a
partecipazione non necessaria (Cass. pen, sez. III, 16 settembre 2015 n. 37357).
Si è poi specificato che qualora il diritto di astensione venga esercitato nel rispetto del
codice di autoregolamentazione, esso costituisce in tale caso una causa di rinvio del
procedimento, anche delle udienze camerali (Cass. pen., sez. IV, 18 gennaio 2016 n.
1835; Cass. pen., sez.VI, 30 novembre 2015 n.47285). L’adesione all’astensione di
categoria costituisce, infatti, espressione del diritto di associazione costituzionalmente
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garantito e regolato da una disposizione normativa di fonte secondaria, e non
semplicemente un legittimo impedimento partecipativo.
L’avvocato non è, però, obbligato alla astensione dalle udienze. Infatti è previsto che
l’avvocato che eserciti il proprio diritto di non aderire alla astensione deve
informare con congruo anticipo gli altri difensori costituiti (art. 60, comma 2).
Per tale violazione la sanzione disciplinare prevista è l’avvertimento.
Del resto si è affermato (Cass. 23 gennaio 2013 n. 1567) che l’avvocato che
aderisce all’astensione ha diritto ad un differimento dell’udienza, a patto che ne dia
tempestiva informazione al giudice. Naturalmente, qualora il giudice non disponga il
rinvio e la trattazione della causa può pregiudicare gli interessi del cliente, l’avvocato
pur aderendo all’astensione, deve comunque esercitare l’attività difensiva.
L’avvocato non può aderire o dissociarsi dalla proclamata astensione a
seconda delle proprie contingenti convenienze (art. 60, comma 3). Ne consegue
che l’avvocato che aderisca all’udienza non può dissociarsene con riferimento a singole
giornate o a proprie specifiche attività né può aderirvi parzialmente, in certi giorni o
per particolari proprie attività professionali (art. 60, comma 4). Per tali violazioni la
sanzione disciplinare prevista è la censura. E così l’avvocato, nel contesto della stessa
giornata, non può dichiarare per taluni procedimenti di aderire all’astensione, mentre
per altri insistere per la trattazione.
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12. - Arbitrato
In materia di arbitrati vige la regola sulla imparzialità degli arbitri, sulla loro
terzietà, oltre che sulla loro correttezza e probità, senza distinzione tra arbitri rituali
ed irrituali. Gli arbitri devono essere corretti e probi, indipendenti e imparziali.
Ed infatti la disciplina dettata dall’art. 61 codice deontologico, nel dettare le regole
per esercitare la funzione di arbitro, impone che l’avvocato chiamato a svolgere la
funzione di arbitro deve improntare il proprio comportamento a probità e
correttezza e vigilare che il procedimento si svolga con imparzialità e
indipendenza. Per tale violazione la sanzione disciplinare prevista è la sospensione
dall’esercizio dell’attività professionale da due a sei mesi.
Anche le regole per assumere l’incarico di arbitro sono abbastanza rigide. Infatti
l’art.61, commi 2 e 3, stabilisce che l’avvocato:
- non deve assumere la funzione di arbitro quando abbia in corso, o abbia
avuto negli ultimi due anni, rapporti professionali con una delle parti e,
comunque, se ricorre una delle ipotesi di ricusazione degli arbitri,
previste dal codice di rito. Per tale violazione la sanzione disciplinare prevista
è la sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da sei mesi a un anno;
- l’avvocato non deve accettare la nomina ad arbitro se una delle parti del
procedimento sia assistita, o sia stata assistita negli ultimi due anni, da
altro professionista di lui socio o con lui associato, ovvero che eserciti
negli stessi locali. In ogni caso l’avvocato deve comunicare per iscritto alle
parti ogni ulteriore circostanza di fatto e ogni rapporto con i difensori che
possano incidere sulla sua indipendenza, al fine di ottenere il consenso delle
parti stesse all’espletamento dell’incarico. Per tale violazione la sanzione
disciplinare prevista è la sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da
due a sei mesi.
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Anche nel corso del procedimento arbitrale l’avvocato deve “osservare “
determinate regole. Infatti è previsto che l’avvocato che viene designato arbitro
deve comportarsi nel corso del procedimento in modo da preservare la
fiducia in lui riposta dalle parti e deve rimanere immune da influenze e
condizioni esterni di qualunque tipo. Per tale violazione la sanzione disciplinare
prevista è la sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da due a sei mesi.
Sempre durante lo svolgimento del procedimento arbitrale, è previsto (art. 61,
comma 5) che l’avvocato nella veste di arbitro:
a) deve mantenere la riservatezza sui fatti di cui venga a conoscenza in
ragione del procedimento arbitrale;
b) non deve fornire notizie su questioni attinenti al procedimento;
c) non deve rendere nota la decisione prima che questa sia formalmente
comunicata a tutte le parti.
Per tale violazione la sanzione disciplinare prevista è la sospensione dall’esercizio
dell’attività professionale da due a sei mesi.
Obblighi sono previsti a carico dell’avvocato arbitro anche dopo lo svolgimento
dell’arbitrato. Infatti è previsto che l’avvocato che abbia svolto l’’incarico di
arbitro non deve intrattenere rapporti professionali con una delle parti:
a) se non siano decorsi almeno due anni dalla definizione del procedimento;
b) se l’oggetto dell’attività non sia diverso da quello del procedimento
stesso.
Il divieto si estende ai professionisti soci, associati (dell’avvocato che ha svolto la
funzione di arbitro) ovvero che esercitino negli stessi locali.
Per tali violazioni la sanzione disciplinare prevista è la sospensione dall’esercizio
dell’attività professionale da due a sei mesi.
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13. - Obblighi e preclusioni per l’avvocato mediatore
Svolgendo l’avvocato anche la funzione di mediatore non potevano mancare nel
codice deontologico (art. 62) le regole cui l’avvocato deve attenersi nello svolgimento
della funzione di mediatore, regole che non si discostano molto da quelle previste per
l’avvocato che svolge le funzioni di arbitro (dignità e correttezza).
Ed infatti, l’art. 62, comma 1, stabilisce che l’avvocato che svolga la funzione
di mediatore deve rispettare gli obblighi dettati della normativa in materia e
le previsioni del regolamento dell’organismo di mediazione, nei limiti in cui
queste ultime previsioni non contrastino con quelle del presente codice. Per
tale violazione la sanzione disciplinare prevista è la censura.
Per l’avvocato mediatore è necessaria una particolare competenza, tant’è che si
svolgono periodici programmi di formazione del mediatore con corsi teorico-pratici. Ed
infatti è espressamente previsto (art. 62, comma 2) che l’avvocato non deve
assumere la funzione di mediatore in difetto di adeguata preparazione. Per
tale violazione la sanzione disciplinare prevista è la censura.
Regole (deontologiche) sono dettate per la funzione di mediatore. Infatti è previsto
(art .62, comma 3) che non deve assumere la funzione di mediatore l’avvocato:
a) che abbia in corso o abbia avuto negli ultimi due anni rapporti
professionali con una delle parti;
b) se una delle parti sia assistita o sia stata assistita negli ultimi due anni da
professionista di lui socio o con lui associato ovvero che eserciti negli
stessi locali.
In ogni caso costituisce condizione ostativa all’assunzione dell’incarico di mediatore
la ricorrenza di una delle ipotesi di ricusazione degli arbitri previsti dal codice di rito.
Per tale violazione la sanzione disciplinare prevista è la sospensione dall’esercizio
dell’attività professionale da due a sei mesi.
Trattasi di “obblighi” da rispettare per assicurare la lealtà e correttezza delle
funzioni dell’avvocato/mediatore.
Obblighi e limitazioni sono previsti per l’avvocato mediatore anche durante lo
svolgimento del procedimento di mediazione.
Infatti è previsto (art. 62, comma 4) che l’avvocato che ha svolto l’incarico
di mediatore non deve intrattenere rapporti professionali con una delle parti:
a) se non siano decorsi almeno due anni dalla definizione del procedimento;
b) se l’oggetto dell’attività non sia diverso da quello del procedimento stesso.
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Il divieto si estende ai professionisti soci, associati (dell’avvocato che ha svolto la
funzione di mediatore) ovvero che esercitino negli stessi locali.
La violazione di tale obbligo comporta l’applicazione della sanzione disciplinare della
sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da due a sei mesi.
Al fine di assicurare una distinzione tra l’attività professionale e l’attività di
mediazione è previsto espressamente (art. 62, comma 5) che l’avvocato non deve
consentire che l’organismo di mediazione abbia sede, a qualsiasi titolo, o
svolga attività presso il suo studio o che quest’ultimo abbia sede presso
l’organismo di mediazione. Per tale violazione la sanzione disciplinare è la
sospensione dall’esercizio dell’attività professionale da due a sei mesi.
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