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FARCORO is the official AERCO Choral Magazine
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Quadrimestrale dell’AERCO
Associazione Emiliano Romagnola Cori
N° 1, Gennaio — Aprile 2011
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3 EDITORIALE
di Andrea Angelini
4 SPECIALE 40°Quaranta e non li dimostra!
di Puccio Pucci
8 DIDATTICALe prospettive del linguaggio contemporaneo in rapporto con la musica corale
di Pier Paolo Scattolin
26 DIDATTICAI Cori dal “Dido and Aeneas”di Henry Purcell
di Rosario Peluso
32 AD MEMORIAMLeonida Paterlini:Maestro di musica, di canto e di vita
di Marco Arlotti
38 COMPOSIZIONIAve Maria
di Raffaele Sargenti
43 ANALISI“Cor mio, mentre vi miro”di Claudio Monteverdi
di Cristian Gentilini
Farcoro - indice
8 Le prospettive del linguaggio contemporaneo
26 I Cori dal Dido and Aeneas di H. Purcell
32 Leonida Paterlini
FARCOROQuadrimestrale dell’AercoAssociazione Emiliano Romagnola CoriGennaio-Aprile 2011Edizione online: www.farcoro.it
Autorizzazione del Tribunale di Bologna N° 4530 del 24/02/1977Spedizione in abbonamento postale DL 353/2003Art. 1, comma 2 DCB, Bologna
Direttore ResponsabileAndrea Angelini
Comitato di RedazioneFedele FantuzziGiacomo MonicaPuccio PucciEdo MazzoniMatteo Unich
StampaTipografia Giusti, Rimini
Sede Legalec/o Aerco – Via San Carlo 25-f40121 BolognaContatti Redazione:farcoro@aerco.it+39 347 2573878
I contenuti della Rivista sono © Copyright 2009 AERCO-FARCORO, Via San Carlo 25-f, Bologna - Italia. Salvo diversamente specificato (vedi in calce ad ogni articolo o altro contenuto della Rivista), tutto il materiale pubblicato su questa Rivista è protetto da copyright, dalle leggi sulla proprietà intellettuale e dalle disposizioni dei trattati internazionali; nessuna sua parte integrale o parziale può essere riprodotta sotto alcuna forma o con alcun mezzo senza autorizzazione scritta. Per informazioni su come ottenere l’autorizzazione alla riproduzione del materiale pubblicato, inviare una e-mail all’indirizzo: farcoro@aerco.it.
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Quarantanni (x 2)
Farcoro - editoriale
“Ad multos annos!”
Eccoci giunti, in maniera un po’ inaspettata, ad un corposissimo numero di FARCORO!
Dovete sapere che quando inizio un nuovo piano editoriale sono sempre assai preoccupato, perchè, pur avendo la massima fiducia nei miei
collaboratori, non mi è chiaro con precisione quante pagine usciranno dalle loro feconde penne. Punto focale della Rivista, oltre al tema del nostro quarantesimo che, vi ricordo, sarà
celebrato il 22 Maggio a Bologna, dalle ore 15 in poi, presso l’Auditorium di Santa Cristina della Fondazza (potete trovare tutti i particolari sul nostro sito www.aerco.it), è l’interessante articolo di Pier Paolo Scattolin sulle “Prospettive del linguaggio contemporaneo in rapporto con la musica corale”. E’ quello della musica corale contemporanea un settore abbastanza “spinoso” per i cori amatoriali. Le lamentele maggiori che si odono dagli addetti ai lavori riguardano la difficoltà di esecuzione dei brani, unita, molto spesso, ad una complessità del linguaggio stesso. E così si finisce per riproporre frequentemente un repertorio consolidato ma che appare un po’ sbiadito dalla frequenza di ascolto. Sarebbe interessante osservare più coraggio da parte dei nostri cori!
Un articolo che mi ha piacevolmente sorpreso e che devo dire, in verità, mi ha fatto commuovere è
quello inviato da Marco Arlotti per commemorare il M° Leonida Paterlini, defunto direttore de “i Ragazzi Cantori” di San Giovanni in Persiceto. E’ sorprendente come talvolta grandi personalità artistiche ed umane siano rimaste all’ombra dell’associazionismo corale, non tanto per un particolare volere di emarginazione da parte di qualcheduno, ma piuttosto per un innato bisogno di modestia ed umiltà dell’interessato. Spero che questo scritto renda il giusto omaggio al M° Paterlini e che possa essere solo l’inizio di una serie di iniziative volte alla scoperta di un valente musicista della nostra regione.
Continuando la lettura di FARCORO vi imbatterete in un saggio di Rosario Peluso, sui brani corali contenuti nel “Dido and Aeneas” di Henry Purcell, e in un’analisi di Cristian Gentilini sul madrigale monteverdiano “Cor mio, mentre vi miro”. Infine, nelle pagine dedicate alle nuove composizioni, viene ivi pubblicata un’Ave Maria di Raffaele Sargenti per coro di voci bianche.
Sarò ottimista, ma a giudicare da tutte queste attività, l’AERCO riuscirà a festeggiare felicemente il secondo Quarantesimo!
Bologna, 28 Febbraio 2011
Andrea AngeliniDirettore di FARCORO
andrea@angelini.cc
Punto focale della Rivista, oltre al tema del nostro Quaran-tesimo............
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Farcoro - speciale 40°
Quaranta e non li dimostra!Riflessioni sulla nostra Associazione
introduzione di Puccio Pucci (*) relazione, dal Convegno di Scandiano del 17/06/2000 di Giorgio Vacchi
I rappresentanti dei Cori Emiliani-Romagnoli: Leone XIII e Stelutis di Bologna, Toccacielo di Porretta Ter-me, Val Dolo di Toano, Val Padana di Casumaro, G. Verdi di Argenta, riuniti a Ferrara domenica 16 maggio 1971, sotto l’egida del locale Ente Provimciale del Tu-rismo, hanno ritenuto di costituire una Associazione a carattere regionale che riunisca i complessi corali a voci maschili di ispirazione popolare.
Così iniziava il testo della mozione approvata dai sei Cori fondatori e con essa iniziava
la storia dell’AERCO. In quarant’anni di attività l’evolversi del fenomeno associazionistico e le problematiche che la coralità amatoriale si è trovata ad affrontare, hanno trovato coloro che
si sono succeduti alla guida della Associazione, preparati ad aggiornare progetti, iniziative, strumenti, per corrispondere sempre meglio e con maggiore tempestività
alle nuove esigenze che venivano individuate e per far si che la crescita artistica e culturale dei complessi avesse un costante e sicuro incremento di qualità.
Ma celebrando il nostro anniversario, ci è sembrato opportuno tornare a conoscere quali erano le tensioni culturali che negli anni 70’ portarono a far discutere i Cori di associazionismo,
cioè di ritrovarsi insieme, non con la finalità competitiva dei concorsi, numerosissimi in quegli anni, ma con la voglia di fare qualcosa per il mondo crescente dei cori italiani, regione per regione, con identiche finalità culturali ed artistiche. E credo che quanto ha scritto uno dei fondatori e primo presidente AERCIP e AERCO, il M° Giorgio Vacchi, in occasione del nostro trentesimo anniversario della fondazione, possa mostrare quali furono le iniziative che dettero vita a questa trasformazione e chi ne furono i protagonisti, chiarendo ai vecchi e nuovi amici quello che fu davvero il “sessantotto” della Coralità italiana.
DALL’AERCIP ALL’AERCORelazione di Giorgio Vacchi a Sacndiano
Era appena finita la guerra e fra i giovani d’allora emergeva una grande voglia di “fare”: voglia di aggregazione, di sperimentazione, di confronto: le passioni politiche contribuivano a incanalare in grossi flussi d’idee e di azioni le energie prorompenti dei giovani, e anche nell’ambito, diciamo così, della espressività “artistica” era in atto una grande ricerca che permettesse di individuare i filoni nei quali avremmo potuto essere attivi o addirittura protagonisti. Dal regime precedente (mi riferisco all’ambito musicale, quello per cui avevo grande interesse) avevamo ereditato una musica spesso stucchevole e melensa: dall’estero cominciavano ad arrivare nuove musiche con
Era appena finita la guerra e fra i giovani
d’allora emergeva una grande voglia di
fare............
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elementi interessanti ma ancora troppo lontane dalla nostra mentalità. Qualcuno di noi, più fortunato, avendo avuto una educazione strumentale, poteva godersi la letteratura classica: ma raramente si trovava qualcuno con cui condividere questa esperienza musicale (il grande desiderio era di poter fare musica d’insieme). Qualcuno, ancora, poteva trovare un di musica all’interno delle chiese, nelle “scholae cantorum”: ma i repertori erano limitatissimi e la qualità delle esecuzioni spessissimo insoddisfacente.
Fu in questo contesto che apparve il “canto di montagna”: una novità assoluta, per molti di noi, con fusione di suoni mai ascoltata prima, tematiche importanti ma supportate da melodie facili e accattivanti, con atmosfere affascinanti nella loro semplicità. Ma, più che altro, realizzabili con normali mezzi vocali, alla portata, cioè, di noi ragazzi. La sperimentazione iniziò subito (e, quasi contemporaneamente, in moltissimi altri posti del nostro paese) con la tecnica di appropriarsi delle “parti” estratte dall’ascolto reiterato (quante centinaia di volte?) dei pochi canti incisi dal coro della SAT di Trento in alcuni 78 giri avuti in prestito.
Però l’esperimento funzionò: con quella impostazione era possibile fare “musica d’in sieme” con lo strumento avuto da madre natura, anche fra gente comune. Per insegnare le parti bastava una conoscenza davvero elementare della musica, con l’ausilio di una fisarmonica o dell’armonium della chiesa. E il risultato era gradevolissimo, anche se molto lontano (le orecchie ce lo dicevano) da ciò che sentivamo in quei dischi della SAT.
Erano gli anni di scelte assolutamente acritiche: quello che contava era avvicinarsi al suono e all’interpretazione del coro preso a modello, quasi mai considerando altre questioni, come l’impostazione vocale, la scelta del repertorio, la validità o meno delle tematiche ecc.
L’importante, in fondo, era stare assieme cantando, in particolare in quelle prime estati del dopoguerra in cui (grazie alla nuova “politica”, direi, apostolica di molti cir coli cattolici) si scopriva la montagna come palestra ispiratrice di “valori alti”. Quanti anni ci vollero perché un po’ di spirito critico si insinuasse in quanto stavamo facendo? Non pochi, almeno per quello che mi riguarda: i primi dubbi apparvero in due direzioni ben precise.
Quella tecnica (perché non riuscivamo a migliorare se non lentissimamente?) e quella dei contenuti (che cos’erano quei canti che eseguivamo e da dove venivano?). Delle problematiche tecniche si tentò di parlare con chi, nei conservatori, insegnava canto: ebbene da quella parte avemmo quasi esclusivamente stroncature. Il nostro tipo di canto, ci si diceva, era tutto sbagliato, in particolare perché negava un’impostazione della voce di tipo “classica” (con voce “impostata” e presenza del “vibrato”), perché non accettava l’ausilio dell’accompagnamento strumentale, ed inoltre perché si basava su musiche “popolari” (sovente questo ci veniva detto con una punta di sufficienza, se non di disprezzo) e non su musiche d’autore.
Nessun suggerimento serio, inoltre, ci pervenne per affrontare il tema fondamentale di migliorare l’intonazione del gruppo, per cui ci rimboccammo le maniche ed iniziammo ad inventare facili esercizi che ci sembrava potessero contrastare le “calate” che condizionavano le nostre esecuzioni. Quanto ai contenuti l’aiuto ci arrivò dalla lettura delle poche raccolte di “canti popolari” (dal Nigra al D’Ancona, con le loro interessanti prefazioni) e dalle prime pubblicazioni dell’Istituto Ernesto De Martino, dal Canzoniere Italiano, dai “Dischi del sole”. Da quelle pagine apprendemmo che cos’era il canto popolare, e quindi arrivammo ad individuare la presenza di una “cultura subalterna” finora a noi sconosciuta: così anche i cosiddetti “canti di montagna” poterono trovare quella collocazione, nel conte
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sto più ampio della cultura popolare, che loro spettava e che a noi era assolutamente sfuggita.Poi cominciò la esaltante fase della ricerca. Esaltante per almeno due ragioni: la prima che bastarono poche uscite col registratore per toccare con mano che anche nella nostra zona vivevano quei canti, seppur variati, che erano stati raccolti in Piemonte, o in Veneto, o in altre regioni, ed anche tanti di quei “canti di montagna” che avevamo attinto dal repertorio della SAT di Trento. La seconda è che così si instaurarono numerosi contatti con cori della regione (quasi sempre nel tentativo di sensibilizzarli al problema, appunto, della ricerca) che si resero disponibili inoltre a sperimentare quegli esercizi che noi andavamo proponendo per l’intonazione, a valorizzare l’uso “naturale” della voce e a confrontarsi su scelte diverse di repertorio (allora quasi esclusivamente “di montagna”).
Questi contatti con tanti gruppi corali, che si trasformarono ben presto in una fitta rete di amicizie, ci permisero peraltro di toccare con mano le notevoli lacune che stavano alla base di moltissimi di questi cori: carenze tecniche (scarsa intonazione, vocalità non curata, poca fusione, interpretazioni superficiali e spesso banali) e carenze nelle scelte del repertorio (nella maggior parte dei casi legato ad un numero limitato di canti “di montagna” di moda in quel periodo, ripetuti all’infinito).
Solo più tardi mi resi conto dei grandi frutti che stava dando questa rete di contatti: in poco tempo ebbi risposte di grande interesse specie per quanto riguardava alcune soluzioni tecniche proposte e sperimentate dai vari gruppi corali. Se la sperimentazione avessi dovuta farla solo con il mio coro, sarebbero occorsi molti anni per avere risultati probanti: applicata, invece, da molti cori, e quindi in situazioni diverse, bastò molto meno tempo per valutarne la validità.
Fu in questo contesto che per la prima volta si cominciò a parlare di qualche forma di aggre
gazione fra cori: sarebbe bello, si diceva da più parti, avere un collegamento più stretto fra le diverse realtà corali così da poter ricorrere all’aiuto dei più esperti quando qualche coro si trovasse in difficoltà. Sarebbe bello potersi riunire, qualche volta, a parlare dei problemi che riguardano tutti, come il miglioramento tecnico, il repertorio, lo scambio fra cori di concerti e festival ecc. Si instaurò, insomma, un clima di grande fiducia reciproca (sono stati rarissimi gli episodi di “campanilismo” in area regionale) e di aspettativa, anche perché si cominciavano ad avere i primi frutti della ricerca sul campo e quindi concretamente si poteva intravedere, nel futuro, quel rinnovamento dei nostri repertori che molti auspicavano.
Fu quindi abbastanza agevole per noi passare alla fase costituente dell’associazione in ambito regionale, data la già citata, fitta trama di amicizie e di collaborazioni che si erano instaurate da tempo. Da parte di sei cori venne l’assenso immediato a rivestire il ruolo di “Soci Fondatori” (erano il Leone e lo Stelutis di Bologna, il Toccacielo di Porretta Terme, il Valpadana di Casu
Giorgio Vacchi (1932-2008), compianto primo presidente dell’AERCO
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maro, la Corale Verdi di Argenta e il Val Dolo di Toano) e da parte dell’amico Puccio Pucci la generosa accettazione di realizzare la fase organizzativa dell’operazione. Tutto ciò nel maggio del 1971 in seguito al Simposio su “Canto popolare e problematiche corali” che si era svolto a Cortina nel novembre 1970, al termine del quale ci si era una nimemente impegnati ad intraprendere la strada dell’associazionismo.
Va però qui ricordato che già mesi prima del Simposio, su particolare sollecitazione del Coro “Leone” di Bologna, era partita dalla nostra città l’iniziativa di indire un Convegno sulle stesse problematiche, al quale si rinunciò quando il coro “Cortina” e Giancarlo Bregani dimostrarono di essere in grado di assicurare un livello organizzativo superiore a quanto noi potevamo realizzare allora. Questo però dice quanto fossero maturi i tempi per il lancio del nostro associazionismo.Così nacque l’A.E.R.C.I.P. (Associazione Emiliano Romagnola Cori d’Ispirazione Popolare) con una ben chiara collocazione nell’ambito della coralità.
Infatti avevamo individuato nei cori d’ispirazione popolare l’oggetto che più abbisognava di attenzioni, almeno in quella prima fase, per le notevoli carenze che avevamo riscontrato nel livello tecnico, per i profondi dubbi che sorgevano nel dare una identità culturale a questi gruppi corali, per le difficoltà nel far partecipi i molti cori, che avevano problemi, delle esperienze positive di altri.
Qualcuno in seguito ci incolpò di “miopia” perché avevamo ristretto l’ambito associazionistico ai soli cori maschili popolari. Allora ci parve invece, così facendo, di dare un segnale “forte” in quella precisa direzione (che era quella che a nostro avviso aveva più bisogno di cure) così che gli operatori di questo tipo di coralità si sentissero davvero i destinatari privilegiati dei nostri urgenti interventi. E d’altra parte come potremmo incolpare quei religiosi che nel medioevo fonda
vano i “lazzaretti” di non aver subito realizzato dei “policlinici”? Allora, evidentemente, parve prioritario l’interesse per la peste e il colera: al resto ci si sarebbe pensato dopo.
E anche per noi, infatti, venne il momento di abbandonare le limitazioni che ci eravamo poste per rivolgerci a tutta la coralità, in tutte le sue differenti realtà. Ma quella prima fase fu estremamente importante, in particolare per la diffusione dell’impegno che noi chiedemmo a favore della “ricerca sul campo”, che ovviamente era indirizzata esclusivamente ai cori che potevano averne interesse (quindi quelli d’ispirazione popolare). In cambio si offriva la disponibilità ad impegnarsi nel realizzare armonizzazioni di qualche canto ritrovato e di dedicarle al coro che aveva fatto ricerca.
Ciò piacque molto, perché oltre a veder avviato quel rinnovamento auspicato del repertorio, metteva in grado i cori di presentare canti della loro terra (e da loro stessi ritrovati), cosa che avveniva con non poco orgoglio e soddisfazione. Debbo però aggiungere che, pur dedicando questi canti ai singoli cori che si erano impegnati nella ricerca, non si è mai accettato il concetto di “esclusività” (come qualche volte veniva richiesto) ma si è sempre garantita la massima diffusione delle armonizzazioni.
Questa la nostra associazione in quei primi anni: poco dopo anche le altre regioni cominciarono a muoversi progettando un associazionismo calato nelle diverse realtà locali. In queste fasi iniziali è sempre stata richiesta la nostra presenza e siamo sempre stati invitati a parlare della nostra esperienza EmilianoRomagnola.
(*) Segretario AERCO e Presidente del Coro Stelu-tis di Bologna.
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sissime e lontane fra di loro, contestualizzandosi al repertorio, assumono pari dignità e diventano un’imprescindibile base per la caratterizzazione espressiva del testo poetico e musicale.
Il Novecento è il secolo che mette in crisi e rigenera l’estetica e la tecnica compositiva: si pensi ai decivi passaggi dalla musica tonalemodale a quella serialedodecafonica, al minimalismo, ai ritorni del neoromanticismo, all’aleatorietà. Nella musica corale ci sono riflessi che in linea di massima corrispondono a questi indirizzi espressivi che hanno tanto inciso anche nei risultati semantici del linguaggio musicale.
Proviamo ad analizzare e a leggere nel repertorio corale iniziando dal cosiddetto Novecento storico; c’è da chiarire che le sinergie tra la musica moderna e i suoi riflessi sulla musica corale si differenziano in vari segmenti e comportamenti diversi in Europa e nei paesi occidentali: daremo ovviamente la precedenza alla coralità europea e nello specifico a quella italiana.
Nella musica vocale e in particolare in quella corale l’uso del testo e della parola è un modo per orientarsi nel labirinto degli stili e delle forme
Farcoro - didattica 1
Le prospettive del linguaggio contemporaneoin rapporto con la musica corale
di Pier Paolo Scattolin (*)
Il XX secolo e questa prima parte del XXI secolo sono stati per la musica, come per le altre
forme artistiche e per la filosofia, un secolo di grande diversificazione e frantumazione dei linguaggi, di ricca esplorazione sonora, di molteplice sperimentazione e commistione formale, ma anche di straordinaria forza espressiva.
E proprio grazie a questa caleidoscopica esperienza musicale, un coro, a seconda delle proprie caratteristiche ed inclinazioni, ha la possibilità di
impostare la propria attività attingendo con piena soddisfazione anche da quel grande contenitore tecnico ed espressivo che inizia dal cosiddetto “Novecento storico”
e arriva fino al repertorio contemporaneo: un repertorio che ha per punti di riferimento la poesia e l’uomo così come oggi si mostrano, culturalmente complessi, diversificati, a volte anche conflittuali; un repertorio in cui il rapporto fra la tecnica compositiva e quella esecutiva/interpretativa diventa sempre più interdipendente, e dove le forme di emissione vocale, spesso diver
Il Novecento è il secolo che mette
in crisi l’estetica e la tecnica
compositiva......
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che il Novecento con molta libertà espressiva e profondità di pensiero offre.
Nella musica modernocontemporanea (comprendendovi in parte anche il Novecento storico) si assiste ad una differenziazione dei linguaggi dal punto di vista grammaticale, sintattico e lessicale che per qualità e quantità è difficilmente riscontrabile precedentemente: in pratica si può parlare di multiformità del linguaggio musicale con grandi innovazioni tecniche riguardo agli strumenti, con la ricerca di nuove forme espressive riguardo al tipo di sonorità e con la sperimentazione di nuovi aspetti formali che ha prodotto in alcuni casi un deciso allontanamento dalle forme classicoromantiche. Questa frantumazione costituisce l’aspetto fenomenologico più evidente che per esempio nel minimalismo ha raggiunto l’atomizzazione del suono e del ritmo. La tecnica strumentale acquisisce nuovi elementi, la sonorità si amplia (si pensi per esempio al pianoforte “preparato”), la forma si prospetta per esempio in microforme (pezzi di pochi secondi) o macroforme costituite con piccoli elementi (il minimalismo); i processi compositivi vanno dal rifiuto delle forme classiche alla loro ripresa come il “neomadrigalismo”. Come nella musica strumentale, anche la composizione corale, perché non costituisca un susseguirsi informale di avvenimenti sonori che hanno per base il fonema, va alla ricerca della forma e di un contenuto che possiamo chiamare “poetico”, di astrazione dal testo, dal segno e dal suono per veicolare altri significati: uno stato emotivo, una riflessione spirituale, un proclama civile/politico, etc.
Dal punto di vista del repertorio corale si possono individuare alcuni filoni principali.
Il primo corrisponde temporalmente alla prima metà del secolo1: è un repertorio molto vasto che
1 Il Novecento storico ha in genere conservato nella configurazione del ritmo un rapporto di continuità con la tradizione polifonica "classica": come nel versante espressivo la tradizione dell’Ars rethorica rinascimentale trova nuova vita nell'estetica del repertorio novecentesco, così grande parte delle figure
oscilla tra l’estetica del rinnovamento e della tradizione; qui troviamo compositori come Claude Debussy2, Maurice Ravel, Francis Poulenc, Paul Hindemith, Giorgio Federico Ghedini, Bruno Bettinelli, Ildebrando Pizzetti, Benjamin Britten, Aaron Copland3, Igor Stravinskij, Maurice Duruflé,4 Enrico Bossi5 tanto per citare solo alcuni degli autori fondamentali per lo sviluppo del linguaggio corale.
Un brano rappresentativo di questo filone è A hymn to the Virgin di Benjamin Britten. E’ un esempio di come lo stile salmodico medievale sia riproposto in una polifonia a doppio coro, che contiene alcuni aspetti della nuova espressività del Novecento: l’ambito armonico si muove in un continuo scambio fra modalità e tonalità; un crescendo lungo e sviluppato dai due cori vuole enfatizzare nella parte finale il termine “Signora Regina”; il gioco della variante strofica; la perfetta cantabilità e indipendenza di tutte le parti; il
ritmiche del Novecento eredita dalle epoche precedenti la visione prosodica.
2 La concezione estetica che sottende il rapporto testomusica per esempio nelle “Trois chansons d'Orléans” di Debussy è ancora di tipo “classico”, con radici nella sensibilità tardorinascimentale della musica vista come processo di amplicazione sonora del testo (la seconda “prattica” monteverdiana): per esempio si veda l’esclamazione “Dieu!” nella prima delle tre chansons Dieu! qu'il la fait bon regarder (1898), trattata musicalmente col doppio artificio della durata e della dinamica (diminuendo); ma seppure ancora in fase di stretta adesione al contenuto poetico, comincia ad affacciarsi una nuova sensibilità: 1) la sottolineatura di un’intonazione retorica (l’esclamazione che nella retorica rinascimentale si esprimeva con il raggiungimento di un apice nell’altezza melodica e della successiva discesa) ottenuta non attraverso una linea melodica, ma agendo sulla dinamica; 2) si affaccia il senso timbricodinamico del suono della parola “Dieu”, una sillaba isolata rispetto a tutto l’andamento ritmico del pezzo e richiamata ed amplificata solo alla conclusione.
3 Vedi la straordinaria forza espressiva dei neoclassici “Four Motets”, Help us, o Lord, Thou, O Jehova abideth forever, Have Mercy on Us, Sing ye Praises to our King.4 Alcune sue opere come Quatre Motets sur des Thèmes Grégoriens op. 10 per coro a cappella (1960): 1.Ubi caritas et amor, 2.Tota pulchra es, 3.Tu es Petrus, 4.Tantum ergo e Notre Père op. 14 per coro a 4 voci miste (1977) sono scritte nella seconda metà del Novecento e testimoniano una tendenza assai diffusa di ripresa di moduli e stilemi che ripristinano formalmente e armonicamente tipologie compositive tardoottocentesce che si potrebbero definire “neoromantiche”.
5 Vedi la Missa pro defunctis, op.83.
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dialogo di tensionedistensione ottenuto con l’alternanza fra consonanze e dissonanze; il gioco dei colori e la grande escursione dinamica sono gli ingredienti principali di una scrittura ancora saldamente vincolata all’amplificazione della parola.
Nell’esempio che segue la scrittura in questa composizione di Ghedini si basa su elementi classici e si mescolano elementi madrigalistici di carattere solistico/virtuosistico (battuta iniziale del Soprano) a stilemi corali imitativi e omoritmici consonanti e riferiti a contenuti dell’armonia tradizionale.
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Il prossimo esempio tratto dal Sanctus della Messa di Requiem di Ildebrando Pizzetti esprime una ripresa moderna ma armonicamente ancorata alla tradizione della grande stagione policorale tardorinascimentale veneziana.
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Accanto a questi esempi di magniloquenza sonora ed espressiva nel primo Novecento si afferma il gusto per la ricerca timbrica del suono vocale, inteso non solo come potentemente evocativo di grandi masse corali, ma piuttosto teso ad indagare nella struttura del suono di una vocalità anche cameristica, complessa e arricchita che si accompagna più spesso ad una forma compositiva indirizzata alla varietà piuttosto che la stroficità del lied ottocentesco: uno studio del colore piuttosto che della bella linea melodica, che filosoficamente corrisponde all’abbandono dell’io fichtiano per indagare nel terreno fenomenologico, razionale della struttura contrappuntistica che riequilibria la tensione fra le parti o le sezioni vocali.
Il distacco dalla concezione romantica e operistica della vocalità si esprime con un nuovo indirizzo stilistico ed espressivo (colore e sonorità strumentali di sapore impressionista, modalità, scala per toni), ma con un preciso riferimento alla tradizione1 della chanson francese, rivissuta e rinnovata con prestiti letterari di origine medievale con le composizioni corali di Debussy, Ravel, Poulenc e di Hindemith, il quale opera ulteriori e significativi cambiamenti formali e sonori.
Il secondo filone, ancora erede del senso polifonico “classico”, è individuabile nella ricerca e nei risultati artistici derivanti dalle sperimentazioni formali e sonore, anche semiografiche, di alcuni compositori di altissimo profilo: Arnold Schön
1 Oltre alle Chansons di Claude Debussy (Trois chansons de Charles d'Orléans, 1908) e Maurice Ravel (Trois chansons, 1916), la tradizione della chanson polifonica prosegue nel Novecento con Francis Poulenc nelle due raccolte per coro misto Sept chansons (1936) e Chansons françaises (1945); il compositore utilizza nella prima un genere di scrittura molto raffinata, armonicamente complessa, ma affrontabile con opportuni esercizi; nell'altra egli concretizza uno stile più piano, con reminiscenze di temi e melodie antiche e popolari; la scrittura è più semplice ma molto espressiva. Conosciute e praticate dalla coralità amatoriale sono inoltre le Chanson a boire (1922), Quatre petites prières (1948) e le Laudes de Saint Antoine de Padue (1957) per coro maschile e le Li-tanies à la Vierge Noire per voci femminili o di fanciulli (1936), Quatre Motets per un temps de pénitence (19381939) per coro, Quatre Motets per le temps de Noël (19511952) per coro, Figure humaine, Cantate (1943) per doppio coro.
berg2, Goffredo Petrassi, Luigi Dallapiccola,3 György Sándor Ligeti, Olivier Messiaen, Krzysztof Penderecki, Arvo Pärt etc., sono alcuni dei compositori che, eccetto il primo, hanno sviluppato la propria produzione ed il loro stile corale nella seconda metà del Novecento. Ne prenderemo in esame alcuni esempi.
Questo filone ebbe esiti molto diversi e lontani tra loro: dal “neomadrigalismo” di Dallapiccola e Petrassi, al minimalismo, alla serialità, alla complessità armonica di Messiaen e Penderecki, al “non tempo” di Ligeti.
Nel repertorio della seconda metà del Novecento i Nonsense di Goffredo Petrassi rappresentano una sintesi della tradizione novecentesca e si inoltrano innovativamente nell’approfondimento della parola in quanto suono e della storpiatura in questo caso del suono. 4
Dall’estrema rarefazione dell’introversione schönberghiana di Dreimal Tausend Jahre si passa qui all’icasticità della rappresentazione testua
2 Es gingen zwei gespielen gut da “Drei Volkslieder” op.49 di Schönberg è un bellissimo esempio di elaborazione di canto popolare, in cui l’andamento ritmico è uno degli elementi caratterizzanti questa composizione. L’autore stesso indica un andamento altalenante fra un ritmo binario (6/4) con suddivisione ternaria e un ritmo ternario (3/2) con suddivisione binaria: ciò significa che ogni battuta è formata da 6 impulsi, ma che gli accenti musicali e della parola possono disporsi con metri binari o ternari con sovrapposizioni contemporanee nel tessuto polifonico. Anche questo è un chiaro riferimento ed un recupero dotto dello stile rinascimentale, secondo il quale gli accenti della parola prevalgono sullo schema ritmico musicale inteso come quadratura ritmica all’interno della battuta. Questo gioco di sovrapposizioni ritmiche rende particolare lo studio, la concertazione e la direzione di questa composizione.
3 Lo stile contrappuntistico della rinascimentale italiana è rinvenibile nei Sei cori di Michelangelo Buonarroti (a cappella 1933), in Estate per coro maschile (1932) e in Tempus destruendi –Tempus aedificandi per coro misto a cappella (197071).
4 Per esempio nel n. 3 l’introduzione dello sbadiglio con la mano davanti alla bocca, il suono scuro dei bassi con la reiterazione delle figure di accompagnamento delle parti del contralto, del tenore e del basso e l’indicazione ”lentosonnolento” suggeriscono al direttore l’atteggiamento da tenere nella produzione del suono (che ha il suo culmine nello sbadiglio); si deve raggiungere una visione quasi iperrealistica di rappresentazione del testo poetico: la parola sfrutta e si realizza attraverso le sue possibilità timbriche, foniche e metalinguistiche.
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le. Similmente, facendo un paragone letterario, la tragedia greca si esprimeva con il linguaggio più elevato, nobile, mentre la commedia faceva ricorso al linguaggio più basso, anche triviale. Sotto questo profilo i Nonsense adottano sicuramente un linguaggio musicale più “materiale”, sicuramente non esoterico come quello adottato da Schönberg.
I Nonsense sono fra le prime composizioni in cui il suono assume importanza come realtà a sè stante. Il suono, pur rappresentando il senso del testo, gode dunque una propria autonomia. Nella seconda metà del Novecento si razionalizzano perciò alcune tipologie sonore che non rientrano nei parametri “classici” né tantomeno belcantistici; anzi i Nonsense rappresentano un esempio ben strutturato nel ‘900 di vocalità non lirica.
Nella musica del Novecento il repertorio corale serialeatonale non ha avuto la stessa massiccia produzione di quella strumentale, perché le difficoltà dell’esecutore diventano tali da diventare un repertorio per specialisti; la coralità italiana non era pronta a recepire e diffondere in quel momento questo tipo di repertorio: gli intervalli sono proiettati fuori dal sistema tonalemodale e richiedono un sistema di percezione dell’intervallo al di fuori di punti di riferimenti quali sono quelli della tonalità.
Oggi, grazie alla crescita dei cori e alla didattica dei direttori brani come Dreimal Tausend Jahre di Arnold Schönberg (composizione di carattere seriale, scritta nel 1950) non costituiscono più un tabù. Qui il rapporto testomusica diventa meno immediato; come la melodia per mezzo della serialità si “astrae” dalla tonalità, così la musica non realizza un’immediata relazione di amplificazione, di sottolineatura melodico-ritmica del testo (di tipo madrigalistico); il rapporto si fa di natura psicologica, di atmosfera, come succede nell’astrattismo pittorico, dove la forma si costruisce non attorno a un disegno che rappresenti realisticamente un oggetto, ma deve essere ricercata in una dimensione psicologica, in
teriorizzata; in questo pezzo la serie dei 12 suoni è divisa in due melodie di 6 suoni ciascuna in cui la seconda è il rovescio della prima. Ma nella composizione di Schönberg lo schema tensione-distensione provocato dall’alternanza di consonanza-dissonanza non appare significamente applicabile: piuttosto si può parlare di densità e rarefazione armonica e ritmica, di opposizioni timbriche, di emergenze e compattezze sonore.
Un vero capolavoro di rinnovamento tecnico espressivo è costituito dalle Six chansons (1939) di Paul Hindemith su testo di Reiner Maria von Rilke. Questa raccolta è uno straordinario esempio di grande espressività nel rapporto testomusica; in più il compositore affida alle chansons un preciso itinerario tecnicovocaleespressivo. Nelle Six chansons di Hindemith (per esempio in Un cigne) appare con forza la necessità di introspezione psicologica per restituire tutta la funzionalità della musica rispetto alla poesia. Esse si caratterizzano come un raro esempio di composizioni che sono contemporaneamente degli “studi”, quindi un efficacissimo percorso didattico; qui si sviluppano i problemi inerenti l’intonazione degli intervalli melodici ed armonici, l’equilibrio dei
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settori, le varie possibilità timbriche e dinamiche. Il testo di Reiner Maria Rilke scritto attorno agli anni 191520 è permeato di atmosfere simbolistiche, in cui la descrizione di animali, cose o stagioni sono in realtà una proiezione di dimensioni e stati d’animo interiori anche in questo caso di valore “esistenzialistico”.1 Lux aeterna di Ligeti di cui diamo un breve esempio ha per caratteristica il “non tempo”, cioè il dimensionamento degli avvenimenti sonori in uno sviluppo che non consenta la percezione di una scansione del tempo, come nella “battuta” della musica classica e che, in altre parole, proceda all’annullamento della sensazione del ritmo misurato e ordinato. La rarefazione ritmica di Lux aeterna di Ligeti rappresenta una sintesi di questa “filosofia” musicale: per ottenere quest’apnea ritmica le quintine e le terzine si sovrappongono e per dare questo senso dell’assenza del tempo, poeticamente cioè dell’infinito, scaglionano al proprio interno
1 Il cervo (n.1) con le sue corna che sembrano una foresta ha nel suo sguardo impaurito come un sussulto di chi ha un fremito d’innamoramento. La delicata melanconia di un innamorato è resa dallo specchiarsi di un cigno (n. 2) nell'acqua, la cui immagine è conturbata dall'incresparsi delle acque. Il rapporto testomusica che il compositore esprime nella sua concezione compositiva è molto raffinata e si esprime in varie direzioni. Puisque tout passe (n. 3), per esempio, vuole nel contempo esprimere la fugacità della vita, ma anche il desiderio di godere di essa nell’essere più rapidi della morte (si tratta di una riaffermazione vissuta nella coscienza e nella sensibilità moderna del noto passo oraziano carpe diem; Rilke invita al canto come antidoto, mentre Orazio con linguaggio più prosaico invitava nella sua lirica ad aprire una bottiglia di buon vino). Per approfondire il rapporto estetico e filosofico di queste composizioni in senso antilirico occorre entrare in qualche dettaglio analitico. Anche con il parametro agogico della scelta della velocità il compositore mostra la chiave espressiva per risolvere un ambivalente pensiero: intimismo nella considerazione della fugacità della vita, corale e corroborante nell’invito al canto. La rapidità dell'altenanza delle sillabe (qui sfruttate non nella loro proprietà sonora ma nella potenzialità ritmica della loro scansione) e la dinamica quasi sussurrata della seconda frase, come se non si dovesse prendere in considerazione il suo significato, si accostano con grande efficacia espressiva al momento intimistico; la successiva esplosione dinamica, il ricorso ad una linea melodica rassicurante (forse un prestito della chanson n. 1 del cabaret francese dell’epoca), l’andamento ritmico rallentato e l’enfasi sonora realizzano l’invito a raccogliere la sfida della morte ed ad essere più rapidi di essa (qui la rapidità è espressa nuovamente nella figurazione ritmica dell'inizio). Il tutto è giocato nello spazio di pochi secondi, cosicché aumenta ancora la sensazione del caduco e dell’ineluttabile, ma anche dell’attimo in cui la decisione positiva trascinerà dietro a sè il senso della vita.
pause e suoni di notevole complessità ritmica ma superabili con alcuni semplici esercizi. Anche il linguaggio ligetiano di Lux aeterna riproduce una frantumazione del suono attraverso un percorso di segmentazione ritmica, che costituisce un ulteriore avanzamento nella tecnica moderna della sonorità vocalicoconsonantica.
Questa composizione costituisce un evidente esempio della produzione destinata al coro professionale. 2
Nel “minimalismo”, di cui Terry Riley è il più rappresentativo compositore Americano, possiamo vedere quella tendenza al ritorno della tonalità e modalità che si produce anche in al
2 Il testo è tratto dall’”Ufficio dei Morti”. Il compositore ha un duplice atteggiamento nell’uso di questo testo: il primo potremmo definirlo di carattere tradizionale, in cui c’è uno scorrimento temporale e lineare, che, pur attraverso una serie abbondante di ripetizioni, consente all’espressione semantica di apparire in tutta la sua integrità. C’è un altro livello di “uso”, in cui il colore delle consonanti e delle vocali in senso di fonema, hanno un’importanza fondamentale nel costruire le varie fasi formali ed espressive della composizione. All’inizio la vocale –u della parola “lux” predomina nel tessuto sonoro ed è gradualmente sostituito dal suono del dittongo ae della parola “aeterna”.
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tri stili (vedi Duruflé): costituisce una sorta di reflusso verso la musica che ha come obiettivo l’essere musica che piace al compositore, all’esecutore e all’ascoltatore. Nel minimalismo la ripetitività ritmica e melodica di piccole cellule “rappresenta” quella ossessionante ripetitività della macchina da produzione industriale tipica anche di certi patterns nella pittura, oppure di incasellamento di materiali minimi come la duplicazione dei medesimi elementi di una libreria con i suoi elementi sempre identici a se stessi. Il minimalismo ripercorre correnti filosofiche che sconfinano o si rifanno al misticismo tipico delle religioni orientali.
“Agnus Dei” di Penderecki (ancora un testo tratto dalla liturgia dei Morti) è sicuramente una delle composizioni di maggior rilievo del Novecento. In questo brano scritto nel 1980 si possono rilevare due interessanti comportamenti compositivi: il primo di carattere lessicale dovuto alla compresenza dialettica di diatonismo e cromatismo;1 il secondo aspetto, decisamente innovativo e tipico della musica che deriva dalla produzione compositiva elettronica, si può definire “tridimensionalità sonora”: esso nasce dalla diversa distribuzione quantitativa della dinamica sui suoni, in modo che ciascuna nota abbia un rilievo individuabile.2
1 Per esempio alla battuta 7 dopo una fase completamente diatonica (b. 16), il S1 ha un movimento melodico discendente cromatico, mentre le altre sezioni mantengono la linearità diatonica: da questo episodio nasceranno altri che contrappongono tra le sezioni polifoniche questo contrasto, come se il compositore volesse “disegnare” la lotta del Bene contro il Male.
2 Alla battuta 2 nell’ultimo movimento (minima col punto) ipotizzando un coro di 16 cantori equamente divisi nelle sezioni emerge questa distribuzione: S Do4 quattro voci, A1 Lab3 e Sol3 una voce per ciascun suono, A2 Fa3 due voci, T Do3 quattro voci: è evidente la volontà del compositore di avere il maggior peso fonico sulla suono DO. Nella stessa battuta sul secondo movimento si trova questa distribuzione S fa quattro voci, A mib quattro voci, T mib quattro voci che si aggiungono a quelle del contralto ottenendo una sonorità di otto voci che, grazie alla posizione nell’estensione del tenore, ha una maggior tensione oltre al maggior peso dinamico e differenziazione timbrica (A+T) rispetto al Fa3 dei Soprani: la tensione è momentanea perché la linea del tenore si allontana da quella nota per raggiungere il Do3.
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“O sacrum convivium!” di Messiaen è un altro brano fondamentale nello sviluppo della composizione e conseguentemente della vocalità con procedimenti armonici assai ricchi, con l’uso di settime e none senza preparazione e l’uso di impianti modali come il lidio. Questa composizione si inserisce nella traccia innovativa della ricchezza armonica e timbrica iniziata con i francesi Debussy e Ravel.
Choral di Karleinz Stockhausen con la sua propensione allo stile contrappuntistico mostra l’idea di una ripresa delle forme classiche non dissimile da quello usato nel giovanile brano “Già mi trovai di maggio” da Bruno Bettinelli:1 contemporanea ai tre pezzi per coro Chöre für Doris (testo di Verlaine) in cui è evidente l’influsso bartokiano, è una delle prime opere, scritta nel 1950, che corrisponde al periodo di studio alla Musikhochschule di Colonia.
1 Vedi l’analisi di Mauro Zuccante, Bruno Bettinelli: Tre espressioni madrigalistiche (1939), in Choraliter, n.16, GennaioAprile 2005, pp. 412.
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La dimensione contrappuntistica “classica” ritorna anche in una composizione di Luigi Nono:1
1 Das Atmende Klarsein, per piccolo coro, flauto basso, live electronics e nastro magnetico (1980/83) con testi curati da Massimo Cacciari.
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Anche la forma, attraverso varie tecniche compositive (come ad esempio il contrappunto), è sottoposta a continua ricerca, che sottopone tutti gli elementi lessicali, quindi anche il fonema, allo sviluppo di un contenuto “poetico” nel quale si veicolano nuovi significati, molte volte di natura emotiva, altre volte di speculazione assulutamente razionale.
Il terzo filone, vastissimo e con impostazioni di approccio e con stili musicali molto diversificati, si potrebbe chiamare quello delle “riemergenze” etnicofolkloriche: si tratta di quel patrimonio compositivo che si riferisce direttamente o indirettamente al canto popolare,1 dove un posto importante occupa la cosidetta cultura subalterna, che trasmessa oralmente oggi l’etnomusicologia registra nel documento sonoro dell’informatore. Nel canto corale su questo patrimonio si è formato un vastissimo repertorio che raccoglie sia semplici elaborazioni che composizioni musicali di più complessa e libera configurazione: a scopo esemplificativo mi limiterò ai nomi di Béla Bartók e di Zoltán Kodály,2 come esempio di ricercatori che contemporaneamente hanno composto un esemplare corpus di elaborazioni per coro. In Italia i processi sulla composizione elaborativa del canto popolare hanno prodotto infiniti stili e approcci che meriterebbero un approfondimento storicoanalitico che esula dalla tematica del presente articolo.3
Qui interessa solo sottolineare che il repertorio corale legato alla tradizione orale del canto popolare ha comportato la scelta di alcune soluzioni nell’emissione sonora adottate nella realizzazio
1 Vedi Pier Paolo Scattolin, Un secolo di canto popolare, Choraliter n.33, SettembreDicembre 2010, pp. 215.
2 Béla Bartók e Zoltán Kodály sono stati fra i maggiori compositori di area balcanica che hanno prodotto elaborazioni tratte da materiali raccolti nella ricerca etnomusicologica da loro condotta e hanno trasferito molti elementi del linguaggio di quella tradizione popolare nelle strutture del proprio linguaggio compositivo. La poetica bartokiana in particolare ha costituito un riferimento stilistico-estetico che ha influenzato direttamente o indirettamente molti compositori europei come lo Stochkausen delle prime composizioni e il Ligeti dei folksongs.
3 Vedi Pier Paolo Scattolin, Un secolo… cit., pp. 613.
ne di elaborazioni di canto popolare provenienti dall’originale sound degli informatori piuttosto che la più diffusa ricerca astratta del bel suono rapportabile all’emissione originale. Per esempio la formazione corale femminile denominata “Il mistero delle voci bulgare” pratica un’emissione gutturale, cioè il “suono “laringeo”, con una tecnica di altissimo livello, che è contaminazione tra tecnica “classica” e “popolare”.4
Si può constatare quindi che i contributi della musica popolare alla musica corale prodotta nella musica del XX e XXI secolo si misurano non solo dal punto di vista della ricerca compositiva ma anche di quella sull’emissione sonora. A iniziare da Béla Bartók 5 il multiforme linguaggio
4 Il colpo d’attacco è adottato con grande espressività per esempio dal coro “Il mistero delle voci bulgare”, che, appunto, attinge moltissimo dall’emissione del canto popolare. Anche nella musica strumentale, per esempio negli archi, una particolare maniera di usare il colpo d’attacco è presente con efficacia nella strumentalità della musica sinfonica (anche romantica) e nelle maniere più disparate in quella solistica e cameristica della produzione contemporanea. Un’altra strada che nella tecnica moderna dell’impostazione vocale del coro non è l’uniformità della singola voce o tra voce e voce ma la fusione naturale fra vari timbri, quelli che ogni voce si porta dietro come tratto specifico e irrinunciabile della personalità di ciascuna persona modificando e uniformando solo la posizione dell’apparato modificatorio mobile (labbra, lingua apertura della bocca etc.). Vedi in proposito Pier Paolo Scattolin, Valori tecnico-musicali della vocalità popolare e loro confronto con la vocalità della musica rinascimentale e della produzione contemporanea, Atti del convegno di studi e di aggiornamento, Modena 18 ottobre 2003, Farcoro, 2005, 2, pp.1823 [ndr], Giovanni torre, La Polifonia e il Canto Popolare, Aspetti d’intersecazione tecnico – musicale, [Relazione svolta nel Convegno di Castelfranco Emilia] Mercoledì 12 Maggio 2004, Aspetti della vocalità popolare nel Rinascimento.5 I “27 pezzi per coro femminile o voci bianche” di Bèla Bartók costituiscono un importamte monumento tecnico espressivo della vocalità dell'est europeo. In questa raccolta si sintetizzano alcuni elementi compositivi come il canone, i suoni pedale, l'uso delle terze/seste tipiche del canto popolare sviluppate attraverso il parallelismo: ciò costituisce un approccio semplice alla sovrapposizione di due linee: un passaggio obbligato prima di passare alla proposta di linee polifoniche più complesse. Sono inoltre presenti modulazioni, intervalli melodici delicati come quinte eccedenti e settime, ma sempre inseriti in un melodizzare semplice e immediato, e le caratteristiche cellule ritmiche danzanti di grande incisività. Importante in questa raccolta è l’uso dell'agogica, della dinamica e delle varianti di carattere psicologico (mestizia, agitazione, allegria, danza): le accelerazioni e le decelerazioni, i cambi di tempo improvvisi costituiscono un fattore musicale di grande forza espressiva e di grande utilizzo nella pedagogia musicale e si uniscono alla grande varietà lingui
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compositivo del XX secolo sviluppa una particolare espressività grazie anche al contributo della ricerca nel campo dell’etnomusicologia. Anche un compositore d’avanguardia molto attento alle ricerca compositiva, che si potrebbe definire di “atomizzazione” del suono come Giacinto Scelsi, nei suoi “Tre canti popolari” usa i quarti di tono, prevede lo sviluppo musicale del rumore consonantico, di timbri vocalici con emissioni molto diverse rispetto a quelle di tipo “accademico”.
Un quarto filone molto importante è quello del repertorio legato alla didattica per coro con compositori come Hindemith, Kodály, Muray, Edlund,1 Goitre etc. Anche in questo campo la didattica italiana ha prodotto un patrimonio molto ricco e di ottima qualità artistica.2
C’è una componente della musica contemporanea come la ricerca del suono e dei timbri, l’introduzione del rumore (rappresentato nella musica strumentale per esempio dalle percussioni e dall’uso degli strumenti in maniera non tradizionale e che vocalmente si esprime per esempio attraverso l’uso del fonema, di suoni non intonati, ricchi di consonanti), la poliritmia, l’onomatopea, il metalinguaggio (riso, pianto, espressioni psicologiche) che attrae e affascina i bambini. L’improvvisazione e la combinazione aleatoria di questi elementi costituisce un perscorso efficace nella formazione musicale del bambino, aiutandolo a raggiungere elevati livelli di autonomia e di compartecipazione nello sviluppo dell’attività musicale.
stica del senso semantico della parola.
1 Lars Edlund è autore di due importanti opere didattiche sul canto e sull’educazione all’orecchio Modus vetus che riguarda la lettura nella tonalità classica e Modus novus sulla lettura della musica atonale.
2 Vedi tullio viSioli, Comporre per bambini e ragazzi: rifles-sioni “oblique”, in Choraliter, n.24, SettembreDicembre 2007, pp. 68.
“Epitaph for moonlight” di Raymond Murray Schafer è un bell’esempio di come sia possibile raccogliere le principali esperienze avanguardistiche e tradurle in un linguaggio didattico alla portata della coralità amatoriale: clusters, fonemi ed alea sono riproposti in chiave semplificata, ma olto espressiva.3
3 In questo brano la parola si ricompone di tanto in tanto con un esito quasi liberatorio, rassicurante, catartico. L’ambientazione notturna in cui avvenne lo sbarco dell'uomo sulla luna, costruisce la forma di questo pezzo, che si avvale dei suoni (come un' introspezione psicologica) che più si prestano alla simbologia sonora (vocali u/o scure, suoni mormorati e sussurrati, suoni nasali come effetto di echi, etc.). Il brano ricorda la discesa dell’uomo sulla luna, che, a causa di ciò, in un certo senso, perde la sua inviolabilità, almeno quella simbolica ed evocativa: da qui il titolo di epitaffio al chiaro di luna. Durante tutta la composizione la parola moonlight è sezionata in fonemi vocalici e consonantici con suoni prolungati o ripetuti. I suoni nasali, la vocale –u e il lento scorrimento del testo servono a delineare un’atmosfera allusiva al fascino misterioso della luna. In questa composizione il testo usato è semplicemente la parola moonlight ed alcune sue traduzioni in alcuni linguaggi nordamericani “indiani”. Quindi la composizione non prende forma da un vero testo poetico, ma dall’uso “sonoro” dei fonemi che compongono la parola moon-light e da un “poetico” incontro e contatto dell’uomo con la luna.
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L’ampliamento delle sfumature vocaliche, l’attacco del suono consonantico, l’intonazione (parlato, sprechgesang1, le espressioni paralinguistiche come il riso, il pianto, l’urlo, le intonazioni retoriche come la domanda, l’interiezione) diventano espressioni della forma musicale dello stile avanguardistico. Si potrebbe parlare di “isolamento fonico”, di “frantumazione sonora”, di
1 E’ uno stile vocale che porta a sintesi dell’espressione vocale le caratteristiche del canto e quelle della recitazione. Lo sprechgesang ha sviluppato forme di vocalità molto usate dall’avanguardia nella seconda metà del Novecento che in qualche caso confluiscono nell’espressività proposta dagli informatori del canto popolare e raccolta nell’interpretazione di alcuni cori che hanno per repertorio le elaborazioni di quelle melodie.
“anatomia verbale”, di “introspezione psicologica dell’avvenimento sonoro”: quest’alienazione del significato della parola si correla all’isolamento e all’individualità dell’uomo di questa parte finale del secolo.
Anche in altre epoche come nel Rinascimento c’erano stati esempi di un uso libero e spregiudicato della parola, del nonsense, della parola dialettale o storpiata, del suono onomatopeico di oggetti e di animali; ma si trattò per lo più di un modo di dare maggior rilievo all’ambientazione del testo, della sua comicità o drammaticità: il suono come amplificazione del significato della
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parola; nel Novecento questi elementi assumono una loro forma aldilà del contesto drammaturgico della composizione.
Il repertorio avanguardistico è quello, per esempio, che fa del fonema (per es. Stockausen, Berio, Nono, Manzoni) una tecnica di emissione che porta, per certi aspetti, alla dissoluzione della parola come binomio significato-significante, per cercare nelle vocali e nelle consonanti, astratte dal loro significato, una propria vita, una propria forma: parola come puro suono.Questa “atomizzazione” del suono e del ritmo, la visione del tempo lontana dal senso ritmico della battuta ha per corrispettivo nel pensiero filosofico la scuola sperimentale di psicologia, la
fenomenologia che ebbe parte importante nella filosofia dell’esistenzialismo, la scuola analitica e quella sociologica, l’epistemologia di Popper, che si differenziano dallo storicismo crociano e dall’idealismo gentiliano del primo Novecento.
Facendo una sintesi fra le componenti innovative introdotte dalla musica contemporanea nella musica corale “moderna” sono rappresentativi del nuovo linguaggio i seguenti elementi:1. L’introduzione del rumore in ragione espressiva e non onomatopeica (come lo era per esempio nella tradizione della chanson polifonica rinascimentale francese). Un caso fra i più illuminanti si trova nei Nonsense di Goffredo Petrassi:
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I Nonsense di Petrassi,1 costituiscono un esempio di scelta che vede nel testo la possibilità di usare un metalinguaggio come l’”ironia” per farne un elemento poetico formale. Il compositore indica con precisione l’intenzione di voler attribuire al suono speciali “effetti”, che contribuiscono a esorcizzare l’esecuzione da qualunque tentativo serioso. L’approccio col suono quindi diventa di fondamentale importanza nella concertazione se si vuol ottenere una significativa interpretazione.2
1 vedi Pier Paolo Scattolin, Petrassi: autonomia di un compositore italiano, in “Choraliter”, n. 11, 2003, MaggioAgosto, p. 314.
2 Il compositore finge che i testi siano recitati davan
ti ad un pubblico che partecipa, commenta, reagisce attraverso l’emissione di suoni che esprimono un contenuto emotivo. La drammatizzazione ed il rapporto dialogico inserito nel contenuto poetico costituisce la trasformazione e la nuova forma che il contenuto testuale acquisisce nella composizione musicale. La musica vuole rappresentare realisticamente un testo ironico, di contenuto quotidiano: la noia della vita si esprime come nel n. 3 attraverso il gesto musicale dello sbadiglio, della sonnolenza. E’ importante sottolineare questo passaggio da testi poetici di natura epica e lirica a testi “esistenzialistici” dove si raccontano alcune condizioni di vita. Generalmente ai tempi lenti o “adagio” sono legati aggettivi come “cantabile”, “espressivo”, "affettuoso" etc.; qui l’aggettivo “sonnolento” riversa sul sostantivo, che indica la tipologia del movimento, un carattere antilirico, antieroico e antiletterario: gli dà una connotazione quasi banale, riconducendolo ad una espressione umana certamente non “poetica”, ma che fa parte della quotidianità, un bisogno fisiologico, insomma, che esprime uno stato psicologico di stanchezza, di alienazione. Tuttavia non si deve pensare che si tratti di un puro gioco,
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Nei Nonsense1 la semiologia introduce segni per indicare suoni che non possono essere espressi con la notazione classica, ma richiedono simboli appositamente identificativi. E’ uno degli esempi più significativi della svolta “fonica” del XX secolo.
Nella seconda metà del Novecento quindi l’uso dei fonemi e dei rumori (questi ultimi introdotti in quegli stessi anni anche nella musica strumentale avanguardistica) ha modificato enormemente il rapporto testomusica. L’uso di questi materiali si è molto diffuso: per esempio i compositori scandinavi, fra gli altri, ne fecero una vera e propria scuola compositiva. Possiamo quindi dedurre che non è tanto la qualità poetica
di un momento di evasione: il compositore invece trae spunto da questi nonsense per esprimere alcune caratteristiche dello stato psicologico dell’uomo del Novecento. Si deve trovare perciò un giusto equilibrio nella dimensione del suono, che sicuramente è molto lontano dalla tecnica classica, ma nello stesso tempo non deve diventare troppo “caricaturale”.
1 Per dare riscontro a questo aspetto così formalmente importante nella musica petrassiana analizziamo brevemente tre nonsense: n.1. La descrizione grottesca dello strano naso di una signorina è affidata ai soprani, contralti e tenori; i bassi, come se formassero un secondo coro, cantano solamente l’interiezione oh, che musicalmente esprime la risata, anzi, attraverso il ritmo claudicante, la sghignazzata. Il compositore raggiunge un grande livello di icasticità del rapporto testo musica con l’esclamazione augurale “Dio” che si esprime con un accento ritmicamente sottolineato da semicroma legata ad un valore più lungo.Il testo recita: “C’era una signorina il cui naso prospera e cresce e cresce e cresce e cresce come mai fu il caso; quando ne perse di vista la punta esclamò tutta compunta: “Dio t’accompagni, o punta del mio naso!”n.3. Lo sbadiglio ed il vecchio che muore sulla sedia sono la sintesi, in chiave ironica della noia, cioè una delle malattie più evidenti della modernità. Il coro attraverso un glissato imita quasi onomatopeicamente lo sbadiglio, mentre il “solo” descrive la noia che porterà alla morte il vecchio. Dalla sonorità della vocale o scura, si giunge al vero e proprio sbadiglio: è come un crescendo non dinamico, ma di un processo di materializzazione sonora. Il testo recita “C’era un vecchio di Rovigo cui doleva d’esser vivo…….”n.6. Sono introdotti i “rumori”; leggiamo le indicazioni sull’emissione: sussurrato rapidissimo, suono gutturale, “erre” tremolato con la lingua senza suono, “n” come un balbettìo nasale ma staccato; le voci femminili eseguono un continuum di rumori e suoni onomatopeici che descrivono i rumori di una palude, le voci maschili invece configurano quegli stessi suoni onomatopeici attraverso sillabe vocalizzate, in cui cioè, rispetto al suono consonantico del coro femminile, è predominante l’aspetto del suono vocale (falsetti, glissati, staccati etc.).
che rende un testo interessante per la “messa in musica”, quanto la maniera, cioè la forma, che il compositore riesce a dare alle sonorità che ricava dal testo e il risultato espressivo che riesce ad ottenere, ricostruendo una “poesia” anche con semplici materiali come il fonema: di ciò troviamo traccia in alcune opere di Giacinto Scelsi con un esempio tratto dai “Tre canti popolari”2:
2. Il suono “astratto” dal significato trova una diffusa applicazione: si arriva al distacco tra significato e significante come nel caso di Ronde di Rabe3:
2 I “Tre canti popolari” (1987) di Giacinto Scelsi rappresentano il concetto compositivo del massimo distacco tra l’elaborazione e la melodia popolare: ma in realtà in queste composizioni si possono rilevare come riferimento all’emissione “popolare” l’uso del quarto di tono che allontana l’ambiente sonoro dalla tonalità e l’uso accentuato di alcune vocali e consonanti, come succede spesso nelle testimonianze vocali degli informatori.
3 Insegnante di musica e compositore Folke Rabe è nato a Stoccolma nel 1935.
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L’uso del suono fonemico è una grande opportunità che allarga le possibilità del suono vocalico. La musica acquisisce un importante aspetto di sperimentazione che crea nuove possibilità di linguaggio e di espressività. I pericoli sono di due tipi: il primo che si tratti di un risultato autistico, poco efficace sul piano della comunicazione e il secondo che si liberi ammiccante e fine a se stessa una espressività effettistica poco governabile sul piano poetico.
3. L’alea costituisce un elemento caratteristico e innovativo del repertorio contemporaneo: l’improvvisazione costituisce un’attività che aumenta l’autonomia musicale del cantore, lo educa ad una partecipazione responsabilizzata e aumenta le capacità di produzione diversificata del “suono”: un esempio al riguardo è tratto da Per non dimenticare di Pier Paolo Scattolin.1
1 Il testo è Natale da “L’allegria” di Giuseppe Ungaretti. Lo stile aleatorio si riflette anche sulle modalità d’impiego
La musica aleatoria è una tipologia assai diffusa nella musica contemporanea. Ha un’efficace applicazione nella musica didattica per bambini, consente anche ad un coro che non legge a prima vista di sviluppare sonorità e forme musicali assai complesse e sonoramente interessanti.
Si sta sviluppando in quest’ultimo decennio con successo anche nella coralità amatoriale un repertorio che, attingendo dai risultati espressivi delle avanguardie, è riuscito ad usare tale linguaggio affrontando il problema dell’eseguibilità, senza perdere in espressività e valenza estetica. Questi temi compositivi negli anni Sessanta e Settanta furono portati avanti soprattutto da compositori di area anglosassone e scandinava. Attualmente anche la coralità amatoriale di area latina si è affacciata a questi repertori: anche in
del testo che risulta così strutturato: 1. modulato principalmente attraverso liberi segmenti di cantus planus; il melisma avviene su alcune parole o anche solo su alcune sillabe, che il cantore sceglie liberamente all’interno del testo poetico, 2. recitato, 3. con spra-chgesange, 4. parcellizzato per farne risaltare i singoli fonemi, uso del puntillismo, voce in eco. Fanno da cornice al testo materiali sonori in forma di clusters e di magma. La composizione si articola in alcune sezioni che indicano il percorso allusivo: “Premonizioni”, “L'odio”, “Il Dolore”, “L'irreparabile", “La Speranza”.
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Italia alcuni giovani compositori hanno elaborato una produzione che esplora e approfondisce alcuni elementi tecnici ed espressivi che hanno radici nello stile delle avanguardie; è un repertorio che meriterebbe uno studio in quanto diffuso da alcuni anni e praticato da molti cori.
4. Oltre alla tridimensionalità dinamica e timbrica del suono, cioè lo spessore del suono dato dalla variabilità del numero dei cantori e dalla variabilità del timbro nella produzione di un medesimo suono, un altro importante aspetto di novità nella musica contemporanea anche corale, è dato dalla musica “spazializzata” che fa della variabilità dell’ubicazione della fonte sonora un elemento formale ed espressivo assai coinvolgente.1
1 Citiamo ad esempio alcune composizioni di Giovanni Bonato: Audi, filia (2004) per coro misto spazializzato a 8 parti, Blason III (2004) per ottetto vocale misto, 3 percussionisti e arpa spazializzati, Tenebrae factae sunt (2005) per coro maschile spazializzato, Audivi vocem...illius (2005) per coro maschile, percussioni e cristallarmonium spazializzati.
La musica contemporanea si porta dietro il concetto di un’altissima professionalità “strumentale” a livello di tecnica del singolo esecutore soprattutto quando si rinnestano stilemi espressivi di tipo solistico madrigalistico di alto contenuto tecnico come nel caso della composizione di Salvatore Sciarrino “L’alibi della parola” (Pulsar, Quasar, Futuro remoto, Vasi parlanti, pittori vascolari attici) 1994.1
1 A commento e presentazione di questa opera cito l’inizio dell’esercitazione didattica del 2010 di Maurizio Guernieri (II anno del biennio di Composizione corale e direzione di coro presso il Conservatorio “Giovan Battista Martini” di Bologna), Un’ipotesi analitica de “l’alibi della parola” di Salvatore Sciarrino: “La musica di Salvatore Sciarrino propone sempre più la rivelazione di nuove prospettive d’ascolto che accompagnano l’ascoltatore in zone di fascinazione uditiva paradossalmente inaudite eppure riconducibili ad un ambiente percettivo, anche interiore e fisiologico, familiare e istintivamente noto. La scoperta delle potenzialità percettive di ogni evento sonoro, concepito nella sua globalità e non elaborato come somma di elementi grammaticali, è, probabilmente, il vero leitmotive della musica di Sciarrino, che procede dal momento dell’atto, sia tecnico – musicale che fisiologico, della produzione del suono, al suono vero e proprio che svelando gradualmente le proprie componenti, sia singolarmente, sia insieme ad altri eventi sonori, si propaga riverberandosi nell’ambiente in cui questo suono viene prodotto. Il suono, dunque, parte già dal silenzio carico di aspettative emotive che lo precede e, nella parabola compositiva di Sciarrino, spesso a questo ritorna, in stretta connessione con il respiro fisiologico che regola le scansioni temporali della composizione in quella che Sciarrino stesso definisce “musica organica adatta a esseri organici”. Nel caso di questa serie di quattro brani vocali raccolti sotto il titolo de “L’alibi della parola”, il respiro fisiologico è sicuramente l’elemento generatore ed unificatore, il metronomo che regola la scansione sia degli eventi sonori presi singolarmente, sia dell’arco formale delle “frasi”, se è ancora possibile usare questo sostantivo, e infine della costruzione strutturale dei singoli brani. Questo respiro parte da due modalità di realizzazione, ravvisabili a livello microstrutturale ma riconducibili anche alla macrostruttura: la prima si basa dall’indicazione grafica che troviamo per esempio inizialmente nella parte del Contralto e che rappresenta simbolicamente il decorso fisiologico del respiro trasformato in elemento musicale che investe il suono di tutte quelle connotazioni fisiologiche che richiedono tanto la sua produzione quanto il suo ascolto; la seconda modalità è realizzata attraverso una sempre maggiore elevazione della pausa, del silenzio, al ruolo di protagonista, al pari delle note musicali, quale alternanza fisiologica del suono, così come si alternano inspirazione (pausa, silenzio) a espirazione (musica, suono). La pausa non è, perciò, intesa in senso drammatico ma come attesa, ascolto delle riverberazioni che il suono produce sia nell’ambiente che nell’ascoltatore e tanto più la pausa è lunga, tanto maggiore è il tempo di ascolto riverberato esteriore e interiore.”
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La teatralità che caratterizza molte composizioni moderne arricchite dall’uso di azioni sceniche è ben rappresentata per esempio da “Succsim” dello svedese Møllnas1.
Una domanda che si pone è quanto di questo repertorio è praticabile dalla coralità italiana. Credo sia importante iniziare da questa semplice riflessione: la coralità amatoriale progredisce con il compositore che sa mediare fra le proprie idee musicali e quelle della realtà corale con cui si deve rapportare. Probabilmente la classificazione fra coro amatoriale2 e professionale deve essere rivista sotto il profilo della capacità esecu
1 La teatralità consiste nel rendere attore ciascun cantore, che sviluppa un'azione anche autonoma nell'ambito di alcune fasi che si potrebbero definire azioni o scene. Come nella commedia dell'arte c'era il canovaccio sul quale l’interprete improvvisava, così qui l’improvvisazione rende il cantore autonomo e interprete, capace di sviluppare autonomamente alcuni frammenti musicali di base.
2 Nome che viene dalla denominazione orfeonica francese dei cantori non professionali chiamati appunto amateurs.
tiva del gruppo. E’ evidente che se un coro amatoriale è all’inizio del proprio percorso tecnico difficilmente riesce ad eseguire brani come quelli che abbiamo citato. Ma è altrettanto vero che anche il coro professionista non ha la possibilità di eseguire questo repertorio se non procede per uno studio metodico che lo porti per esempio ad accettare un mondo vocale molto variegato nell’emissione. Un coro professionale che abbia fatto solo musica di teatro esclusivamente con l’accompagnamento strumentale o orchestrale si troverà a disagio all’inizio per superare per esempio il problema della tenuta intonativa e dell’unisono della sezione a causa della tendenza alla vibrazione larga e costante.
Penso che il passo importante, per i compositori di musica corale, sia proprio quello di servirsi delle risorse tecnicosonore che abbiamo cercato di analizzare per costruire un linguaggio compositivo che, scevro dal descrittivismo onomatopeico e dal puro gioco sonoro privo di una visione poetica, sia saldamente strutturato in una forma che tenda il più possibile alla comunicazione espressiva.
(*) Docente di Musica Corale e Direzione di Coro al Conservatorio di Musica “G.B. Martini” di Bologna; Direttore del Coro Euridice di Bologna. E’ direttore artistico del Festival Internazionale Corale “Città di Bologna”. Nel 2004 ha fondato il “Coro da camera di Bologna”, formazione professionale specializza-ta nella produzione di musica barocca, contempo-ranea e nel repertorio sinfonico-corale. E’ autore di numerose composizioni orchestrali, cameristi-che (strumentali e vocali) e corali, di edizioni criti-che, di trattati didattici e scritti sulla musica corale.
Farcoro - didattica 2
rappresentazioni, cambiato il clima politico. Ad ogni modo la prima esecuzione di cui si ha notizia certa è del 1689, per un collegio femminile alla moda di Chelsea, ed è logico presupporre che lo stesso Purcell sedesse al cembalo, e in seguito, nel 1700, l’opera fu inserita come intermezzo in un lavoro di Shakespeare. Da allora è rimasta in repertorio, tanto che già al finire del 18° secolo veniva inserito nei programmi della nascente “Academy of Ancient Music” di Londra.
In ogni caso, il modello per l’opera fu fornito a Purcell dai masques di corte, che prevedevano frequenti inserimenti del balletto, e dall’opera veneziana, anzi l’aria d’opera veneziana sembrerebbe aver costituito un modello interessante per la ricerca del giovane autore inglese. L’opera è completamente cantata, senza parti recitate, e questo, nel contesto inglese dell’epoca, era segno di grande modernità.
La trama dell’opera tratta della ben nota vicenda virgiliana, in modo spoglio, semplice ed efficace, senza vicende collaterali e una grande concentrazione drammatica che costituisce il maggior pregio dell’opera. Sembra strano dire che un’opera barocca funzioni soprattutto dal punto vista teatrale, ma questo caso specifico
I Cori dal “Dido and Aeneas” di Henry Purcell:contesto, analisi e funzione estetica
di Rosario Peluso (*)
L’opera e il suo contesto storico
Dido and Aeneas è la prima opera completa di Purcell di cui si abbia notizia.
L’autore la scrisse a 19 anni di età ed è probabilmente la sua opera più perfetta sotto il profilo drammaturgicomusicale. L’opera fu scritta dal Purcell per la parte musicale e dal poeta Nahum Tate, in seguito poeta laureato (quindi poeta di corte), con l’ausilio, per qualche adattamento del libretto di Thomas Dur
fey, celebrato autore teatrale dell’epoca. Si tratta del primo esemplare completo di opera “inglese”, nel senso di opera concepita e scritta in lingua inglese da
un autore indigeno. Fu scritta per ambienti molto vicini alla corte reale degli Stuart, probabilmente fu eseguita privatamente per il re stesso, come il di poco precedente “Venus and Adonis” di John Blow, che di Purcell fu maestro.
Ciò si deduce da una serie di allusioni politiche contenute nel Prologo, di cui è rimasto il testo ma non la musica, probabilmente distrutta dal Purcell stesso dopo le prime
La trama dell’opera tratta della ben nota vicenda virgiliana, in modo spoglio, sem-plice ed efficace......
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è ben noto. La destinazione cameristica (probabilmente la camera del re, certamente il collegio femminile diretto dal coreografo e regista Josia Priest a Chelsea) richiese un numero ristretto di personaggi e di strumenti, e quindi una semplificazione della trama. A differenza che nell’originale virgiliano, in cui Enea parte per obbedire agli Dei e al destino, nell’opera inglese Enea è spinto a partire soprattutto dalle forze del male, incarnate nella Stregoneria, che con gusto tipicamente britannico, poteva simboleggiare una polemica contro i riti “papisti” della chiesa cattolica.
L’organico
L’organico dell’opera prevede, in partitura, tre soli personaggi principali (Belinda, Didone, Enea, rispettivamente soprano, mezzosoprano, tenore) e alcuni comprimari, per brevi frasi (solo la Maga ha una parte di qualche rilievo, ed anticamente era una parte alternativamente rappresentata da un mezzosoprano o da un baritono). Lo strumentale prevede il basso continuo ed il classico quartetto d’archi (vln 1, vln 2 vla, basso/cello). Date le caratteristiche della destinazione dell’opera, è ovvio ipotizzare un gruppo cameristico, non molto esteso, di musicisti. Il coro è a 4 parti miste, senza divisioni (SATB), e richiede un gruppo piccolo di cantori, modernamente 12 o 16 ( ma la partitura è effettiva anche con poche meno o poche più persone), sia per la destinazione cameristica di cui si è detto, sia per la scrittura spesso madrigalistica e raffinatissima delle parti. Data la tessitura, la parte del contralto nel coro è destinata ad una corda maschile di tenori acuti o una corda mista. Sulla specifica vocalità del coro, ci soffermeremo più tardi.
La funziona del coro nel Dido & Aeneas
L’opera prevede una nutrita serie di interventi corali (15 interventi, contro 20 arie e recitativi) per lo più molto brevi ed incisivi.
I cori sono sempre collocati:a) alla fine di una sequenza “recitativo e/o aria”, e quasi sempre alla fine di una scena o di un atto.Oppure:b) all’inizio di una scena.Ciò non è senza conseguenze, come vedremo, per la funzione drammaturgica del coro.
Il coro interpreta di volta in volta: Cortigiani, streghe, marinai, amorini.
Tipologia della scrittura corale e vocalità
Purcell si rifà con eleganza alla tradizione madrigalistica italiana/inglese. Tuttavia il trattamento formale e l’impianto tonale sono totalmente moderni, barocchi, come vedremo. I cori sono in stile imitato con sezioni omoritmiche, o del tutto in scrittura omoritmica, con la tipica britannica nobiltà nel movimento. La maggior parte è costituita da interventi brevi che definiscono una scena, un evento, un “affetto”, secondo la poetica barocca. Altri brani, che concludono per lo più scene ed atti, sono di durata equivalente a quella di un breve madrigale (il più lungo, 2’ 20’’, è l’ultimo, “With drooping wings”) e sono più strutturati. Essi seguono del madrigale, oltre alla disposizione delle voci, anche la struttura ad episodi legati ai singoli versi del testo. Esiste l’eccezione del brano “In our deep vaulted cell”, che utilizza la tecnica tipicamente barocca dell’eco, in cui alla frasi omoritmiche del coro risponde l’eco delle ultime sillabe.
Dal “Dido and Aeneas”: In our deep vaulted cell
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E’ molto probabile che un quartetto vocale cantasse la parte in eco da dietro la scena. In altri casi, dopo l’esposizione del testo, anche diviso in episodi, si assiste alla ripetizione integrale della musica, con una conseguente ripartizione A A’. Nella prassi esecutiva la parte A’ viene sempre cominciata con dinamica diversa. Anche nell’ultimo coro dell’opera, già citato, c’è un segno di ripetizione integrale, ma in tutte le esecuzioni è prassi non far cantare la ripetizione dal coro ma solo dall’orchestra. Ciò è giustificato dal miglior effetto drammatico che si ottiene accompagnando i sentimenti di dolore e di tristezza dell’ultima scena con un lento decadere della tensione, senza ribadire il tutto con i versi del coro, che appesantirebbero il finale. E’ da dire che quest’uso è unanimemente accettato, a dimostrazione in questo caso di una moderna univoca sensibilità formale degli interpreti.
La scrittura dell’intera opera ha un’ispirazione unitaria, e si può pensare che sia stata scritta in poco tempo, deducendolo dalla fortissima continuità stilistica dell’insieme, che coniuga elementi italiani, inglesi e francesi con grande eleganza. In particolare, i valori drammatici del testo vengono seguiti con estrema cura e con una raffinatezza nei particolari e nell’esecuzione tecnica delle idee musicali che è propria del grande autore. I cori fanno parte integrante di questo stile, e quindi in essi il legame parolamusica è strettissimo. Circa la vocalità dei cori, come detto, la scrittura si richiama ad una vocalità non pesante, ma molto attenta ai valori espressivi della singola frase, alla declamazione del testo. La tessitura delle voci si mantiene tranquillamente entro i limiti del madrigale classico, e preferibilmente è stesa in zone dove la declamazione del testo è più semplice. Le dissonanze sono preparate o di passaggio, gli effetti richiesti sono piuttosto normali nello stile del madrigale maturo. Tipicamente barocchi ed amati da Purcell sono certi ritmi “a specchio” come in “Fear no danger”:
Sono da notare gli accenni allo stile veneziano in “To the hills and the vales”, con il ritmo puntato nei vocalizzi, come un abbellimento scritto per esteso:
e la “risata” del coro delle streghe (Ho, ho ho, in “Ho, ho, ho” e simili).
Si tratta di stilemi piuttosto frequenti nello stile madrigalistico italiano di una o due generazioni prima, e molto delicate da rendere con un gruppo corale, adatte ad un gruppo non grande. Gli archi raddoppiano sempre le voci del coro, il che fa pensare ad un suono morbido e fuso.
Dal “Dido and Aeneas”: Fear no danger
Dal “Dido and Aeneas”: To the hills and the vales
Dal “Dido and Aeneas”: Ho, ho, ho
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Le funzioni a cui assolvono i cori dell’opera sono tre:
a) come presentazione di un clima emotivo, di una situazione specifica.b) come amplificatio o commento di uno stato d’animo o di un concetto presentato nelle arie precedenti.c) come culmine e dissolvimento di una tensione creata precedentemente.
Fanno parte del caso a) cori come “Great min-ds”, “Harm’s our delighful”, “Fear no danger”, “Banish sorrow”, “Thanks to these lonesome va-les”, “Come away”. Particolarmente incisivi in questa funzione sono i cori brevi, costituti da poche battute che innalzano immediatamente il tono della vicenda. Del caso b) fanno parte: “When monarch”, “Cupid only”, “Ho ho ho”, “Haste, haste to town”, “Destruction is our delight”. In questo caso il coro assume una funzione, molto simile a quello della tragedia greca, di commento all’azione. Assolvono alla funzione c) i cori di : “To the hill sand the vales”, “In our deep vaulted cell”,” With drooping wings”. In questo caso, il coro è il culmine di una tensione e l’inizio del suo dissolvimento. Per bellezza e durata, i cori più importanti dell’opera sono senza dubbio: “Cupid Only”, “To the hills and the vales”, “Destruction’s our delight”, “In our deep vaulted cell”, “With drooping wings”.
In generale il coro in quest’opera, pur se rappresentato sulla scena da una pluralità di personaggi (Cortigiani, marinai, streghe, amorini) non assume mai un vero realismo scenico, e trasmette sì le immagini del testo e le emozioni, ma in maniera sempre filtrata, come nella migliore tradizione neoclassica. In molte esecuzioni moderne, infatti, si evita di travestire il coro, e lo stesso Purcell non cambiò il genere delle voci per marcare differenze tra i marinai, ad esempio, e le streghe, utilizzando sempre in ogni caso il coro misto. Il coro conserva quindi una sua veste di “personaggio” che entra nell’azione e la commenta, ed assolve a
funzioni fondamentali, specialmente quando chiude le scene e gli atti, ( per es.prima della danza nel 1 atto) ossia sempre, tranne che nel 2 atto, in cui il coro è il penultimo numero, e l’atto chiude con l’aria di Enea. Questa asimmetria ha sempre attratto la curiosità degli studiosi, e in molte esecuzioni dopo detta aria si inserisce un brano strumentale per chiudere l’atto con una danza. Alcuni studiosi ed interpreti invece pensano che tale conclusione sia voluta dal Purcell, per mantenere alta la tensione, ed evitare una conclusione ovvia.
Analisi di alcuni cori
With drooping wingsIl brano è scritto nella tonalità di sol minore, che per Purcell era legata simbolicamente all’idea di tragedia. E’ posto alla fine dell’opera, subito dopo la morte di Didone, e quindi nel momento di maggior pathos dell’opera. La sua funzione è quella di dissolvere la tensione del suicidio della regina e di condurre gli spettatori verso una composta contemplazione del dolore e dell’eternità. Il testo invita gli amorini a vegliare sulla tomba di Didone e a spargere rose sul sepolcro, per sempre. I primi tre episodi sono classicamente madrigalistici, in stile imitato, ognuno legato ad un’immagine del testo, con il primo dei tre più lungo.
Dal “Dido and Aeneas”: With droping wings
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La linea discendente del primo episodio rappresenta la discesa degli amorini attorno a Didone morta. Nel secondo episodio lo diffusione delle crome rappresenta lo spargersi delle rose.
Nel finale Purcell ricorre ad una declamazione interrotta da singhiozzipause estremamente efficace che rimarca la parola “never”, usando anche un cromatismo.
Le linee vocali di grande semplicità sono di aiuto nel condurre l’opera al suo finale. Tonalmente il brano si può considerare bipartito, con una prima parte che si conclude su Re maggiore e una seconda parte che fa il percorso inverso fino al sol minore. Questo elemento di modernità sotteso ad una tecnica vocale ancora madrigalistica è assai indicativa della posizione storica di Purcell.
Cupid only throws the dartIl coro è inserito nel primo atto ed ha la funzione di commentare ed esplicitare i sentimenti d’amore sottintesi al dialogo appena precedente tra Enea e Didone, esaltando il potere di Cupido. Il primo episodio è imitato, con un tema ribattuto semplice ed espressivo.
Molto interessante è l’utilizzo delle dissonanze di passaggio, che rendono il brano...pungente come le frecce di Cupido. Nella seconda parte il testo è affidato ad un declamato omoritmico, ripetuto più volte e leggermente variato. Anche in questo brano breve, Purcell unisce la tecnica madrigalistica ad un attento percorso tonale. Dall’iniziale mi minore, si giunge a sol maggiore con l’inizio del 2 episodio, e ricomincia il percorso inverso.
Bibliografia:
David van Asch, note dall’edizione discografica NaxosCurtis Price, note dall’edizione discografica ArchivClifford Bartlett, note dall’edizione della partitura King’s Music Voci da Wikipedia: “Dido and Aeneas”, “Henry Purcell”Ellen T. Harris,” Henry Purcell’s Dido and Aeneas” Oxford University Press USAWilliam H. Cummings, prefazione e saggio dalla partitura ed. Dover
(*) Direttore di coro, compositore, direttore artistico dell’associazione Società Polifonica della Pietrasanta, di cui dirige i gruppi vocali amatoriali e professionali, insegnante di educazione musicale. Dirige inoltre il coro giovanile scolastico Ludovico da Casoria, è stato maestro del coro della Cappella Musicale Teatina diretta da Flavio Colusso, ha diretto per un biennio il coro Laeti Cantores di Salerno.
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Leonida Paterlini:maestro di musica, di canto e di vita
di Marco Arlotti (*)
..........la vita corale, sia per la particolare sintonia che richiede sia per la composita quanto ricca socialità cui è composta, non è per tutti. Lo è per chi si sente attratto dalle cose dello spirito, per chi è incline all’interiorità, al bello, all’ordine, per chi non ha ambizioni di emergere. Non è per tutti; ma chi si prova a vincere l’istintiva diffidenza verso la coralità, ben presto si renderà conto che le difficoltà sono solo apparenti, e riceverà in cambio molto più di quanto possa immaginare. Si pensi soltanto all’affascinante lavoro di preparazione: l’arido esercizio che, con dedizione e studio, si fa disciplina; e questa, sublimandosi in spiritualità partecipata, diventa arte! Perché è nella sfera dello spirito che quest’arte sublime dimora e di qui dispensa le proprie ineffabili gratificazioni a quanti la professano con dedizione. La coralità non è uno svago, è un modo di completarsi, un modo alto e proficuo di investire il tempo libero. Se poi quest’arte è anche sacra, allora diventa eccelsa, perché “...la musica sacra esprime la passione, canta la dolcezza e il gusto, la suavitas del mistero cristiano celebrato nella liturgia“; è quindi nella sua funzione più alta e trascendente. È stata ed è questa la nostra costante sollecitudine lungo cinque lustri: eseguire in modo sempre più degno la grande musica concepita in questa forma mentis per il decoro della liturgia. Anche se a certe vette possono salire solo pochi eletti (e neppure a questi l’ascesa è sempre garantita) a noi, fra i più modesti dilettanti, sia concesso proseguire in meglio il cammino intrapreso, con umiltà ed entusiasmo. Con umiltà perché quest’arte grande, che non tollera facilonerie, non è un passatempo ma elevazione di vita; con entusiasmo, perché nell’ esercizio corale non esistono afflizioni, malinconie o sconforti vari ma solo consonanza e letizia.
Leonida Paterlini(scritto in occasione del 25° anniversario di fondazione del Coro dei Ragazzi Cantori di San Giovanni, 1998)
Leonida Paterlini nasce a Fontana di Rubiera in provincia di Reggio Emilia il 21 Giugno
1928 da una modesta famiglia di artigiani. Il “respiro” della musica è da subito presente nella sua vita: il padre suona il clarinetto nella banda
comunale e lo zio si diletta con il violino. Fin da bambino mostra subito una grande predisposizione oltre che per la musica, per il disegno e la pittura, due grandi espressioni
d’arte che lo accompagneranno per tutta la vita. Sono tempi difficili, durante la guerra e poi nel primo dopoguerra, prende saltuarie lezioni di
musica a Reggio Emilia, ma le difficili condizioni economiche fanno sì che i genitori non possano assecondare le sue inclinazioni artistiche; viene così iscritto ad una scuola tecnica ma continua gli studi musicali da autodidatta: organo, armonium, fisarmonica.
Passata la bufera bellica, il giovane Paterlini comincia ad entrare nel mondo della coralità. Il parroco di Fontana lo invita a dirigere il coro parrocchiale e il Maestro si tuffa con entusiasmo in questo compito: sono i tempi delle messe di Perosi e dei suoi numerosi epigoni; continua parallelamente l’esercizio della pittura e si dimostra personalità versatile dai molteplici interessi. Prende pure un diploma da radiotecnico
Farcoro - ad memoriam
Il Maestro era una personalità carisma-tica, un trascinatore
alla tenace ricerca del miglioramento...
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con un corso per corrispondenza. Poi la prima grande svolta della sua vita: nel 1960, da poco sposato, vince un concorso come impiegato delle Ferrovie e si trasferisce a Bologna. Continua saltuariamente l’impegno con il coro di Fontana di Rubiera. Si diletta anche nella composizione, scrive inni e canzonette in occasioni di festeggiamenti in onore di varie persone e amici, arrangia personalmente le parti di accompagnamento delle messe di Perosi per adattarle ad un piccolo ensemble d’archi, suoi amici e colleghi di lavoro che raduna nelle grandi festività liturgiche. Poco a poco l’impegno a Fontana si riduce e Paterlini, all’inizio degli anni 70, dedica il suo tempo libero prevalentemente al disegno e alla pittura. Continua tuttavia a nutrire la sua cultura musicale: animato da una sfrenata curiosità, con passione insaziabile legge svariati trattati di armonia, composizione e storia della musica.
ma in parallelo qui si innesta un’altra vicenda: a San Giovanni in Persiceto ............
Persiceto è un grosso comune della provincia di Bologna e una delle più grandi ed importanti parrocchie della diocesi. Verso la metà degli anni ‘60 il parroco di allora, Mons. Guido Franzoni, grande appassionato di musica, decide, non senza subire polemiche ed incomprensioni, di far costruire un nuovo grande organo dotato di tre tastiere e 50 registri per la Basilica Collegiata. In seguito raduna un gruppo di ragazzini che iniziano a studiare musica privatamente, sospinti dall’ entusiasmo del vecchio parroco. In molti si iscriveranno poi al Conservatorio e arriveranno al diploma di Organo (attualmente 4 di essi sono docenti in Conservatorio). La vita musicale della parrocchia si eleva decisamente, non così la vita corale. La “vecchia” schola della Basilica si scioglie all’inizio degli anni 70 e inizia un periodo di “terra di nessuno” con il progressivo avanzamento di gruppi giovanili e relativo repertorio “moderno”.
Nel 1971 fa il suo ingresso a Persiceto il nuovo parroco Don Enrico Sazzini. Sono gli anni
immediatamente seguenti al Concilio Vaticano Secondo, la liturgia vive una profonda trasformazione ma il nuovo giovane parroco, profondo conoscitore dell’arte ed appassionato della vera musica sacra, si rende conto che a S. Giovanni, se gli organisti ci sono in abbondanza, dal punto di vista corale bisogna ricominciare da capo, ma in modo bello e degno, senza cedere alle effimere lusinghe del nuovo a tutti i costi. Decide perciò di ricostituire una vera Schola Cantorum e affida l’incarico al Maestro Giorgio Bredolo, organista e compositore che in quegli anni frequenta il Conservatorio a Bologna. Nel Gennaio 1973 nasce ufficialmente il coro dei Ragazzi Cantori, coro di voci bianche allora denominato “Sangerknaben”. Il gruppo cresce rapidamente sia in numero ma soprattutto in qualità vocale; oltre alla messa domenicale arrivano i primi impegni, le trasferte, i concerti. L’entusiasmo è grande e il repertorio è costituito quasi esclusivamente da musica antica, Bach in particolare, ma anche polifonia classica, gregoriano ecc.
La svolta arriva nel 1975: il M° Bredolo, che ha già assunto una certa notorietà con questo coro di voci bianche, riceve un’importante offerta di lavoro a Milano e decide di trasferirsi. Sono momenti difficili, il rischio è quello di disperdere la preziosa esperienza e Don Enrico si rivolge ai suoi organisti, sperando di trovare qualcuno
Leonida Paterlini (1928 - 2010)
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che si assuma l’impegno di sostituire il direttore uscente. Nessuno però si sente di accettare un tale compito e si entra in una situazione di stallo.
Finché...............
Ecco che le diverse vicende si incontrano e, come spesso av-viene, tutto è all’insegna della casualità (ma noi preferia-mo pensare alla Provvidenza che agisce per vie talvolta davvero inattese e sorprendenti)
Fernando Rossi, padre di uno dei cantori del “Sangerknaben”, è ferroviere di professione, ma è anche suonatore di violino ed è uno degli strumentisti che Paterlini chiamava per le sue messe a Fontana. Si conoscono da molti anni, sono colleghi di lavoro e sono amici. Viene deciso di fare un tentativo: Rossi proverà a sondare l’animo dell’amico con la proposta di assumere la direzione del “Sangerknaben”. Paterlini non è propenso ad accettare, negli ultimi anni si è dedicato più che altro alla pittura e al disegno e la musica ormai per lui è rimasta solo come un fatto di studio e approfondimento personale, la pratica corale già da alcuni anni è quasi abbandonata. Ma la situazione a S. Giovanni è molto critica, il coro rischia di disperdersi irrimediabilmente e l’amico insiste almeno per un’audizione senza alcun impegno. Paterlini cede (pur ritenendo di non poter accettare) e viene a S. Giovanni dove 40 ragazzini diretti dai più “anziani” sono pronti e trepidanti nel fargli ascoltare alcuni canti e in particolare l’Exultate Justi di Viadana……..
Era la sera di giovedì 27 Novembre 1975.......
La prova, pur con alcune inevitabili pecche, lo affascinò, restò suggestionato da quelle voci bianche e non riuscì a svincolarsi ….. Tuttavia non accettò subito l’incarico, anzi era molto titubante, i ragazzini erano impostati vocalmente molto bene, leggevano in chiavi antiche, il repertorio era impegnativo........Paterlini sentiva la propria preparazione musicale (quasi totalmente da autodidatta), molto inadeguata ed esitava. Infine, anche in seguito alle insistenze a e alla totale
fiducia dimostratagli da Don Enrico, decise di accettare.
Da quel momento si aprì una nuova fase nella vita del Maestro che si tuffò anima e corpo nello studio e nella preparazione musicale. Seguendo l’impostazione del suo predecessore, organizzò il coro in 5 prove settimanali a voci separate, tutti i pomeriggi escluso il mercoledì. Oggi sembra fantascienza ma trentacinque anni fa si andava a scuola solo al mattino, il parossismo delle attività ludico sportive ancora non aveva attecchito e Paterlini sfruttò appieno tale opportunità.
Tuttavia non furono momenti facili, i ragazzini erano un gruppo alquanto “vivace” e pesava anche il confronto con il suo predecessore che talvolta qualcuno, ingenerosamente, faceva notare al Maestro. Lui comunque tenne duro sostenuto dal parroco e da alcuni genitori. Con modestia cambiò il nome del coro che riteneva troppo “impegnativo” e nacquero così ufficialmente “i Ragazzi Cantori di San Giovanni”.
Poco a poco la tenacia del Maestro Paterlini cominciò a portare i suoi frutti: nel 1980, l’ammissione alla Rassegna Internazionale di Loreto segnò una pietra miliare per la maturità artistica del gruppo e poco alla volta l’attività concertistica iniziò ad affiancarsi all’impegno nel servizio liturgico. Nel 1981 al Concorso Internazionale “Guido D’Arezzo” il coro ottenne un prestigioso Premio Speciale per il canto gregoriano. Seguirono altri concorsi e rassegne: nel 1983 Paterlini portò il coro alla prestigiosa Rassegna Internazionale di Montreux in Svizzera; nel 1984 la prima grande affermazione: 1° Premio al Concorso di Vallecorsa; seguirono altri piazzamenti più che onorevoli a Stresa e Vittorio Veneto.
La peculiarità del coro era di essere uno dei pochi formato da sole voci maschili, con un repertorio ricercato e con una particolare attenzione alla produzione moderna e contemporanea.
Ma i tempi cambiavano rapidamente e si stava
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avvicinando un altro momento decisivo per le sorti del coro dei Ragazzi Cantori: fu nel 1987 quando la difficoltà di reperire nuove voci bianche e l’abbandono di numerosi coristi portarono il coro sull’orlo della chiusura. Era il momento di riconsiderare l’essenza del coro e di prendere decisioni importanti. Dopo numerose riunioni e discussioni il Maestro prese la decisione (non da tutti condivisa) di allargare l’organico alle voci femminili. Dopo un necessario periodo di “rodaggio” la nuova formazione si presentò ufficialmente al pubblico nel corso del tradizionale “Concerto di S. Giovanni” il 24 Giugno 1987. Superate le inevitabili diffidenze, il Maestro ritrovava la piena fiducia del suo gruppo e poteva finalmente guardare avanti con una certa tranquillità. Gli anni ‘90 furono densi di impegni e di grandi soddisfazioni: nel 1992 una nuova trasferta a Montreux con un giudizio più che lusinghiero da parte della commissione artistica, nel 1995 altro Primo Premio assoluto a Vallecorsa con in aggiunta un premio speciale per l’interpretazione della musica rinascimentale; altre rassegne e concerti in tutta Italia.... fino a culminare nel 2000 con il Primo Premio al Concorso per cori liturgici dell’Emilia Romagna.
Paterlini ottenne anche un riconoscimento come compositore, vincendo la selezione indetta dalla diocesi di Bologna per la composizione dell’inno ufficiale del Congresso Eucaristico Nazionale di Bologna del 1997. Il suo canto eucaristico “Gesù Signore”, su testo del Cardinale Giacomo Biffi, è tuttora eseguito nelle liturgie di molte parti d’Italia. In tutta questa attività il Maestro si rivelava un instancabile punto di riferimento e di
stimolo per i suoi “Ragazzi” che aumentavano anno dopo anno l’età media mantenendo però grande freschezza ed incrollabile entusiasmo. Uno dei suoi meriti più grandi rimane quello di aver mantenuto sempre prioritario l’impegno e la connotazione liturgica del coro. Tutte le domeniche e festività dell’anno il coro cantava (e canta tuttora) alla Messa delle ore 10. Non trascurava nemmeno la formazione spirituale dei suoi Cantori: aveva cura che due/tre volte all’anno il coro partecipasse ad un ritiro per prepararsi ai “tempi forti” e volle inserire alla prova del sabato un momento di riflessione (curato a turno dai cantori) con la lettura del Vangelo della domenica seguente.
La mole di lavoro di Paterlini era davvero incredibile: prove 4/5 volte la settimana, la messa tutte le domeniche, e lui sempre avanti indietro in treno e nelle mattine libere alla Biblioteca del Conservatorio a studiare, sfogliare partiture, fotocopiare vagonate di musica......... il numero dei canti in repertorio cresceva vertiginosamente: dopo la polifonia classica si passò al periodo dei canti a otto poi dodici voci, poi al canto moderno e contemporaneo............nel 2005, quando il Maestro si congedò, il repertorio era arrivato a quota 450 titoli!
Di corsa, sempre di corsa, il Maestro. Su e giù per il viale della stazione e poi il passaggio per Corso Italia fino ad arrivare in sala prove. Girava una battuta tra i cantori a quei tempi, cioè che i negozianti lungo il Corso non regolavano più l’orologio con il segnale orario ma al passare del Maestro, giorno dopo giorno....
Da questo punto di vista il Maestro Paterlini poté tirare un sospiro di sollievo (per così dire) quando andò in pensione e si stabilì con la famiglia a S. Giovanni in Persiceto. Diventò così pienamente “uno di noi”, un persicetano che con la sua vecchia e arrugginita “Graziella” faceva quasi ogni giorno la spola tra casa, sala prove e Chiesa parrocchiale. Già, proprio in Chiesa Paterlini trascorreva molto tempo: era persona
Leonida Paterlini con i Ragazzi Cantori nel 1998
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di grande fede, spesso partecipava alle messe feriali e non mancava di trattenersi a lungo davanti all’altare del Santissimo per (immaginiamo) pensare al suo gruppo e alla sua attività, per chiedere la forza di adempiere il proprio compito sempre al meglio.
Nel 2004 cominciò ad accusare qualche malessere: stanchezza, mal di schiena…… Si pensò all’età non più giovanissima, alla frenetica attività di tutti gli anni precedenti e gli fu consigliato di moderare l’impegno e la fatica. In ogni caso le sue condizioni fisiche non migliorarono; nel Novembre 2004 il coro effettuò una memorabile trasferta a Londra per alcuni concerti e il Maestro ne uscì davvero molto affaticato e provato.Tuttavia con incredibile caparbietà e determinazione Paterlini riuscì a preparare e dirigere il tradizionale Concerto di San Giovanni il 24 Giugno 2005. Fu l’ultima volta che diresse i suoi amatissimi “Ragazzi Cantori”. Tutti lo aspettavano alla ripresa di Settembre ma il Maestro…… non si presentò all’appello. Ancora gli esami clinici non erano riusciti a stabilire l’esatta natura del suo malessere, ma di fatto non era in grado di riprendere il lavoro di preparazione. Proprio in quel periodo tanto sofferto quanto incerto il Maestro ottenne una nuova grande soddisfazione: il Consiglio Comunale di S. Giovanni in Persiceto assegnò al Maestro e al coro dei Ragazzi Cantori, un encomio solenne “per l’opera di divulgazione musicale in Italia e all’estero” e per aver rappresentato splendidamente la cultura persicetana. Nel Settembre 2005 i Ragazzi Cantori si esibirono nella sala del Consiglio Comunale diretti dal loro organista, il maestro Marco Arlotti e il Maestro Paterlini, pur nella precarietà delle sue condizioni fisiche, riuscì ad essere presente e ricevette dalle mani del sindaco una targa ricordo e un unanime riconoscimento da parte di tutti i gruppi consiliari.
Agli inizi del 2006 gli esami clinici portarono il loro crudo responso: SLA (sclerosi laterale amiotrofica) un malattia terribile..... Paterlini affrontò questa prova sorretto dalla sua fede, non
mancando di scherzarci sopra. Diceva: “Era ora che anch’io diventassi famoso” alludendo al fatto che di questa malattia si parla solo quando colpisce famosi personaggi del mondo dello sport e del calcio in particolare...... La sua grande fede, l’amore e la dedizione dei suoi familiari lo hanno sostenuto in ogni momento. Oramai immobile sulla sedia a rotelle passava il tempo tra la lettura del breviario e la recita di vari rosari quotidiani. Offriva tutte le sue sofferenze per il gruppo dei suoi amati Ragazzi Cantori (che dopo un iniziale periodo di sbandamento continuavano il cammino sotto la guida “provvisoria” del loro organista).
Ma che persona era Paterlini? Come aveva fatto a conquistarsi l’affetto e la stima di tanti giovani? Quale era il suo segreto? Il Maestro era una personalità carismatica, un trascinatore alla tenace ricerca del miglioramento, una guida dall’entusiasmo irrefrenabile, uno spirito talvolta inquieto e burrascoso. Non aveva paura di compiere scelte ardite dal punto di vista del repertorio, né di affrontare con entusiasmo sfide sempre nuove e affascinanti. Era dotato di grande umorismo, geniale nella battuta e imbattibile nel gioco di parole. Una persona di grande dirittura morale, credibilissimo nell’esigere il massimo dell’impegno ai suoi cantori in quanto era lui il primo ad impegnarsi con una generosità senza limiti. Con il suo lavoro paziente il Maestro poco alla volta è riuscito a trasformare il coro dei Ragazzi Cantori: non solo in un gruppo di persone appassionate e volenterose ma in una vera famiglia. Il coro era la sua seconda famiglia, lo ripeteva spesso, il suo insegnamento poco a poco si svelava in un misterioso rapporto tra le voci e le persone: e c’era la velata sensazione che la bella polifonia che riusciva ad ottenere non partisse solo da un lavoro sulle voci, ma anche dal rapporto “in armonia profonda” tra le persone. Nei suoi trent’anni di direzione ha dato a centinaia di giovani l’opportunità di avvicinarsi alla bella musica, di imparare ad amarla, insegnando che canto e preghiera sono
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due cose inscindibili. Con il suo esempio e il suo amore, come un vero padre, ha fatto apprezzare i valori dell’amicizia, della collaborazione, del rispetto reciproco.
Dal Settembre 2005 l’esperienza dei Ragazzi Cantori è continuata e il Maestro Paterlini è sempre rimasto vicino ai suoi “ Ragazzi” non facendo mai mancare consigli e incoraggiamenti. Gioiva del fatto che il coro continuasse l’attività. Dalla sua sterminata biblioteca ogni tanto usciva una partitura che ci raccomandava (con la massima delicatezza) di prendere in considerazione.Nonostante il corpo l’avesse completamente abbandonato, la mente era vigile e il morale ancora alto. Non mancava di darci il suo parere quando si trattava di scegliere un programma di concerto o riguardo ad altre questioni che riguardavano la vita del Coro. Nell’ Ottobre 2010 quando il sottoscritto (che aveva oramai assunto in pianta stabile la direzione dei Ragazzi Cantori) pensò che fosse tornato, dopo 10 anni, il momento di mettere alla prova il coro iscrivendosi al Concorso Nazionale di Stresa, il Maestro ne fu entusiasta e la scelta (poi rivelatasi vincente) dei brani da presentare al concorso fu in buona parte dovuta al suo eccezionale consiglio.
Per il Concorso di Stresa ci preparammo nel migliore dei modi; sinceramente nessuno pensava ad una vittoria ma ci tenevamo a cantare bene per fare un bel regalo al Maestro. Due giorni prima della partenza per Stresa, l’11 Novembre 2010, Paterlini ebbe una crisi respiratoria, aggravata da un virus influenzale e venne ricoverato in
rianimazione all’Ospedale Maggiore di Bologna. Lì lo raggiunse la notizia del nostro Primo Premio che dedicammo a lui durante la cerimonia di premiazione. Oramai allo stremo delle forze, il Maestro si commosse profondamente e negli ultimi giorni del suo calvario, tramite un avventuroso collegamento con apparecchio mp3 e relative cuffiette riuscì persino ad ascoltare la registrazione della nostra esibizione vincente. Ma oramai il suo tempo era giunto al termine; credo che il Maestro in quei giorni abbia davvero sentito come “conclusa” la sua missione e si sia predisposto con spirito di fede all’incontro con il Padre Celeste.
Leonida Paterlini si è spento nella mattinata di Domenica 26 Dicembre 2010. Quasi alla stessa ora i suoi Ragazzi Cantori, inconsapevoli del precipitare degli eventi, riunitisi per la Santa Messa intonavano uno dei canti prediletti del Maestro: il Sicut Cervus di Palestrina “Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te o Dio”. Davvero il Maestro è salito al Cielo accompagnato dalle voci dei suoi Ragazzi........
E’ stato composto nella bara con indosso la divisa dei Ragazzi Cantori e in tasca il mitico “Cornelio”, il suo inseparabile diapason.
I funerali hanno avuto luogo Mercoledì 29 Dicembre 2010. Durante la messa esequiale i Ragazzi Cantori hanno eseguito l’ultimo grande dono del Maestro: un canto che insistentemente ci aveva raccomandato di preparare.......... Le note sublimi del “Lux Aeterna” di E. Fissinger hanno squarciato il silenzio, hanno illuminato di speranza i cuori, hanno trasformato le lacrime del dolore e della commozione in un profondo ringraziamento per aver avuto il privilegio di conoscere e lavorare con una persona così speciale. In Paradisum deducant te Angeli!
Arrivederci Maestro.......... e grazie!
(*) Direttore de “I Ragazzi Cantori”; Docente di Organo al Conservatorio di Musica di Bologna.
I Ragazzi Cantori continuano tuttora l’opera del Maestro Paterlini
Farcoro - composizioni
Ave Mariaper coro di voci bianche
di Raffaele Sargenti
La purezza e la sobria austerità dell’antico canto monodico costituiscono la principale
suggestione che mi ha portato alla composizione di questo brano.
Nella prima parte (Con antico senso di distacco) i soprani 1 espongono il materiale che dà origine all’intero lavoro (combinazione di intervalli di quarta e di grado) tramite la riproposizione di un profilo melodico “ad arco”, tipico del canto gregoriano. Questa linea viene sorretta da un bordone dei contralti, mentre i soprani 2 cantano a valori lunghi una sorta di cantus firmus che fa da raccordo tra le altre due sezioni. Nel Più Moderato e Cantabile il canto si fa più moderno, sentito e partecipato: i soprani 1 allargano l’intervallo di quarta in una quinta, le altre due sezioni li seguono omoritmicamente con una diminuzione del cantus firmus precedente.
La tensione musicale raggiunge l’apice nel Len-to e Sospeso, in cui l’armonia si polarizza, per poi sciogliersi velocemente nel Mosso e cadere nel Moderato assai e pesante, sezione che ripresenta il pedale iniziale e introduce la ripresa (Tempo I°).
Questa è più lenta e offuscata rispetto alla parte iniziale, e propone un ricordo del profilo “ad arco”; mentre il cantus firmus, ridotto al suo incipit e accennato dai soprani 2 divisi, indugia a mo’ di lamento madrigalistico.
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* iniziare il brano dopo aver avviato da un po' i contralti; per il suono a bocca chiusa utilizzare il respiro di sezione:ogni corista respiri in un punto diverso in modo da non interrompere il flusso sonoro
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Ave Mariaper coro di voci bianche
Il brano può essere gratuitamente fotocopiato dai lettori di FARCORO, fermo restando che ogni diritto relativo all’esecuzione ed alla registrazione rimangono di proprietà dell’autore.
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Nato a Perugia nel 1980, è chitarrista e compositore, diplomato in chitarra classica e didattica della musica, laureato al D.A.M.S. di Bologna; attualmente studia composizione con il M° Antonio Giacometti presso l’istituto “O. Vecchi” di Modena. Come compositore ha ricevuto i seguenti riconoscimenti: finalista al “R. Toscano” di Pescara (2004); 1° premio in entrambe le edizioni de “Il Teatro dei Balocchi, concorso di composizione per un’operina di teatro musicale per bambini” di Trento (2003 e 2004); 1° premio nel “6° Concorso di
Composizione per Strumento Solo” di Povoletto (2005); segnalazione (premio non assegnato) al concorso di composizione “Il Garda in coro” di Malcesine (2006); 3° premio nel concorso “Missa Pueri Cantores” di Pordenone (2008); 1° premio nel concorso “Opera junior” indetto da As.li.co
(2009) di Como, 1° premio nel concorso internazionale di composizione “Settimana Corale 2010” di Cles. Ha scritto musica da camera, sinfonica, corale, sacra e lirica, musica per spot e cortometraggi. Pubblica per Ricordi, Carish, Modulabel, Miraloop. La sua recente opera Lupus in Fabula (2009) per soli, piccola orchestra e coro di bambini/ragazzi ha affrontato una tourné di oltre 80 rappresentazioni in Italia nel corso del 2010, mentre da Febbraio 2011 sarà rappresentata in Belgio (Liegi, Opéra Royal de Wallonie) e Spagna (Madrid, Teatro Real).
RAFFAELE SARGENTIemail: raffsarge@yahoo.it
Cor mio mentre vi miro è il secondo madrigale del IV libro di madrigali a 5 voci che Mon
teverdi pubblicò nel 1603. Nelle composizioni di questa raccolta inizia ad intravedersi la cosiddetta “seconda pratica”, che fu il perno attorno al quale ruotarono le tante polemiche fra il Monteverdi e l’accademico bolognese G. M. Artusi. In questo libro infatti lo stile compositivo monteverdiano subisce un cambiamento e si assiste al trapasso dal puro linguaggio rinascimentale a quello del primo barocco. In particolare in questo madrigale l’ideale polifonico cinquecentesco, per il quale ogni voce è per importanza pari alle altre, cede il passo, in alcune zone, ad una composizione ibrida, dove si ha la tendenza a considerare l’insieme vocale composto da due linee principali: melodia e basso. Questa evoluzione porterà la voce più grave, verso la funzione del basso continuo, e la voce più acuta verso il melos proprio del recitar-cantanto.
Iniziamo l’analisi di questo madrigale illustrando l’articolazione musicale del testo, tratto dalle Rime di G.B. Guarini:
Cor mio, mentre vi miro, A7visibilmente mi trasformo in voi, B11e trasformato poi, B7in un solo sospir l’anima spiro. A11
O bellezza mortale, C7O bellezza vitale, C7poiché sì tosto un core D7per te rinasce, e per te nato more. D11
Farcoro - analisi
Il testo, concepito come un monologo interiore del poeta rivolto alla donna amata, è concettualmente diviso in due sezioni: una prima parte formata da una quartina di versi nei quali è espressa la sua sofferenza; ed una seconda sezione, corrispondente ai secondi quattro versi, dove egli invoca la bellezza dell’amata. Così anche Monteverdi struttura musicalmente, seguendo la struttura delle rime, il madrigale in due macrosezioni: bat.124, e bat.2549. Queste sono poi articolate in motivi parola non sempre corrispondenti al singolo verso: infatti l’enjambement fra il settimo e l’ottavo verso è attuato anche musicalmente con l’utilizzo di un motivo parola che non coincide con il settimo verso, ma comprende la prima parte dell’ultimo. Veniamo ora all’analisi dettagliata dei vari episodi.
Il primo verso “Cor mio, mentre vi miro” possiede quelle caratteristiche musicali che, come detto prima, si riferiscono alla così detta “seconda prattica”.
Questa corrispon-denza melodica è giustificata, secondo la teoria degli affet-ti, dalla......
“Cor mio, mentre vi miro” (C. Monteverdi)Analisi di un Madrigale
di Cristian Gentilini (*)
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Qui la linea melodica del Canto, accompagnata per terze parallele dall’Alto, si contrappone alla linea del basso, che porta sempre allo stato fondamentale le armonie. In questo inizio si riconosce il prototipo dello stile della melodia accompagnata dal basso continuo. La pregnanza melodica di tale linea è confermata a bat.4 dal colore dall’appoggiatura mire che entra nell’unisono con l’alto e poi esce per salto di terza. Questo andamento è utilizzato al solo fine espressivo, come abbellimento della cadenza, che lascia poi semplice la triade di Re in secondo rivolto che precede la cadenza sospesa sulla repercussio. L’impianto modale di questo primo motivo parola è sul protus a Re, anche se inizialmente il Fa# dell’Alto gli conferisce una certa ambiguità tonale, che può infatti apparire come un passaggio dominantetonica. Questa alterazione viene però alla terza battuta contrapposta, secondo il tipico linguaggio modale, dal Fa naturale che chiarifica l’assetto modale. Cifra caratteristica di questo primo motivo è il semitono diatonico LaSib / Fa#Sol nelle linee del Canto e dell’Alto. Questo, che è una variante della figura retorica del planctus, viene usato per dare alla melodia l’idea del lamento e della sofferenza. Il movimento di semitono, associato a tale figura retorica come espressione di un lamento è stata molto utilizzata, ricordo ad esempio nel motivo parola iniziale del mottetto “Super flumina Babilonis” di Palestrina. In questa composizione è il semitono diatonico discendente a conferire alla melodia l’idea del lamento del popolo ebraico. Questa tecnica è ormai, a inizio ‘600, codificata in una stilema ben riconoscibile, svincolato dal contesto sacro o profano. Identico stilema è infatti utilizzato dallo stesso Monteverdi anche nell’incipit del madrigale “Il lamento di Arianna” del sesto libro. Questo semitono diatonico, diventa poi, per questo madrigale, un motivo ricorrente ed un elemento di sviluppo del materiale.
Dal primo verso condotto a tre voci, con l’uso di una timbrica rarefatta, ottenuta con l’assenza delle voci centrali, si passa d’improvviso a bat.6 all’utilizzo di tutte e cinque le voci.
Tale brusco cambiamento, sonoro per volume e densità, e visivo sulla partitura serve a rappresentare musicalmente la trasformazione che subisce il poeta. Questo secondo motivoparola, contrasta visibilmente, come anche recita il testo, con la partenza a valori lenti del primo verso, anche se solo per la diminuzione ritmica. Il ribattuto, ed il successivo salto di quinta discendente nel tenore, basso e canto, sono uno sviluppo della linea iniziale del basso. Da questa partenza con tre entrate imitative ravvicinate si ritorna gradualmente a valori lenti verso la cadenza conclusiva di questo verso. Le battute 8, 9 e 10 formalmente sono un ampliamento di bat. 4; qui le note di passaggio nell’alto e nel quinto, costituiscono la figura retorica del pleonasmo che va ad arricchire e ad ampliare il movimento cadenzale al tono di La. Questa cadenza perfetta, sicuramente più conclusiva di quella precedente a bat.5, fa sì che i primi due versi vengano uniti in un’unica frase, che procede con un esordio a valori lenti, un corpo centrale (bat.6, 7) di sviluppo e concitazione ritmica, ed un graduale ritorno a valori lenti come chiusura. La modulazione dal Sol min a La magg. sottolinea l’idea dell’avvenuta trasformazione.
Il terzo verso “e trasformato poi” di sole due battute, è separato da una pausa, identificata con la figura retorica della suspirazio, che sarà la caratteristica del quarto verso “in un solo sospir l’anima spiro”. Questo terzo motivoparola è contraddistinto dal repentino cambio di modo, maggiore, minore e di nuovo maggiore, che, assieme all’andamento totalmente omoritmico in contrasto con le bat. 610, serve a rendere espressivamente l’avvenuta trasformazione, descritta nel testo.
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Il quarto verso “in un solo sospir l’anima spiro” è ripetuto tre volte, attraverso l’elaborazione timbrica dello stesso materiale melodicoritmico. Melodicamente il motivo è una palese derivazione del tema iniziale “Cor mio”. Questa corrispondenza melodica è giustificata, secondo la teoria degli affetti, dalla corrispondenza testuale, secondo cui i sospiri sono provocati dall’amore.
Qui si riconosce ancora un prototipo della tecnica del basso continuo. La pausa che precede la parola sospiro, diventerà nel linguaggio musicale seicentesco l’archetipo della figura retorica della suspirazio. Sulle parole “In un solo”, l’utilizzo del ribattuto sulla medesima nota si identifica palesemente nel senso di “unicità” espresso dal testo. Sulla parola anima compare la figurazione semiminima col punto croma. La vivacità ritmica diventa quindi simbolo della vita e quindi dell’anima. La triplice ripetizione del verso corrisponde alla figura retorica della paronomasia, enfatizza il dolore del poeta, che in opposizione a quanto dice nel testo non spira in un solo sospiro, ma per amore pena a lungo. In questo motivoparola si riconosce poi la figura retorica della catabasi associata al verbo spirare. Nella prima esposizione a bat.13 il motivo al canto è accompagnato per terze parallele dall’Alto, mentre il basso recita ancora il testo del verso precedente.
Questa tecnica ad incastro fra i motivi parola rende il linguaggio monteverdiano senza soluzione di continuità, e ancora una volta siamo di fronte ad un modello nel quale una linea melodica, più la sua terza parallela, sono accompagnate da un’altra voce che si può identificare in un basso continuo. La prima ripetizione del testo a bat.16 è affidata alle tre voci inferiori.
La melodia è la medesima ma qui viene elaborata attraverso una tecnica riconducibile a quella del “falso bordone” con un andamento con triadi in primo rivolto. L’ultima ripetizione ha una stretta imitativa tra il canto e le tre voci centrali, e a bat.22 si raggiunge il climax. La catabasi melodica successiva si amplifica e copre nel canto una nona maggiore. Tale discesa è accompagnata da un repentino assottigliamento dello spessore sonoro, ottenuta a bat.23 con l’improvviso tacere di tenore e quinto, secondo la figura retorica dell’aposiopesi. Ed infine sulla figura retorica dell’epanalessi, che è la ripetizione delle parole l’anima mia spiro come fossero una coda, il suono si spegne a bat.24 nell’unisono a Re, in modo da simboleggiare la morte del poeta.
Il quinto e il sesto verso, “O bellezza mortale, O bellezza vitale” esprimo il concetto di una bellezza, oggettiva e soggettiva, che allo stesso tempo è mortale e vitale, in quanto l’amata è la sola responsabile del destino sentimentale del poeta. Secondo la totale inscindibilità fra testo e musica che comporta le teoria degli affetti, Monteverdi utilizza lo stesso identico materiale musicale per questi due versi, trasportando però il secondo un tono sopra. Questa salita di tono diventa quindi l’unico parametro sonoro che rappresenta la differenza tra mortale e vitale. In questo motivo parola il ritmo verbale della parola bellezza si identifica con il ritmo musicale semiminima col
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puntocroma, che in precedenza caratterizzava la parola anima.
L’accento tonico è spostato sul tempo debole per enfatizzare ancora di più questo duplice aspetto della bellezza. Modalmente si passa qui da un protus, più o meno costante in tutta la prima sezione, ad una zona bat.2532 dove prevale l’idea di una tonalità maggiore, avvalorata dall’andamento in progressione: IVVI di Fa cadenza a Do, e IVVI Sol – cadenza a Re. Questo motivo, con la sesta maggiore discendente al Canto, verrà poi utilizzato come primo motivo parola del madrigale “O Mirtillo, Mirtillo anima mia” appartenente al quinto libro di madrigali dello stesso Monteverdi. Questa “autocitazione” dimostra il processo di semplificazione e la codificazione in stereotipi che il compositore cremonese apporta al suo linguaggio musicale. Le figure retoriche rinascimentali si cristallizzano così in stilemi ben definiti. L’attenzione creativa del compositore non è quindi più rivolta alla sovrapposizione contrappuntistica di linee, ma si è ormai spostata su altri parametri quali timbro e melos.
L’enjambement logico posto fra il verso “O bel-lezza mortale, O bellezza vitale”, e la prima parte dell’ottavo “poiché sì tosto un core, per te rinasce” è reso musicalmente anche dal Monteverdi. Egli per rendere esplicito il fatto che il cuore rinasce grazie alla bellezza, sovrappone i due testi, in modo da formare un’unità logico formale indivisibile. Il tenore ripete così i primi due versi della seconda quartina, mentre altre due voci cantano l’altro motivo parola. Quest’ultimo è affidato a due voci che partite da un unisono procedono poi per terze parallele. In questa tecnica si riconosce ancora l’affacciarsi dello stile linguisticomusicale del basso continuo. Ci sono quattro entrate poste in progressione per quinte: QA a Do, CA a Sol, di nuovo QA a Re, e CA a La. Anche in questa sezione si vede come ormai il rapporto tonale tonica-dominante si vada ormai affermando sempre di più. Il basso tace per tutta questa sezione ed entra a bat.41 dove c’è la quinta ripetizione in perfetto stile omoritmico di questo motivo parola ora non più accompagnata da quello precedente.
Questa sezione è articolata in tre salite consecutive: dal Do del QA di bat.33 al Re del C a bat.37, dal Re del QA di bat.37 al Mi del C a bat.40 dove si raggiunge il climax, e da bat 41 a 43 dove tutte le voci, tranne l’alto che tace, salgono velocemente di una settima. Tutta questa sezione è una grande e lenta ascesa, che si identifica nella
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figura retorica dell’anabasi, che qui serve a simboleggiare la rinascita, non a caso con le prime due salite si copre una distanza melodica di una nona, intervallo che simboleggia il nuovo inizio della scala, quindi la rinascita. A bat.43 troviamo di nuovo la figura retorica dell’epanalessi, coincidente con la ripetizione di una parte del testo alla fine del motivo parola. Giunti a questo culmine improvvisamente la densità sonora creata da quattro voci cessa e sia ha, con cinque entrate in stile imitato, una veloce discesa nella quale si identifica la figura retorica della catabasi utilizzata come simbolo della morte. La linea ascendente di questo motivo sulle parole per te nato, compie un brusco salto di settima discendente in corrispondenza della parola more.
Il motivo chiude con una cadenza perfetta a Re maggiore che essendo anche il primo accordo lega concettualmente la morte al cor mio, quindi all’amata.
Dall’analisi di questo madrigale si vede come ormai il linguaggio monteverdiano sia, nei primi anni del seicento, in evidente evoluzione. La tecnica imitativa, imperante nei madrigalisti della precedente generazione, è ormai praticamente assente e, anche dove appare, è estremamente semplificata e libera da qualsiasi regola canonica. Questo aspetto di semplificazione aumenta l’espressività della linea melodica che, soprattutto nella voce superiore, acquisisce i primi caratteri del melos del reicitar-cantando. Il rapporto testomusica diventa nella seconda pratica il cardine del linguaggio compositivo, e il ritmo verbale si è ormai identificato con quello musicale. Per cui un collegamento testuale come quello tra cor mio e sospiro, dove è la donna amata che fa sospirare, non può non essere musicato con
un evidente richiamo tematico. In questo nuovo linguaggio l’immediato madrigalismo onomatopeico dei compositori di fine ‘500 quali Marenzio, Gesualdo, De Rore, si trasforma in un più complesso codice, a servizio dell’espressività del testo e del suo contenuto emotivo. L’Artusi, aveva giustamente censurato questo nuovo modo di comporre, non rispettoso delle regole accademiche. Egli però non aveva capito che il linguaggio musicale di Monteverdi era in piena evoluzione. Il compositore cremonese chiama ancora Madrigale una composizione che del madrigale cinquecentesco ha ormai ben poco. L’alto livello artistico raggiunto da Monteverdi in questo madrigale sta proprio in questa totale aderenza fra la musica e la intima rappresentazione psicologica che il testo suggerisce. La composizione musicale va sempre più caratterizzandosi stilisticamente, assecondando l’ambientazione letteraria, psicologica e emotiva del testo. Infatti si vede come in questo madrigale, Monteverdi, non abbia inserito una sezione a valori lunghi con le dissonanze, come fa nel madrigale “O Mirtillo” per connotare in maniera forte la crudeltà di Amarilli. Qua si coglie poi al meglio la grande capacità e la fantasia con la quale il compositore riesce a elaborare, poche e semplici idee musicali in un discorso formalmente perfetto, e di grande tensione emotiva. Grazie al nuovo linguaggio della teoria degli affetti, che in questo madrigale inizia ad affermarsi, Monteverdi approderà attraverso l’utilizzo di un testo dialogico, prima a quello che verrà chiamato madrigale rappresentati-vo, quindi alla pura monodia accompagnata del dramma per musica.
(*) Compositore e direttore di coro, ha svolto gli studi accademici presso il Conservatorio di musi-ca G.B. Martini di Bologna, perfezionandosi poi in numerosi stage e masterclasses. Svolge un’in-tensa attività concertistica come direttore di varie formazioni corali e come solista in diversi gruppi cameristici. Le sue composizioni sono eseguite in italia e all’estero e sono state premiate in impor-tanti concorsi nazionali ed internazionali.
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Cor mio mentre vi miro[dal IV libro di madrigali, Riccardo Amadino, (Venezia) 1603]
(trasc. CRISTIAN GENTILINI)
Claudio Monteverdi (1567-1643)
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