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IL SUICIDIO
La scelta di morire
Il termine suicidio, dal francese
suicide (uccidere se stesso), indica
l’azione volontaria con la quale una
persona causa la propria morte.
Nel mondo antico la morte volontaria poteva
fare capo all’impossibilità di accettare la perdita
irrimediabile della propria dignità e del proprio
onore.
A fronte di un suicidio scelto come unica via
per ristabilire la propria onorabilità nella
memoria dei vivi, si ha anche il suicidio
disonorevole, quello che invece si compie per
codardia, per sottrarsi alla propria responsabilità
individuale, atto in sé paragonabile alla fuga.
Più alla prima che alla seconda prassi va
ricondotto il suicidio ammesso da alcune
correnti filosofiche, nelle quali, a diverso titolo,
la morte volontaria trovava una sua ragion
d’essere per affermare aspetti particolari della
libertà individuale. Anche nel cristianesimo
delle origini alcune sette nordafricane
teorizzarono (e praticarono) il suicidio come
forma particolare di martirio: uccidendosi ci si
ricongiungeva a Dio.
Proprio per reagire a tali eccessi, sant’Agostino
e in seguito altri vescovi cristiani
condannarono il suicidio come un doppio
crimine: chi si dà la morte infrange il divieto
divino di non uccidere e nega il valore sacro
della vita. Successivamente sulla base della
riflessione filosofica e delle istanze cristiane, il
suicidio, spogliato del suo valore eroico, venne
compreso pienamente nella sua dimensione
esistenziale.
Chi si suicida infatti non è un eroe o un folle,
indotto a quel gesto solo da circostanze
esterne. Chi si suicida è un essere umano con
una storia personale fatta di incontri, relazioni,
desideri, gioie, delusioni, esperienze che lo
hanno portato a essere ciò che è e che pesano
sulla sua scelta di abbandonare la vita. Scelta
che ha sempre un significato personale: un
lutto, un insuccesso, una difficoltà, per la
maggior parte di noi sono superabili, ma per alcuni
significano la disperazione da cui non si può uscire
se non con la morte.
Dal punto di vista medico-psichiatrico,
numerosi dati di letteratura indicano che è
sicuramente possibile prevenire il suicidio
nella popolazione generale, riducendo
drasticamente il numero di morti, mediante
apposite campagne di informazione e
attraverso programmi e centri di aiuto e
assistenza.
Prima ancora che sulla legittimità del
suicidio come affermazione estrema
della libertà dell’uomo, dobbiamo
chiederci se sia sempre libertà vera
quella che si esercita quando si
sceglie di morire.
Problemi etici
Secondo il sociologo francese Emile Durkheim
ci sono tre tipi di suicidio, che sono spesso
correlati fra di loro:
Il suicidio egoistico è motivato da un eccesso di individualismo: la persona si estrania dalla società civile e si isola da ogni realtà a lei esterna. Perde progressivamente il senso del reale e non riesce più a dare il giusto valore a ciò che le accade, fino a che non gli resta altro che la triste via del suicidio. Gli unici obiettivi non vanno al di fuori di noi stessi. L’io prevale sulla vita collettiva, vi è uno smisurato sviluppo dell’ego, il legame che unisce l’uomo alla vita si allenta proprio perché il legame che lo unisce alla società si è a sua volta allentato. Può accadere, però, che l’individuo sia integrato nella società in maniera del tutto inversa al suicida egoista ma si suicida lo stesso.
Il suicidio altruistico che è invece motivato da
un eccesso di integrazione: l’individuo si
annulla all’interno del gruppo e per la causa
comune arriva a immolarsi. Si pensi, per
esempio, ai suicidi collettivi o agli attentati
suicidi. l’individuo non ha scelta, è soggiogato
alla sua società che lo tiene troppo legato a sé,
e preme per condurlo a distruggersi. Come lo
è ad esempio il capitano di una nave il cui
codice di comportamento gli impedisce di
sopravvivere al naufragio della stessa.
Il suicidio anomico, presente nelle società
moderne, sembra collegare il tasso dei suicidi
con il ciclo economico: il numero dei suicidi
aumenta nei periodi di sovrabbondanza come
in quelli di depressione economica. È tipico
della persona aggressiva. È l’uomo che ha
subito una forte perdita e non riesce ad
accettare la situazione: entra così in uno stato
acuto di esasperazione e di odio verso la causa
remota di tutto, cioè se stesso, e si suicida.
In nessuno di questi casi risulta che chi si
suicida voglia davvero morire. È come se con
questo gesto una persona protestasse non
contro la vita, ma contro ciò che, nella vita, non
è andato come avrebbe dovuto. In molti casi il
suicidio è un messaggio: si vuol gridare al
mondo la propria rabbia, si vuol dimostrare di
che cosa si è capaci, si vuole punire, si vuole
semplicemente uscire da una situazione
insopportabile.
Di solito la discussione etica relativa al suicidio affronta
il problema della sua liceità. Il suicidio è condannato dai
fautori dell’etica della sacralità della vita, in base al
Principio dell’indisponibilità della vita. La vita è un dono
di Dio e solo Dio può toglierla. I sostenitori dell’etica
della qualità della vita invece rivendicano la legittimità
del suicidio. Quando le condizioni di vita, sia fisiche che
psicologiche, non sono più tollerabili o desiderabili, un
uomo ha il diritto di scegliere di morire. Il suicidio
chiama in causa la libertà e l’autonomia dell’essere
umano.
L’etica quindi si interessa del suicidio inizialmente in
relazione al problema della volontà di morire; tuttavia,
se l’atto del suicidio rimanda alla richiesta estrema di
aiuto rispetto alla propria condizione esistenziale o
sociale, il problema etico di fondo non riguarda solo
più la liceità dell’atto di togliersi la vita, ma anche la
creazione delle condizioni umane e terapeutiche per
evitare l’atto estremo, riducendo la sofferenza
dell’individuo. Si può discutere, infatti, della libertà
dell’atto, solo quando esso è compiuto in una
condizione di piena consapevolezza, e non quando è
determinato da un particolare dolore psicologico.
Si può ancora ricordare che il problema di dare a se
stessi volontariamente la morte è stato anche un
problema filosofico di notevole importanza; più di un
sistema filosofico, dallo stoicismo classico fino
all’esistenzialismo del Novecento, lo ha introdotto come
scelta possibile e matura in relazione a condizioni
esterne (ad esempio di tipo politico) o interne all’individuo,
quando questo condivide in modo profondo e responsabile
un intero sistema ideale di riferimento (ideale filosofico). In
questo caso l’atto della morte volontaria risponde a una
precisa volontà ed è inteso come un atto pienamente
autonomo e riconducibile a un sistema etico che lo
riconosce come un atto lecito e dovuto alla propria dignità
personale.
Posizione delle diverse religioniINDUISMO:
L’induismo esprime una condanna assoluta nei
confronti del suicidio. Il suicidio infatti aumenta
il karma (azioni, opere compiute) negativo
individuale, diventando un impedimento alla
liberazione finale. commettere suicidio è spesso
considerato un peccato alla stregua dell’omicidio
di un’altra persona, con la possibile eccezione
della pratica del sati. Le scritture affermano
genericamente che morire per suicidio (e per
ogni tipo di morte violenta) porta a diventare un
fantasma, destinato a vagare sulla terra fino al
momento in cui si sarebbe dovuti morire se non
ci si fosse suicidati.
BUDDISMO:
Per il buddhismo il suicidio è un atto irrazionale.
Chi sceglie la morte come soluzione del problema
della sofferenza è ignorante, nel senso che non sa
che il dolore si elimina staccandosi dalla vita e dai
desideri che generano sofferenza, fino al
raggiungimento del nirvana, lo stato supremo di
beatitudine. Tuttavia il suicidio è ammesso purché
non sia motivato da odio verso se stesso o gli
altri. Per il Buddismo, le azioni passate
influenzano pesantemente le esperienze presenti
dell’individuo; le azioni presenti, a loro volta,
diventano influenza per le esperienze future (la
dottrina del karma). L’azione intenzionale della
mente, del corpo o del linguaggio ha una
reazione. Tale reazione, o ripercussione, è la causa
delle condizioni e delle differenze in cui ci
imbattiamo nel mondo.
CONFUCIANESIMO:
Nel confucianesimo antico, che sopravvive ancora oggi nel
profondo della cultura cinese, il suicidio era considerato un
atto estremo, una protesta nei confronti di una grave offesa
subita. Chi riceveva l’offesa si suicidava e il suo suicidio
procurava pubblica vergogna e disonore per colui che aveva
causato l’offesa.
ISLAM:
L’islam condanna il suicidio perché, come recita il Corano,”
Chiunque uccida una persona è come se avesse ucciso tutta
l’umanità, e chiunque salvi una persona è come se avesse
salvato tutta l’umanità”. Tuttavia per i fondamentalisti islamici,
morire mentre si combatte per Allah, è un gesto che procura
onore e felicità nell’aldilà. Il divieto di suicidio è stato
riscontrato anche in un hadith che dice: “Colui che commette
suicidio strozzandosi, continuerà a strozzarsi nel Fuoco
(Inferno), e chi commette suicidio pugnalandosi, continuerà a
pugnalarsi nel Fuoco.
EBRAISMO:
L’ebraismo considera il suicidio un peccato
contro Dio. La vita è un dono di cui l’uomo
deve avere cura ed essere grato a Dio. Assistere
a un suicidio e chiedere assistenza per un
suicidio (creando complicità) è altresì vietato. Ciò
non ha impedito alla cultura ebraica di ricordare
come un fatto positivo e di alto contenuto
morale il suicidio-omicidio del Giudice Sansone,
che si leva la vita e la leva ai Filistei da cui era
stato fatto prigioniero e accecato dopo essere
stato catturato dalla sua amante Dalila, come
narrato in quel libro stesso dell'Antico
Testamento.
CHIESA ORTODOSSA, PROTESTANTE E CATTOLICA:
Mentre la Chiesa ortodossa considera il suicidio un peccato mortale,
le Chiese protestanti non lo condannano formalmente.
Per la Chiesa cattolica il suicidio è un atto contrario alla sacralità
della vita e alla dignità della persona e in quanto tale da
condannare. È un atto che rifiuta la verità ed esprime valori
incapaci di esprimere la libertà.
Il suicidio viene affrontato nella parte III sezione II del Catechismo
della Chiesa cattolica ai numeri 2280-2283.
In particolare al n. 2280 si afferma: “Ciascuno è responsabile della
propria vita davanti a Dio che gliel’ha donata. Egli ne rimane il
sovrano Padrone. Noi siamo tenuti a riceverla con riconoscenza e a
preservarla per il suo onore e per la salvezza delle nostre anime.
Siamo gli amministratori, non i proprietari della vita che Dio ci ha
affidato. Non ne disponiamo”.
Ma si parla anche di attenuazione della responsabilità del suicida in
presenza di gravi disturbi psichici o di angoscia davanti a torture e
sofferenze. Interessante è la conclusione al n. 2283: “Non si deve
disperare della salvezza eterna delle persone che si sono date la
morte. Dio, attraverso le vie che solo Lui conosce, può loro
preparare l’occasione di un salutare pentimento. La Chiesa prega per
le persone che hanno attentato alla loro vita”.
Lavoro svolto da:
Teresa Sergio
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