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Socialitas COLLANA DI STUDI POLITICI, ECONOMICI E SOCIALI

L’INCLUSIONE POSSIBILE UN APPROCCIO MULTIDISCIPLINARE ALLE POLITICHE SOCIALI

a cura di

Rosario Palese

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Socialitas

Collana di Studi Politici, Economici e Sociali

Vol. 01

L’INCLUSIONE POSSIBILE UN APPROCCIO MULTIDISCIPLINARE ALLE

POLITICHE SOCIALI a cura di Rosario Palese ISBN: 978-88-97-94006-7 Una coedizione

RESEARCH PUBLISHERS è un marchio editoriale della FONDAZIONE ABACUS VIA PIENZA, 36 85100 - POTENZA http://www.fondazioneabacus.it/ e-mail: [email protected] © 2012 - 2013 Diritti riservati CONTI EDITORE RUE DES CONDEMINES, 39 11017 - MORGEX (AO) http://www.conti-editore.it/

I diritti di traduzione, di riproduzione e di adattamento, (compresi i microfilm e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i paesi e devono essere espressamente autorizzati dall’Editore. L’elaborazione dei testi, anche se curata con scrupolosa attenzione, non può comportare specifiche responsabiltà per eventuali errori o inasattezze. Stampato da CONTI EDITORE nel mese di dicembre dell’anno 2012

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Socialitas COLLANA DI STUDI POLITICI, ECONOMICI E SOCIALI

Direttore: Pino Paciello Comitato editoriale:

Lucia Caivano, Carlo Cosentino, Angela Iacovino, Paola Marchese, Fabio Marino, Rosario Palese, Giuseppe Palo, Giovanni Salzano, Luca Spagnulo, Davide Taibi, Giancarlo Vainieri.

§ § §

Nasce Socialitas.

La collana SOCIALITAS è un’iniziativa editoriale ideata dalla “FONDAZIONE

ABACUS” in collaborazione con la casa editrice “CONTI EDITORE”. È un

progetto teso a studiare le tematiche politico-istituzionali, socio-economiche e

culturali in campo nazionale ed internazionale cercando di favorire, in tal modo,

il confronto e la collaborazione tra studiosi ed esperti di varie discipline, nonché

incrementare la conoscenza di diversi contesti sociali, economici e politici.

Particolare attenzione verrà riservata ai problemi del Mezzogiorno d’Italia e

delle politiche di sviluppo locale legate al turismo e alla cultura, nonchè ai temi

dei processi migratori, delle politiche sociali, della cooperazione e del welfare.

Nella collana SOCIALITAS confluiscono culture di diverso orientamento

(sociologi, psicologi, politologi, economisti, statistici, esperti marketing,

giuristi, esperti nel settore della comunicazione, della formazione e delle

politiche sociali) che si ricompongono in un'unità omogenea ed originale,

dando vita a riflessioni e contributi interpretativi di grande qualità sui temi al

centro del dibattito politico, economico e sociale.

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Ringraziamenti

Nel presentare questa iniziativa editoriale, ho innanzitutto un debito di riconoscenza

verso Angela Iacovino, senza la quale questo libro non sarebbe mai venuto alla luce.

Oltre alla redazione del suo eccellente saggio, suo è anche il merito di avermi

sollecitato durante l'attività didattica – condivisa presso la FONDAZIONE ABACUS

durante il corso di alta formazione "ESPERTO IN SERVIZI DI INCLUSIONE SOCIALE" – ad

occuparmi dei temi vicini all’inclusione sociale, muovendo dai problemi del welfare

state in tempi di globalizzazione.

Un grazie particolarmente sentito a Paola Machese, presidente della “CONTI

EDITORE”, e a tutte le persone che hanno collaborato per la realizzazione e l’editing di

questa opera.

Sono grato a Pino Paciello per aver accettato la sfida di dirigere la collana editoriale

"SOCIALITAS", che prende il via con questa pubblicazione, a lui e al comitato

editoriale i miei migliori auguri di buon lavoro. E così pure sono grato a Giovanni

Setaro, Andrea D'Andrea e Linda Chietera per lo studio e la creazione della linea

grafica della copertina.

Devo mettere in evidenza la grande disponibilità dimostrata durante tutte le fasi di

questo lavoro, da parte degli estensori dei saggi; in particolare, non posso non

ricordare i preziosi contributi di Mauro Basso, Lucrezia Celli, Apollonia Conelli, Gaia

Fusco, Nada Milano, Anna Fava, Maria Palese, Federica Sabia e Caterina Sabia. A

tutti loro la mia sincera gratitudine.

Rivolgo un sentito ringraziamento a Giuseppe Palo per la passione e la competenza

con cui ha curato il corso di alta formazione "Esperto In Servizi di Inclusione Sociale"

e per l’entusiasmo con cui ha promosso ogni iniziativa a favore della Fondazione

Abacus nel settore dell’inclusione sociale.

A Nadia Guglielmo, Antonio Sciaraffia, Ugo Bezzi, Marcello D’Acunti, Valentina Di

Lorenzo, Alessandro Chiorazzo, Nello Giudice, Rocco Messina e Lucia Caivano un

grazie sincero per l’affetto e il costante supporto durante la preparazione di questo

volume.

Infine, dedico un pensiero e questo lavoro ad Angelo Pace, amico generoso “tradito”

troppo presto proprio dal suo cuore.

Che la terra gli sia lieve.

Rosario Palese

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Indice

PRESENTAZIONE

a cura di Vito SANTARSIERO » IX

INTRODUZIONE

a cura di Rosario PALESE » XI

DIRITTI SOCIALI E COSTITUZIONE

di Angela IACOVINO

Premessa » 1

1. L’anima poliedrica dei diritti sociali: questione di connotazione » 4

2. Varietà sovranazionale e riconoscimento comunitario » 10

3. L’abito costituzionale tra eleganza formale e look sostanziale » 14

4. Inevitabili (e inviolabili) conclusioni » 23

LA CRISI DEL WELFARE NEI PROCESSI GLOBALI

di Rosario PALESE

Premessa » 29

1. Il “villaggio globale” è un villaggio » 30

2. La sindrome del pozzo » 35

3. La crisi e l’ideologia del sacrificio » 38

4. Il senso del capitalismo » 40

5. La terza essenza dell’economia » 44

I PROCESSI MIGRATORI E IL WELFARE

di Caterina SABIA

Premessa » 51

1. Il Welfare State in Italia » 53

2. La Basilicata dalla migrazione all’immigrazione » 55

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DAL BISOGNO DI VALUTAZIONE ALLA VALUTAZIONE DEL BISOGNO

di Lucrezia CELLI

Premessa » 59

1. Connotare la valutazione » 60

2. Il disegno della ricerca valutativa » 65

3. La Valutazione Partecipata » 66

L'ASSOCIAZIONISMO: RETI E RETICOLI

di Mauro BASSO

Premessa » 71

1. Associazionismo ed inclusione sociale nel Terzo settore » 72

2. Piano legislativo dell’associazionismo (Nazionale e locale) » 75

3. Politiche sociali e pianificazione sociale:

pensiero globale ed azione locale » 77

4. Associazionismo in Basilicata: poche luci, molte ombre » 78

IL CINEMA COME STRUMENTO DI ANALISI DELL’ANOMIA

di Maria Pia PALESE

Premessa » 81

1. Una struttura labirintica » 84

2. Un uomo solo e tanti mondi » 87

3. Il carattere combattente di un individuo blasè » 91

4. Il livello zero » 94

DALLA RETORICA ARISTOTELICA ALLA PATOLOGIA DELLE RELAZIONI

di Anna FAVA

Premessa » 99

1. Dalla filosofia alla psicologia » 102

2. Dal disturbo mentale alla patologia delle relazioni » 103

3. Relazione e Comunicazione » 108

4. Comunicazione e patologia » 110

5. Olismo: prevenzione e cura » 116

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SESSUALITÀ E DISABILITÀ

di Gaia FUSCO

Premessa » 123

1. Sessualità e disabilità: qual è il problema? » 124

2. Esperienza pratica:

il percorso di autonomia delle persone con abilità diverse. » 130

3. “…E il sogno realtà diverrà” » 135

IDENTITÀ RECLUSA

di Federica SABIA

1. L’identità possibile » 139

2. Identità e adolescenza: l’esplorazione » 142

3. Un caso di studio: L’identità nei minori sottoposti a misura penale » 144

POVERTÀ, SCOLARIZZAZIONE, LIBERTÀ

di Apollonia CONELLI

1. Povertà: definizioni e considerazioni » 151

2. Povertà d’istruzione: dilemmi e processi » 154

3. La conoscenza che rende liberi: la pedagogia di don Lorenzo Milani » 159

ANZIANI E IL DIRITTO AL FUTURO

di Nada MILANO

Premessa » 163

1. Politiche e servizi per l' anziano » 164

2. Promozione e ripristino dell' anziano » 166

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IX

| Nome Cognome |

| VITO SANTARSIERO * |

PRESENTAZIONE

«Il destino dell’economia di mercato, con il suo

mirabile meccanismo dell’offerta e della

domanda, si decide al di là dell’offerta e della

domanda»

(Wilhelm Röpke)

«Ci sono dei momenti storici nei quali il problema

cruciale è quello della libertà, soprattutto nelle

condizioni di oppressione, e ce ne sono altri nei

quali il problema maggiore è quello della

fraternità, ed è il caso del nostro tempo»

(Edgar Morin)

FARE STRADA, FARE CITTÀ1

Questa pubblicazione rappresenta la testimonianza viva e pulsante di ciò che è e

deve essere il lavoro dei quanti operano sui temi del Welfare, è una bella sfida

quella che Fondazione Abacus sta proponendo a tutti noi, una importante

riflessione metodologica, un confronto tra modelli e approcci di intervento che

travalicano i mandati istituzionali.

Rappresenta l’esigenza di aprire un proficuo dibattito sul tema dell’inclusione

possibile trovando risposte nella strada, quella stessa strada percorsa e ripercorsa

dove c’è gente che vuole fare, costruire, farsi sentire, dove ci sono singole voci a

volte dissonanti e singole storie da ascoltare; dove ci sono risorse già individuate

e altre da scoprire e da esplorare.

1* Presidente A.N.C.I. Basilicata e Sindaco della Città di Potenza.

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X

| Presentazione |

Tale necessità appare ancora più urgente in questo momento a fronte della

generale situazione di crisi economica e finanziaria globale, che, in

corrispondenza di una tendenziale contrazione delle risorse e di un inevitabile

processo di diffusione della vulnerabilità sociale che coinvolgerà molte famiglie,

pone nuove sfide in relazione alla capacità di reggere del sistema di welfare, così

come è attualmente configurato.

L’esigenza di trovare, anche attraverso processi partecipativi e di sussidiarietà,

soluzioni operative nuove ed economie di scala per gestire situazioni complesse

è una tensione in atto da alcuni anni nel territorio del Comune di Potenza.

L’insieme di questi saggi, nati durante un percorso formativo sul catalogo

Regionale dell’Alta Formazione, offre una materia di riflessione che non è

destinata ad esaurirsi nell’ambito di una rassegna dell’esistente, ma mira a

gettare basi per nuovi modi di “fare strada, di fare città progettando

prevenzione e promuovendo la comunità”.

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XI

| Rosario Palese |

| ROSARIO PALESE |

INTRODUZIONE

«I libri che scrivo costituiscono per me un’esperienza, che mi piacerebbe fosse sempre la più ricca possibile. Una esperienza è qualcosa da cui si esce trasformati [...]. Io scrivo proprio perché non so ancora cosa pensare di un argomento che attira il mio interesse. Facendolo, il libro mi trasforma, muta ciò che penso; di conseguenza, ogni nuovo lavoro cambia profondamente i termini del pensiero cui ero giunto con quello precedente. In questo senso io mi considero più uno sperimentatore che un teorico [...]. Quando scrivo, lo faccio soprattutto per cambiare me stesso e non pensare più la stessa cosa di prima. Qualcosa accade, e da quel momento l’esistenza prende un corso differente: i miei libri [...] io li ho sempre concepiti come esperienze dirette a “strapparmi” a me stesso, ad impedirmi di essere sempre lo stesso.» (Michel Foucault, Colloqui con Foucault)

UN TRAGUARDO IMPORTANTE

Si prova una particolare emozione nel curare un volume che raccoglie gli scritti di diversi autori. Il lavoro di molti mesi e oltre sembra tutto lì, racchiuso in tante pagine ben ordinate e numerate; rileggendole si è portati a pensare che si sarebbe potuto far di più, rifinire questo o quel dettaglio, accade anche questo. A questa bella emozione, se ne sovrappone un’altra derivante da uno stato d’animo molto più articolato. Con questo libro, infatti, festeggiamo l’esordio di “Socialitas” – Collana editoriale della Fondazione Abacus realizzata in collaborazione con la Conti editore – un traguardo importante che certo non può essere raggiunto in silenzio. Questo non per una sorta di autocelebrazione, ma per approfittare di un’occasione in una certa misura solenne e anche perché si

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XII

| Introduzione |

evidenzi sempre più il saldo legame che unisce queste due strutture scientifiche e culturali e che riafferma in modo significativo la volontà di interrogarci, di discutere, di costruire in tal modo un terreno concreto sul quale porre le basi del nostro agire. “Socialitas” si presenta come uno strumento di approfondimento, di riflessione, di informazione e di elaborazione della realtà, cercando mezzi idonei ed efficaci per cogliere e descrivere un mondo che è in continua evoluzione e che non offre a nessuno chiavi sicure per la sua comprensione. Sicuramente consapevoli che comunicare è una difficile operazione alchemica, altrettanto consci delle difficoltà che naturalmente incontreremo, iniziamo questa nuova avventura con “L’inclusione possibile”, un volume che fa della varietà dei contenuti e dei linguaggi la sua forza e carattestica peculiare. L’intento consiste nell’analizzare l’inclusione sociale che, come base di partenza, può essere definita come «la situazione in cui, in riferimento a una serie di aspetti multidimensionali (che definiscono l’opportunità sostanziale degli individui di vivere secondo i propri valori e le proprie scelte e di migliorare le proprie condizioni), tutti gli individui e i gruppi godono degli standard essenziali, le disparità tra le persone e i gruppi sono socialmente accettabili e il processo attraverso il quale vengono raggiunti questi risultati è partecipativo ed equo» (Barca, 2009). La società attuale, infatti, dopo l’impatto con la modernità e le trasformazioni radicali che essa ha determinato in ogni aspetto della vita quotidiana, è diventata una enorme piazza, una sorta di agorà, all’apparenza illimitata e sconfinata ma, al contrario, tutto intorno, circoscritta da coloro che, per varie ragioni ed a vario titolo, essa esclude. Ciascuno dei saggi illustra una delle linee direttrici lungo le quali può svilupparsi l’inclusione sociale. Sono come porte da aprire, una ad una, che svelano aspetti e problematiche quasi settoriali, che prendono le mosse dalle peculiarità dall’ambito specifico di riferimento e che forniscono spiegazioni e, a volte, suggeriscono soluzioni perché quella porta, una volta aperta, possa consentire l’accesso alla fantomatica agorà a coloro che ne sono esclusi. Questo lavoro prende le mosse dai mutamenti sociali che si sono progressivamente determinati con la modernità e che hanno avuto delle ripercussioni sia nelle politiche sociali sia nella operativizzazione di concetti come “esclusione” e “marginalità sociale”, orientando nei fatti le politiche locali di Welfare. Nel saggio “La crisi del Welfare nei processi globali”, muovendo dalle trasformazioni economiche sociali e politiche causate dal processo di modernizzazione, si suggeriscono degli spunti critici sul Welfare mix e il rapporto con altri attori sociali: la famiglia, il mercato e il terzo settore.

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XIII

| Rosario Palese |

Sulla stessa lunghezza d’onda, Caterina Sabia, indaga un altro fattore significativo come quello del fenomeno dell’emigrazione straniera che, in alcuni contesti, come ad esempio in Basilicata, si è configurata come un primo passo verso un’immagine a più ampio spettro di inclusione sociale. Mauro Basso, nel suo elaborato, prende in esame il fenomeno dell’associazionismo e in particolare la funzione che assolve, cioè quella di arrivare dove le istituzioni non arrivano, un po’ per dinamiche oggettive, un po’ per impossibilità a comprendere quali siano le reali politiche sociali da adottare in una società in continua evoluzione. Il contributo di Angela Iacovino ci offre spunti di riflessione su come la legislazione abbia influito sulle politiche di inclusione. Valorizzare l’inclusione è rendere ragione di quella pretesa universalistica che dalle previsioni normative costituzionali si promana, e che rappresentano, peraltro, il tema di riflessione delle pagine che seguono. Giova insistere, sia pure in fase preliminare, e sottolineare che l’essenza della democrazia, la sintesi tra il principio di libertà e quello di eguaglianza, prevede, formalmente, la parità di accesso al godimento dei diritti e il divieto di discriminazione arbitrarie e, sostanzialmente, l’obbligo per il legislatore di rimuovere quel muro che blocca le potenzialità di ciascuno e che rende irraggiungibile, quell’effettiva, e anelata, parità delle posizioni di partenza; parità percepita, e vissuta, ormai, come nostalgica chimera. Nel saggio “Dal bisogno di valutazione alla valutazione del bisogno”, Lucrezia Celli fornisce un approccio tecnico guidandoci sui sentieri della comprensione della valutazione, intesa come processo di ricerca basato su raccolta, analisi e interpretazione di una serie di informazioni, ponendosi il “perché”, cercando i motivi degli errori e dei successi e considerando tutto il processo organizzativo, i risultati effettivamente raggiunti e le risposte che tali esiti forniscono. La valutazione si rende utile per dare più linearità e coerenza al processo decisionale, in tutte le politiche pubbliche, ma in particolare nelle politiche sociali, caratterizzate da un più alto livello di complessità, elementi questi che rendono necessari gli interventi valutativi. Le immagini e il cinema sono usate da Maria Pia Palese come strumento di analisi dell’anomia, in quanto possono aiutare a scoprire la realtà, a penetrarla nei suoi lati più nascosti, a rivelarla al mondo. Il cinema, infatti, può essere preso a titolo esemplificativo di teorie e approcci sociologici, anche se la sua funzione, in questo senso esplicativa, non si riduce alla loro semplice esplorazione. La trattazione, in questo caso, di situazioni anomiche, è estensiva, si dilata enormemente di fronte alle trasposizioni cinematografiche, rivelando molteplici risvolti sociali, storici, psicologici. Il saggio di Anna Fava risulta particolarmente importante ai fini della comprensione dello stretto rapporto tra medicina e filosofia. L’elaborato si

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XIV

| Introduzione |

svolge prendendo spunto dalla Retorica di Aristotele e dalla sua anticipazione di secoli riguardo i processi di comunicazione solo recentemente studiati. Nel pensiero del filosofo sono anticipati i concetti di sistema di comunicazione, relazione, feedback, contesto, autoconsapevolezza. Secoli di studi medici e filosofici hanno permesso di arrivare a considerare la psicologia come scienza autonoma da tali branche specifiche; la malattia mentale è stata sempre considerata come un male dell’organo, della struttura cerebrale, della persona intesa in senso fisico e isolato, senza alcun risultato di miglioramento evidente nelle cure. Con Freud si è cominciato a studiare, invece, le funzioni della mente, ma le grandi scoperte freudiane non sono state sufficienti per la terapia di disturbi mentali gravi. La lettura sistemica della realtà ha determinato una notevole accelerazione degli studi in ambito psicologico laddove si è cominciato a studiare ed analizzare l’individuo nelle sue relazioni, in un’ottica sistemica, abbandonando progressivamente la prospettiva dell’individuo isolato. Studi recenti sulla comunicazione umana, hanno permesso di accedere a una diversa consapevolezza dei processi in atto, a vari livelli, e tra di loro estremamente interconnessi tra individuo singolo e individuo inserito in sistemi sempre più ampi e interconnessi non sempre immediatamente consapevoli e percepibili. Un salto notevole dalla concezione causale a quella olistica che passa attraverso un diverso modo di intendere la patologia e individua nelle relazioni sia la patologia che l’effetto preventivo e terapeutico. Gaia Fusco ci offre l’occasione di poter riflettere su un fenomeno di cui non si parla abbastanza, eppure è un problema non da poco per le persone disabili e per le loro famiglie: la sessualità. Un legame negato, quello tra disabilità e sessualità, che da sempre rappresenta un argomento difficile da affrontare. “Eterni bambini”, esseri asessuati che non percepiscono il bisogno di soddisfare le proprie pulsioni sessuali ed emotive. È così che il nostro retroterra culturale ci porta a considerare le persone diversamente abili, ma le teorie e le esperienze avviate fino ad oggi ci dimostrano che la voglia di amore non può essere più ignorata. Attraverso l’educazione sessuale e percorsi di autonomia individualizzati anche le persone diversamente abili possono imparare a riconoscere e gestire le proprie pulsioni e, perché no, realizzare i propri sogni di vita. Federica Sabia contribuisce con un saggio aderente al filone dell’inserimento sociale dei detenuti. Sembra ormai acquisito, sul piano teorico, dalle diverse scuole di pensiero nate e consolidatesi negli ultimi decenni che, nella maturazione del Sé, un ruolo determinante è giocato dal contesto entro cui l’individuo opera, agisce, vive. Tale processo si realizza indifferentemente sia per i soggetti cosiddetti normativi che per quelli non-normativi, soprattutto in età adolescenziale. La ricerca sul campo, di cui si dà notizia in questo breve saggio,

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XV

| Rosario Palese |

non solo ha confermato la teoria, ma ha dimostrato anche che per i giovani non-normativi il contesto risulta ancor più determinante nell’azione del loro “recupero normativo”. Apollonia Conelli affronta il tema del rapporto tra povertà ed istruzione, con ciò intendendosi il fallimento formativo dei giovani che frequentano le scuole secondarie di primo e secondo grado e non raggiungono un livello formativo tale da evitare possibili dinamiche di esclusione socio-economica. Si evidenzia il ruolo che la scuola riveste come fattore di protezione rispetto alle diverse condizioni che determinano situazioni di esclusione sociale e povertà, in particolar modo l’influenza dell’istruzione rispetto alla possibilità di vivere in modo più completo la cittadinanza, soprattutto per quanto riguarda il rapporto con la legalità, la salute, la partecipazione alla vita politica, nonché il diritto al lavoro. Una volta aperte le varie porte sugli “esclusi”, ci si ritrova nel punto di partenza, tra gli “inclusi”. Gli uni ambiscono ad accedere nel luogo dei secondi, ma sono i secondi che possono, ed hanno la responsabilità, di fornire ai primi gli strumenti e creare le condizioni perché possano effettivamente riuscirvi. Questa responsabilità, inizialmente solo utopica, generata dalla elaborazione dei principi di uguaglianza sostanziale e di solidarietà sociale, è progressivamente cresciuta ed è divenuta concreta nell’ultimo secolo. Gli Stati, quell’ipotetica agorà inizialmente chiusa ed indifferente, si sono progressivamente assunti ed hanno fatto proprio il compito di rimuovere gli ostacoli ed i vincoli affinché tutti i cittadini siano messi nella medesima condizione di partenza e siano realmente in grado di conquistare, per dirla come Einaudi nelle sue “Prediche inutili”, il «posto morale, economico, politico che è proprio delle sue attitudini di intelletto, di carattere morale, di vigore lavorativo, di coraggio, di perseveranza». Tali principi, che hanno segnato l’evoluzione degli stati liberali ottocenteschi, fermatisi all’enunciazione della sola eguaglianza formale, verso gli stati sociali del XX secolo, costituiscono la causa prima ed il fine ultimo della struttura del Welfare di ciascuna agorà, intendendosi per Welfare quel sistema economico – politico – sociale in cui la promozione della sicurezza e del benessere sociale economico dei cittadini è assunta dallo Stato come compito proprio, in via principale o residuale, a seconda dei modelli adottati nei vari Ordinamenti. Nell’Ordinamento italiano la maturazione a Stato sociale avviene con la Costituzione repubblicana che, dettando il principio della solidarietà sociale, sancita nell’art. 2, e dell’uguaglianza sostanziale, proclamata dall’art. 3, comma 2, assegna allo Stato Comunità, ivi compresi gli enti territoriali e le forze sociali che si muovono all’interno della società, il compito di rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza,

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XVI

| Introduzione |

impediscono il pieno sviluppo della persona umana, in ciascuna delle espressioni nelle quali può manifestarsi. Ciò che appare degno di nota e che evidenzia come tali principi siano ormai radicati e strettamente connessi all’idea di società, è ritrovare un’analoga impalcatura di Stato sociale anche in una comunità, quale quella dell’Unione Europea, che Stato non è, che è nata con intenti molto diversi ma che, assorbendo il sostrato comune dei principi fondamentali di ciascuno Stato membro, getta le basi per una sua politica sociale tesa alla realizzazione degli obiettivi della promozione dell’occupazione, del miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro che consenta la parificazione nel progresso, di una protezione sociale adeguata, del dialogo sociale, dello sviluppo delle risorse umane atto a consentire un livello occupazionale elevato e duraturo e della lotta all’emarginazione sostenendo e completando, tra le altre, le azioni degli Stati membri nella lotta contro l’esclusione sociale (artt. 151 e 153 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea). Quella agorà cui si accennava in precedenza è cresciuta ed ha travalicato i confini nazionali, ma su di essa continuano ad affacciarsi usci chiusi. Essa è l’immagine speculare di ciò che esclude, di chi sta al di là di quelle porte chiuse, in essa vi sono, in potenza, le energie per abbattere quelle barriere e realizzare una non utopica, ma effettiva inclusione sociale. Ciascuna di quelle porte costituisce un ostacolo di natura diversa dall’altro e richiede una chiave diversa. Che è ciò che, in scala, con i saggi che seguono, si intende verificare. Essi consentono, altresì, di dare uno sguardo di insieme della situazione attuale in Italia ed a fornire dei dati circa una sua possibile evoluzione. Sovviene, a tal proposito, una parabola che raccontava il Mahatma Gandhi per descrivere la struttura e l’essenza dell’inferno e del paradiso:

Un sant’uomo ebbe un giorno da conversare con Dio e gli chiese: «Signore, mi piacerebbe sapere come sono il Paradiso e l’Inferno». Dio condusse il sant’uomo verso due porte. Ne aprì una e gli permise di guardare all’interno. C’era una grandissima tavola rotonda. Al centro della tavola si trovava un recipiente contenente cibo dal profumo delizioso. Il sant’uomo sentì l’acquolina in bocca. Le persone sedute attorno al tavolo erano magre, dall’aspetto livido e malato. Avevano tutti l’aria affamata. Avevano dei cucchiai dai manici lunghissimi, attaccati alle loro braccia. Tutti potevano raggiungere il piatto di cibo e raccoglierne un po’, ma poiché il manico del cucchiaio era più lungo del loro braccio non potevano accostare il cibo alla bocca. Il sant’uomo tremò alla vista della loro miseria e delle loro sofferenze. Dio disse: «Hai appena visto l’Inferno». Dio e l’uomo si diressero

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XVII

| Rosario Palese |

verso la seconda porta. Dio l’aprì. La scena che l’uomo vide era identica alla precedente. Le persone intorno alla tavola avevano anch’esse i cucchiai dai lunghi manici. Questa volta, però, erano ben nutrite, felici e conversavano tra di loro sorridendo. Il sant’uomo disse a Dio: «Non capisco!». «È semplice – rispose Dio – essi hanno imparato che il manico del cucchiaio troppo lungo, non consente di nutrire se stessi, ma permette di nutrire il proprio vicino. Perciò hanno imparato a nutrirsi gli uni con gli altri! Quelli dell’altra tavola, invece, non pensano che a loro stessi. Inferno e Paradiso sono uguali nella struttura. La differenza la portiamo dentro di noi».

La parabola usata da Gandhi può servire per descrivere icasticamente l’attuale situazione italiana del Welfare, dell’assistenza e delle politiche sociali ma anche per tratteggiare uno scenario possibile, gli obiettivi cui tendere e gli strumenti necessari. Da un lato vi è la stanza “infernale”, laddove gli astanti al tavolo tendono a chiudersi nelle proprie pregative e ad arroccarsi per la difesa delle proprie posizioni, incapaci di comprendere che la propria sopravvivenza, e, in senso lato, il proprio benessere passa per il benessere altrui; dall’altro, la stanza del “paradiso” in cui, il superamento delle posizioni individuali, la necessaria collaborazione, la soddisfazione del bisogno altrui come condizione necessaria e sufficiente per la soddisfazione del proprio conduce alla realizzazione degli obiettivi primari. In altre parole, se è vero che la «struttura è la stessa, la differenza è dentro di noi», per garantire il benessere economico e sociale ed una lotta efficace all’esclusione sociale, occorrerebbe dar vita a politiche di Welfare più vicine ai bisogni reali e fondamentali delle persone che siano fondate su un rinnovato senso di fiducia e di cooperazione e su una concreta e corretta attuazione del principio di solidarietà sociale, in ognuna delle sue declinazioni, non solo come solidarietà generale, ma anche corporativa e generazionale, basata sul dialogo e sulla collaborazione dinamica tra le parti sociali.

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| Introduzione |

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| Angela Iacovino |

| ANGELA IACOVINO |

DIRITTI SOCIALI E COSTITUZIONE

«Preliminare ad ogni altra esigenza è il rispetto

della personalità umana; qui è la radice delle

libertà, anzi della libertà, cui fanno capo tutti i

diritti che ne prendono il nome. Libertà vuol dire

responsabilità. Né i diritti di libertà si possono

scompagnare dai doveri di solidarietà di cui sono

l’altro ed inscindibile aspetto. Dopo che si è

scatenata nel mondo tanta efferatezza e bestialità,

si sente veramente il bisogno di riaffermare che i

rapporti fra gli uomini devono essere umani.»

(M. Ruini, 1947)

«Libero non è colui che ha un diritto astratto

senza il potere di esercitarlo, bensì colui che oltre

al diritto ha anche il potere di esercizio.»

(N. Bobbio, 2005) PREMESSA In un mondo divenuto sconfinato, senza un centro, con molte teste e senza un cuore, dominato dalla strumentalità e dalla funzionalità dell’agire di ciascuno, tutto orientato verso l’eco globalizzante e ripiegato verso il Sé, che senso ha parlare di una sfera pubblica, e istituzionale, capace di oltrepassare il limite e il vincolo dell’impronta efficientista, che dalla preferenza individuale prenderebbe corpo atteggiandosi ad unica strada possibile per il benessere? E che senso ha discorrere, ancora, del riconoscimento dei diritti sociali come veri diritti, se la storia che li connota racconta di percorsi tortuosi, di salite e discese repentine, di debolezza, di parzialità, e di ingenerosità? I diritti sociali, nati come diritti di pochi sono diventati, ad un certo punto, i diritti di tutti1, finendo per collocarsi «al cuore delle diversità che caratterizzano

1 G. Corso, I diritti sociali nella Costituzione italiana, in Rivista Trimestrale di Diritto Pubblico, 2, 1981, p. 759.

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| Diritti sociali e Costituzione |

le democrazie pluraliste»2. Non solo, quindi, diritti dei soggetti deboli, finalizzati all’attuazione del principio di eguaglianza sostanziale, ma mezzi per garantire a ciascuno l’opportunità, irrinunciabile, per sviluppare appieno la propria personalità. Eppure, le trasformazioni intervenute nella materia legislativa del lavoro, (tra precarizzazione e flexicurity), il ritrarsi dei sistemi pensionistici pubblici, sostituiti dai meccanismi assicurativi privati a capitalizzazione, gli svariati processi di individualizzazione della protezione sociale, nel mutare le scenografie democratiche, e nel ridisegnare l’idea di cittadinanza, stanno vanificando quella poderosa spinta alla partecipazione politica di massa che aveva animato la fase storica di affermazione e di difesa dei diritti sociali3. Si è progressivamente delineato un nuovo quadro dei diritti, «di quelli sociali in specie, continuamente modificato dalle politiche quotidiane. Le difficoltà finanziarie stanno determinando una riduzione della dotazione dei diritti, in generale o per determinate categorie di cittadini. Il risultato è il passaggio di una serie di situazioni dall’area dei diritti a quella del mercato»4. L’innovazione che caratterizza la sfera delle politiche sociali è strettamente, e strutturalmente, connessa al processo di individualizzazione e di specializzazione, segnato a sua volta dall’appartenenza multipla degli individui ad altrettanti molteplici ed eterogenei gruppi sociali, che astrattamente aumenta i margini di libertà nell’accesso a nuove forme di dinamiche e a nuovi diritti, spostando tutte le scelte al piano discrezionale dell’agire individuale5. Ora, malgrado siffatte consapevolezze, alla luce dell’aria globalizzante che si respira, e che scandisce i destini, i diritti sociali sono come la securizzante coperta di Linus: nessuno vuol fare senza. E, poiché rappresentano «strumenti di una strategia di inclusione all’interno di un assetto costituzionale pluralistico e di una società aperta, emerge l’esigenza di andare oltre la loro grammatica stringente, privilegiandone la dimensione procedurale, per farne una sorta di passe-partout tra esigenze sociali e sfera giuridica, un repertorio di opportunità disponibile ad essere reinventato, riempito di nuovi contenuti, reso esigibile nelle sedi istituzionali»6. In altri termini, è possibile, ancora, spulciando l’anima contenuta nei principi della democrazia pluralista, intercettare ganci e risorse in grado di fronteggiare la deriva dello Stato sociale. Malgrado la perdita di

2 C. Salazar, Dal riconoscimento alla garanzia dei diritti sociali. Orientamenti e tecniche decisorie della Corte costituzionale a confronto, Giappichelli, Torino 2000, pag. 23. 3 M. Paci, Nuovi lavori, nuovo welfare. Sicurezza e libertà nella società attiva, Il Mulino, Bologna 2007, p. 59. 4 S. Rodotà, Libertà e diritti in Italia dall’unità ai nostri giorni, Roma 1997, p. 131. 5 O. De Leonardis, L’onda lunga della soggettivazione: una sfida per il welfare pubblico, in Rivista delle Politiche Sociali, 2, 2006, pp. 13-38. 6 S. Rossi, Il mercato e i diritti sociali, in Atti del Convegno annuale dell’Associazione Gruppo di Pisa, I diritti sociali: dal riconoscimento alla garanzia. Il ruolo della Giurisprudenza, Trapani 2012, su www.gruppodipisa.it

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effettività di talune, forse molte, garanzie sociali contenute, emblematicamente, in Costituzione, nonché nelle Carte dei diritti sovranazionali, è necessario promuovere ulteriormente, riempiendolo di rinnovato valore, il carattere inclusivo delle funzioni tese all’accesso e alla realizzazione di un dignitoso percorso di benessere. Valorizzare l’inclusione è rendere ragione di quella pretesa universalistica che dalle previsioni normative costituzionali si promana, e che rappresentano, peraltro, il tema di riflessione delle pagine che seguono. Riflessione che avrà cura di focalizzare l’attenzione sullo statuto costituzionale dei diritti sociali, senza trascurare, da un lato, il riferimento al processo di modifica che, spostando a livello regionale una serie di materie fondamentali per l’attuazione del sistema di sicurezza sociale, ha generato una significativa frantumazione delle competenze con correlate difficoltà di garantire sistematicità degli interventi, azionati ai diversi livelli di azione di governo; e dall’altro, la triste consapevolezza di una crisi finanziaria che costringe a progressive riduzioni della spesa pubblica per i servizi sociali. La selezione della tematica non è senza ragione, naturalmente: il chiaro intento motivazionale ha l’obiettivo di rinnovare la memoria, ricordando che è compito prioritario della Repubblica impegnarsi per inverare dinamiche di giustizia sociale, capaci di eliminare le diseguaglianze, e di liberare dal bisogno i soggetti più deboli7. Le politiche pubbliche devono rispondere all’obiettivo di realizzare un ordine giusto, e tendere, per quanto possibile, alla eliminazione delle ingiustizie sociali; «bisogna perciò per lo meno porre le condizioni per cui i soggetti economicamente svantaggiati, cioè privi delle risorse necessarie per fruire delle possibilità di autorealizzazione personale teoricamente riconosciute a tutti, possano partecipare alla vita politica e sociale in condizioni di eguaglianza rispetto ai soggetti economicamente più fortunati»8. Giova insistere, sia pure in fase preliminare, e sottolineare che l’essenza della democrazia, la sintesi tra il principio di libertà e quello di eguaglianza, prevede, formalmente, la parità di accesso al godimento dei diritti e il divieto di discriminazione arbitrarie, e, sostanzialmente, l’obbligo per il legislatore di rimuovere quel muro che blocca le potenzialità di ciascuno e che rende irraggiungibile, quell’effettiva, e anelata, parità delle posizioni di partenza; parità percepita, e vissuta, ormai, come nostalgica chimera.

7 M. Ainis, I soggetti deboli nella giurisprudenza costituzionale, in Studi in onore di Leopoldo Elia, I, Giuffrè, Milano 1999. 8 A. Vitale, La fine della democrazia liberale, Aracne, Roma 2010, p. 304.

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| Diritti sociali e Costituzione |

1. L’ANIMA POLIEDRICA DEI DIRITTI SOCIALI: QUESTIONE DI CONNOTAZIONE. Il tema dei diritti sociali è, certo, problematico. Il diritto al lavoro, alla previdenza, ai trattamenti sanitari, all’assistenza e, con molte distinzioni, all’istruzione sono tenuti insieme da un anello fondamentale: la pretesa a ricevere prestazioni positive da parte dei pubblici poteri. Una pretesa che si affievolisce progressivamente alla luce di un evidente paradosso che, più o meno dispettosamente, collega l’espansione dei diritti sociali alla loro mancata attuazione per indisponibilità di risorse economiche. Di fatto, il quadro è tutt’altro che speranzoso se a delinearsi è un regresso dello prestazioni9, che schiaffeggia la tutela delle situazioni giuridiche dei singoli, e che indebolisce, sacrificandoli, proprio i diritti sociali10. Diritti deboli, subalterni, parziali, condizionati, di seconda o terza generazione. Diritti fondamentali. Qual è la natura dei diritti sociali? Come cambia la loro accezione semantica? C’è stato un tempo in cui non esistevano neanche; uno, in cui occupavano le retrovie, posizionandosi dietro; poi, finalmente, messi in carreggiata, si sono allineati ed equiparati agli altri11, fino a determinare quell’espansione che non riguarda più solo l’oggetto del diritto, ma che, attualmente, coinvolge gli stessi soggetti beneficiari: ormai i diritti sociali non riguardano solo i più deboli o svantaggiati, ma tutti i consociati12. Un processo di espansione dei diritti, in senso oggettivo e soggettivo, che pare coincidere con l’espansione dei diritti fondamentali tout court

13. L’interpretazione tradizionale, che poggiava su 9 D. Bifulco, I diritti sociali nella prospettiva della mondializzazione, in Democrazia e diritto, 4, 2005, pp. 207-220. 10 «Sono tornati i poveri: un mondo che sembrava scomparso grazie alla diffusione del benessere materiale, e con essi è tornato drammatico e ineludibile, il problema di come assicurare la tutela dei loro diritti primari». M. Ruotolo, La lotta alla povertà come dovere dei pubblici poteri. Alla ricerca dei fondamenti costituzionali del diritto ad un‟esistenza dignitosa, in Diritto pubblico, 2, 2011, pp. 391-424. 11 Il processo di riconoscimento e di implementazione dei diritti sociali in Europa è stato funzionale a realtà politiche piuttosto diverse fra loro: «I governi che hanno con maggior forza spinto in direzione del riconoscimento dei diritti sociali sono stati estremamente diversi sotto il profilo ideologico: in Germania l’assicurazione obbligatoria per tutti i lavoratori dell’industria, per gli invalidi e per gli anziani fu propugnata (sin dal 1881) e poi realizzata (con due leggi del 1884 e del 1889) dal conservatore Bismark; in Italia, le prime fondamentali realizzazioni furono opera di giovani conservatori (si pensi alla legge Crispi del 1890) e soprattutto dal regime fascista; in Inghilterra e in Francia, i massimi sforzi nella stessa direzione furono opera di governi a dominanza socialista; negli Stati Uniti d’America essenziale fu l’esperienza liberal-progressista, come quella di Roosevelt; e infine, non può essere trascurato il grande contributo dato nello stesso senso dai governanti dominati dai partiti cattolici, soprattutto in Germania, Italia, Belgio e Olanda», A. Baldassarre, Diritti della persona e valori costituzionali, Giappichelli, Torino 1997, p. 127. 12 A. Giorgis, Diritti sociali, in Dizionario di Diritto pubblico, a cura di S. Cassese, vol. III, Giuffrè, Milano 2006. 13 A. D’Aloia, Storie costituzionali dei diritti sociali, in AA.VV., Scritti in onore di Michele Scudiero, vol. II, Jovene editore, Napoli, 2008.

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un’idea classica secondo la quale i diritti sociali non godono della medesima forza giuridica e dello stesso grado di prescrittività dei diritti di libertà, ha influenzato il dibattito tra i costituzionalisti14; siffatta interpretazione ha trovato la sua principale giustificazione sul versante storico, non solo perché le due specie di diritti sembrano legate a due differenti ideologie politiche, il liberalismo e il socialismo, ma anche perché hanno trovato spazio negli ordinamenti giuridici occidentali in momenti storici diversi15. L’aver relegato i diritti sociali ad un gradino inferiore è stata, così, un’operazione legittimata, e giustificata, da una teoria, che caldeggiava la distinzione tra norme prescrittive (precettive) e norme programmatiche16, superata da una ormai quarantennale giurisprudenza costituzionale che concepisce i diritti sociali come valori fondanti degli ordinamenti liberaldemocratici contemporanei al pari dei diritti di libertà e di quelli politici. Con una differenza, che nel tempo, però, si è affievolita. «Contrariamente ai classici diritti di libertà dello stato liberale (libertà negative, o libertà dallo stato) e ai diritti politici (libertà positive o libertà nello stato), la categoria dei diritti sociali trae il proprio fondamento dalla necessità di assicurare prestazioni dei poteri pubblici uguali per tutti e tali da riequilibrare le posizioni dei singoli all’interno della società. In tal senso si può parlare di libertà attraverso lo stato»17. Se i tradizionali diritti individuali consistono in libertà, i diritti sociali, invece, consistono in poteri: le prime invocano la non ingerenza, l’obbligo di astenersi da certi comportamenti; i secondi si realizzano, al contrario, se vengono imposti ad altri una serie di obblighi positivi18. Diritti sociali come diritti di prestazione, correlati, dunque, alla gestione delle risorse finanziarie messe a disposizione mediante specifiche politiche di bilancio, e direttamente riconducibili all’organizzazione e all’efficienza degli apparati pubblici. L’attuazione e l’esercizio di questi diritti dipendono dall’esistenza di precise condizioni, o pre-condizioni, e potrebbero generare perplessità intorno alla loro natura, connotandola come condizionata; connotazione solo presunta giacché il mancato intervento pubblico, che potrebbe incidere sulle modalità di garanzia, non può metterne in discussione l’esistenza, 14 In particolare, P. Calamandrei, L’avvenire dei diritti di libertà, in Opere giuridiche, vol. III, Morano, Napoli 1968. 15 Per una breve storia dei diritti sociali, si veda B. Pezzini, La decisione sui diritti sociali, Giuffrè, Milano 2001. 16 V. Crisafulli, Le norme programmatiche della Costituzione, in Studi in memoria di Luigi Rossi, Giuffrè, Milano 1952. 17 A. Barbera, C. Fusaro, Corso di diritto costituzionale, Il Mulino, Bologna 2012, p. 225. 18 In questo senso Bobbio sostiene che un individuo abbia un diritto di libertà se ha il diritto che gli altri (anzitutto i poteri pubblici) si astengano dal tenere determinati comportamenti, e abbia invece un diritto sociale se ha il diritto che altri (anzitutto i poteri pubblici) tengano determinati comportamenti, ovvero gli forniscano determinate prestazioni. N. Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino 1990.

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posta, stabilita e prescritta in Costituzione. La richiesta di intervento del legislatore e l’utilizzo di risorse, che non rendono dissimili i diritti sociali dai tradizionali diritti di libertà, eventualmente disturbano la misura della loro tutela. Di fatto, e peraltro, «tutti i diritti fondamentali possono essere considerati come diritti di difesa e/o come diritti a prestazione, e/o come diritti di partecipazione, e/o come diritti di percepire un utile sociale»19; o, come si sostiene altrove, «tutti i diritti fondamentali sono insieme intergenerazionali, universali, indivisibili e interdipendenti»20. Non solo. La distinzione fra libertà positive e libertà negative, correlata all’altra distinzione tra dovere di astensione e dovere di intervento del potere pubblico «è ormai revocata in dubbio e l’intreccio fra i diversi tipi di diritti si incarna nelle costituzioni degli ordinamenti democratici con infinita varietà di forme»21. L’equivoco è nato dalla convinzione, piuttosto diffusa, secondo la quale la tutela delle libertà, chiedendo ai poteri pubblici essenzialmente l’astensione da qualsivoglia intervento, non comporti costi per la finanza pubblica, mentre i diritti, risultando necessario l’intervento pubblico, siano costosi. Convinzione aprioristica e priva di serio fondamento, come spesso è stato sottolineato dalla dottrina22. Insomma, la categoria specifica dei diritti sociali come diritti speciali non tiene più. E non è più sostenibile per un doppio ordine di ragioni: intanto perché tutti i diritti inviolabili sono sociali per l’evidente riverbero pluralista e relazionale che li caratterizza; poi, perché, a ben guardare, accanto ai diritti sociali, che richiedono prestazioni, si situano taluni diritti fondamentali classici (non sociali) che pure esigono interventi prestazionali. L’esistenza di diritti completamente negativi, che si risolvono in una pura richiesta di astensione, è un mito: tutti i diritti e tutte le libertà hanno bisogno di un’organizzazione pubblica e comportano dei costi23. Rafforzare le garanzie delle libertà, o quelle dei diritti,

19 C. Salazar, Dal riconoscimento alla garanzia dei diritti sociali. Orientamenti e tecniche decisorie della Corte costituzionale a confronto, op. cit., p. 10. 20 A. Spadaro, Dai diritti individuali ai doveri globali. La giustizia distributiva internazionale nell’età della globalizzazione, Soveria Mannelli, Catanzaro 2005, p. 98. 21 L. Torchia, Welfare, diritti sociali e federalismo, relazione al Convegno “Verso nuove forme di welfare”, Stresa 26-27 aprile 2002. 22 M. Luciani, Sui diritti sociali, in Studi in onore di Manlio Mazziotti di Celso, II, Cedam, Padova 1995. Ed ancora, Bin afferma «Se prendiamo le tipiche libertà “negative” - per esempio la libertà personale, la libertà di domicilio o la proprietà privata – vediamo che esse implicano ingenti interventi e “costi” pubblici. Quale garanzia avrebbe infatti l’integrità fisica degli individui senza un ingente (e costoso) apparato di pubblica sicurezza posto a protezione di essa o senza il complesso (e costoso) apparato giudiziario? (I) E cosa sarebbe la proprietà senza un apparato di protezione che tuteli, non solo attraverso strumenti di polizia, ma anche attraverso il servizio antincendi, la sistemazione delle acque, la protezione civile e la “garanzia” pubblica per le calamità naturali?», E. Bin, Diritti e fraintendimenti, in Ragion pratica, n. 14, 2000, pp. 15-25. 23 Questa la tesi di fondo del pamphlet di S. Holmes, C. R. Sunstein, The Costs of Rights – Why Liberty Depends on Taxes, New York – London 1999, tr. it. Il costo dei diritti, Il Mulino, Bologna 2000.

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resta solo una questione di scelta di politics fra differenti policy24 da attuare. E resta una scelta difficile da compiere alla luce di una paradossale proporzionalità tra espansione e in-attuazione pratica dei diritti: cresce l’elenco dei diritti, diminuiscono le risorse naturali ed economiche. Sul versante della dottrina, peraltro, è possibile identificare almeno tre posizioni circa il significato dei diritti sociali che, come s’intuisce, non vantano un’accezione univoca. Secondo un primo gruppo di autori, l’espressione “diritti sociali” fa riferimento soltanto a quei diritti che, decretando il principio di eguaglianza sostanziale, si riferiscono esclusivamente agli individui considerati economicamente e socialmente più deboli25. Altri studiosi, al contrario, utilizzano l’espressione “diritti sociali” per riferirsi a quelle disposizioni costituzionali che enumerano i principi identificativi di obiettivi pubblici da perseguire in relazione a beni precisi (lavoro, salute, istruzione, benessere sociale), e che creano diritti soggettivi per tutti, a prescindere dalle condizioni personali, economiche e sociali26. Infine, un terzo gruppo di studiosi, nell’espressione “diritti sociali”, include, oltre ai diritti degli individui deboli e ai diritti che conferiscono a tutti gli individui quei servizi e quei beni ritenuti essenziali per garantire la dinamica della dignità umana, anche tutti quei diritti che consentono ad ognuno di continuare la propria naturale inclinazione a costruire e consolidare relazioni sociali27. Ora, per connotare con maggiore precisione quale diritto sia definibile sociale, naturalmente, non sono sufficienti le indicazioni contenute nelle teorie, che restano parziali; peraltro, il compito appare arduo e problematico anche per due ulteriori ragioni: da una parte, la Costituzione non identifica ciascun diritto come sociale, politico o civile, dall’altra, gli studiosi non convergono su una comune classificazione. La denotazione “diritti sociali”, come emerso, crea non pochi problemi28, perché l’espressione fa riferimento ad una eterogeneità situazionale piuttosto ampia che, al suo interno, prevede ulteriori distinzioni; nell’insieme dei

25 P. Caretti, I diritti fondamentali: libertà e diritti sociali, Giappichelli, Torino 2002; T. Martines, Diritto costituzionale, Giuffrè, Milano 1988. 26 B. Pezzini, La decisione sui diritti sociali, cit. 27 Di questo avviso, A. Baldassarre, Diritti della persona e valori costituzionali, cit..; C. Salazar, Dal riconoscimento alla garanzia dei diritti sociali. Orientamenti e tecniche decisorie della Corte costituzionale a confronto, cit; A. D’Aloya, Eguaglianza sostanziale e diritto diseguale, Cedam, Padova 2002. 28 «Per la verità, l’espressione diritti sociali – ora esplicitamente presente negli artt. 117, IIc., lett. m, e 120, II c., Cost. – non è particolarmente felice, esattamente al pari, del resto, di quella di Stato sociale: si tratta di formule linguistiche ricche di fascino storico, ma formalmente tautologiche, che rischiano di restare vuote. Infatti, come l’idea di uno Stato “non sociale” non avrebbe senso, così anche l’idea di diritti – individuali o collettivi che siano – che non abbiano un’inevitabile e diretta incidenza “sociale”, e dunque che non siano sociali, in fondo è un non senso», A. Spadaro, I diritti sociali di fronte alla crisi, in AIC, n. 4, 2001.

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diritti sociali, infatti, sono inclusi diritti piuttosto diversi (quanto a struttura) e ai quali, difficilmente, possono essere attribuiti gli stessi caratteri rilevanti29. Si differenziano, in questo senso, fra quelli necessari a garantire il pacifico esercizio, o ad assicurare la tutela dei diritti di libertà, e quelli che, non essendo collegati a diritti di libertà, sono piuttosto «rivolti alla soddisfazione degli svariati bisogni della persona; questi ultimi, a loro volta, andrebbero distinti a seconda del riconoscimento operato dalla carta costituzionale»30. Un riconoscimento che, però, consente di assegnare anche ai diritti sociali quella molteplicità dimensionale, che è specifica dei diritti costituzionali delle democrazie pluralistiche e che riflette gli assetti, anch’essi pluridimensionali, della società aperta31. Già, perché è nelle costituzioni di democrazia pluralistica che rinveniamo l’inserimento dei diritti sociali, avvenuto secondo due diverse linee di sviluppo: da una parte, sono previsti in termini di azioni da implementare (compiti o programmi)32, dall’altra, sono inseriti nel catalogo dei diritti del cittadino, e individuano una sfera giuridica del singolo immediatamente tutelabile, come nel caso del nostro Paese, la cui Costituzione individua, fin dalle prime battute, i principi fondanti dell’ordinamento, il ruolo e la tutela della persona e i diritti inviolabili del singolo. La nostra è una democrazia pluralistica in cui sono riconosciuti i diritti inviolabili del singolo, la pari dignità sociale di ogni individuo, ed in cui il principio di uguaglianza sostanziale ha lo scopo del pieno sviluppo della personalità umana33. Peraltro, creare le condizioni minime di uno Stato sociale, «concorrere a garantire al maggior numero di cittadini possibile un fondamentale diritto sociale, contribuire a che la vita di ogni persona rifletta ogni giorno e sotto ogni aspetto l’immagine universale della dignità umana, sono compiti cui lo Stato non può abdicare in nessun caso”34. Ora, malgrado la consapevolezza che la concezione dei diritti sia sempre il frutto di scelte condizionate dalla cultura del tempo, resta invariata la connotazione universalistica delle garanzie che la Costituzione e le varie Carte europee ed internazionali prescrivono in ordine ai diritti fondamentali, compresi quelli sociali. E resta altrettanto indiscutibile l’assioma dell’universalità dei diritti

29 E. Diciotti, Stato di diritto e diritti sociali, in Diritto & Questioni pubbliche, n. 4, 2004, pp. 49-79. 30 F. Politi, I diritti sociali, in R. Nania, P. Ridola, I diritti costituzionali, vol. III, Giappichelli, Torino 2006, p. 1019. 31 P. Ridola, Diritti di libertà e costituzionalismo, Giappichelli, Torino 1999. 32 In questo caso, le relative norme costituzionali non pongono, o non porrebbero, una sfera giuridica del singolo immediatamente tutelabile. Citiamo, quale esemplificazione al riguardo, la Costituzione di Weimar ed anche la Costituzione di Bonn, che non contiene un elenco dei diritti sociali, ma che pone solo il principio dello “Stato sociale di diritto”. Cfr. F. Politi, I diritti sociali, cit. 33 Ibidem. 34 Così l’ultima frase dell’ultimo punto del considerato in diritto della sentenza n. 217 del 1988 della Corte Costituzionale.

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fondamentali nel modello della democrazia costituzionale35. E se alcuni diritti sono suscettivi di apparire sterili sovrastrutture, o, in casi più estremi, la loro piena ed effettiva tutela può essere vissuta come ingenua utopia, occorre leggere tale universalità alla luce della autocomprensione dei titolari dei diritti medesimi, a cui «deve essere riconosciuto un ruolo decisivo nella dimensione della democrazia costituzionale»36. Certo, quando si passa dal piano dell’astrattezza a quello della concretezza delle previsioni normative, s’impatta una realtà desolante, quella della scarsità delle risorse finanziarie necessarie per garantirne l’esercizio. Giova, tuttavia, sottolineare che l’onerosità non rappresenta un tratto esclusivo dei diritti sociali e che tutti diritti, sia pure in misura diversa, costano, e che, in ultima analisi, la crisi economica in atto non può, e non deve, giustificare il processo di ridimensionamento del Welfare State, le cui limitazioni in termini di servizi e prestazioni sono, probabilmente, motivate anche da una crisi di quel modello culturale che ne aveva ispirato la nascita e lo sviluppo37. La crisi è profonda e complessa perché poliedrica: una crisi di forme e di sostanza, di strumenti e di obiettivi, di principi organizzativi non sempre negoziabili e di principi costituzionali inderogabili; una destrutturazione di uno Stato costituzionale che «assume la dignità dell’uomo come suo punto di partenza storico-culturale, fissando una scala di principi supremi come base della dignità della persona e come linea direttrice del proprio sviluppo. I diritti sociali, principi e fine dello Stato sociale, si qualificano in tale ottica come diritti costituzionalmente protetti pur registrando tutti i limiti del condizionamento finanziario»38. Così, quale impulso è possibile dare all’attuazione dei diritti sociali riconosciuti in Costituzione, in una fase, quella attuale, in cui rischiano di fatto una sospensione? Il Welfare è un lusso, che in tempi di crisi si deve contenere, o è una risposta per meglio fronteggiare i grigiori temporali ed uscirne, potenziando equità ed eguaglianza39? Riteniamo possibile recuperare, nei principi della democrazia pluralista, strade ulteriori di riflessione che, una volta intraprese, porterebbero ad esiti diversi da quelli mortificanti derivanti dall’ipotesi di 35 L’espressione “universalità dei diritti fondamentali” non va intesa in senso oggettivo, vale a dire quale loro riconoscimento in ogni parte del globo e da qualunque ordinamento, bensì in senso soggettivo, come riconoscimento dei diritti in parola da parte di certi ordinamenti a tutti gli individui. 36 P. Häberle, Le libertà fondamentali nello Stato costituzionale, a cura di P. Ridola, Nis, Roma 1993; ID., Cultura dei diritti e diritti della cultura nello spazio costituzionale europeo. Saggi, Giuffrè, Milano 2003. 37 «Lo Stato sociale è sorto come risoluzione politica di problemi pratici di dimensioni immani, costituendo una precisa risposta politico-costituzionale alla crescente e obiettiva insicurezza sociale», A. Baldassarre, Diritti della persona e valori costituzionali, cit., p. 125. 38 S. Gambino, Stato e diritti sociali fra Costituzioni nazionali e Unione europea, Liguori, Napoli 2009. 39 M. Campedelli, P. Carrozza, L. Pepino, Introduzione al volume Diritto di welfare. Manuale di cittadinanza e istituzioni sociali, Il Mulino, Bologna 2010, p. 19.

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dissoluzione definitiva dello Stato sociale; talune previsioni normative costituzionali, come vedremo, impongono ai poteri pubblici di organizzare il proprio set di azioni in vista della massima inclusione possibile nel godimento dei diritti fondamentali, compresi quelli sociali. Già, perché la condizione di esercizio di taluni diritti invoca proprio l’inclusione dell’altro40. Cerchiamo di capire. 2. VARIETÀ SOVRANAZIONALE E RICONOSCIMENTO COMUNITARIO.

I diritti sociali hanno un fondamento costituzionale. Ebbene, si tratta di individuare, ora, la natura, la tipologia e l’intensità del loro riconoscimento da parte del legislatore ordinario e costituzionale, nonché le forme e l’effettività della relativa protezione giurisdizionale. E si tratta, altresì, di fare un breve cenno al costituzionalismo europeo del secondo dopoguerra, che positivizza uno stretto rapporto fra la concezione progressiva della democrazia, il modello di Stato e i diritti fondamentali; rapporto che, diversamente da quanto sancito dal costituzionalismo liberale, si fonda su un’inedita concezione dell’idea di libertà, ora integrata con quella di eguaglianza, e su un’estensione delle situazioni giuridicamente protette. «Non più solo l’eguaglianza che proviene dalla tradizione classica, che vede come intollerabili le discriminazioni fondate sulle differenze di sesso, di religione e di razza, bensì un concetto di eguaglianza che ritiene inaccettabili le differenze che si fondano sul rapporto economico e sociale, ritenendo intollerabili le differenze fondate sulla capacità di reddito. Unitamente a quelli classici di libertà, in tale concezione, i diritti sociali sono assunti come condizioni costitutive, indefettibili, del principio costituzionale di eguaglianza e, al contempo, del valore della persona»41. È opera del costituzionalismo successivo alla seconda guerra mondiale, dunque, l’affermazione di nuove tipologie di diritti fondamentali fondate sulla stretta integrazione fra la nozione di libertà e quella di eguaglianza; ed è in questa scenografia plurale che si diffondono i principi di giustizia sociale che dilatano il catalogo liberale inserendo la significativa «libertà dal bisogno»42. Nelle Costituzioni, ora, si collocano i diritti, che cessano di essere una regola posta dal legislatore e diventano pretese soggettive assolute, che addirittura precedono lo Stato, limitandolo nell’esercizio concreto del suo potere al loro rispetto. Analizzando fino in fondo, per cogliere le sfumature e carpire l’intensità del riconoscimento costituzionale dei diritti scoiali, scopriamo, in chiave comparata 40 Una riflessione compiuta e sistematica sul concetto di “inclusione” è contenuta in J. Habermas, L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica, Feltrinelli, Milano 1998. 41 S. Gambino, I diritti sociali fra Costituzioni nazionali e costituzionalismo europeo, su www.federalismo.it, 2012. 42 M. Dogliani, Interpretazioni della Costituzione, Franco Angeli, Milano, 1982, p. 316.

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ben tre modelli, che disegnano una parabola: dal modello liberal-democratico classico, ove non si rinviene la positivizzazione dei diritti sociali, a Costituzioni nelle quali sono mere disposizioni programmatiche, direttive rivolte ai pubblici poteri ma di scarso valore cogente43, fino a testi costituzionali «che a partire da una integrazione costituzionale del principio di eguaglianza formale e di eguaglianza sostanziale, prevedono tanto princìpi fondamentali quanto disposizioni di dettaglio relative alle singole situazioni giuridiche in favore dei soggetti ‘deboli’»44. Nel terzo modello rientrano il nostro ordinamento, e quelli tedesco, spagnolo e portoghese; in particolare, nel nostro ed in quello spagnolo, si registra un ampio e sistematico riconoscimento dei diritti sociali la cui relativa tutela è quella propria dei diritti costituzionali, e non già di quelli meramente legali45. La disamina comparatistica a livello europeo fa registrare, ancora, l’assenza di un concetto condiviso in materia di connotazione e protezione dei diritti sociali: ciò che rileva è, fondamentalmente, la diversa previsione costituzionale, le differenti valutazioni interpretative e l’eterogenea portata giuridica di questi diritti. Osservando il loro statuto costituzionale o semplicemente legislativo, emerge come, nella maggior parte delle costituzioni dei Paesi europei, siano incorporati in un catalogo presente nelle disposizioni costituzionali che riconoscono e proteggono i diritti fondamentali classici, e solo in rari casi, essendo esclusi dall’elenco dei diritti fondamentali, sono rubricati in altro e differente modo. E certo, nelle esperienze costituzionali europee del secondo dopoguerra, si fa strada quella decisiva evoluzione (il passaggio dal costituzionalismo liberale a quello sociale) che, da un lato, ha trasformato i rapporti tra gli individui e lo Stato e, dall’altro, ha disegnato una nuova idea di libertà, di eguaglianza e di democrazia. Malgrado la tendenza del costituzionalismo evoluto a prevedere i diritti sociali come condizione costitutiva del principio di eguaglianza46, non è possibile individuare tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri dell’Unione nella materia dei diritti sociali. Anzi, è plausibile l’opzione opposta, ossia il riconoscimento di modelli

43 G. Corso, I diritti sociali nella Costituzione italiana, cit. 44 S. Gambino, Diritti sociali e l’Unione europea, in La cittadinanza europea, n. 1-2, 2008, p. 15. 45 Certo, in dottrina si sottolinea come, a ben vedere, le forme giurisdizionali della relativa tutela non sono quelle apprestate ai diritti soggettivi (con la forza propria della tutela risarcitoria e di quella inibitoria nei confronti di atti lesivi degli tessi) ma quella degli interessi legittimi, dal momento che fra il loro concreto esercizio e la previsione legale opera un facere amministrativo, che coinvolge la pubblica amministrazione con la sua supremazia speciale. Un approccio, quest’ultimo, destinato ad essere radicalmente riconsiderato alla luce dei principi comunitari ma soprattutto della sentenza n. 500/1999 della Corte di cassazione in tema di risarcibilità degli interessi legittimi 45 A. Cerri, Uguaglianza (principio costituzionale di), in Enciclopledia Giuridica, Treccani, Roma 2005.

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differenziati di positivizzazione di tali diritti o attraverso previsioni specifiche di disposizioni costituzionali, o all’interno delle legislazioni nazionali. Una diversa riflessione merita la lentissima emersione dei diritti sociali nel diritto primario europeo, la relativa collocazione all’interno del processo di integrazione europea, e la loro positivizzazione nella Carta dei diritti fondamentali47. Ebbene, quando si avvia, quel processo integrazione ha solo finalità economiche, di sostegno alla formazione e allo sviluppo di un mercato comune, non presenta traccia alcuna di implementazione del tasso di socialità e ad essere perseguito, quale obiettivo prioritario, è, fondamentalmente, l’abbattimento di quelle «disparità di trattamento (che fossero) suscettibili di ostacolare il buon funzionamento del mercato»48. Fin dall’esordio, quindi, il Trattato di Roma, firmato nel 1957, suggeriva di riscoprire le virtù della libertà del mercato, denigrando la cultura dell’intervento pubblico in economia. Nel 1986, il rilancio dell’integrazione economica rinforza l’idea del primato di un ordine giuridico superiore, il diritto della libera concorrenza, «che purifica l’attività umana da interventi malsani: l’Atto unico riduce la norma sociale a nozione di regola minimale, che non deve turbare l’attività delle imprese»49. E, poiché il perno dell’assetto normativo comunitario è rappresentato dall’ordine economico del mercato, «l’esercizio dei diritti fondamentali è sì meritevole di tutela, ma solo se conforme ai principi e alle istanze dell’economia di mercato»50. Non a caso, i trattati elaborati successivamente non fanno che subordinare le regole sociali all’ordine economico competitivo: possono essere complementari a questo se, e solo se, contribuiscono al buon funzionamento del mercato; in caso contrario, saranno concepite come pastoie da sopprimere51.

47 Nell’ordinamento comunitario i diritti sociali sono stati prima ignorati - quando, all’inizio (1951-1957), esistevano solo le quattro classiche libertà economiche (libera circolazione dei capitali, delle merci, delle persone e dei servizi) – e poi, riconosciuti molto lentamente e solo per gradi: dall’Atto Unico europeo del 1986, al Trattato di Maastricht del 1992 (cittadinanza dell’Unione), al Trattato di Amsterdam del 1997, fino alla Carta di Nizza del 2001 (con la sua importante parte sociale) e adesso al Trattato di Lisbona del 2007, che recepisce la dichiarazione di Nizza, la cui giuridicità è finalmente indubbia, e rinvia anche alla CEDU, ma che – salvo un cenno (art. 151 TFUE) – ignora completamente la Carta Sociale Europea. A. Spadaro, I diritti sociali di fronte alla crisi, cit. 48 F. Carinci, A. Pizzolato, Costituzione europea e diritti sociali fondamentali, in Lavoro e Diritto, n. 2, 2000, p. 286. 49 A. Iacovino, Modello sociale europeo e metodo aperto di coordinamento. Governance by persuasion?, in A. Iacovino, L. Lemmo, F. Marino (a cura di), Il servizio sociale r-innovato. Quale cambio di scena?, Edisud, Salerno 2008, p. 55. 50 C. De Fiores, Il fallimento della Costituzione europea. Note a margine del Trattato di Lisbona, su www.costituzionalismo.it 51 Nel 1992, il Trattato di Maastricht situa la politica sociale al servizio della competitività delle imprese, e nel 1993, il Libro bianco della Commissione presieduta da Delors (Crescita, competitività, impiego) fa della politica dell’impiego il vettore di riforme profonde del mercato del lavoro e dei sistemi di sicurezza sociale, riforme destinate a rinforzare, però, la competitività.

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Finalmente, dalla metà degli anni Novanta in poi, il silenzio s’interrompe. Sono i trattati di Amsterdam e di Nizza a dare voce e parole e programmi: «il legislatore europeo si fa carico di positivizzare un simile indirizzo giurisprudenziale, approdando, sia pure nell’ambito della previsione di una ‘politica sociale europea’, alla ‘presa d’atto’ della esistenza di diritti sociali, sia pure per come definiti nella Carta sociale europea (1961) e nella Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori (1989). Può dirsi, così, che probabilmente i primi costituenti europei hanno manifestato una fiducia eccessiva sul ruolo autopropulsivo del mercato e sulla relativa capacità di creare condizioni sociali adeguate nella direzione della coesione e della integrazione sociale ed economica»52. In seguito ai trattati di Lisbona, si positivizzano i diritti fondamentali classici mediante le previsioni contenute nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, mediante le garanzie dei diritti fondamentali contemplate dalla Cedu, e, infine, attraverso la garanzia dei diritti previsti dalle singole disposizioni in materia presenti nei trattati europei. I cataloghi europei dei diritti fondamentali, però, non coincidono con i cataloghi presenti nelle costituzioni nazionali, e, peraltro, nella Carta europea mancano principi in grado di porsi come criterio ermeneutico da seguire nei casi di bilanciamento fra le diverse protezioni previste in materia di diritti fondamentali. Peraltro, sconnessi dalla storia nazionale, i diritti sociali perdono la legittimità che conferisce loro la memoria collettiva di ogni società e la diversità delle pratiche ad essi collegate esclude qualsivoglia armonizzazione legislativa: «ogni paese ha le sue tradizioni. È inutile provare ad unificare i nostri sistemi sociali»53. Ne deriva, nostro malgrado, che nonostante il nuovo ed ampio spazio riconosciuto ai diritti sociali, le disposizioni delineano ancora una debole forma di protezione degli stessi, anche se l’art. 151 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) prevede che «l’Unione e gli Stati membri, tenuti presenti i diritti sociali fondamentali, quali quelli definiti nella Carta sociale europea firmata a Torino il 18 ottobre 1961 e nella Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori del 1989, hanno come obiettivo la promozione della occupazione, il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, che consenta la loro parificazione nel progresso, una protezione sociale adeguata, il dialogo sociale, lo sviluppo delle risorse umane atto a consentire un livello occupazionale elevato e duraturo e la lotta contro la emarginazione». In altri termini, si sottomettono le dimensioni sociali alle esigenze della competitività, e si concepiscono come fattori di produzione più che come strumenti di inclusione. È evidente, prepotentemente, il margine di sconnessione

52 S. Gambino, I diritti sociali fra Costituzioni nazionali e costituzionalismo europeo, cit. 53 P. C. Gobin, Les faussaires de l’Europe sociale, in Le Monde diplomatique, ottobre 2005.

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tra il modo di intendere il sistema dei diritti in sede comunitaria e la tradizione del costituzionalismo novecentesco; «nelle costituzioni contemporanee la tutela dei diritti opera quale limite insormontabile nei confronti dell’attività d’indirizzo politico, e nei confronti delle pulsioni del mercato. Nell’ordinamento comunitario accade esattamente il contrario: è l’intero assetto ordinamentale ad essere funzionalizzato alle esigenze dell’economia di mercato»54. Restano non poche perplessità allora. Tra queste, centrale pare quella che attiene alla natura ed ai corrispondenti contenuti normativi dei principi fondamentali, ossia se esiste o meno un raccordo fra principio di eguaglianza formale e principio di eguaglianza sostanziale, come avviene all’interno delle tradizioni costituzionali comuni più avanzate degli Stati membri dell’Unione europea55. Ed, inoltre, ci si chiede se i diritti sociali comunitari, così come individuati nella Carta dei diritti e delle libertà, facciano proprio il principio di eguaglianza, concepito come divieto di discriminazione fra gli individui, o se trascurino l’accezione sostanziale della eguaglianza, posta alla base del costituzionalismo europeo del secondo dopoguerra56. 3. L’ABITO COSTITUZIONALE TRA ELEGANZA FORMALE E LOOK SOSTANZIALE. Il nostro Paese offre un suggestivo, e completo oltremodo, catalogo di diritti sociali. Senza esitazione alcuna, siamo in grado di valutare la Costituzione italiana come unica ed esemplare, relativamente alla raffinata e sofisticata formulazione di diritti sociali che contempla al suo interno: tratti ineludibili del modello democratico - che ha ispirato guidato l’opera dei costituenti - i concetti di libertà e di dignità personale concepiscono e connotano il cittadino in termini di persona sociale57. La nostra è una Costituzione che assicura immediata tutela alle situazioni giuridiche soggettive in essa elencati; il profilo individuale dei diritti sociali rende immediatamente tutelabili gli stessi e depotenzia la ormai superata argomentazione relativa alla necessaria interpositio legislatoris. Lungi dall’esser relegati ad una posizione di subalternità, o status di minoranza, i diritti sociali si situano sul medesimo appiglio costituzionale dei diritti civili e politici, tipici dello Stato liberale e, tradizionalmente, ritenuti più importanti. Naturalmente, le disposizioni che fondano e garantiscono i diritti sociali si ritrovano nei principi fondamentali e nella parte prima della Costituzione,

54 A. Iacovino, Modello sociale europeo e metodo aperto di coordinamento, cit., p. 56. 55 C. Azzariti, Le garanzie del lavoro tra costituzioni nazionali, Carta dei diritti e Corte di Giustizia dell’Unione Europea, in www.europeanrights.eu., 2011. 56 O. Pollicino, Di cosa parliamo quando parliamo di uguaglianza? Un tentativo di problematizzazione del dibattito interno alla luce dell’esperienza sopranazionale, in www.forumcostituzionale.it., 2005. 57 C. Salazar, Dal riconoscimento alla garanzia dei diritti sociali. Orientamenti e tecniche decisorie della Corte costituzionale un confronto, Torino, 2000.

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relativa ai diritti e ai doveri dei cittadini, ove accanto alle libertà, vi sono principi e norme di indubbia valenza sociale. Sociali, sia pure diversi fra loro, sono anche gli ambiti menzionati, quali la famiglia, il lavoro, l’istruzione, la salute, la previdenza, l’assistenza, le assicurazioni, rispetto ai quali lo Stato si atteggia differentemente: a volte tutela, altre riconosce o agevola, altre ancora promuove; in altri casi, deve mettere in campo le condizioni di possibilità per l’esigibilità dei diritti, insieme ad una rete di interventi legislativi . È certa, però, la derivazione dei diritti sociali dal principio di eguaglianza, sostenuta e condivisa da parte di autorevole dottrina per la quale esistono dei contenuti materiali che legano le varie norme e i vari principi dell’ordinamento in un’unica tensione verso la giustizia58; altrove, è stato osservato che «l’uguaglianza fra gli uomini non è un effetto o una qualità della legislazione, posto che se gli uomini non sono uguali o tali non si considerano prima delle leggi, non potranno esserlo dopo che le leggi siano state fatte e manifestino il loro vigore positivo»59. Esiste, così, un nesso imprescindibile tra libertà ed eguaglianza, fatto proprio dalla Costituzione: i diritti di libertà e i diritti sociali delineano la posizione centrale dell’uomo nell’impalcatura costituzionale, il cui obiettivo primario è, sostanzialmente, quello di garantire una eguale libertà60. Ne deriva che i diritti sociali, che non sono in competizione con i diritti di libertà, s’intersecano con questi e sostanziano un disegno organico fondato sulla dignità umana61. Ora, l’idea di uomo, contenuta nel nostro testo costituzionale, che è inequivocabilmente democratica e pluralistica, consente, nel suo concepire l’essere umano come individuo e come persona sociale, di unificare libertà e diritti sociali. Questo approccio è chiaramente riflesso, nell’art. 3, secondo comma, della Costituzione ove si afferma che è compito della Repubblica

rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la

libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona

umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione

politica, economica e sociale del Paese. Ulteriore e fondamentale articolo, che fornisce ai diritti sociali una base costituzionale è quello (art. 2, Cost.) in cui si afferma che La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo,

sia come singolo sia nella formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e

58 F. Modugno, Scritti sull’interpretazione costituzionale, Editoriale Scientifica, Napoli 2008. 59 G. Berti, Immagini e suggestioni del principio di uguaglianza, in Scritti in memoria di L. Paladin, Jovene, Napoli 2004, p. 184. 60 A. D’Aloia, Introduzione. I diritti come immagini in movimento: tra norma e cultura costituzionale, in A. D’Aloia (a cura di), Diritti e Costituzione. Profili evolutivi e dimensioni inedite, Giuffrè, Milano 2003. 61 F. Pergolesi, Alcuni lineamenti dei diritti sociali, Giuffrè, Milano 1953; C. Rossano, Il principio di’eguaglianza nell’ordinamento costituzionale, Giuffrè, Milano 1966; B. Caravita, Oltre l’eguaglianza formale, Cedam, Padova 1984; D. Bifulco, L’inviolabilità dei diritti sociali, Jovene, Napoli 2003; P. Caretti, I diritti fondamentali. Libertà e diritti sociali, Giappichelli, Torino 2005.

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richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica,

economica e sociale. Facendo esplicito riferimento ai diritti inviolabili della persona, fornisce, in combinato disposto con l’art. 3, secondo comma, il contenuto normativo del cosiddetto principio di dignità a cui la Costituzione si riferisce espressamente nell’art. 3, primo comma, che recita come segue: Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza

distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di

condizioni personali e sociali. L’art. 3, primo comma, connota il principio di eguaglianza formale, in maniera opposta a quanto delineato dal secondo comma che, invece, configura l’eguaglianza sostanziale, quasi come un retaggio dello Stato liberale. Malgrado l’origine, l’esplicito riferimento alla dignità sociale proietta questo articolo, e l’intera Costituzione, nel nuovo ordine legale democratico creato in Italia al termine del secondo conflitto mondiale. Invero, combinando il principio liberale di eguaglianza formale con quello della dignità umana e, prescrivendo precise proibizioni di discriminazione, «conferisce al principio di eguaglianza un senso normativo che non aveva mai posseduto prima»62. La Costituzione italiana, quale risultato dei lavori dell’Assemblea costituente, è concepita come una sorta di compromesso63, «molto attenta alle contingenze dell’oggi e del giorno dopo, ma non dotata di preveggenza»64; lungo questa linea interpretativa, per oltre un ventennio dall’entrata in vigore, la maggior parte della dottrina ha valutato il secondo comma dell’art. 2, Cost., come ridondante e ripetitivo del primo comma dello stesso articolo, evitando lo sforzo di sviluppare un’autonoma interpretazione. In questo senso, il comma ripetitivo è stato concepito come norma in bianco, priva di un significato normativo diverso da quello già contenuto nel primo; una versione grata alla impostazione liberale e tradizionale che «vedeva nello Stato soltanto il difensore dell’eguaglianza formale»65. Il punto saliente, a questo punto, e al di là del dibattito dottrinale, è che l’articolo 3, comma 2, presenta ai suoi lettori una frase ricca sotto il profilo semantico, «di alto valore linguistico»66, che riassume il vero significato del principio di uguaglianza in una società democratica. Quel secondo comma dell’articolo 3 della nostra Costituzione è fondamentalmente rilevante alla luce

62 A. Baldassarre, Diritti della persona e valori costituzionali, cit., p. 123. 63 «Il sistema politico che dà vita alla Costituzione si basa su di un compromesso tra i contrastanti valori delle diverse culture: precisamente, in Italia, compromesso tra i principi del costituzionalismo liberale, il solidarismo cattolico e i programmi del costruttivismo sociale della Costituzione sovietica del 1936», A. Vitale, Diritto Pubblico, Plectica, Salerno 2008, p. 21. 64 P. Calamandrei, Chiarezza della Costituzione, Tipografia della Camera dei deputati, Roma 1947, p. 8. 65 C. Rossano, L’uguaglianza giuridica nell’ordinamento costituzionale, Jiovene, Napoli 1966, p. 417. 66 T. De Mauro, Il linguaggio della Costituzione. Introduzione alla Costituzione della Repubblica italiana, Utet, Torino 2006, p. IX.

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della nostra riflessione, perché contribuisce a guidare l’azione del legislatore quando deve procedere e legiferare su questioni che chiamano in causa proprio i diritti sociali. L’articolo 3, Cost., diventa, così, la meta principale da perseguire e realizzare, ossia una società ove ogni cittadino abbia pari dignità sociale, e nella quale a ciascuno siano garantite le stesse chances di sviluppo della propria personalità, malgrado i differenti punti di partenza. Gli articoli 2 e 3 sono sintomatici del compromesso politico dal quale discende la nostra stessa Costituzione: nel decretare una norma sul principio fondamentale della dignità umana, i Costituenti ben comprendevano la modifica innervata, ed il passaggio dallo Stato liberale a quello democratico; vieppiù, il concetto di dignità umana è connesso con quello della libertà positiva (libertà di) e con l’affermazione delle condizioni sociali necessarie per consentire a ciascuno di esperire pienamente una vita dignitosa. Nel nuovo testo costituzionale, accanto all’individuo della tradizione liberale, che gode delle libertà negative (e deve essere libero da), si rinviene un uomo relazionale, che appartiene ad una società, e che, anzi, ne è parte costitutiva. Una volta che il principio della dignità umana è interpretato alla luce del concetto di “persona sociale”, sia dal punto di vista etico-spirituale che da quello di individuo immerso nell’esistenza sociale e concreta, questo uomo diventa il punto di riferimento dei diritti civili, politici e sociali. Ciò significa che il principio della dignità umana, racchiuso quasi come reliquia nella Costituzione italiana, aspira a proteggere anche dalla privazione materiale e, perciò, costituisce la pietra angolare essenziale dei diritti sociali e del corrispondente dovere dello Stato ad agire per rimuovere gli ostacoli e le diseguaglianze. Ora, malgrado queste gloriose intenzioni, la storia dei diritti sociali in Italia è problematica, difficile, e come abbiamo visto, piena di lividi. Nonostante le varie attribuzioni teoriche, possiamo rintracciare un sostanziale accordo sul fatto che le disposizioni normative che riguardano i diritti sociali sono presenti all’interno del testo costituzionale intanto. Di particolare attinenza sono i primi quattro articoli, che offrono uno sfondo concettuale generale che funge da confronto con la distribuzione di articoli più particolareggiata che caratterizza una specifica sezione della Costituzione (Parte prima, Titolo II e III, artt. 29 – 47). Vediamo nel dettaglio. Il diritto al lavoro rappresenta la pietra angolare dell’intera architettura della Costituzione, che all’art. 1 afferma solennemente L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro; siamo di fronte al primo e fondamentale dei diritti sociali, non solo per la sua collocazione nel testo costituzionale, ma anche e soprattutto perché il lavoro consente di accedere a percorsi di vita dignitosi e rappresenta, altresì, l’opportunità per una piena inclusione dell’individuo e dei

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membri della sua famiglia67. Leggendo l’art. 1 in combinato disposto con l’art. 4, capiamo a fondo la centralità del principio lavorista, perché emerge ancor più evidentemente l’importanza del lavoro come principale pietra angolare della Repubblica italiana: in particolare, l’art. 4, comma 1, ove si afferma che La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le

condizioni che rendano effettivo questo diritto. La Costituzione riconosce letteralmente un diritto a lavorare. Il riconoscimento colpisce nella misura in cui, concretamente, e sempre più spesso, l’opportunità di lavorare è sempre meno a portata di mano. Allora bisogna leggere meglio per capire le volontà costituzionali. La maggior parte degli studiosi concorda su una precisa linea interpretativa: la Repubblica non attribuisce un lavoro ad ogni cittadino, ma riconosce soltanto, ed in modo astratto, il diritto ad un lavoro. Una valutazione affidabile ed autorevole68 motiva la scelta, effettuata dal Costituente, di usare il termine diritto per sottolineare l’esigenza costituzionale, morale e civile della Repubblica, creata di recente, di offrire a tutti i suoi cittadini la reale opportunità di avere accesso ad un lavoro. Ne deriva così che questo diritto sociale non può invocare l’intervento del giudice, se disatteso, ma affidarsi unicamente al giudizio politico dei cittadini, particolarmente quando vestono i panni di elettori. La diposizione contenuta nell’art. 4 «ha natura precettiva ma poiché richiede l’intervento, a tutti i livelli, dei pubblici poteri per rendere effettivo il diritto al lavoro, è anche una norma promozionale, la quale vincola i pubblici poteri a perseguire una politica di piena o maggiore occupazione»69. In altri termini, l’art. 4 pone un obiettivo raggiungibile solo attraverso il coinvolgimento, e l’intervento, dei pubblici poteri che hanno il compito di creare le condizioni per il suo conseguimento. Non conferendo un diritto al posto di lavoro, tutelabile in forma di diritto soggettivo, questo diritto ha solo un valore politico70. Il contenuto dell’art. 4, Cost., ha duplice connotazione: prevede, al primo comma, un diritto sociale, e, al secondo, la libertà del cittadino di scegliere l’attività lavorativa o professionale da esercitare, senza che questa sia imposta, o sia il risultato di una coazione esterna (Ogni cittadino ha il dovere di svolgere,

secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che

concorra al progresso materiale o spirituale della società). Certo, la sua

67 L’enunciazione dell’art. 1 rappresenta un unicum nelle Costituzioni europee occidentali; una formulazione simile è stata prevista ed inclusa nel progetto di Costituzione europea all’art. I. 3. 3., poi ripreso dal Trattato di Lisbona, ove si afferma che «la UE è un’economia sociale di mercato, fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale». 68 P. Barile, Istituzioni di Diritto pubblico, Cedam, Padova 2002. 69 A. Barbera, C. Fusaro, Corso di diritto pubblico, Il Mulino, Bologna 2012, p.176. 70 M. D’Antona, Il diritto al lavoro nella Costituzione e nell’ordinamento comunitario, in B. Caruso, S. Sciarra (a cura di), Massimo D’Antona, Opere, Vol. I, Giuffrè, Milano 2000.

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accezione di diritto sociale è problematicamente ardua, ma è altrettanto certo che il suo contenuto va oltre quello di una mera norma programmatica perché conferisce un diritto al lavoro che si sostanzia in almeno due ulteriori posizioni soggettive: la libertà di non subire limitazioni irrazionali nell’accesso al lavoro e la libertà di esercitare un lavoro adeguato alle proprie capacità, che dovrebbe garantire al cittadino, una volta assunto, la possibilità di esercitare le mansioni corrispondenti alle proprie abilità lavorative. Ne deriva che, il diritto al lavoro «sebbene di per sé non idoneo a garantire al cittadino un’occupazione, è considerato inviolabile»71. E ne deriva, altresì, che questo diritto non può essere identificato né col diritto ad ottenere un lavoro mediante l’intervento dei pubblici poteri, né con una protezione indiscriminata contro il licenziamento (il diritto del lavoratore a non essere licenziato in modo arbitrario). Il valore costituzionale del diritto al lavoro, malgrado le politiche necessarie per garantirlo e renderlo effettivo, delinea e sostanzia il diritto di ogni cittadino ad essere trattato egualmente (formalmente e sostanzialmente): l’eguaglianza di accesso, l’equilibrio nella competizione e la protezione contro eventuali abusi del mercato. Collegati al diritto al lavoro, vi sono altri diritti sociali rinvenibili in Costituzione (artt.35-38) che rappresentano una specificazione del contenuto dell’art. 4; la circostanza non desta stupore. In una Repubblica fondata sul lavoro (art. 1, Cost.) non possono che risultare rilevanti i diritti sociali dei lavoratori. Conseguente al fondamentale art. 4, rinveniamo, intanto, l’art. 36, comma 1, ove è sancito il diritto del lavoratore ad una giusta retribuzione, ossia proporzionata alla qualità e quantità del suo lavoro e (comunque) sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa. In congruità con il diritto ad un’adeguata remunerazione, si pone l’art. 38, comma 2, che garantisce ai lavoratori il diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro

esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia,

disoccupazione involontaria. Sono diritti soggettivi immediatamente azionabili i diritti delle donne e dei minori alla parità di trattamento nell’attività lavorativa (art. 37, Cost.); al riguardo, ritroviamo uno specifico set di disposizioni costituzionali che prevedono speciali protezioni per le donne lavoratrici, tradizionalmente, e fortemente, discriminate in Italia rispetto ai lavoratori maschi (La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che

spettano al lavoratore, art. 37, comma 1), il cui scopo principale è quello di obbligare il legislatore a considerare la situazione delicata della donna nella società e nella famiglia (Le condizioni di lavoro devono consentire

l’adempimento della sua essenziale funziona familiare ed assicurare alla madre

71 A. Barbera, C. Fusaro, Corso di diritto pubblico, cit.

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e al bambino una speciale adeguata protezione, art. 37, comma 2). La dottrina e la giurisprudenza costituzionale concordano su una serie di punti salienti e di riconoscimenti derivanti dall’art. 37 della Costituzione: il diritto delle donne di avere la stessa retribuzione, a parità di lavoro, degli uomini; il diritto ad un eguale trattamento riguardo le condizioni generali di lavoro; il diritto di scegliere liberamente e di avere accesso ad un lavoro senza barriere discriminatorie72. L’art. 37, comma 3 e 4, prevede una specifica protezione del lavoro compiuto dal minore, obbligando il legislatore a stabilire un’età minima per il lavoro, e prevede, altresì, una proibizione della discriminazione tutelando il lavoro dei minori con speciali norme e garantendo ad essi, a parità di lavoro, il diritto alla parità di retribuzione. Similmente alla protezione sociale attribuita alle donne e ai minori, la Costituzione prevede (art. 38, comma 3) una speciale protezione anche ai cittadini invalidi e disabili quando afferma gli inabili ed i minorati hanno diritto

all’educazione e all’avviamento professionale, invocando direttamente l’effettivo intervento dei pubblici poteri e sancendo un diritto condizionale. Il fondamentale diritto all’assistenza e alla previdenza è contemplato e garantito sempre dall’art. 38 della Costituzione: il primo comma garantisce l’assistenza sociale nei confronti di ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi

necessari per vivere, il secondo comma, invece, assicura ai lavoratori la previdenza sociale in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia,

disoccupazione involontaria mediante l’erogazione di pensioni, assegni o assicurazioni contro infortuni. «L’assistenza viene erogata di norma sulla base di esigenze personali del beneficiario che spetta alla pubblica amministrazione valutare discrezionalmente. La previdenza, invece, viene erogata da appositi organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato (art. 38.4), sulla base di parametri oggettivi che fanno riferimento all’appartenenza a determinate categorie, agli anni di anzianità maturati»73. Il primo e il secondo comma dell’art. 38 sono considerati dalla giurisprudenza costituzionale vere e proprie norme precettive perché attribuiscono diritti soggettivi perfetti, giudizialmente azionabili, sia pure con una differenza: se il diritto all’assistenza spetta al cittadino solo in quanto inabile e sprovvisto dei mezzi necessari ad un’esistenza dignitosa, il diritto alla previdenza, invece, compete al lavoratore in quanto tale, a prescindere dalla attività lavorativa esercitata74. Il diritto alla salute è riconosciuto all’art. 32 della Costituzione ove si afferma, al primo comma, che la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto

72 A. Baldassarre, Diritti della persona e valori costituzionali, cit. Si vedano anche le seguenti sentenze della Corte costituzionale: 137/1986, 1106/1988, 371/1989, 163/1993, 188/1994. 73 A. Barbera, C. Fusaro, Corso di diritto pubblico, cit, p. 178. 74 Si vedano le seguenti sentenze: 22/1969, 160/1974, 238/1988, 336/1989, 116/1990.

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dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli

indigenti. Se ci pensiamo, l’effettivo godimento del diritto alla salute risulta vitale per tutti gli aspetti della vita di una persona ed è cruciale per la realizzazione di molti diritti e libertà fondamentali. Nel generico diritto alla salute, naturalmente, è ricompreso il diritto all’integrità fisica e psichica, ossia la c.d. libertà da, un diritto che offre protezione da interferenze esterne. Come tale è un diritto sociale incondizionato, direttamente e giudizialmente azionabile. «Pur essendo un tipico diritto sociale, ha una natura assimilabile a quella dei diritti di libertà, poiché presuppone la titolarità di uno status personale e naturale – la salute – che non può essere messo a repentaglio né dai singoli né dai poteri pubblici né da altri soggetti privati. Ecco perché il diritto alla salute, in quanto volto a preservare l’integrità fisica e psichica dell’individuo nei confronti di tutti, deve essere considerato un diritto soggettivo assoluto e perfetto, azionabile quindi dinanzi ai giudici senza la necessità dell’intervento del legislatore»75. Nel diritto alla salute è ricompreso non solo lo specifico diritto ad essere guarito, ossia il diritto a ricevere cure e assistenza medica, ma anche il diritto ad un ambiente salubre, ovvero l’interesse a condizioni di vita e di lavoro che non mettano in pericolo la salute. Il ricorso al sistema pubblico di assistenza76 prevede, come indicato dal disposto costituzionale, la possibilità per ogni cittadino di accedere alle strutture sanitarie e fruire delle prestazioni di cura, a prescindere dalle sue condizioni economiche, giacché, come sottolineato dalla Corte costituzionale77, il diritto alla salute è un diritto primario fondamentale che richiede una piena ed esauriente protezione da parte dello Stato. Il che significa, però, che, trattandosi di un diritto sociale condizionale, il godimento del diritto alla salute deve essere sempre bilanciato con altri interessi e con i limiti finanziari e di organizzazione che il legislatore può incrociare nell’esercizio delle sue funzioni. Il diritto all’istruzione, proclamato nell’art. 26, primo comma78, della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, è contemplato anche dalla nostra

75 A. Barbera, C. Fusaro, Corso di diritto pubblico, cit, p. 179. 76 Il legislatore ha dato piena attuazione al diritto alla salute con l’istituzione del Servizio sanitario nazionale (l. 23 dicembre 1978, n. 833), oltrepassando la stella lettera del primo comma dell’art. 32 (che circoscrive la gratuità delle cure ai soli indigenti), laddove costruendo un servizio di tipo universale, ha proclamato la necessità di garantire il mantenimento e il recupero della salute fisica e psichica di tutta la popolazione senza distinzione di condizioni individuali e sociali. Resta fermo, tuttavia, che il diritto alle prestazioni sanitarie, come tutti gli altri diritti sociali, deve essere sottoposto al bilanciamento, cioè deve essere compatibile con le esigenze di equilibrio della finanza pubblica. Si vedano le sentenze 304/1994 e 309/1999. 77 Sentenza 992/1998. 78 Ogni individuo ha diritto all’istruzione. L’istruzione deve essere gratuita almeno per quanto riguarda le classi elementari e fondamentali. L’istruzione elementare deve essere obbligatoria. L’istruzione tecnica e professionale deve essere messa alla portata di tutti e l’istruzione superiore deve essere egualmente accessibile a tutti sulla base del merito.

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Costituzione, all’art. 34 che parla di una scuola aperta a tutti e di un’istruzione inferiore gratuita e obbligatoria da impartirsi per almeno otto anni. L’art. 34 della Costituzione, che sancisce un altro dei fondamentali diritti sociali, non comprende soltanto il diritto per tutti di essere ammessi alla scuola, ma anche il diritto a ricevere un’efficace istruzione ed una adeguata educazione, funzionali allo sviluppo della personalità. La Costituzione garantendo, altresì, il diritto allo studio, i capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto

di raggiungere i risultati più alti degli studi (art. 34, comma 3), obbliga i poteri pubblici a predisporre e garantire i mezzi finanziari necessari per rendere effettivo tale diritto anche per coloro che, malgrado le capacità attitudinali, non sarebbero in grado, altrimenti, di seguitare nei percorsi di apprendimento. Emerge chiaramente una concezione dell’istruzione come servizio pubblico strumentale e fondamentale per assicurare il pieno sviluppo della persona umana e la sua elevazione economica e sociale anche rispetto alla iniziale e sfavorevole condizione di partenza di taluno; in altri termini, l’impegno dell’autorità pubblica, come profeticamente richiesto dall’art. 3, secondo comma, Cost., consiste nella rimozione di quegli ostacoli di ordine economico-sociale che lastricano il cammino di individui appartenenti alla stessa comunità politica. Giova ricordare, a questo punto, che, malgrado il loro contenuto, la determinazione dei diritti sociali è sempre il frutto, da un lato, di un bilanciamento fra differenti valori costituzionali e, dall’altro, del lavoro d’interpretazione aperta azionato dai soggetti dell’ordinamento. E giova, ancor più, sottolineare che la contrapposizione fra diritti di libertà e diritti sociali, basata sulla esigenza, per i secondi, di una efficace organizzazione che ne renda effettivo il godimento, è assolutamente falsa, giacché per garantire il reale godimento di qualsivoglia diritto è sempre necessario, per il potere pubblico, azionare un adeguato apparato organizzatorio. Diritti e libertà scaturiscono sempre dal vigore dell’operato pubblico, e la loro tutela comporta sempre una allocazione, assegnazione e distribuzione di risorse79.

79 «Si è già segnalato come la contrapposizione fra diritti immediatamente tutelabili e diritti per il cui godimento è necessario l’intervento del legislatore sia servita a depotenziare la portata dei diritti sociali, in quanto funzionale alla tesi secondo cui le relative norme costituzionali conterrebbero solo indicazioni o direttive (Programmsaetze) per il legislatore il cui necessario successivo intervento avrebbe definito il contenuto degli stessi, o comunque norme di principio che, sia pur vincolanti per il legislatore ordinario, pongono solo fini che il legislatore ha il compito di perseguire. In tale visione veniva chiaramente esclusa la azionabilità diretta dei diritti sociali come riconosciuti in costituzione e dunque anche esclusa la loro immediata tutela. In tal modo le dichiarazioni sui diritti sociali venivano a rivestire un valore essenzialmente politico-costituzionale e dunque un rango inferiore dal punto di vista dell’effettività giuridica rispetto ai diritti di libertà». F. Politi, I diritti sociali, cit.

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4. INEVITABILI (E INVIOLABILI) CONCLUSIONI La riflessione posta in essere sul tema relativo ai diritti sociali ha costretto il pensiero ad intercettare il loro senso poliedrico, problematico e suscettivo di aperture progressive. La Costituzione italiana riconosce ampiezza e sistematicità a tali diritti, assegnando loro la garanzia propria dei diritti costituzionali inviolabili, e rifiutando qualsivoglia forma di approccio unilaterale. Come rilevato, il principio personalista (art. 2, Cost.) pone il principio della tutela della persona (innervata nella concreta esistenza sociale) e della dignità umana nell’ambito di quella scenografia definita democrazia pluralistica. Non solo. La pari dignità sociale degli individui, unitamente al combinato disposto fra gli artt. 2 e 3, Cost., «confermano, nel quadro del riconoscimento della dimensione sociale dei diritti, il rigetto da parte della Costituzione di una concezione meramente negativa dei diritti di libertà, presentandosi piuttosto l’impianto dei diritti costituzionali dotato di una dimensione garantista e di una dimensione programmatica e, in questa complessità i diritti costituzionali vanno ad incidere sui meccanismi di integrazione sociale, come massime di strutturazione»80. La tutela della dignità umana costituisce il fondamento dei diritti sociali, che sono non solo espressione della democrazia pluralistica, ma anche, e soprattutto, diritti costituzionali inviolabili, coperti dal raggio di tutela dell’art. 2, Cost.; la dignità, lungi dall’essere lo scopo da raggiungere, è il valore basico di un ordinamento che vuole essere democratico e pluralistico. I diritti sociali, in questo senso, rivestono il ruolo di componente essenziale dei valori fondamentali della democrazia81 e sono elementi decisivi della «trama

80 Ibidem. 81 Secondo Baldassarre i diritti inviolabili possono essere distinti in originari, che rappresentano condizioni logicamente necessarie per la democrazia, e derivati, che costituiscono invece condizioni positivamente necessarie per la democrazia. In altri termini, mentre l’assenza dei primi, definiti anche generali, determina l’impossibilità di esistenza dello stesso sistema democratico, il grado di attuazione dei secondi, definiti anche speciali, costituisce criterio di qualificazione (e di significato) della democrazia. Al primo gruppo appartengono i diritti dell'uomo e del cittadino, mentre al secondo sono ricompresi altri diritti fondamentali che, pur condizionando l’esistenza stessa della democrazia, ne caratterizzano in modo determinante il particolare significato che la Costituzione le ha voluto assegnare. L’appartenenza all’uno o all’altro gruppo discende dalla diversa forma di “pregiudizialità” logica di un determinato diritto rispetto al concetto della democrazia pluralistica. Dei diritti sociali riconosciuti in Costituzione alcuni ricadono nel primo gruppo ed altri nel secondo; e questo spiega perché, pur riconoscendone la natura di diritti costituzionali inviolabili, alcuni diritti possano rimanere, anche per lunghi periodi, inattuati: la democrazia, pur risentendone in termini qualitativi, non ne viene a subire un vulnus radicale. Ma tale distinzione (come anticipato dalla stessa dottrina che l’ha proposta) non va “assolutizzata” giacché tutti tali diritti possono ritenersi coessenziali ad una democrazia pluralistica, fondata sul valore della dignità dell'uomo e che voglia, allo scopo di garantire e rendere effettivo il principio democratico, assicurare a tutti i cittadini (oltre alla partecipazione alla vita economica, politica e sociale del paese) una piena consapevolezza di tale partecipazione e del proprio ruolo in un ordinamento pluralistico e democratico. Ed allora emerge chiaramente come tale distinzione, che serve a qualificare i diritti costituzionali, non sia basata su

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costituzionale intessuta di pluralismo politico e sociale»82. Peraltro, se il principio democratico si consolida mediante contenuti sostanziali, allora, i diritti fondamentali non possono che proclamare uno specifico sistema di valori che, a sua volta, restituisce il senso della vita disegnata in Costituzione: «come diritto positivo la Costituzione non è soltanto norma, ma anche realtà» e «questa realtà è persistente e quotidiana» e «costituisce un esempio particolarmente imponente dell’indubitabile effetto d’integrazione di ogni comunità giuridica. (…) Questa realtà non è prodotta dalla costituzione intesa come il momento statico e persistente della vita statale, ma viene costantemente riprodotta dalla vita costituzionale in continuo rinnovamento»83. Non è tutto. Un’alterna interpretazione teorica ricorda che «l’ignoranza, la povertà e in genere la mancanza di mezzi materiali possono impedire ad una persona di esercitare i suoi diritti e utilizzare simili occasioni»84. La questione in merito ai diritti sociali, diritti costituzionali tutelati, si sposta sulla individuazione della misura di questa protezione, riaprendo alla dinamica delle garanzie costituzionali dei diritti e alla determinazione del contenuto essenziale degli stessi85. Torna così la parabola del bilanciamento fra i valori ritenuti prioritari. E torna anche la consapevolezza che il riconoscimento dei diritti fornisce agli individui concrete opportunità di esperire quella libertà che consente, a sua volta, l’inverarsi dell’eguaglianza sostanziale; in assenza di tale circuito risulta improbabile, ancorché impossibile, l’effettiva partecipazione di tutti alla vita democratica di una comunità. Ora, «i diritti di libertà e i diritti in funzione dell’eguaglianza contribuiscono indivisibilmente a delineare la posizione dell’uomo nel disegno costituzionale»86, e poiché l’obiettivo che perseguono, altrettanto indivisibilmente, è quello di una «libertà eguale»87, tutti i diritti inviolabili sono sociali88. La giurisprudenza costituzionale, e gran parte della dottrina giuspubblicistica, hanno chiarito che i diritti sociali si elevano allo stesso rango dei diritti inviolabili e inalienabili della persona, in quanto espressione di valori o principi.

una differenza strutturale degli stessi, ma solo sul rapporto fra essi e il principio democratico. Ma allora, anche da tale prospettiva, riemerge la centralità di tale aspetto: l’effettiva realizzazione del principio democratico che, in una democrazia pluralistica, non si può esaurire in una mera forma ma si riempie di molteplici contenuti e sull'esigenza di un reciproco rispetto. Cfr. F. Politi, Attuazione e Tutela dei Principi Fondamentali della Costituzione Repubblicana, su http://archivio.rivistaaic.it, 2005. 82 A. Baldassarre, Diritti sociali, in Enc. Giur. Treccani, vol. XI, Roma, 1989. 83 R. Smend, Costituzione e diritto costituzionale, Giuffrè, Milano 1988, pp.150-153. 84 J. Rawls, Liberalismo politico, Edizioni di Comunità, Milano 1994. 85 P. Ridola, Diritti di libertà e costituzionalismo, cit. 86 A. D’Aloia, Introduzione. I diritti come immagini in movimento: tra norma e cultura costituzionale, cit., p. XV. 87 M. Luciani, Sui diritti sociali, cit., p. 560. 88 A. Spadaro, Diritti sociali di fronte alla crisi, cit.

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Così, superata la diatriba oppositiva tra libertà ed eguaglianza, i diritti sociali, ora, sono vettori di democratizzazione e «perseguono l’affermazione di una sostanziale uguaglianza al fine di rendere effettivo da parte di ogni individuo il godimento delle proclamate libertà sul presupposto della necessità di tutelare la dignità dell’uomo che solo affrancato dai primari bisogni può godere appieno della libertà e, dunque, partecipare alla vita sociale e politica, con piena affermazione in tal modo anche del principio democratico, che viene ulteriormente ad arricchirsi perché quanto più ogni cittadino partecipa appieno alla vita sociale, tanto più il principio democratico potrà ritenersi soddisfatto ed adempiuto»89. In ultima analisi, i diritti sociali, invocando l’intervento dei pubblici poteri, aprono ad una cultura della responsabilità individuale e collettiva, e rivestendo quel ruolo strumentale capace d’innervare feconde strategie di inclusione, garantiscono e realizzano l’essenza stessa del principio democratico. 89 F. Politi, I diritti sociali, cit

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| ROSARIO PALESE |

LA CRISI DEL WELFARE NEI PROCESSI GLOBALI

«[gli uomini] Sono spinti a trasformarsi in

lavoratori disposti a sacrificare ciò che resta della

loro vita all'impresa competitiva - o alla

competizione d'impresa - in consumatori spinti da

desideri e bisogni espansibili all'infinito, in

cittadini che accettino in pieno e senza riserve -

all'insegna del "non esiste alternativa" - l'ultima

edizione della "correttezza politica" che li incita a

chiudere gli occhi alla generosità e a essere

indifferenti al benessere comune a meno che non

serva ad esaltare il loro ego [...]. Lascio ai lettori

di decidere se la coercizione a cercare la felicità

nella forma praticata nella nostra società dei

consumatori liquido-moderna, renda felice chi vi è

costretto.»

(Z. Bauman, L'arte della vita)

PREMESSA I processi economici sono sempre stati percepiti come la somma delle dinamiche del mercato e dello stato sociale. In realtà tali processi operano e si distinguono in tre distinti ambiti. Un primo ambito, comunemente noto come economia di mercato, è quell’ambito dove la distribuzione di beni e servizi è affidata alle leggi del libero mercato che alloca al meglio le risorse basandosi sull’equilibrio che si stabilisce tra domanda e offerta. Un secondo ambito è quello dell’economia non di mercato, dove la distribuzione di beni e servizi mira alla ridistribuzione organizzata e gestita dal settore pubblico. Lo Stato sociale si configura come un erogatore di beni e servizi e svolge, attraverso regole determinate da un’autorità pubblica, un’attività di ridistribuzione verso i ceti meno abbienti.

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Un terzo ambito, quello dell’economia informale, prevede che la distribuzione dei beni e dei servizi sia imperniata su un originale principio d’azione economica: la reciprocità. Diversa dalla logica mercantile e dalle logiche dello scambio ridistributivo proprio del Welfare state, l’economia informale basata sulla reciprocità si pone come risposta alle questioni poste dalle trasformazioni contemporanee (crisi economiche, arretramento delle azioni di welfare, crisi di rappresentanza e di leadership dei sistemi politici), ponendo come obiettivo il raggiungimento di un’economia basata su principi di uguaglianza, solidarietà e giustizia. A partire da questo quadro concettuale è possibile analizzare come i processi di globalizzazione da un lato, l’impatto delle diverse e cicliche crisi economiche dall’altro, possano influire sui diversi sistemi socio-economici e sulle politiche ridistributive e di inclusione sociale. 1. IL “VILLAGGIO GLOBALE” È UN VILLAGGIO Il filosofo francese Voltaire affermava che: «Chi non ha lo spirito della sua

epoca, della sua epoca ha tutti i guai»; ciò, probabilmente, non si può imputare agli studiosi di scienze sociali, costituzionalmente orientati alle attività esplorative ed interpretative, nonché «allo spirito del nostro tempo - tempo del movimento, del cambiamento generalizzato, dell’aleatorietà e delle incertezze»1. Duecento anni fa, sempre Voltaire, si prendeva gioco dell’ottimismo con cui il maestro Panglos spiegava a Candide che questo è il migliore dei mondi possibili2. I teorici della società di massa sono tornati sulla questione dividendosi in tre diverse correnti. Da una parte, i sostenitori della società di massa (Shills,

Bell, Bramson, etc.) apprezzavano che, per la prima volta nella storia, una parte notevole dell’umanità fosse riuscita ad emanciparsi dalla prigionia della tradizione, della miseria e dell’autoritarismo; che le minoranze, i giovani e le

1 Balandier, G., Il disordine. Elogio del movimento, Ed. Dedalo, Bari, 1991, p. 156. 2 «Sì, mio caro Candido; tutto è concatenato, tutto è necessario nel migliore de’ mondi possibili; bisogna che il cittadino di Montalbano istruisca i re: che il vermiciattolo di Quimper-Corentin, critichi, critichi, critichi: che il referendario de’ filosofi si faccia crocifiggere nella strada San Dionigi: che il torzone degli zoccolanti, e l’arcidiacono di San Malò distillino il fiele e la calunnia ne’ lor giornali cristiani, che si portino le accuse di filosofia al tribunal di Melpomene: e che i filosofi continuino a illuminar l’umanità, malgrado gli strepiti di quelle bestie ridicole, che gracchiano nel pantano della letteratura; e quando doveste esser scacciato di nuovo nel più bel de’ castelli a pedate, imparare l’esercizio de’ Bulgari, passar per le bacchette, nuotare dinanzi a Lisbona, essere crudelissimamente frustato per ordine della santissima Inquisizione, incontrare i medesimi pericoli fra los Padres, fra gli Orecchioni e fra i Francesi; quando doveste finalmente provare tutte le calamità possibili, e non intendere giammai Leibnitz meglio di quel che l’intendo io stesso, voi sosterrete sempre, che tutto è bene, che tutto è per lo meglio; che il pieno, la materia sottile, l’armonia prestabilita e le monadi sono le più belle cose del mondo, e che Leibnitz è un grand’uomo, fin per quelli che non lo comprendono». In Voltaire, Candido o l'ottimismo, Einaudi, Torino, 2006, p. 56.

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donne fossero più rispettate; che la meritocrazia avesse sostituito l’aristocrazia; che la scienza ci aiutasse ad allungare la nostra vita e a vivere meglio. Su posizioni intellettuali opposte, vi erano le valutazioni critiche di pensatori sia conservatori, sia progressisti. I primi (Croce, Ortega Y Gasset, etc.) erano allarmati dal potere crescente delle masse e strenui difensori delle prerogative delle élites. Ai loro occhi la società di massa comportava un pericoloso eccesso di iperdemocrazia3, privilegiava la quantità e il numero rispetto alla qualità e al merito, consentiva alla tecnologia di violentare la natura e la cultura, distruggeva i valori della tradizione e spianava la strada alla dittatura tecnocratica. Infine, i critici di sinistra (Adorno

4, Gouldner

5, Horkheimer

6, Marcuse

7, etc.)

sostenevano che le masse sono sempre meno libere e sempre più manipolate dai potenti, i mass media invadono anche la nostra sfera più intima8, l’economia è basata solo sul consumo e sullo spreco dissennato, l’adeguamento passivo e l’accettazione acritica schiacciano ogni forma di creatività e di libertà9. Per l’«aggrovigliata trama della umana esperienza»10, il mondo globalizzato è davvero il migliore dei mondi possibili? Secondo Anthony Giddens «la modernità è di per sé globalizzante»11, ma nonostante questo risulta difficile e spesso problematico determinare cosa sia la globalizzazione e definire il momento in cui questo fenomeno diventa rilevante

3 Cfr Ortega y Gasset J., La ribellione delle masse, SE, Milano, 2001. 4 Theodor Adorno e Max Horkheimer affermavano che «Ogni singola manifestazione dell’industria culturale torna a fare degli uomini ciò che li ha già resi l’industria culturale intera. E a impedire che questo processo di riproduzione semplice dello spirito possa mai dare luogo a quella allargata, vegliano tutti i suoi agenti, dal produttore fino alle associazioni femminili». In Horkheimer, M., Adorno, T., Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino, 1982, p. 134. 5 Secondo Alvin Gouldner gli intellettuali radicali americani avevano incontrato delle difficoltà «sulla base di un vieto marxismo, avevano concluso che la sociologia accademica americana era uno strumento del capitalismo industriale americano. Infatti è chiaro che il carattere conservatore della sociologia americana non può essere attribuito al suo essere asservita al capitalismo industriale se una sociologia essenzialmente simile è sorta è sorta in un luogo in cui, come l’Unione Sovietica, non vi è capitalismo industriale». In Gouldner, A. W., La crisi della sociologia, Il Mulino, Bologna, 1972, p. 20. 6 «la strumentalità della cultura di massa [K] serve a rafforzare la pressione della società sull’individuo, precludendogli ogni speranza di preservare la propria individualità, di salvarla dalla disintegrazione [K] così la retorica dell’individualismo, imponendo modelli d’imitazione collettiva, rinnega quello stesso principio cui a parole rende omaggio» In Horkheimer, M., Eclisse della ragione. Critica della ragione strumentale, Einaudi, Torino, 1969, p. 137. 7 Marcuse, H., L’uomo ad una dimensione, Einaudi, Torino, 1999. 8 Campbell sostiene che «il segreto dell’edonismo moderno sta proprio nell’abilità di decidere la natura e la forza dei propri sentimenti». In Campbell, C., L’Etica romantica e lo spirito del consumismo moderno, Edizioni Lavoro, Roma, 1992, pp. 109-110. 9 Secondo Baudrillard nella società stratificata «La circolazione, l’acquisto, la vendita, l’appropriazione dei beni e degli oggetti/segni differenziati costituiscono oggi il nostro linguaggio, il nostro codice, per cui l’intera società comunica e si parla». In Baudrillard, J., La società dei consumi. I suoi miti e le sue strutture, Il Mulino, Bologna, 1976, p. 101. 10 Cfr. Cassirer, E., Saggio sull’uomo, Armando editore, Roma, 1968. 11 Giddens, A., Le conseguenze della modernità, Il Mulino, Bologna, 1994, p.70.

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nella nostra società. Prima degli anni ’90 questo termine non aveva alcun significato proprio, ma anzi era raramente usato come semplice aggettivo. La parola globalizzazione si è trasformata da aggettivo a sostantivo oltremodo usato ed abusato. Cercando di essere molto semplici e chiari: la globalizzazione è l’estensione a livello planetario di un modello unico di cultura, di un modello unico di pensiero, di un modello unico di economia. Gli economisti distinguono le “onde lunghe”, vale a dire quei mutamenti che producono effetti duraturi sulle strutture economiche, in contrapposizione alle “onde corte” che sono dei movimenti congiunturali o ciclici con effetti inefficaci o modesti sulle stesse strutture: le prime durano 40-50 anni – le seconde 18-24 mesi. I processi di liberalizzazione dei mercati, condotti al limite della loro stessa natura e sostenibilità, portano il pianeta terra a configurarsi come un’economia chiusa e, pertanto, a essa si applicano tutte le conoscenze sviluppate a questa forma di mercato. Il mercato globale è un mercato unico e, quindi, per ciò stesso chiuso. Il permanere di numerose monete, per giunta in regime di cambi diversi, non solo è sintomo della volontà di non accettarne appieno le conseguenze economiche, ma anche della volontà di porre argini alla logica stessa del mercato globale competitivo e al carico di ineguaglianze e squilibri che esso comporta. In questo tipo di mercato, le innovazioni tecnologiche introducono elementi monopolistici che, da un lato, stimolano il progresso economico, ma dall’altro, non consentono l’affermarsi delle condizioni ideali per ottenere l’uso più efficiente delle risorse; in particolare, consente l’affermarsi sul mercato di price maker, cioè grandi operatori che dettano il prezzo, mentre, in teoria, il massimo del benessere richiederebbe l’esistenza di soli price taker, operatori che fanno riferimento a un prezzo fissato dal mercato, ma che invece risentono di altre variabili. L’assetto del mondo degli affari internazionali è sempre più finanziarizzato, ma questo dà vita a ad una situazione in cui l’attività economica è più instabile e sempre più a veduta corta. L’evoluzione dettata dall’informatizzazione dell’economia consentirebbe al mercato di assumere la forma ideale per gli economisti, cioè quella rete di informatizzazione utili per orientare i comportamenti degli attori economici, ma in realtà tutte le transazioni sono fortemente influenzate da asimmetrie informative, spesso assai poco legate a reali fattori economici e di produzione. Inoltre, un’altra causa che concorre alla realizzazione del mercato globale, unico e quindi chiuso, è la diffusione degli scambi internazionali delle scelte di investimento, che ha condotto a una situazione in cui gli investimenti diretti crescono più rapidamente degli scambi commerciali, diffondendo conoscenze e

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benessere nel mondo, ma anche portando a carico delle economie sviluppate problemi di una continua ricerca di competitività e crescenti pressioni riduttive sulla rete di Welfare da essi costruita. Il rovesciamento, infine, tra i rapporti di forza tra operatori di mercato e politica economica, questo non significa assenza di politica, ma minore ingerenza della stessa nelle scelte di investimento, nel trattamento dei fattori produttivi e in tutte le numerose manifestazioni, in primis, l’imposizione di barriere tariffarie e non tariffarie, che hanno contraddistinto da sempre la presenza dello Stato nell’economia. Presenza non solo voluta dalla politica, ma dagli stessi operatori che, influenzandola, hanno messo le basi per la costituzione a livello internazionale di oligopoli formati da imprese multinazionali che determinano il prezzo, invece di reperirlo dal mercato. La globalizzazione è una contraddizione in termini. Il territorio si identifica come snodo centrale in epoca di globalizzazione avanzata12. La struttura statale, dimensione privilegiata della progettazione politica e sociale in età moderna, si trova, infatti, sottoposta a pressioni esterne ed interne che ne mettono in crisi la capacità d’azione ed interrogano il suo stesso ordinamento. Da un lato, i flussi13 economici, finanziari, informativi e culturali attraversano i confini degli Stati senza che questi abbiano una possibilità reale e incisiva di controllarli. Dall’altro, la stessa identità statale e le politiche d’omologazione che l’avevano supportata, con sempre maggiori difficoltà, riescono a contenere l’emergere d’identità14 diverse, che assumono le forme più varie: regionalismi, localismi, micro-nazionalismi. Questo non significa un completo svuotamento di senso dell’organizzazione statale, ma più semplicemente che essa non è più l’unica protagonista e che altri attori si stanno affacciando sulla scena, tanto al di sopra (strutture sovranazionali), quanto verso il basso (all’interno degli stati stessi). La faticosa individuazione delle modalità con cui la politica si può ristrutturare per acquistare terreno sulle dinamiche economiche della globalizzazione sembra

12 Cfr. Beck, U., La società cosmopolita. Prospettive dell’epoca postnazionale, Il Mulino, Bologna 2003. 13 «I flussi – secondo Castells – non sono solo un elemento dell’organizzazione sociale: sono l’espressione dei processi che dominano la nostra vita economica, politica e simbolica». In Castells, M., La nascita della società in rete, Egea, Milano, 2002, p.472. 14 Secondo Crespi «Gli attori sociali non solo ‘riproducono’ le pratiche culturalmente codificate, ma ‘producono’ contemporaneamente il sistema, utilizzando consapevolmente, nelle situazioni concrete, le regole e le risorse culturali e materiali per creare e ricreare la realtà sociale [K] in questo modo l’insieme dei prodotti e delle regole culturali, viene considerato come risorsa, cui gli attori sociali attingono sia automaticamente (routines), sia per rispondere in maniera creativa ad eventi imprevisti [K] le strutture come insieme di regole e risorse, sono al tempo stesso, un mezzo dell’azione e un risultato, che condiziona l’agire stesso». In Crespi, F., Manuale di sociologia della cultura, Laterza, Bari – Roma, p. 139.

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portare all’individuazione di maglie sovranazionali, con la convergenza diversamente organizzata degli Stati all’interno delle macro-aree (UE, NAFTA) e con l’aggiornamento e l’incentivazione d’organismi di gestione globale (WTO, FMI, Banca Mondiale). Parallelamente si stanno prospettando cambiamenti rilevanti nell’organizzazione interna degli Stati, con l’orientamento federalista che acquista vigore nella pratica e ancor più nella discussione politica, tanto nei paesi più ricchi come in quelli in via di sviluppo. Infine, gli effetti di disorientamento generati da quella che è stata definita da David Harvey “la compressione spazio-temporale”

15, in altre parole,

l’esperienza che gli individui fanno dell’accelerazione dei cambiamenti e della compresenza sempre più stretta di ciò che è fisicamente lontano, conducono ad una reazione che spesso cerca nel radicamento nel locale e nel recupero (o nell’invenzione)16 di esperienze17 ed identità tradizionali la soluzione al disagio della condizione18 postmoderna19. Secondo Mike Featherstone «I nuovi formatori di gusti (tastemakers)» sono «costantemente alla caccia di nuove merci ed esperienze culturali, sono anche impegnati nella produzione di supporti pedagogici popolari e di guide al saper vivere ed allo stile di vita. Essi incoraggiano un’inflazione di merci culturali, attingono in continuazione da nuove tendenze culturali e artistiche per l’ispirazione, aiutano a creare nuove condizioni di produzione artistica ed intellettuale lavorando al loro fianco»20. L’«obiettivo dell’attività umana diviene la fruizione a pagamento di esperienze culturali. Nell’era dell’accesso, fabbricare cose, scambiare e accumulare proprietà è secondario rispetto a costruire scenari, raccontare storie e mettere in atto le nostre fantasie»21. Il denaro in questo contesto assume i contorni dell’«assolutezza psicologica di valore» trasformandosi in «fine ultimo che

15 Cfr. Harvey, D., La crisi della modernità, Il Saggiatore, Milano, (2002). 16 «il grande evento di questo periodo, il grande trauma, è questa agonia dei referenti forti, l’agonia del reale e del razionale, che introduce ad un’era della simulazione». In Baudrillard, J., Simulacri e impostura. Bestie, Beaubourg, apparenze e altri oggetti, Cappelli, Bologna, 1980, p. 8. 17 «L’esperienza è un fatto di tradizione, nella vita privata come in quella collettiva. Essa non consiste tanto di singoli eventi esattamente fissati nel ricordo, quanto di dati accumulati, spesso inconsapevoli, che confluiscono nella memoria». In Benjamin, W., Di alcuni motivi in Baudelaire, in Id., Angelus novus, Einaudi, Torino, 1962, p. 88. 18 Secondo Lyotard «l’abbattimento delle frontiere tra arte e vita di ogni giorno, il collasso della distinzione gerarchica tra cultura alta e cultura popolare; una promiscuità stilistica che favorisce l’eclettismo e il miraggio dei codici; la parodia, il pastiche, l’ironia, il gioco e la celebrazione di una superficie della cultura senza profondità». In Lyotard, J., La condizione postmoderna, Feltrinelli, Milano, 1982, p. 67. 19 «La tesi dei post-modernisti può trovare una conferma nel generale disimpegno e nella disillusione nei confronti della politica che caratterizza sia le nuove democrazie dell’Europa orientale sia quelle vecchie dell’Occidente. La tendenza a ritirarsi nella vita privata e a cedere allo scetticismo che tali processi si accorda bene con il discredito in cui sono cadute le “grandi narrazioni”.» In KUMAR, K., Le nuove teorie del mondo contemporaneo, Einaudi, Torino, (2000), p. 185. 20 Featherstone, M., Cultura del consumo e postmodernismo, Seam, Roma, 1998, p.65. 21 Rifkin, J., L’era dell’accesso. La rivoluzione della new economy, Mondadori, Milano, 2000, p. 263.

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invade completamente la coscienza pratica»22 e ridefinisce lo «spazio dei luoghi»23 riducendoli in semplici prodotti dove «tempo libero, cultura, ricreazione, turismo, sono investiti dalle leggi dell’economia mercantile e dalle definizioni del consumo massificato»24. 2. LA SINDROME DEL POZZO Numerosi testi sanscriti raccontano la storia della kupamanduka, cioè una rana che trascorre la sua intera esistenza in un pozzo. La rana nel pozzo (kupamanduka) ha una propria weltanschauung

25 che è assolutamente

circoscritta al suo pozzo ed è fortemente sospettosa – e ostile – nei confronti di tutto ciò che proviene dall’esterno del pozzo. È difficile immaginare quanto sarebbe stato limitato il mondo se le persone (con le loro idee e le loro merci) avessero condotto esistenze chiuse e isolate. Probabilmente la storia scientifica, culturale ed economica del mondo sarebbe stata davvero limitata se avessimo vissuto come queste rane del pozzo. Dagli spostamenti di greci, romani, cinesi, indiani, ebrei, arabi e altri, nel corso dei millenni fino alle migrazioni più recenti di europei in tutto il mondo, le persone hanno trasportato, da una regione all’altra, le loro conoscenze, interpretazioni, capacità e usanze, insieme alla loro presenza. Gli studiosi che per primi si occuparono di questa tematica sono William I. Thomas e Florian W. Znaniecki, autori di dell’opera The Polish Peasant in

Europe and America, ormai considerata un classico della sociologia delle migrazioni. Thomas e Znaniecki, studiarono le condizioni di vita dei contadini polacchi emigrati in America e in Europa, comparando il contesto di partenza, ossia l’ambiente rurale, caratterizzato da un certo tradizionalismo e dalla presenza di valori stabili condivisi dalla comunità, con il contesto di arrivo, cioè l’ambiente urbano contrassegnato, al contrario, da forte mobilità ed individualismo. I loro studi erano tesi all’individuazione di mutamenti significativi negli atteggiamenti, nei valori e nei modelli culturali di riferimento degli individui che sperimentavano l’esperienza migratoria. Focalizzando la loro attenzione su

22 Simmel, G., Filosofia del denaro, Utet, Torino, 1984, p. 107. 23 Revelli, M., Economia e modello sociale nel passaggio tra fordismo e postfordismo, in Ingrao, P.; Rossanda, R., (a cura di), Appuntamenti di fine secolo, Roma, Manifestolibri, 1995, pp. 206-216. 24 Habermas, J., Teoria dell’agire comunicativo, il Mulino, Bologna, 1987, p. 1039. 25 Karl Mannheim è il pensatore moderno che ha posto le basi per una interpretazione del tutto particolare del concetto di weltanschauung (visionedel mondo), evidenziando il ruolo della cultura e delle idee nella formazione della società; il sociologo tedesco viene considerato il padre della sociologia della conoscenza. Per approfondimenti si rimanda al testo originale tradotto in italiano da Antonio Santucci: Mannheim, K., Ideologia e utopia, Il Mulino, Bologna, 1999 e Izzo, A., Karl Mannheim. Un’introduzione, Armando, Roma, 1988.

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alcune variabili ritenute rilevanti, giunsero all’identificazione di diverse tipologie di comportamento e di atteggiamenti, tipici di coloro che vivono una doppia appartenenza culturale. Si può riscontrare un atteggiamento molto conservatore e tradizionalista, che provoca chiusura e rifiuto nei confronti dei modelli culturali proposti dalla società di “arrivo”; oppure si può verificare un totale rifiuto, con conseguente abbandono, dei modelli culturali con cui si è stati socializzati o, ancora, ci può essere il tentativo di sintetizzare i modelli culturali della propria comunità d’appartenenza con quelli della società in generale, atteggiamento che permette lo sviluppo di una personalità autonoma ed indipendente. Gli studi condotti da Thomas e Znaniecki, oltre ad essere originali sotto il profilo metodologico, rappresentano uno dei primi tentativi di interpretazione tipologica

dei fenomeni migratori, che costituisce uno dei primi passi per la sistematizzazione scientifica di ogni disciplina. Un altro sociologo particolarmente importante per lo sviluppo scientifico della sociologia delle migrazioni fu Robert E. Park, che propose un approccio ecologico - sociale, tipico di quel gruppo di sociologi urbani appartenenti alla cosiddetta “Scuola di Chicago”. L’autore propone un’ipotesi molto interessante ed attuale nel saggio “Human Migrations and the Marginal Man” del 1928: ripose, infatti, l’attenzione sulle relazioni fra migrazione e mutamento sociale, concludendo che i fenomeni migratori sono il motore del cambiamento sociale. Una delle tematiche indagate con maggiore attenzione da Park fu quella dell’integrazione, ossia quel processo che permette di mantenere l’equilibrio e l’ordine in una comunità che non possiede una base culturale comune. Individuò diversi livelli d’integrazione tra cui, ad esempio: l’amalgama, che riguarda l’incrocio tra diverse etnie attraverso il matrimonio; l’accomodamento, cioè quel processo d’aggiustamento finalizzato alla prevenzione e alla riduzione dei conflitti; l’assimilazione

26 che è il procedimento secondo il quale la cultura di

una comunità è trasmessa ad un cittadino “adottivo”, favorendone l’inserimento sociale e culturale; e, infine, l’acculturazione, nella quale si pone enfasi sul linguaggio, inteso come medium di trasmissione culturale. L’approccio proposto da Park trovò continuità negli studi condotti dagli studiosi appartenenti alla Scuola di Chicago27, che posero particolare attenzione allo studio della

26 Il concetto di assimilazione nasce come «interpenetrazione e fusione in cui persone e gruppi acquisiscono le memorie, i sentimenti e gli atteggiamenti di altre perone e gruppi e condividendo le loro esperienze e la loro storia sono incorporati con essi in una vita culturale comune». In Park, R. E., Burgess, E. W., Introduction to the Science of sociology, University of Chicago, Chicago Press 1924. 27 «Dal nostro punto di vista, la città è qualcosa di più di una congerie di singoli uomini e di servizi sociali, come strade, edifici, lampioni, linee tranviarie, telefoni e via dicendo; essa è anche qualcosa di più di una semplice costellazione d’istituzioni e di strumenti amministrativi, come tribunali, ospedali, scuole, polizia e funzionari pubblici di vario tipo. La città è piuttosto uno stato d’animo, un

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segregazione residenziale dei gruppi d’immigrati residenti nelle città nordamericane, intese come «un fatto sociologico che si forma spazialmente»28 e al problema delle relazioni tra diversi gruppi etnici. Nelle complesse società contemporanee29, i fatti sociali si evidenziano e si sostanziano come un «processo di interconnessione»30 tra le parti. Proviamo a fare una breve seguenza logica: a) la paura della bomba demografica – mai

prima d’ora il nostro pianeta era stato popolato da più di sei miliardi di persone

– pone l’accento sulla questione del rispetto per i diritti umani (violenza, instabilità politica, guerre), ma in primissima istanza, di accesso alle risorse, ingenerando b) la paura dell’invasione dei paesi ricchi da parte di lavoratori provenienti da paesi poveri (o impoveriti da anni di guerre o dallo sfruttamento delle proprie materie prime da parte delle multinazionali); queste “invasioni”

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di lavoratori creano c) la paura della disoccupazione e dell’appropriazione dei propri spazi; questa invasione provoca d) un nuovo senso schizofrenico dell’identità dove da un lato si tende a riappropriarsi di schemi e tradizioni32, in molti casi solo obsolescenze storiche, dall’altro essendo inseriti in una cultura che tende al cosmopolitismo si tende ad avere e) uno strano rapporto con la

corpo di costumi e di tradizioni, di atteggiamenti e di sentimenti organizzati entro questi costumi e trasmessi mediante questa tradizione. In altre parole, la città non è semplicemente un meccanismo fisico e una costruzione artificiale: essa è coinvolta nei processi vitali della gente che la compone; essa è un prodotto della natura, e in particolare della natura umana [...]. I mezzi di trasporto e di comunicazione, le linee tranviarie e i telefoni, i giornali, la pubblicità, le costruzioni in acciaio e gli ascensori – tutte cose, di fatto, che tendono a produrre nello stesso tempo una maggiore mobilità e una maggiore concentrazione delle popolazioni urbane – sono fattori primari dell’organizzazione ecologica della città». In R. E. Park, E. Burgess, R. D. McKenzie, La città, Edizioni di Comunità, Cremona, Cremona Nuova, 1967, p. 5. 28 Simmel, G., La metropoli e la vita mentale (1903), in Wright Mills, C., Immagini dell’uomo. La tradizione classica della sociologia, 1960, Edizioni Comunità, Milano, 1963. 29 «La complessità è davvero una sfida. È una sfida ambivalente, con due facce, come Giano. Da una parte è l’irruzione dell’incertezza irriducibile nelle nostre conoscenze, è lo sgretolarsi dei miti della certezza, della completezza, dell’esaustività, dell’onniscienza che per secoli - quali comete - hanno indicato e regolato il cammino e gli scopi della scienza moderna. Ma d’altra parte non è soltanto l’indicazione di un ordine che viene meno; è anche e soprattutto l’esigenza e l’ineludibilità di un approfondimento dell’avventura della conoscenza [...]. In questo senso il delinearsi di un ‘universo incerto’ non è tanto il sintomo di una scienza in crisi, ma anche e soprattutto l’indicazione di un approfondimento del nostro dialogo con l’universo, l’indicazione della forza dei nuovi modelli elaborati dalle nostre scienze nel tentativo di tenere conto del massimo di certezze e di incertezze per affrontare ciò che è incerto». In Bocchi, G., Ceruti, M., (a cura di), La sfida della complessità, Feltrinelli, Milano, 1985, pp. 7-8. 30 Beck, U., Che cos’è la globalizzazione, Carocci, Roma, 1999, p. 24. 31 «la vecchia concezione di cittadinanza come insieme di diritti definiti e non modificabili, uniformi, anzi identici e come espressione di interessi comuni a una collettività omogenea, non corrisponde più al dato di fatto della società ed è sorpassata di fronte alle diversità culturali e religiose che convivono nel mondo contemporaneo». In Balbo, L., Società della cittadinanza, società della diversità in Mauri, L., Micheli, G. A. (a cura di), Le regole del gioco. Diritti di cittadinanza e immigrazione straniera, Franco Angeli, Milano 1992, p. 63. 32 Cfr. Huntington, S. P., The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order,1996, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, 2000.

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globalizzazione, dapprima risolutrice di tutti i problemi, poi rivelatasi solo come sinonimo di mercato33 con una mano che è diventata spudoratamente visibile (con buona pace di Adam Smith!); f) il mercato certamente necessita di uno stato sociale leggero, di un mercato del lavoro flessibile, ma soprattutto di consumatori sempre con nuovi bisogni (creati)34 da soddisfare e questo g) ingenera stress, certamente accentuato dai mass media che enfatizzano problematiche come la guerra (Iraq, Afghanistan), la questione ambientale o della sicurezza delle nostre comunità. In questo scenario di forti mutamenti sociali ed economici e di crisi della rappresentanza politica, la messa in discussione dei diritti di cittadinanza, l’arretramento delle politiche di welfare e la trasformazione dello stesso concetto di lavoro35, sono tutte forme di paura36 per una quota consistente di persone. 3. LA CRISI E L’IDEOLOGIA DEL SACRIFICIO La nostra società è anche conosciuta come società del benessere perché nel contempo si articola attraverso l’intervento attivo e massiccio dello Stato, attraverso una robusta espansione del settore privato che, per sua natura tende all’accumulazione e, come accennato in premessa, da una sempre maggiore consistenza di una quota di economia informale. Questo modello nel corso della sua evoluzione è andato incontro ad una serie di crisi che, come vedremo più avanti, sono proprie del sistema di produzione capitalistico. Attestare che dal 2008 esista una crisi pesantissima è una cosa sulla quale si può agevolmente concordare. La crisi è confermata non solo dalla percezione sociale, ma soprattutto dagli indicatori sociali generali, visto che in tutti gli stati occidentali i tassi di disoccupazione sono in fortissima ascesa e non si riescono ad immaginare ricette di politiche economiche che possano

33 «Questa ideologia è basata sull’assunto che il libero mercato massimizza la crescita e la ricchezza del mondo, e produce una distribuzione ottimale dell’incremento. Per questa ideologia – a mio parere – non c’è mai stata alcuna giustificazione. Si può dire, forse, che un mercato capitalistico libero produce un più alto tasso di crescita di ogni altro sistema, ma si può certo dubitare che esso assicuri un’ottimale distribuzione della ricchezza». In HOBSBAWM, E. J., Intervista sul nuovo secolo, Laterza, Roma-Bari, (1999), p. 64. 34 Secondo Di Nallo ogni distinzione di classe poggia sull'accumulo di tre capitali (economico, culturale e sociale). Dalla diversa combinazione di questi tre fattori si determinano le posizioni e i conflitti di quelle parti «in continuo conflitto per occupare posti superiori all’interno della classe e nell’ambito della struttura di classe nel suo complesso». In Di Nallo, E., Quale marketing per la società complessa?, FrancoAngeli, Milano, 1998, p. 138. 35 «Il lavoro astratto semplice che dai tempi di Adam Smith era considerato come la fonte del valore, è sostituito da lavoro complesso. Il lavoro di produzione materiale, misurabile in unità di prodotto per unità di tempo, è sostituito dal lavoro detto immateriale, al quale non sono più applicabili unità di misura classiche». In Gorz, A., L’immateriale. Conoscenza, valore, capitale, Bollati Boringhieri, Torino, 2003, p. 9. 36 Cfr. Bauman, Z., Paura liquida, Laterza, Bari-Roma, 2008.

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immettere nel circuito produttivo la crescente quota di persone disoccupate e inoccupate. La non partecipazione delle persone ai processi produttivi in quote percentuali sempre più ampie, rappresenta un formidabile freno alla vita sociale. Se c’è una crisi del sistema sociale che non permette la piena espressione delle persone attraverso il proprio operato, si mette a rischio la vita della società stessa. Un altro segnale d’allarme, particolarmente sentito in Italia, è il debito nel bilancio dello Stato. Questo è un impedimento grave perché impedisce di liberare risorse utili negli investimenti strutturali, azioni che ingenerano politiche di sviluppo, ma anche sono tutte energie sottratte a possibili politiche a sostegno dell’occupazione. La crisi è grave non solo perché si valutano degli indicatori statistici, ma soprattutto per come questa viene vissuta dalle persone che sperimentano un senso profondo di disorientamento e di impotenza rispetto alle necessità quotidiane e alle prospettive future. Rispetto alle generazioni passate che riuscivano a progettare percorsi di vita, sperimentando un sentimento di fiducia nel futuro che portava alla consapevolezza che le condizioni di disagio sarebbero state superate, oggi il sentimento dominante è quello di una mancanza di prospettive e di sfiducia nel miglioramento delle proprie condizioni. La società attuale ci presenta degli elementi di notevole incertezza, lascia trasparire i segni di una crisi dove tutto viene messo in discussione. Nelle argomentazioni che tentano di spiegare e comprendere le ragioni della crisi (intesa come processo ciclico dell’economia) si tende ad avere un tipo di atteggiamento semplificatore, le cause dei problemi sono determinati da terzi: l’eterno conflitto del capitale verso la forza lavoro. Questa analisi coglie in modo molto falsato il fenomeno che sottostà alla crisi, perché pone il problema sotto il punto di vista delle singole volontà, ma se così fosse, una volta eliminate le controparti scomparirebbe il problema, ma è uno scenario improbabile. Negli Stati Uniti, per esempio, dopo dodici anni di governi repubblicani, molte speranze di rinnovamento risiedevano nell’elezione a capo della Casa Bianca del democratico Bill Clinton, ma nonostante le speranze, se non si fossero verificate delle favorevoli variazioni congiunturali dell’economia egli si sarebbe trovato in serie difficoltà nell’implementazione di politiche sociali e nel far fronte al problema dello Stato Sociale. Tuttavia, per rimanere nell’esempio delle volontà opposte, preso nella morsa di tendenze contrastanti, Clinton per intervenire nei problemi strutturali del welfare agì tagliando risorse per miliardi di dollari, soluzione questa di chiaro stampo repubblicano. Parti opposte che adottano le stesse misure. Questo accade anche ad altri livelli di responsabilità e contrattazione, come per esempio quando spostiamo l’attenzione dal livello politico a quello sindacale.

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L’ideologia del taglio alle spese e dei sacrifici è stata mutuata in toto anche dai vertici sindacali, l’unica differenza consiste nella distribuzione temporale, tanto è vero che le forze sindacali hanno adottato l’ideologia del sacrificio dal primo governo Amato. La differenza tra oggi ed allora è nella gradualità con la quale certe riforme devono essere portate avanti, ma tutte le parti in causa convergono sullo stesso tema: tagli agli sprechi e sacrifici. Questa ritrovata ideologia come vedremo in seguito è antieconomica e tende ad innescare un processo di impoverimento delle fasce sociali; ciò nonostante si pensa che questa tendenza sia necessaria perché in un’asseto sociale fortemente connotato dalle crisi economiche, si è radicata la convinzione che nel corso dei decenni le società occidentali abbiano vissuto al di sopra delle proprie possibilità e quindi per rientrare in un assetto più consono alle nuove esigenze bisogna che tutte le fasce sociali abbassino il proprio tenore di vita, limitando le possibilità di agire nella quotidianità. Nel 1929, con il precipitare della prima grande crisi economica da sovrapproduzione, la disoccupazione salì a tassi prossimi al 20% determinando un impoverimento reale della società: gli economisti ortodossi, data la gravità della crisi, suggerivano ai decisori politici che i provvedimenti da intraprendere per far fronte ad uno scenario così depressivo, dovevano essere politiche improntate al sacrificio, al risparmio e al taglio degli sprechi. Ma è proprio in quegli anni che emerge con forza un’idea alternativa, per certi versi rivoluzionaria, l’idea dello Stato Sociale che con forza si fa strada grazie al capovolgimento dell’assunto degli economisti ortodossi. 4. IL SENSO DEL CAPITALISMO L’economista inglese John Maynard Keynes diede prova che le cose stavano esattamente all’opposto di quelli che erano i dettami della teoria economica dominante, la neoclassica; Keynes sosteneva che c’era una condizione che prevaleva nell’occupazione: le persone potevano svolgere un lavoro solo se, nell’istante stesso in cui lo svolgevano, generavano anche un profitto. La relazione capitalistica si configurava come quel rapporto sociale dominante attraverso il quale si soddisfacevano i bisogni: il capitalista avrebbe dato posti di lavoro solamente se dall’attività del lavoratore fosse scaturito un profitto. Pur nella sua durezza questo tipo di rapporto è in senso assoluto il più rivoluzionario rapporto sociale nella storia dell’uomo. Se questo tipo di rapporto non si fosse imposto come dominante, se i capitalisti non avessero recepito questa forma di egemonia, culturale prima che economica, la storia della civiltà non sarebbe stata la stessa.

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La realtà sociale è stata completamente rivoluzionata dal concetto di profitto, perché lo stesso concetto è stato accompagnato da un altro modo di allocazione delle risorse: si è passati dalle piccole risorse per il consumo corrente alla produzione su scala allargata: tutti questi elementi combinati insieme ridisegnano gli orizzonti dell’economia, il fine del capitalismo diviene l’incessante crescita della portata produttiva. Questa nuova idea della produzione, del profitto, del capitale che ingenera altro capitale, è la motivazione grazie al quale gli uomini sono riusciti ad emanciparsi da condizioni di assoluta miserevolezza e dalla scarsità di risorse proprie sia della fase precapitalistica, sia della prima fase capitalistica. Nel primo periodo la classe lavoratrice subisce un vero e proprio impoverimento perché il processo capitalistico toglie mezzi naturalmente destinati al consumo corrente per destinarli, invece, all’accumulazione, ma proprio questo dislocamento delle risorse dà origine ad un sistema di produzione che sarebbe stato impensabile in altri periodi storici. Il capitale persegue lo scopo dell’accumulazione della ricchezza e in qualche modo crea delle condizioni per assolvere a questa missione. Siffatto automatismo di sviluppo è positivo solo fino a che la condizione umana è in generale una condizione di penuria; il capitale con la sua incessante necessità di crescere inevitabilmente determina una nuova struttura sociale, favorendo difatti un parziale superamento delle condizioni di scarsità delle risorse della popolazione in generale; la crescita porta con se lo sviluppo nella forma di ferrovie, strade, abitazioni, fabbriche e, in generale, di infrastrutturazione. Tout

court, il «general intellect»37 del capitalismo ha cambiato il mondo, quello

governato da forme di produzione locali con scarsa tendenza all’innovazione tecnica. Il mondo ridisegnato dal capitalismo rifugge la scarsità di risorse, ma contemporaneamente nel risolvere alcuni storici problemi, il capitale è padre di nuovi, emergenti, problemi. Se il nuovo assetto riesce ad avere una sempre maggiore capacità produttiva, una sempre crescente capacità di generare ricchezza e di reinvestire la stessa in un processo di continua crescita dei mezzi di produzione, si arriva poi all’inevitabile momento in cui questa prosperità deve sfociare nel consumo, nella vendita oppure il capitale stesso è stato consumato. Il capitale non può reggersi al di là del semplice consumo, anche se reclama con forza di farcela, ma il problema è che il prodotto/merce o si tramuta in valore d’uso e soddisfa bisogni nel consumo, o la ricchezza monetaria non si concretizza. E qui emerge con forza l’aspetto deteriore del sistema capitalistico: il continuo disequilibrio tra domanda ed offerta che fa crollare i prezzi, che

37 Cfr. Marx, K., Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, La Nuova Italia, Firenze, 1970, p. 403.

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produce disoccupazione ed impoverimento di massa; in questo processo una parte del capitale va persa, obbligando il capitalista a ricominciare il ciclo produttivo su una scala dimensionale più grande; tale processo si sostanzia nel fatto che ad una capacità di produrre non corrisponde una capacità di consumare. Questa è stata una caratteristica del capitalismo nella sua fase di espansione. Dal 1929 gli scenari cambiano e il sistema mostra una tendenza strutturale alla stagnazione in quanto i capitalisti non riuscivano più a crescere, ad assorbire forza lavoro e a generare sviluppo; in questa situazione prendono corpo le idee di Keynes, infatti egli afferma che se il sistema capitalista pretende di impiegare le risorse solo pensando ad uno scenario di incessante espansione della capacità produttiva, queste risorse non vengono usate, restano sprecate. L’impulso rivoluzionario consiste nel considerare le risorse come volano di sviluppo: esistono le fabbriche chiuse, le materie prime inutilizzate, i lavoratori disoccupati, se tutte queste parti del processo produttivo venissero utilizzate anche in assenza di profitto, allora il sistema sarà in grado di assicurare un nuovo ciclo di sviluppo. In breve, Keynes affermava con forza che il consumo determina lo sviluppo. Facendo crescere la propensione al consumo degli uomini, questi impareranno a beneficiare delle possibilità che derivano dall’abbondanza. Il problema teorico consiste nel fatto che se il capitale produce in mancanza di profitto, in quel preciso istante sta contraddicendo se stesso, non opera seguendo le logiche del capitale e perciò deve inevitabilmente limitare la produzione. Naturalmente Keynes non pensava al capitale, ma ad un altro attore protagonista nel nuovo scenario: lo Stato che deve impiegare le risorse nella soddisfazione dei bisogni costruendo case, scuole, costruendo infrastrutture e in questo modo favorendo la piena occupazione. Per effetto delle teorizzazioni keynesiane l’azione dello Stato nell’economia cominciò ad essere massiva, incidendo progressivamente fino al 50-60% del prodotto interno lordo. Questa nuova fase dell’economia corrispose un diffuso arricchimento della società. In conseguenza della teoria Keynesiana, gli scenari cambiano; la disoccupazione che si era presentata come un elemento ciclico nel corso del XIX secolo e come elemento strutturalmente presente nelle economie avanzate tra il 1920 e 1930, cala drasticamente toccando il 2–3% in diversi stati, cifre inimmaginabili in periodi precedenti. Lo Stato Sociale si impone in molte economie insieme alla politica della piena occupazione, questo binomio riesce a garantire una grande prosperità e un diffuso sviluppo, tant’è che in questo periodo l’Italia si struttura come un Paese pienamente industriale, le condizioni di vita della popolazioni migliorano e con esse l’allungamento della vita media, in generale, tutta la prosperità che deriva da questi interventi, muta in profondità le condizioni di vita della popolazione.

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Tuttavia, nella percezione comune lo sviluppo è tale solo se non comporta mai problemi. Naturalmente questo atteggiamento è decisamente fuorviante in quanto ogni fase di sviluppo comporta dei cambiamenti e delle incognite che nessuno può preventivare; un nuovo assetto socio-economico implica una serie di nuove problematiche difficili da governare. Quando un sistema inizia a produrre nuovi beni e servizi, (per esempio come accadde quando iniziarono le produzioni delle prime automobili o quando iniziò a diffondersi nelle case la televisione etc.) nessuno può prevedere quale potrebbe essere l’impatto nella vita comune delle persone; lo sviluppo è certamente un incredibile processo di creazione di nuove opportunità e di nuove incognite. Gli uomini sono poco adattativi o come si dice in biologia sono poco teleonomici38 e raramente riescono a trasformare usi e costumi ed a imparare dal processo che hanno generato. Lo stesso Marx nel II volume dei Gründrisse

39 afferma che il comunismo è quel processo in cui gli uomini imparano continuamente a cambiare se stessi in base ai cambiamenti che essi introducono nella società. Questo è ancor più vero per gli uomini che sono vissuti nella società pre-capitalistica e per gli uomini vissuti all’inizio del primo periodo capitalista, perché questi consideravano i loro comportamenti come meccanismi sociali naturali. In questa cornice, ogni mutamento è vissuto come arbitrario, come qualcosa che altera in negativo lo status quo; i problemi non vengono considerati come necessariamente legati allo sviluppo, ma vengono valutati isolatamente e percepiti come preoccupazioni da eliminare nel più breve tempo possibile. La crisi, nei suoi effetti tangibili e nel suo portato immaginifico, deriva dall’opposizione tra i processi sociali che vengono posti in essere e l’incapacità degli uomini di trasformarsi. Un esempio di incapacità di trasformare le relazioni è quello della disoccupazione, cioè l’incapacità di far partecipare le persone alle attività produttive impedendone di fatto la partecipazione alla socialità delle relazioni più ampie; la disoccupazione, quindi, è il problema principale. Secondo Keynes è il settore pubblico deve sostenere direttamente l’occupazione facendo di fatto lavorare le persone (investimenti per l’infrastrutturazione del territorio), ma c’è anche una forma di sostegno indiretto che deriva dal salario dato ai dipendenti pubblici che a loro volta saranno in grado di consumare beni e richiedere servizi. Quando si decide di effettuare dei tagli alla spesa pubblica, inevitabilmente questa operazione comporta disoccupazione diretta ed indiretta.

38 Termine introdotto in biologia da Jacques L. Monod (1970) per indicare il finalismo insito nelle strutture e nelle forme tipiche degli organismi viventi, dovuto all’azione della selezione naturale, che favorisce le strutture e le funzioni adatte allo svolgimento delle attività vitali ed elimina quelle inadeguate. Fonte: Enciclopedia Treccani 39 Cfr. Marx, K., Op. cit.

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Le teorie neoliberiste dagli anni settanta in poi hanno sostenuto che l’attività dello Stato deve essere limitata, che i servizi pubblici debbano essere privatizzati e che solo in questo modo il PIL di ogni economia può crescere, liberando gli imprenditori dalla morsa delle tasse mettendoli nelle condizioni di investire e quindi di creare maggiore sviluppo e occupazione. Questa tesi mal si concilia con la storia economica. Lo Stato è intervenuto nell’economia perchè l’accumulazione capitalistica aveva mostrato tutti i propri limiti, in quanto la società nel suo complesso, nonostante molte fasce sociali risultassero ancora povere, viveva in un periodo di abbondanza e non riuscendo a produrre altro sviluppo, mostrava tutti i suoi limiti nel non saper creare altra occupazione quindi altro consumo. L’intervento dello Stato in economia ha subito molte critiche perché con esso si affermata una forma di ingente ed inevitabile spreco di risorse e di parassitismo delle forze produttive. Secondo Keynes anche quella forma di spreco che si manifesta con l’intervento statale è importante perché regola dei meccanismi sociali non sempre evidenti; questa attività economica, anche se dispendiosa, comporta un arricchimento e ha un impatto su tutto il sistema economico. Senza l’intervento dello Stato avremmo avuto un’occupazione più bassa perché in questo senso il cosiddetto spreco è una condizione determinante per lo sviluppo economico. Il problema del capitalismo è la produttività. Nei processi produttivi avviene un mutamento che è alla base della disoccupazione, cioè si introducono in maniera sistematica innovazioni tecnologiche ed organizzative, in questo modo per operare necessita sempre meno lavoro. Se il ciclo economico si trova in un periodo di crescita, il lavoro reso superfluo dalla produttività può essere assorbito dal nuovo ciclo di accumulazione, per cui cresce la capacità produttiva cresce lo sviluppo e si riavvia il processo di integrazione della forza lavoro. Dopo la grande crisi del 1929, il sistema economico non riusciva più a collocare quella massa di lavoratori resi superflui dalla produttività e Keynes propose appunto l’intervento dello Stato a sostegno dell’economia. Oggi la produttività ha raggiunto dimensioni tali da crescere sempre molto più di quanto non riesca a crescere la domanda e quindi oggi non sarebbe concepibile prevedere una espansione del settore pubblico perché ciò richiederebbe una immensa mole di risorse economiche, questo sarebbe per il sistema economico una vera e propria sciagura. Appare altresì difficile, data la pesantissima crisi che investe i sistemi economici, che il capitale riesca a mettere in campo azioni tali da favorire un poderoso sviluppo economico, al contrario sembra che si vada sempre più verso un ridimensionamento dei livelli occupazionali.

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4. LA TERZA ESSENZA DELL’ECONOMIA Nelle moderne società perdurano delle logiche che enfatizzano il valore delle sole attività che derivano da una forma di produzione classica, caratterizzata dal perdurare del rapporto basato sul lavoro salariato che porta, in ultima analisi, allo stretto senso del consumo, in quanto «è proprio nel consumo che avviene il passaggio da una dimensione privata a una pubblica, da una razionalità strumentale centrata sulla massimizzazione dell’interesse personale ad una razionalità intesa nel senso di una corrispondenza tra ciò che si cerca di ottenere e il modo in cui farlo»40 e quindi la «funzione sociale del consumo è la sua capacità di “dare significato”»41. Questa logica viene ad essere totalmente capovolta quando si parla di forme di produzione che creano ugualmente valore e allo stesso tempo occupazione, parliamo della logica del del terzo settore o dell’economia informale: terzo settore in quanto terzo rispetto allo stato e al mercato; il suo funzionamento è molto diverso rispetto agli altri settori in quanto non basato, per usare categorie concettuali kantiane, su obbligazioni perfette – in un contratto, qualcuno vende qualcosa ad una controparte e questa assume un’obbligazione perfetta di pagare la somma concordata – ma su obbligazioni imperfette, vale a dire quelle obbligazioni che spettano a molti di noi, ma che non gravano specificatamente su nessuno. La prima obbligazione ha un carattere giuridico mentre la seconda ha un carattere di tipo solidaristico. È una distinzione molto importante in quanto il terzo settore può essere visto come un’estensione delle obbligazioni imperfette in capo ai cittadini e alla società. Il terzo settore si differenzia dagli altri settori non solo su categorie giuridiche, ma assume anche una distinzione su concetti marcatamente economici. Nell’analisi economica i costi e i benefici sono concetti ovviamente molto importanti, ma spesso interpretati in senso aziendalistico, dove il costo è solo un costo finanziario sfuggendo da un’interpretazione più generale del concetto economico di costo, vale a dire, se i costi sono rinuncia a dei benefici, bisogna dare un valore a questi benefici. Il concetto di solidarietà si costruisce sul «problema della effettiva presenza di valori universalmente condivisi e di regole generalmente rispettate, nonché delle condizioni concrete in base alle quali si rende possibile l’esperienza di un’appartenenza comune che non sia fondata sulla negoziazione delle differenze»42.

40 Sen, A., Etica ed economia, Laterza, Roma-Bari, 1998, p. 21. 41 Douglas, M., Isherwood, B., Il mondo delle cose. Oggetti, valori, consumo, Il Mulino, Bologna, (1984), p. 69. 42 Crespi, F., “Solidarietà dell’essere e conflitto delle differenze” in Studi perugini 1/96, p. 42.

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Questo è l’elemento che contraddistingue il terzo settore che in gran parte sopravvive grazie alla motivazione di persone intente ad aiutare qualcun altro. Queste persone agiscono perchè sentono di doverlo fare, perciò la rinuncia al tempo libero e agli svaghi può rappresentare un costo non molto elevato. Le norme sociali si riflettono in maniera essenziale anche sul concetto economico di costo riguardo al terzo settore; molte attività si basano su motivazioni personali, incluse le obbligazioni imperfette, l’esigenza di aiutare gli altri che hanno bisogno. Una parte della letteratura economica ritiene che gli esseri umani siano interessati soltanto al proprio profitto individuale, ignorando tutta una varietà di motivazioni – la generosità, l’empatia, lo spirito di sacrificio, il senso della

giustizia – che rendono possibile l’esistenza del terzo settore; gli esseri umani vivono all’interno della società, hanno delle preoccupazioni, esprimono valutazioni che fanno parte dell’uomo in quanto animale sociale, oltre alle motivazioni prettamente individualistiche come mirare al massimo profitto. La logica dell’economia informale, espressa per esempio nel volontariato, soddisfa una serie di bisogni anche al di fuori del tipico rapporto salariato e dei mezzi e degli strumenti di produzione, perché il limite della proprietà dei mezzi di produzione viene superata dalla solidarietà, mentre viene esaltata la prestazione del proprio tempo e della propria attività. Nella società attuale stanno emergendo nuovi bisogni che interrogano rapporti diversi da quelli ortodossi come il denaro (che riesce sempre meno ad essere rapporto sociale) e che richiedono una concezione dell’individuo e della sua socialità ben diverso da quello a cui siamo abituati, una concezione che richiede mutamenti qualitativi profondi e che bene si sostanzia in forme solidaristiche come il volontariato, la cooperazione e l’associazionismo. Questa può configurarsi come una opzione tesa a risolvere i problemi della Stato Sociale, un Welfare di prossimità capace di mutare le forme dell’essere sociale. I sistemi di Welfare sono ormai da tempo in una fase di rapida trasformazione, sia per la difficile sostenibilità dei sistemi stessi, sia per la complessa evoluzione delle società moderne, dove si manifestano nuove povertà, nuovi bisogni ed emergono nuove dinamiche di esclusione sociale. Questi scenari comportano dei cambiamenti in tutti i settori economici (Pubblico, privato e Terzo settore), ridefinendo di fatto sia le rispettive sfere operative, sia gli equilibri tra le istituzioni e gli stakeholders. L’evoluzione e la modernizzazione del Welfare state – che nell’immaginario collettivo è legato al concetto di Stato – determina un mutamento anche degli altri settori, ma in maniera marcata determina un cambiamento del ruolo del Terzo settore. Questo cambiamento parte teoricamente con l’applicazione dei modelli derivanti dal modello del Nuovo Managent Pubblico che introduceva i principi di efficacia

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ed efficienza, il principio dell’equilibrio dei conti dinanziari ed economici, la separazione tra la funzione amministrativa e gestionale da quella di indirizzo politico e la nuova visione del cittadino cliente e della relativa soddisfazione. Naturalmente queste tendenze ha delineato un ruolo sempre più importante al Terzo settore nella funzione di gestore, produttore ed erogatore di beni e servizi in una logica di sussidiarietà orizzontale. Questo modello però già negli anni novanta sperimenta delle distorsioni, in quanto l’ambito dei servizi di pubblico interezze non può configurarsi come una mera attività commerciale e i bisogni dei cittadini non potevano essere ascoltati, gestiti con le logiche aziendalistiche o commerciali che si applicano ad un cliente. L’evoluzione di questo modello prende il nome di Nuova Governance Pubblica che apre nuovi canali di comunicazione e di cooperazione tra i vari attori sociali, promuovendo in sostanza nuovi processi decisionali partecipati nell’ambito delle politiche sociali. In breve, gli stakeholders, le parti sociali e gli operatori del sociale non solo producono beni ed erogano servizi, ma partecipano all’orientamento delle scelte sulle politiche pubbliche. Il cambiamento dei ruoli e delle funzioni della Pubblica amministrazione e degli operatori del privato non profit portano ancora ad un’evoluzione teorica sul concetto e sulla funzione di servizio pubblico. La Pubblica Amministrazione, secondo la teoria del Nuovo Servizio Pubblico, deve sostenere ed agevolare i cittadini a soddisfare i loro bisogni attraverso la libera e cosciente adesione alla vita di una comunità e attraverso la piena integrazione nella rete di diritti e doveri, nonché l’assunzione di responsabilità attraverso l’accrescimeto delle proprie capacità ed accesso a nuove opportunità: in breve, cittadinanza ed empowerment. La trasformazione del concetto di welfare, dunque, passa da una condizione contraddistinta dal centralismo dello Stato nell’erogazione universalistica di beni e servizi, ad un’altra condizione che prevede la partecipazione degli attori sociali nei processi decisionali. La nuova visione del welfare prevede un arretramento sostanziale dell’intervento dello Stato, ma allo stesso tempo prevede la responsabilizzazione di una plurarità di soggetti che si prestano ad progettare, produrre ed erogare una pluralità di servizi, realizzando de facto un vero e proprio sistema misto, prossimo al cittadino, un Welfare mix che si manifesta come un sistema in grado di equilibrare logiche istituzionali, capitale sociale e i soggetti sociali coinvolti, attuando sui territori una vera e propria governance sociale. Data la situazione dell’Italia e del suo impianto istituzionale – si contano più di ottomila comuni – il Welfare locale si è caratterizzato sempre più come un welfare municipale con funzioni di completamento del sostegno sociale rispetto all’azione del settore Pubblico nazionale. Tuttavia, le sempre minori erogazioni dello Stato ai comuni hanno non hanno agevolato la piena attuazione di questo

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modello. La scarsa capacità di incidere da parte dei comuni determina una ridefinizione sia dei livelli di responsabilità, progettazione e regolazione tra le varie istituzioni (Amministrazioni centrali, regionali e locali), sia dei diritti di cittadinanza e di accesso alle misure di welfare. Il Welfare di prossimità, dunque, necessita di un ripensamento sia per quel che concerne il rapporto centro/periferia, sia per ciò che riguarda la capacità di programmare e regolare le azioni di redistribuzione. In questo senso si possono registrare vari modelli concettuali su come debba evolvere il il sistema locale di prortezione e sostegno sociale. Una prima riflessione sul ruolo del welfare di prossimità parte dalla considerazione del nuovo scenario, cioè dalla graduale rinuncia dello Stato centrale ad implementare politiche sociali territoriali, conseguentemente, alla rinuncia ad azioni redistributive e a politiche di inclusione sociale e di riequilibrio territoriale. Un’altra visione vede il welfare territoriale indispensabile per far fronte ai nuovi disagi e alle nuove povertà che investono le varie comunità, in questo senso la dimensione municipale diventa quella privilegiata per l’implementazione di politiche sociali. In questo senso appare sempre più evidente come le competenze e le responsabilità debbano essere trasferite da un livello statale ad un livello regionale, luogo istituzionale naturale per l’interlocuzione e il coinvolgimento delle parti sociali e del terzo settore nei processi di orientamento e progettazione delle politiche sociali; politiche sociali incentrate sulla redistribuzione territoriale, sul concetto di riequilirio tra diversi territori e tra le varie fasce sociali non hanno solo una valenza etica, ma sono la base di partenza per una crescita del sistema socio-economico; un territorio dinamico, equilibrato e solidale pone le basi per lo sviluppo locale incentrato sulla cooperazione tra i territori. Per quanto siano diversificate le concezioni e le scelte politiche a cui si fa rifarimento nella progettazione dei sistemi di welfare, come pure è senza dubbio lungo e difficoltoso il cammino che porta alla sua organizzazione, si può pensare ad un sistema sociale che faccia a meno di un rinnovato approccio ad un welfare di prossimità? Si può immaginare un territorio che per qualificarsi, per innalzare la qualità di vita dei propri cittadini, per le dinamiche del proprio sviluppo economico, non prenda in considerazione l’idea dell’implementazione di politiche sociali fortemente inclusive? Queste domande rappresentano le sfide che le comunità e i territori hanno di fronte.

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