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19014 Economia del lavoro A.A. 2007/2008
Prof. A. Gaj Pagina 1 di 28
Lezione 2: Mercati interni del lavoro e organizzazione
2.2 L'organizzazione come macchina: il paradigma classico L'organizzazione ha assunto un ruolo come disciplina scientifica e come fonte di
indicazioni per la prassi delle aziende, offrendo prima di tutto un contributo
all'efficienza dei processi produttivi e amministrativi e promuovendo un pieno
conseguimento dei vantaggi derivanti dalla divisione del lavoro.
Nell'Ottocento e nei primi decenni del Novecento i criteri di efficiente
organizzazione del lavoro si sono affermati in parallelo agli sviluppi
dell'industria e ai grandi incrementi di produttività ottenuti attraverso la
meccanizzazione dei processi.
È quindi naturale che la macchina è diventata il riferimento concettuale di
fondo assunto anche dalle teorie organizzative: ricondurre l'impiego del lavoro
umano a sequenze di attività preordinate e programmate in modo da
massimizzarne il rendimento, è divenuta la leva fondamentale per ottenere nei
sistemi industriali spettacolari guadagni di efficienza, produttività, affidabilità
dei risultati.
Il paradigma meccanico dell'organizzazione si è quindi costruito e consolidato
sui seguenti presupposti:
1. metafora di riferimento che riconduce alla razionalità ed efficienza della
macchina di derivazione industriale, o anche delle strutture militari;
2. definizione di confini netti e ben presidiati dell'organizzazione rispetto
alla realtà esterna ed anche, al suo interno, tra le componenti o unità che
si sviluppano in linea verticale (gerarchia) e orizzontale (articolazione di
funzioni e compiti ben delineati);
3. ricerca di condizioni di stabilità, sicurezza, ripetitività come fattori
fondamentali per l'efficienza dei processi produttivi.
A questo comune orizzonte di riferimento, che configura il paradigma classico o
tradizionale dell'organizzazione, si possono ricondurre i contributi di Taylor e
Weber, basilari per i successivi sviluppi delle teorie organizzative.
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2.2.1 Taylor e l'organizzazione scientifica del lavoro
L'ingegnere americano Frederick Winslow Taylor (1856-1915) fu il principale
promotore della organizzazione scientifica del lavoro o scientific management,
attraverso una intensa attività nell'industria come tecnico, consulente,
formatore e diffusore dell'applicazione dei metodi e delle tecniche da lui
direttamente elaborati e sperimentati. Il "taylorismo" continuò e si diffuse,
dopo la morte di Taylor, come movimento orientato a influenzare la prassi
organizzativa delle aziende ed aumentò il suo impatto anche attraverso l'azione
di Henry Ford che fece dell'innovazione organizzativa secondo criteri tayloristi
una delle leve fondamentali di espansione e successo della sua impresa
automobilistica. Il "fordismo" diventò lo sviluppo naturale del taylorismo anche
attraverso la propria capacità di integrare il nucleo originario di concetti e
metodologie e soprattutto di indurre processi imitativi su larga scala,
nell'industria americana ed europea.
Il principio fondamentale dell'organizzazione scientifica del lavoro consiste nella
ricerca di massimizzazione dell'efficienza produttiva attraverso la leva della
divisione del lavoro, spinta a livelli molto accentuati in base a uno studio
attento e analitico delle operazioni elementari attuate dai lavoratori, dei metodi
e degli strumenti impiegati e dei tempi di svolgimento. L'essenza del metodo
taylorista consiste nell'attenzione rivolta alle modalità operative impiegate
dagli operai di maggiore rendimento e capacità (di prim'ordine") e nella
successiva azione di codifca e standardizzazione rivolta a diffondere e
generalizzare metodi e procedure rivelatisi più efficienti (Grandori, 1995).
L'organizzazione scientifica comporta quindi una scissione tra l'attività di coloro
che progettano e definiscono l'organizzazione del lavoro, come gli ingegneri
specialisti di "tempi e metodi" e quella degli operatori chiamati a conformarsi il
più attentamente possibile alle istruzioni ricevute. Come avviene per una
macchina, l'organizzazione deve rispondere a un progetto, dalla cui bontà di
impostazione e fedeltà di esecuzione discende la validità del risultato.
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Il taylorismo si impernia, oltre che su criteri tecnici, anche su un ragionamento
economico e in qualche misura sociale; si assume che le imprese che adottino
correttamente i nuovi metodi dispongano di un vantaggio competitivo, come si
direbbe oggi; possano conseguire quindi migliori risultati economici in seguito a
risparmi di costi e realizzazione
di produzioni tecnicamente più valide. Se queste imprese avranno la
lungimiranza di destinare una quota di queste risorse all'incremento dei salari
dei lavoratori, si realizzerà un circolo virtuoso che vedrà gli operai sempre più
convinti del loro interesse a conformarsi alle prescrizioni dell'organizzazione
scientifica e quest'ultima sempre più legittimata agli occhi di tutti i
protagonisti, imprenditori, azionisti, manager, tecnici, lavoratori, come fonte di
sviluppo e di benessere diffuso.
A ben vedere, quindi, la visione taylorista dell'organizzazione possiede la
qualità di un progetto complessivo, tecnico, economico e sociale (Volpato,
1978). Mentre molti imprenditori, manager e tecnologi ne applicheranno
pragmaticamente metodi e tecniche in modo anche riduttivo e parziale, senza
coglierne lo spirito di globalità, Taylor stesso ebbe modo più volte di
sottolineare come la sua impostazione non si possa identificare con i diversi
elementi utilizzati nella razionalizzazione industriale, come il cottimo o la
misurazione dei tempi, ma configuri una «completa rivoluzione mentale»,
come affermò durante la sua deposizione davanti alla commissione speciale
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d'inchiesta della Camera dei deputati (De Masi, 1992; Taylor, 1962; Volpato,
1978).
Tra le spinte che determinarono il successo pratico dello scientific management
c'è anche certamente quella collegata all'emergere di un nuovo ceto di tecnici e
di specialisti, che cominciavano in quegli anni a formare e ad animare quella
componente del sistema organizzativo che denominato tecnostruttura e che
costituisce appunto l'elemento critico delle forme organizzative ispirate al
modello meccanico. Qiueste figure di tecnocrati, si presentavano come
portatori nelle aziende di criteri scientifici autonomi rispetto al potere aziendale
ed ambivano anche ad agire come risolutori dei conflitti industriali, mediando
tra gli interessi del capitale e quelli del lavoro, in nome di un livello superiore di
razionalità che consentiva di combinare e soddisfare a un livello più alto
interessi altrimenti destinati a confliggere.
2.2.2 Weber e il modello della burocrazia
La figura di Max Weber (1864-1920), sociologo e politologo tedesco, ha
assunto un ruolo di riferimento primario per il secondo importante filone che
confluisce nel paradigma classico o tradizionale di organizzazione e che si può
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identificare con la configurazione del modello, o idealtipo nel linguaggio
weberiano, della burocrazia.
L'analisi di Weber è contestuale nel tempo a quella di Taylor, ma è maturata in
un ambiente culturale e di relazioni del tutto diverso, quello della nascente
scienza sociale europea, anziché dell'industria americana. E il metodo di Weber
è diverso, non l'analisi minuta secondo canoni positivistici delle situazioni
organizzative, ma l'elaborazione di tipi ideali, o puri, derivati dall'osservazione
dei fenomeni storici attraverso un processo di astrazione, e la loro proposizione
come modelli di riferimento per la conoscenza della realtà e per l'azione. Anche
l'ambito di applicazione è diverso; non la sola industria, come per Taylor, ma in
primo luogo l'organizzazione degli apparati amministrativi, degli stati, delle
istituzioni e delle stesse imprese.
Per Weber la burocrazia è un tipo ideale di organizzazione, una forma razionale
per l'esercizio di un'autorità legalmente legittimata, che consegue gli obiettivi
per cui è posta in atto attraverso la corretta individuazione di sottosistemi
denominati "uffici" (cfr. Grandori, 1995; Morgan, 1986; Isotta, 1996).
Le qualità fondamentali che caratterizzano il modello burocratico di
organizzazione-song quindi:
- la spersonalizzazione, che comporta che la competenza di decidere e agire sia
affidata a uffici e posizioni, non alle persone come tali; in questo senso la
rilevanza storica della burocrazia come grande innovazione sociale consiste nel
liberare le oranizzazioni dall'uso personalistico e arbitrario del potere e dalla
confusione inerente il patrimonio personale e le risorse organizzative che
caratterizzava storicamente il unzionamento delle istituzioni politiche e anche
produttive;
- l'orientamento strumentale ai fini, in base a cui ci si attende che ogni assetto
burocratico risponda lealmente e prontamente agli scopi ufficiali definiti
nell'ambito istituzionale pertinente;
- la specializzazione, che comporta la suddivisione e attribuzione cli compiti e
responsabilità in base a requisiti di competenza e capacità professionale,
concetto che richiama la spinta alla divisione del lavoro propria del taylorismo;
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- la gerarchia, ossia l'esistenza di un ordine gerarchico tra uffici che equilibra il
criterio di specializzazione in modo da combinare la ricerca di razionalità con
l'esigenza di mantenere il controllo d'insieme e non frammentare troppo la
responsabilità;
- la formalizzazione, principio secondo cui la condotta degli uffici si deve
fondare su documenti formali, da conservare a testimonianza dell'azione svolta
dalle amministrazioni;
- l'oggettività, neutralità, trasparenza; ulteriori criteri che escludono
concessioni all'arbitrarietà dei singoli, ma prevedono che le azioni si ispirino a
regole generali (oggettività e conformità); stabiliscono che il funzionario non si
può schierare con le parti in gioco, ma deve trattare tutti secondo le stesse
regole (neutralità) e che tutti devono poter conoscere le regole generali che
ispirano la burocrazia (trasparenza).
Precisione, rapidità, non ambiguità, unità, rigorosa subordinazione, riduzione
degli attriti e dei costi materiali e umani: tutto questo viene elevato al punto
ottimale nell'amministrazione strettamente burocratica, in special modo nella
sua forma monocratica.
2.3 La critica del paradigma classico
Il paradigma meccanico ha costituito per lungo tempo la visione dominante dei
fenomeni organizzativi, sia nell'ambito teorico che nel "comune pensare" degli
operatori aziendali; e mantiene del resto ancor oggi una notevole presa,
riscontrabile anche nel linguaggio corrente nella diffusione del termine
"macchina" per indicare un'organizzazione complessa.
Tuttavia i limiti di questa concezione furono ben presto avvertiti da alcuni
studiosi, che svilupparono già prima della seconda guerra mondiale una serie
di critiche abbastanza incisive. Meritano attenzione in particolare due distinti
approcci, riferibili:
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- al movimento delle human relations, sviluppatosi negli Stati Uniti fin dagli
anni venti;
- agli studi sociologici sui limiti della burocrazia.
Le relazioni umane costituiscono un movimento, sorto in America negli anni
venti, sulla scia di esperimenti e interventi in imprese, condotto in prevalenza
da psicologi. Elton Mayo fu la figura più rappresentativa, cui si deve il famoso
esperimento, da cui scaturì la comprensione dell'effetto Hawthorne (dal nome
della fabbrica in cui fu condotto): la produttività dei lavoratori che
partecipavano all'esperimento aumentò per il solo fatto di essere oggetto di
attenzione. E si capì così che variabili diverse dalla razionale progettazione del
lavoro potevano influire sui risultati di un'attività. Anna Grandori ha
sintetizzato così gli assunti fondamentali delle human relations:
1. livelli elevati di produttività sono correlati (e causati da) livelli elevati di
soddisfazione delle persone;
2. i comportamenti dei capi influenzano i comportamenti dei dipendenti e la
loro soddisfazione;
3. la maggior parte dei conflitti si può risolvere efficacemente attraverso la
comunicazione tra le parti;
4. un lavoro in sè più interessante, meno specializzato, più ricco di
responsabilità e autonomia produce maggior soddisfazione e maggior
produttività (Grandori, 1995).
Questa impostazione aveva un limite scoperto nel basarsi su postulati
universali riguardo alle preferenze dei lavoratori rispetto al loro lavoro: si
riteneva in pratica che autonomia, responsabilità, impegno fossero preferiti e
preferibili in ogni contesto sociale, configurando una sorta di ideologia
dell'umanesimo organizzativo. Ma le human relations ebbero l'indubbio merito
di iniziare a scalfire le rigide certezze del taylorismo.
Altrettanto rilievo hanno assunto, sul versante invece della critica della
versione weberiana della teoria classica, i lavori di alcuni sociologi, come
Merton, Selznick, Gouldner e più tardi Crozier, che partirono dall'analisi
empirica di situazioni organizzative per constatare che l'applicazione puntuale
dei canoni del modello burocratico non sempre sortiva gli effetti positivi che la
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teoria di Weber sembrava garantire. Emersero così le disfunzioni e gli effetti
non previsti e non voluti della burocrazia, deviazioni dalla pretesa razionalità
del modello evidenti in fenomeni come:
1. la trasposizione dei fini;
2. l'influenza di interessi particolari e l'inerzia;
3. l'incompletezza intrinseca delle regole formali.
In pratica si veniva a mostrare che l'utilizzo del modello meccanico come
strumento basilare per il controllo delle dinamiche organizzative, produceva
facilmente, oltre agli effetti previsti dalla teoria della burocrazia, anche una
serie di conseguenze inaspettate e impreviste, in genere disfunzionali per il
raggiungimento degli scopi ufficiali o istituzionali.
Inoltre, fino a che il modo di concepire l'organizzazione resta interno alla logica
meccanica, sia le conseguenze previste che quelle impreviste e indesiderate
hanno l'effetto di rafforzare le caratteristiche inerenti al modello. Di qui il
circolo vizioso che blocca l'organizzazione impedendole un adattamento senza
traumi alle richieste emergenti.
Si tratta di una lezione importante, purtroppo non ancora divenuta
consapevolezza comune, soprattutto in contesti culturali dominati dal
riferimento alle regole formali, come accade nella pubblica amministrazione,
ma non solo in questa.
Il classico circolo vizioso della burocrazia, in termini aggiornati che consentono
di riferirlo anche ai tentativi recenti di riforma degli istituti pubblici per via
legislativa e regolamentare (cfr. in merito Rebora, 1983; Borgonovi, 1996).
La concezione di assetto organizzativo come "macchina", il cui funzionamento
è dominabile attraverso la regolamentazione formale, induce a ricercare
l'equità e l'affidabilità del funzionamento delle istituzioni nella formalizzazione
di procedure.
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Questo da un lato risponde all'esigenza dei funzionari di poter difendere e
giustificare il loro operato di fronte a possibili contestazioni e si rivela quindi
uno strumento capace di rinforzare le ragioni che portano alla propria
adozione.
Per altro verso, la codificazione di regolamenti e procedure formali, concepita
come unico o centrale strumento di modifica dell'organizzazione, finisce per
rendere rigido il comportamento dei funzionari stessi, stimolando un
atteggiamento difensivo e rituale di fronte agli imprevisti, o alle sollecitazioni di
utenti o clienti dei servizi.
Se poi il contesto nel quale si colloca l'azione amministrativa non è stabile e
comporta tensioni, urgenze, o comunque stimoli al cambiamento (per fattori di
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provenienza sia esterna che interna all'organizzazione), si accentuano molto gli
effetti negativi dei comportamenti rigidi, rituali e conformi alle procedure
formali. Ne derivano livelli bassi, o calanti, di funzionalità, risposta ai bisogni,
soddisfazione delle istanze sociali e degli utenti, insieme al cumularsi di
problemi irrisolti e all'aprirsi di spazi per l'azione clientelare di politici e
funzionari che, in un contesto confuso, possono gestire l'incertezza che si crea
in chiave di accrescimento del proprio potere e di collusione con interessi
esterni. Ma proprio la conseguente insoddisfazione dei destinatari dei servizi,
con l'emergere di scandali e sperequazioni finisce per rilanciare l'originaria
istanza di controllo della situazione mediante strumenti formali come
regolamenti e procedure.
Alla fine, le difficoltà comuni e i limiti degli approcci meccanicistici
all'organizzazione o, se si preferisce, della visione dell'organizzazione come
macchina, possono essere così sintetizzati (cfr. Morgan, 1986):
1. danno luogo a forme organizzative che incontrano resistenza quando si
tratta di adattarsi a un ambiente mutevole,
2. favoriscono lo sviluppo di comportamenti rituali e chiusi all'interazione;
3. sono esposti ad effetti non previsti e non desiderati;
4. comportano effetti disumanizzanti sui dipendenti.
2.4 L'organizzazione come organismo vivente e come sistema
I critici delle concezioni classiche e meccaniche dell'organizzazione hanno reso
evidente un aspetto che oggi può sembrarci ovvio e scontato, ma che non era
tale allora e ancora continua a essere trascurato in molte realtà aziendali: le
persone portano all'interno delle situazioni organizzative i propri sentimenti,
bisogni e interessi. E quindi analisi e progettazioni basate soltanto su fattori
tecnici ed economici, sono esposte a sottovalutare l'impatto delle variabili
individuali e sociali che può a essere molto potente sui risultati di progetti e
interventi.
La critica del modello meccanico non ha prodotto immediatamente un modello
concettuale alternativo, che le aziende potessero assumere come riferimento
per le loro scelte organizzative; ha però aperto una prospettiva di ricerca in
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questo senso, che è stata poi seguita da molti studiosi, ricercatori e uomini
d'azienda, anche attraverso impostazioni culturali e metodologiche molto
diverse tra loro.
È così finita per emergere una visione dell'organizzazione che si è contrapposta
a quella meccanica, ed è riconducibile anch'essa a un'immagine, o a una
metafora fondamentale: quella dell'organismo vivente.
Sono molto articolati e numerosi i filoni che assimilano, in modo più o meno
esplicito, il funzionamento dell'organizzazione aziendale a quello di un
organismo, o di un sistema vivente. Tra l'altro, ci si può riferire a:
1. le teorie sulla motivazione e lo stile di direzione;
2. l'approccio del sistema socio-tecnico;
3. la concezione dell'organizzazione come sistema aperto.
Un primo passo nella prospettiva organica è avvenuto sviluppando i concetti
ereditati dalle human relations; si è così affermata l'idea che si dovesse cercare
di integrare i bisogni degli individui con le esigenze organizzative derivanti
dagli obiettivi aziendali e dai fattori tecnologici.
Le ricerche sulla motivazione al lavoro hanno dato importanti contributi in
questo senso e orientato alla progettazione di assetti organizzativi che
permettessero di aumentare contestualmente la produttività e la soddisfazione
sul lavoro, attraverso il miglioramento della qualità del lavoro, l'arricchimento
delle mansioni, la diffusione di uno stile di direzione orientato a favorire la
partecipazione e il coinvolgimento degli operatori.
Si è prodotta così la "svolta sistemica" nell'evoluzione del pensiero
organizzativo, con l'analisi dell'organizzazione come sistema socio-tecnico:
l'aspetto tecnico e quello umano sono strettamente interdipendenti, si
influenzano sempre reciprocamente. Ogni intervento sull'organizzazione deve
quindi basarsi su un'analisi contestuale e sistemica dei due ordini di fenomeni.
Da questa consapevolezza all'affermazione della teoria del sistema aperto il
passo è breve: infatti tutti i sistemi organici si trovano in uno stato di continuo
interscambio con l'ambiente. Le organizzazioni, al pari degli organismi, sono
aperte al loro ambiente di riferimento e devono stabilire un rapporto adeguato
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con esso se vogliono sopravvivere. L'ambiente e il sistema si trovano in un
rapporto di interazione e interdipendenza reciproca.
Dalla visione organica emergono quindi altri concetti rilevanti, come
l'identificazione di un ciclo vitale dell'organizzazione che prevede diverse fasi di
vita e di sviluppo, come l'attenzione per le condizioni di sopravvivenza, di
benessere e di fisiologica crescita, come la configurazione di una sorta di
equilibrio ecologico estendibile dalle popolazioni di esseri viventi alle
popolazioni di organizzazioni.
2.5 L'approccio contingente
L'affermazione della visione organica sistemica ha avuto anche il merito di
diffondere la consapevolezza che non esiste un modo unico e migliore in
assoluto per risolvere i problemi organizzativi delle aziende e che sono possibili
approcci differenti, dei quali conviene valutare e confrontare i risultati senza
apriorismi.
Si è quindi fatto strada il tentativo di operare una sintesi, che tenesse conto
degli apporti conoscitivi sviluppati, sia nel solco tracciato dall'approccio
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classico, sia seguendo la prospettiva organica. È questa l'ambizione degli
studiosi che, negli anni sessanta, producono il filone delle cosiddette “teorie
contingenti”: la contrapposizione tra i due paradigmi è stata troppo accentuata
e ideologlzzata; in realtà ciascuno di essi può trovare una corretta
applicazione, in quei casi e quelle situazioni che presentano caratteristiche
coerenti con i suoi assunti di fondo (Lawrence, Lorsch, 1967).
Così sistema organico e sistema meccanico divengono gli estremi di un
continuum di soluzioni organizzative, che si adattano rispettivamente a un
contesto di cambiamento e a un contesto di stabilità.
Il passaggio dalle concezioni universali alle concezioni contingenti è anche
frutto dell'affinamento delle analisi organizzative e dell'adattamento alla
crescente differenziazione delle realtà indagate.
In questa prospettiva, l'efficienza dell'impresa dipende dalla coerenza e
consonanza tra configurazione dell'ambiente e configurazione organizzativa.
Infatti, le ricerche condotte da studiosi appartenenti a questo filone teorico,
attraverso l'esame e il confronto delle caratteristiche organizzative e degli
andamenti economici e finanziari di vasti campioni di aziende, hanno portato a
concludere che il grado di cambiamento e di complessità ambientale influenza
il disegno della struttura organizzativa e dei meccanismi di controllo e
coordinamento in modo da realizzare sostanziali uniformità, verificabili in
particolare tra quelle imprese che hanno goduto di risultati soddisfacenti.
La varie versioni di tale approccio hanno quindi in comune l'assunzione che le
imprese efficienti si adattano all'ambiente rispondendo con l'organizzazione ai
requisiti posti sia dal clima competitivo (problema competitivo dominante) che,
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più in generale, da quello dei rapporti con le forze rilevanti per la propria
riuscita e sopravvivenza (Lawrence, Lorsch, 1967; Thompson, 1967; cfr. anche
per un'analisi più ampia di questa impostazione Rebora, 1976; 1981).
Notevole rilievo si attribuisce in particolare alla correlazione diretta tra grado di
incertezza dell'ambiente e grado di flessibilità della struttura organizzativa.
Un apporto importante di questa corrente di studi è anche una più precisa
caratterizzazione del concetto di ambiente (troppo spesso definito in termini
residuali) attraverso la distinzione tra general environment e task environment
(Thompson, 1967).
Quest'ultimo è costituito dalle forze ambientali specifiche che hanno incidenza
sul processo decisionale d'impresa, e sono al di fuori della sua capacità di
controllo diretto.
Tra le variabili del task environment vengono inclusi anche fattori che sono
almeno parzialmente sotto il controllo dell'azienda, o costituiscono aspetti della
sua gestione, come le tecnologie adottate e le caratteristiche tecniche dello
svolgimento dei compiti.
La tecnologia, in particolare, svolge un ruolo importante nelle analisi che
seguono l'approccio contingente. Si segnala al proposito per la sua utilità
anche operativa la classica analisi di Perrow sulle differenti implicazioni
organizzative del tipo di tecnologia impiegata nell'ambito di unità di lavoro
omogenee (Perrow, 1967, 1970). I concreti compiti lavorativi derivanti da una
tecnologia vengono analizzati secondo due dimensioni: la variabilità dei
compiti, come numero di eccezioni rispetto alle procedure standard che
derivano normalmente dalla tecnologia impiegata; e l'analizzabilità dei compiti,
intesa come possibilità di dominare concettualmente e predefinire le modalità
operative. In questo modo le diverse tecnologie possono essere classificate
distinguendo quattro diverse situazioni.
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1. Le tecnologie di routine, per le quali i compiti hanno bassa variabilità ed
elevata analizzabilità. E il caso tipico della produzione industriale di
massa, esemplificata dalla catena di montaggio.
2. Le tecnologie artigianali, per le quali esiste bassa variabilità e bassa
analizzabilità. Tipicamente l'artigiano svolge un lavoro senza frequenti
scostamenti dalle procedure standard; ma quando emerge un problema
le modalità operative per farvi fronte non sono in genere predefinibili.
L'abilità dell'artigiano consiste appunto nell'intervenire con la propria
esperienza, intuizione e creatività.
3. Le tecnologie ingegneristiche caratterizzano contesti di alta variabilità ed
alta analizzabilità. Sono situazioni complesse dove occorre uscire
continuamente dalle pratiche standard e affrontare eccezioni, che però
sono riconducibili a soluzioni note, già analizzate e per le quali si tratta
solo di applicare l’intervento appropriato. E quanto avviene nel caso dei
contabili, o dei tecnici che fanno analisi di laboratorio.
4. Le tecnologie non di routine, per le quali si verifica alta variabilità e
bassa analizzabilità. In questo caso gli addetti devono risolvere problemi
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e affrontare incertezza di continuo, come può avvenire per un pronto
soccorso, o ancor più in un laboratorio di ricerca.
Le due situazioni estreme delle tecnologie di routine, o non di routine, sono
quindi rispettivamente coerenti con un assetto organizzativo meccanico nel
primo caso e organico nel secondo. Mentre le tecnologie artigianali ed
ingegneristiche si collocano in uno spazio intermedio sul continuum meccanico-
organico già esaminato. Le scelte organizzative devono così riflettere il tipo di
tecnologia specificamente adottata.
2.6 Gli sviluppi di nuove visioni dell'organizzazione
Come tutti gli approfondimenti conoscitivi che si basano su analogie o
metafore, che rimandano a realtà distanti dall'oggetto di attenzione, anche la
visione organica manifesta limiti e insufficienze. Tra i punti critici più
diffusamente rilevati possiamo richiamare:
1. il fatto di assumere una eccessiva dipendenza dell'organizzazione dalle
condizioni esterne o ambientali;
2. l'insufficiente attenzione per la dialettica interna all'organizzazione e le
problematiche del potere;
3. la considerazione dell'individuo ancora troppo subordinata al sistema
organizzativo.
A sua volta, l'accostamento contingente di paradigmi diversi non ha potuto
risolvere e superare le carenze dei modelli di riferimento che combinava ed ha
attirato critiche per l'eccessiva presunzione nel combinare assunti
contraddittori.
Ormai occorre avere consapevolezza che le lenti attraverso le quali possiamo
cercare di comprendere i fenomeni organizzativi sono molteplici; oltre le due
principali che abbiamo considerato, diverse altre immagini dell'organizzazione
possono fondare altrettante prospettive (Morgan, 1986) Almeno quattro di
queste visioni presentano significativi risvolti per l'attuale realtà:
1. l'organizzazione come sistema che apprende, assimilata al cervello
umano: il cervello ''«presenta la meravigliosa capacità di organizzarsi e
riorganizzarsi in modo da affrontare i cambiamenti ambientali» (Morgan,
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1986). Elaborando le informazioni e governando i processi di
apprendimento, il sistema genera un'elevata flessibilità interna che gli
consente di auto-organizzarsi continuamente;
2. l'organizzazione in quanto sistema politico, ambito di esercizio di una
capacità di governo fondata sull'attivazione del consenso e sulla gestione
dei rapporti di forza tra i diversi soggetti. L'attenzione si focalizza così
sulle dinamiche degli interessi, delle alleanze, del conflitto e del potere;
3. l'organizzazione in quanto cultura, identificata da un insieme di valori,
credenze, assunti, schemi di significato, che vengono condivisi dai suoi
membri e generano coesione sociale e senso di appartenenza. In questa
prospettiva, ci si focalizza sui diversi aspetti della vita organizzativa che
esprimono e comunicano significati socialmente condivisi, come i simboli,
i racconti, i miti, il ruolo svolto dai leader nel proporre e diffondere valori
(Scheín, 1990);
4. l'organizzazione come sistema che si autoriproduce, inserito in una
corrente di cambiamento, di flusso e divenire incessante. In questo caso
si pone l'accento sul fatto che la stabilità e lo sviluppo di un sistema si
realizzano attraverso la capacità di gestire un flusso continuo di eventi
che cambiano continuamente. Il sistema maniene la sua identità facendo
evolvere continuamente anche il proprio stato attraverso processi definiti
come auto-poietici (Maturana, Varela, 1988).
In effetti, l'ultimo ventennio di studi organizzativi mette in luce una grande
ricchezza di sviluppi e di contributi, riconducibili in parte alle visioni indicate.
Molti di questi hanno assunto particolare rilievo nel condurre al superamento
degli eccessi indotti dall'approccio contingente, dalle sue applicazioni troppo
ingenue o marcatamente relativiste, e soprattutto nell'integrare la visione
sistemica e nel correggerne alcune limitazioni.
Non si può dire, quindi, che i nuovi approcci abbiano prodotto un paradigma
capace di divenire un generale punto di riferimento, come è stato in passato
per i modelli classici e per la concezione sistemica. Questo tende anzi ad
essere escluso, proprio come obiettivo programmatico, da molte delle correnti
di ricerca emergenti. I nuovi apporti più significativi hanno oltretutto
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interessato per lo più questioni e problemi particolari e si sono valsi di
contributi disciplinari molto diversificati.
E vero anche che buona parte di questi approfondimenti si prestano molto
bene all'inserimento come complementi della teoria del sistema aperto, o come
sue integrazioni di fronte a problemi specifici; quest'ultima, quando si sappia
utilizzarne gli assunti con attitudine critica e consapevolezza dei limiti, resta la
base concettuale fondamentale per orientare íl lavoro sulle organizzazioni.
Gioca a suo favore la grande capacità di adattamento e flessibilità, che
consente di recepire utilmente molti dei nuovi apporti, sul versante in
particolare dell'analisi dei processi di apprendimento e innovazione, dei
fenomeni culturali e di quanto attiene al conflitto e alla gestione del potere.
2.7 La lettura sistemica Chiunque è chiamato a esercitare responsabilità nell'ambito di organizzazioni
complesse, come un dirigente d'impresa, un amministratore pubblico, un
professionista, un sindacalista, ha l'esigenza di leggere le situazioni
organizzative nel cui ambito deve operare.
Tutte queste persone, senza essere specialisti di organizzazione, devono
sviluppare un minimo di abilità nell'analisi e comprensione dei fenomeni
organizzativi, come indispensabile requisito per un valido espletamento dei loro
compiti.
In chiave introduttiva al tema dell'analisi organizzativa, può essere utile fare
riferimento a un modello di tipo sistemico, caratterizzato da forte flessibilità e
adattabilità di impiego, con riferimento sia ad assetti complessivi d'azienda, sia
a realtà e livelli di analisi più limitati, come un reparto, o un ufficio. E che
deriva da un approccio contingente, e quindi non aprioristicamente orientato
verso una logica di ordine meccanico piuttosto che organico.
Una visione sistemica dei fenomeni organizzativi implica che si individui un
complesso unitario, formato da una pluralità di elementi interrelati, che
assumono un significato d'insieme autonomo, quindi diverso e superiore
rispetto alla somma delle parti, dal punto di vista di un osservatore esterno
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(Mella, 1997). Il sistema non è quindi un oggetto che esiste come tale nella
realtà fisica o sociale, ma è definito da un osservatore che attribuisce
significato alle interazioni individuate tra alcuni elementi presenti nella realtà.
Il sistema costituisce quindi uno strumento di indagine della realtà che
consente di comprenderla meglio, orientando l'attenzione soprattutto verso
l'effetto sinergico, cioè il fenomeno per il quale gli elementi che compongono
un sistema producono, attraverso le loro interazioni e interdipendenze, un
risultato globale diverso, e che di solito assume per l'osservatore un significato
superiore, rispetto a quello che si sarebbe prodotto dagli stessi elementi
considerati disgiuntamente.
L'analisi sistemica mette quindi in evidenza una correlazione permanente
(feedback micro-macro) tra unità (livello macro) ed elementi (livello micro): il
sistema diventa una unità che assume un significato nuovo e autonomo
rispetto agli elementi che lo costituiscono (unità nella molteplicità); le parti
perdono nel sistema la loro individualità, contribuendo all'esistenza del sistema
e divenendo essenziali alla formazione dell'unità.
Individuare un sistema significa specificarne i confini, cioè definire gli elementi
che ne fanno parte (la sua struttura) e ciò che non ne fa parte; tutto ciò che
non appartiene al sistema definisce l'ambiente esterno.
Si possono quindi applicare svariati modelli sistemici ai fenomeni organizzativi,
che differiscono sia per gli elementi considerati, sia per il modo di definire i
confini rispetto all'ambiente. Sono possibili modelli sistemici dell'intera
organizzazione, oppure riferiti a fenomeni organizzativi più circoscritti.
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L'organizzazione, nel suo insieme, può essere considerata elemento del
sistema aziendale complessivo; oppure sistema, composto a sua volta da
molteplici elementi; ognuno dei quali può essere analizzato anch'esso come
specifico sistema. Ciò che cambia, ogni volta, è il punto di vista
dell'osservatore, con lo sviluppo di analisi orientate a differenti livelli di
aggregazione. Ci soffermeremo ora sul livello di analisi intermedio, riferito al
sistema organizzativo di un'azienda.
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2.7.1 Un modello di riferimento per l'analisi del sistema organizzativo
Gli studi organizzativi hanno proposto, nel tempo, molteplici modalità di
applicazione della visione sistemica a questo livello di analisi. Il modello forse
più noto è quello di Seder (1967); riproposto in Italia da Rugiadini (1979), in
una versione riveduta e aggiornata.
Il sistema organizzativo è considerato come componente di un'azienda in
rapporto con un contesto ambientale, nel quale rientrano tutte le forze rilevanti
di ordine esterno, che producono le dinamiche economiche, competitive,
tecnologiche, socio-politiche e che, peraltro, il modello non indaga in modo
specifico, limitandosi a considerarle fonti di vincoli e di input per il
funzionamento del sistema.
Gli output che derivano dal funzionamento stesso, assumono un significato dal
punto di vista delle finalità del sovrasistema aziendale e costituiscono anzi
contributi utili al positivo andamento e al successo complessivo dell'azienda.
Secondo questo taglio di analisi, le scelte organizzative trovano collocazione
come variabile centrale del sistema organizzativo, che risente peraltro
dell'influsso e del condizionamento di una serie di elementi del contesto
interno, a loro volta influenzati dagli input esterni e dalle caratteristiche
dell'azienda.
L'assetto istituzionale e le variabili strategiche, tecnologiche, individuali e
sociali costituiscono le forze e le fonti principali che alimentano íl
funzionamento del sistema e che adeguate scelte organizzative possono
orientare e ricondurre al conseguimento di risultati validi dal punto di vista del
conseguimento degli scopi aziendali. Consideriamo queste variabili, una per
una.
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L'assetto istituzionale interviene sull'organizzazione e sulle altre variabili del
contesto, in quanto struttura poteri e prerogative di organi e ruoli
fondamentali; inoltre stabilisce una serie di regole che improntano la vita
dell'azienda, favoriscono alcune soluzioni organizzative e ne limitano altre; così
l'assetto istituzionale tipico dell'impresa padronale influirà sulle variabili
individuali e sociali e attraverso di queste sulle scelte di struttura organizzativa
e di sistemi di gestione. Un assetto di proprietà diffusa, o di public company,
avrà invece conseguenze sul ruolo del management, ampliando lo spazio
disponibile per la differenziazione dei ruoli e le carriere interne, e ponendo
anche una serie di problemi da risolvere attraverso scelte congruenti di
struttura organizzativa, sistemi di gestione e stile di leadership.
Come ricorda Airoldi (1993), esistono assetti istituzionali efficaci, cioè che
favoriscono la permanenza e il progresso delle aziende, e inefficaci, che invece
portano le aziende al declino e alla rovina. I primi si distinguono perché
rendono consapevoli i soggetti che partecipano all'azienda della importanza dei
rispettivi contributi per i risultati ottenuti dalla stessa e perché correlano con
equità le ricompense ottenute dai soggetti a questi risultati. È pacifico che
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qualora l'assetto istituzionale contraddica palesemente questi requisiti, le
dinamiche dei fattori individuali e sociali divengono poco costruttive e diventa
quasi impossibile impostare valide soluzioni organizzative.
Le variabili strategiche sono destinate a generare una fisiologica tensione negli
assetti organizzativi, in quanto portano a sintesi le esigenze di adeguamento e
innovazione rispetto alle dinamiche, alle opportunità e ai rischi di derivazione
ambientale, richiedendo adattamento costante e flessibilità. Si sono già
considerati i nessi tra strategia e struttura e resta solo da richiamare il ruolo
che la costruzione di un contesto organizzativo fondato sull'iniziativa diffusa,
sulla cooperazione e sulla fiducia reciproca tra le persone, e capace di generare
apprendimento organizzativo, può assumere come condizione importante e
fonte di cambiamento strategico (Ghosal, Bartlett, 1994).
Le variabili tecnologiche, sono da sempre considerate determinante
fondamentale delle scelte organizzative, soprattutto per quanto riguarda il
nucleo operativo e quindi le modalità di utilizzo del lavoro esecutivo. Il loro
ruolo non è però quello di imporre determinate soluzioni, come si credeva un
tempo. Soprattutto le riflessioni sull'impatto dell'information and
communication technology sull'organizzazione del lavoro hanno mostrato come
questa apra nuove opportunità, non solo in relazione ad esigenze esplicite, già
manifeste e chiaramente visibili, ma anche nel senso di possibilità non sempre
conoscibili a priori o prevedibili, ma che devono essere esplorate attraverso
una ricerca e progettazione congiunta, tecnologica e organizzativa (Masino,
1997).
Le modalità organizzative quindi non discendono direttamente dalle tecnologie,
ma sono filtrate da un ambito decisionale specifico e dall'influenza degli altri
fattori del contesto; nel confronto tra le due situazioni richiamate, evidente è
l'influsso di una diversa strategia, che dà più spazio alla ricerca della qualità
nel secondo caso, forse influenzata a sua volta dal tipo di assetto istituzionale.
Le variabili individuali riguardano le caratteristiche delle persone che agiscono
nel sistema organizzativo. La maggior parte delle organizzazioni assumono, ai
loro inizi, la forma elementare, il cui svolgimento è plasmato dalla personalità
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degli attori chiave, come possono essere l'imprenditore che avvia una fabbrica,
l'artigiano che apre un laboratorio, lo stilista che inizia una produzione di
collezioni di moda, il fondatore di un'associazione non profit di assistenza. Ma
anche le caratteristiche individuali dei loro collaboratori, dei dirigenti e
dell'altro personale che via via assumeranno per allargare l'attività, e poi quelle
dei loro successori, introducono nell'organizzazione determinate conoscenze,
specializzazioni, esperienze; ma anche abitudini di comportamento,
motivazioni, bisogni ed esigenze, aspettative, valori, modi di concepire il lavoro
proprio e degli altri, l'azienda, le relazioni sociali, in ultima analisi modi di
vedere il mondo e di interpretare la realtà.
Quando l'assetto organizzativo evolverà verso forme più complesse, il
funzionamento dell'azienda sarà più impersonale, ma si constata comunemente
il peso rilevante dell'influenza dei fattori individuali, sia come eredità storica,
lasciata dal periodo dei fondatori, sia come continuo riprodursi dell'apporto
personale di molti. Ciò rappresenta una delle ragioni fondamentali per cui
ciascun assetto organizzativo è unico, ciascuna azienda possiede una propria
individualità che la differenzia da tutte le altre.
Fra le diverse e molteplici caratteristiche che attengono alla persona umana,
assumono certo particolare rilievo per l'organizzazione quelle legate alla
qualificazione professionale, alle conoscenze tecniche, alle abilità lavorative
possedute come pure gli atteggiamenti e le motivazioni riguardo al lavoro, le
attitudini relazionali, la capacità collaborativa. Il tipo di persone inserite in
un'azienda, sotto questi profili, trova in una certa misura condizionamento da
parte dell'assetto istituzionale strategico, delle tecnologie e delle scelte
organizzative adottate: contano in questo il tipo di lavoro e il livello retributivo
offerto, le conoscenze tecniche richieste, le modalità di selezione adottate.
La variabile umana interagisce quindi pienamente con gli altri elementi del
contesto; il suo rilievo come forza che influenza l'organizzazione viene
chiaramente percepito quando si realizzano mutamenti rile vanti, con l'ingresso
di nuovi operatori, o con l'evoluzione di competenze e comportamenti dei
soggetti già presenti (Rugiadini, 1979).
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Le variabili sociali riguardano invece le relazioni interpersonali nell'ambito del
sistema organizzativo e i fenomeni derivanti dal fatto che le aggregazioni di
gruppo si interpongono tra individui e organizzazione complessiva nel
determinare o almeno influenzare i comportamenti. Le persone non operano
infatti come individui isolati, sensibili soltanto alle loro interne motivazioni e
agli stimoli provenienti dall'assetto organizzativo aziendale. Si constata invece
che gli individui sono influenzati dalle idee, dalle concezioni e dalle norme che
si stabiliscono nell'ambito delle relazioni sociali, di gruppi e sottogruppi di
appartenenza, e che possono anche significativamente discostarsi dalle regole
e dagli obiettivi formalmente riconosciuti nel sistema organizzativo.
I gruppi non sono semplici insiemi di persone, ma comportano più o meno forti
interconnessioni tra individui, collegate a comunanze di interessi, valori od
obiettivi, che possono determinare significative convergenze negli
atteggiamenti e nei comportamenti. L'azione dell'individuo è spesso
condizionata dalle norme e dalle relazioni di gruppo, secondo modalità
difficilmente prevedibili per chi non considera questa dimensione di inserimento
sociale della persona.
Di fatto, nell'ambito di ogni sistema sociale sufficientemente ampio, si può
facilmente constatare la presenza di numerosi gruppi, identificabili in base a
collegamenti relazionali di diverso ordine: per esempio per affinità di tipo
professionale, ma anche attinenti al tempo libero, agli interessi culturali,
all'impegno socio-politico, all'origine territoriale. Ha fatto scuola un caso
didattico di organizzazione, che metteva in evidenza le difficoltà di
coordinamento, insuperate anche adottando sistemi gestionali via via più
sofisticati, in un'azienda in rapida crescita i cui dirigenti erano divisi
dall'appartenenza a due diversi gruppi socio-culturali: i "veneti" ed i
"piemontesi".
Da molto tempo si è quindi riconosciuto che la componente sociale presente
nelle aziende porta alla creazione di una organizzazione informale accanto a
quella formale.
L'organizzazione formale risulta dall'identificazione di aspetti come organi,
unità, regole, posizioni organizzative, compiti e mansioni.
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All'organizzazione informale sono invece riconducibili concetti come il ruolo
inteso in senso sociologico e quindi come modello di comportamento definito
dalle esigenze e dalle aspettative del gruppo di inserimento rispetto
all'individuo; come lo status, nel senso di grado relativo di stima e prestigio di
cui una persona gode nell'ambito di un gruppo; come l'influenza, cioè la
capacità di modificare un comportamento altrui, in base alle capacità personali
e all'abilità del soggetto che la esercita, per esempio attraverso l'autorità
personale, la persuasione, l'emulazione o anche la manipolazione, anzichè
utilizzando il potere formale.
Le variabili (o scelte) organizzative tengono quindi conto necessariamente del
contesto emergente dall'insieme delle variabili esaminate, che costituiscono la
materia o la risorsa prima per il proprio svolgimento. Tali scelte possono essere
frutto di una progettazione consapevole, anche realizzata in ambiti e momenti
diversi, derivante da analisi e valutazioni più o meno approfondite. Ma possono
anche essere un frutto inconsapevole, che nasce o emerge nel tempo da
comportamenti posti in atto per diverse e svariate motivazioni. Più spesso, tali
scelte risentono di un mix tra esplicita progettazione e assestamento di fatto.
Nondimeno, per l'osservatore esterno, uno stato delle fondamentali variabili
dell'organizzazione è sempre ravvisabile e riconoscibile, indipendentemente
dall'esistenza o meno di una deliberata e cosciente volontà dei soggetti
aziendali di dar vita ad esso.
In coerenza con l'impostazione analitica adottata in questo libro, consideriamo
le seguenti variabili:
1. la forma organizzativa assunta;
2. la struttura adottata;
3. i meccanismi operativi o sistemi di gestione (con le pratiche di gestione
delle risorse umane);
4. lo stile di leadership.
La struttura organizzativa consiste nelle modalità per attuare la divisione del
lavoro e il coordinamento delle diverse responsabilità all'interno dell'azienda,
identificando organi, ruoli e compiti e rispettive responsabilità.
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I meccanismi operativi sono gli stimoli dinamici posti sistematicamente in atto
per consentire l'adattamento dell'operato di organi e ruoli alle esigenze della
situazione. In quest'ambito particolare è il rilievo assunto dai sistemi o dalle
pratiche di gestione delle risorse umane.
Struttura e meccanismi, unitariamente considerati, compongono lo schema
organizzativo; nella parte terza e quarta del libro, dedicate alla progettazione
organizzativa, considereremo distintamente:
• lo schema organizzativo generale (macrostruttura), che rappresenta la
scelta di assetto degli organi fondamentali (di primo e secondo livello, di
norma) e dei principali meccanismi operativi che ne consentono il
funzionamento;
• l'assetto delle unità intermedie e di base (che compongono il cuore
operativo dell'azienda) e la collegata definizione dei ruoli professionali e
dei compiti (microstruttura).
Infine, lo stile di leadership rappresenta il modello di riferimento adottato dai
capi o responsabili di rango più elevato per rapportarsi con i subordinati e
quindi per gestire il potere organizzativo e orientare l'organizzazione.
Le variabili risultanti rappresentano, coerentemente alla concezione sistemica
adottata, l'effetto dell'interazione tra tutte le altre variabili considerate, quindi
quelle di ordine ambientale, istituzionale e del contesto interno del sistema
organizzativo. Le scelte organizzative non agiscono nel vuoto, ma devono
tenere conto della realtà esistente, sotto i profili esaminati, che possono solo
parzialmente modificare con il proprio diretto impatto. Nondimeno, è
ragionevole che le scelte organizzative siano orientate a determinare,
nell'ambito di questi limiti, un proprio contributo diretto al successo strategico
dell'azienda, a sua volta definibile nei termini classici dei risultati economici e
finanziari, competitivi, sociali e di sviluppo.
In questa logica di possono considerare alcune categorie specifiche di risultati,
riconducibili alle scelte organizzative realizzate e alla cui luce diviene valutabile
l'efficacia o la validità dell'assetto organizzativo posto in atto.
Ci possiamo riferire in tal senso a:
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• efficienza, come attitudine del sistema organizzativo a realizzare alti
rendimenti delle risorse impiegate, nell'ambito soprattutto delle attività
del nucleo operativo, nelle quali si identifica normalmente la ragion
d'essere stessa dell'azienda;
• qualità, come capacità di attivare un contesto interno all'azienda che
liberi le energie realizzative delle persone, inducendole a dare il meglio di
sé, e a contemperare l'iniziativa individuale diffusa con la disponibilità a
collaborare e comunicare (Coda, 1997);
• flessibilità, come requisito di reattività alle tensioni e alle sfide poste
dall'ambiente o dalla stessa evoluzione delle strategie aziendali, che si
esprime nell'adattamento dei volumi di attività, della qualità degli
interventi e delle stesse modalità operative, senza gravi conseguenze o
lunghi tempi di preparazione;
• soddisfazione, come risposta alle attese, agli interessi e ai bisogni dei
diversi soggetti che partecipano e contribuiscono, con le loro risorse o la
loro attività, al funzionamento del sistema stesso;
• apprendimento, come idoneità a generare nuove idee, conoscenze e
valori, utili per alimentare il rinnovamento dell'azienda e la sua capacità
di innovazione.
L'analisi dei fenomeni organizzativi è facilitata dal riconoscimento dell'esistenza
di alcune e diverse forme organizzative di base, ciascuna delle quali esprime
un insieme coerente di caratteristiche, logiche e modalità di funzionamento.
Accogliendo la nota classificazione operata da Mintzberg, queste forme sono
riconducibili a cinque. Esse riproducono la propria fisionomia distintiva, con
contorni in genere netti e ben riconoscibili, anche in contesti tra loro molto
lontani nel tempo e nello spazio.
Sarà importante comprenderne i rispettivi fattori di efficacia e di rispondenza
alle esigenze di determinate situazioni aziendali, come pure i ricorrenti punti di
crisi e i possibili percorsi di evoluzione da una forma all'altra.