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1 9: La psicologia Testi principali: L’Anima; Sulla sensazione Nell’universo aristotelico ci sono le seguenti distinzioni: 1) cielo (mondo lunare)/terra (mondo sublunare); 2) esseri lunari (unicamente viventi, si identificano con gli astri)/esseri sublunari (esseri viventi (animali, piante) e esseri non viventi (pietre, ecc.). Gli esistenti del mondo lunare sono oggetto della scienza astronomica, quelli del mondo sublunare sono invece oggetto di molteplici discipline (biologia, zoologia, ecc.), inclusa la psicologia (che d’altra parte non è chiamata così da Aristotele). La psicologia si situa così tra le scienze della natura, ed è strettamente apparentata alla biologia, e soprattutto alla zoologia. Per A. la psicologia è connessa sia alla scienza sperimentale che alla filosofia e alla logica, perché per lui la distinzione netta tra scienze empiriche e scienze razionali non esisteva ancora. La traduzione di psyché con ‘anima’ è ancora una volta fuorviante, anche se è troppo radicata per cercare un’alt ra traduzione. In effetti, la psyché aristotelica è ciò che fa la differenza tra gli esseri viventi e esseri non viventi, sicché il fatto di essere vivente ha come conseguenza logica quella di possedere una psyché. Questo significa che essa è posseduta da tutti gli esseri viventi, anche dagli alberi. ‘Anima’ quindi non coincide con psyché, nella misura in cui sarebbe stupido dire che gli alberi hanno un’anima. Cos’è dunque la psyché? È ciò che distingue gli esseri viventi dagli esseri non-viventi. Varie le risposte che sono state date dai presocratici: aria; sangue; tipo di atomi che si trovano ovunque nel mio corpo (Epicuro), ecc. Tutte queste sono risposte materialiste, nel senso che si è pensato che l’anima fosse una parte fisica del

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9: La psicologia

Testi principali: L’Anima; Sulla sensazione

Nell’universo aristotelico ci sono le seguenti distinzioni:

1) cielo (mondo lunare)/terra (mondo sublunare);

2) esseri lunari (unicamente viventi, si identificano con gli astri)/esseri

sublunari (esseri viventi (animali, piante) e esseri non viventi (pietre, ecc.).

Gli esistenti del mondo lunare sono oggetto della scienza astronomica,

quelli del mondo sublunare sono invece oggetto di molteplici discipline

(biologia, zoologia, ecc.), inclusa la psicologia (che d’altra parte non è

chiamata così da Aristotele).

La psicologia si situa così tra le scienze della natura, ed è strettamente

apparentata alla biologia, e soprattutto alla zoologia. Per A. la psicologia è

connessa sia alla scienza sperimentale che alla filosofia e alla logica, perché

per lui la distinzione netta tra scienze empiriche e scienze razionali non

esisteva ancora.

La traduzione di psyché con ‘anima’ è ancora una volta fuorviante, anche

se è troppo radicata per cercare un’altra traduzione. In effetti, la psyché

aristotelica è ciò che fa la differenza tra gli esseri viventi e esseri non viventi,

sicché il fatto di essere vivente ha come conseguenza logica quella di

possedere una psyché. Questo significa che essa è posseduta da tutti gli esseri

viventi, anche dagli alberi. ‘Anima’ quindi non coincide con psyché, nella

misura in cui sarebbe stupido dire che gli alberi hanno un’anima.

Cos’è dunque la psyché?

È ciò che distingue gli esseri viventi dagli esseri non-viventi. Varie le

risposte che sono state date dai presocratici: aria; sangue; tipo di atomi che

si trovano ovunque nel mio corpo (Epicuro), ecc. Tutte queste sono risposte

materialiste, nel senso che si è pensato che l’anima fosse una parte fisica del

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corpo. Con Platone, però, si trova una risposta diversa: l’anima si configura

essere una parte del corpo incorporea, cioè un principio attaccato al corpo

che lo fa funzionare.

Contrariamente a quel che si crede, nessun filosofo greco post-platonico,

con la parziale eccezione di Aristotele, ha accettato la soluzione platonica.

Perfino i primi cristiani (come ad esempio Tertulliano) hanno ritenuto che

l’anima fosse una parte corporea, altrimenti come sarebbe possibile che le

anime dei peccatori brucino all’inferno?

Aristotele non accetta né la soluzione materialistica, né quella platonica

secondo cui l’anima sarebbe un’aggiunta incorporea al corpo. Piuttosto, fa

una sorta di miscuglio delle due, difficile da spiegare perché lui stesso

procede per tentativi.

In De anima II, 1-2 Aristotele fornisce ben tre definizioni di anima (noi ne

considereremo due).

Prima definizione: l’anima è la prima attualità (oppure: atto primo) di

un corpo organico e potenzialmente vivente.

Attualità: richiama la celebre teoria aristotelica di potenza/atto, che in

pratica presenta la distinzione tra ‘avere la capacità di divenire qualcosa’

(potenza) e ‘essere realmente qualcosa’. Dire per esempio che i pomodori

non sono rossi in atto ma in potenza significa dire che essi hanno la capacità

di diventare rossi. Essi saranno in atto quando saranno effettivamente rossi.

La distinzione potenza/atto è la tematizzazione di un’idea conosciuta: vi sono

cose che possono realizzarsi, altre no. Per esempio, io sono in potenza a

Parigi, ma non sono in potenza su Giove.

L’essere vivente si configura così come un corpo organico che possiede

una forma in atto, grazie a cui può vivere e vive.

Prima attualità: questa frase vuole segnalare la priorità del possesso

dell’anima rispetto al suo uso. Solo perché possiede primariamente l’anima

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il corpo può vivere. Allo stesso modo solo perché, possedendo l’occhio, si

possiede primariamente la vista, si può effettivamente vedere. Non c’è vista

senza occhio, non c’è occhio senza vista. Così come non c’è corpo

senz’anima, non c’è anima senza corpo.

Di un corpo organico: di un corpo organizzato in parti (organi) che

possono fare qualcosa in atto, cioè realizzato.

Potenzialmente vivente: per distinguerlo dalle macchine che costituiscono

anch’esse una organizzazione di parti ma non vivente.

Questa definizione significa grosso modo questo:

possedere un’anima significa essere un corpo dotato di strumenti d’azione

che esso è pronto ad utilizzare.

Seconda definizione: l’anima è la forma di un corpo vivente (non

separabile dal corpo).

L’anima è una forma, e come tale coincide con un concetto generale. Se

io parlo di una casa particolare, di un’anatra particolare, di un essere umano

particolare, parlo di una cosa particolare che però condivide una forma con

gli altri essere della medesima specie.

Abbiamo già visto che la forma non è necessariamente una nozione ricca:

per esempio, nella statua di bronzo la forma coincide con la figura, per

esempio il lanciatore di giavellotto. Negli esseri viventi, invece, la forma

diviene più complessa e deve fare riferimento a funzioni e attività.

Per illustrare quello che stiamo dicendo Aristotele fa due esempi, quello

dell’ascia e quello dell’occhio.

i) la forma dell’ascia è determinata dalla sua capacità di fare a pezzi le

cose, capacità che gli deriva certamente dalla materia (un’ascia di lana non

può fare a pezzi le cose), ma anche e soprattutto dalla forma.

ii) l’essenza dell’occhio è determinata dalla sua capacità di vedere: la

forma dell’occhio è la visione.

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Questa definizione significa dunque:

possedere un’anima significa dare al corpo la capacità di vivere.

Aristotele distingue quattro capacità psicologiche (che distinguono

appunto gli esseri viventi dagli esseri non viventi, che non possiedono queste

capacità):

1) la capacità di nutrirsi

2) la capacità di percepire (indispensabile al movimento volontario)

3) la capacità di pensare in senso lato

4) la capacità di movimento.

Secondo A., queste capacità formano una sorta di gerarchia. Ma ciò che è

importante sottolineare è che è sufficiente una sola capacità per essere

viventi (es. le piante, che posseggono solo la capacità di nutrirsi), e quindi

per possedere l’anima. L’uomo possiede tutti i tipi di capacità. E poi vi è un

essere superiore, dio, che possiede 3) e 4) (questo però limitatamente ai

motori immobili, perché il motore immobile è appunto immobile), ma

certamente non possiede 1) e probabilmente neanche 2).

Testo scelto: L’anima, II 6, 418a7-25

418a7 In ciò che concerne ogni senso, bisogna innanzitutto parlare degli oggetti della

percezione. L’oggetto di percezione si dice in tre modi, di cui diciamo che due sono per

se, l’altro per accidente. Dei due 418a10 primi, l’uno è proprio a ogni senso, l’altro è

comune a tutti. Chiamo proprio quello che non si può percepire per mezzo di un altro

senso, e rispetto al quale non ci si può sbagliare, come per esempio la vista del colore,

l’udito del suono, il gusto del sapore. Il tatto, quanto a lui, ha come oggetto più differenze.

Ma almeno 418a15 ognuno giudica riguardo a queste cose e non si sbaglia sul colore o

sul suono, ma su ciò che la cosa colorata è, oppure dove essa sia, o su ciò che produce il

suono oppure dove esso sia. Le cose di questo tipo sono chiamate proprie ad ogni senso,

mentre il movimento, il riposo, il numero, la figura, la grandezza sono comuni, perché

essi non sono propri a nessun senso, ma comuni a tutti. In effetti, un certo movimento è

oggetto di percezione sia per il tatto sia per la vista.

418a20 Si parla di oggetto di percezione per accidente se per esempio questo bianco è

il figlio di Diare; è in effetti per accidente che lo si percepisce, perché ciò che si percepisce

è accidentalmente unito al bianco. È anche per questo che non si è modificati dall’oggetto

della percezione in quanto tale. Tra gli oggetti di percezione per se, ci sono i propri che

sono oggetto di percezione propriamente detti, ed è in rapporto ad essi che 418a25

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l’essenza di ogni senso è naturalmente determinata.

Nel testo scelto Aristotele tratta della percezione, e dichiara che

innanzitutto dobbiamo trattare gli oggetti della percezione. Perché dobbiamo

farlo? In effetti, per stabilire cos’è la percezione, potremmo prendere tre

direzioni possibili: i) considerare l’ente che possiede la capacità; ii)

considerare l’oggetto della capacità, iii) considerare la relazione tra i due.

Per A. bisogna per prima cosa trattare l’oggetto della capacità, e non

spiega perché, ma forse la risposta è banale: è molto più semplice parlare

dell’oggetto della capacità rispetto agli organi di essa, poiché l’oggetto è

visibile, quotidiano.

Ora, ci spiega A. nella continuazione del testo, l’oggetto di percezione si

dice in tre modi, due per se (proprio e comune), uno per accidente. Il fatto

che A. affermi che l’oggetto “si dice” in tre modi lascia aperta una certa

ambiguità: infatti, non si capisce se A. vuol dire che ci sono tre tipi di oggetti

di percezione o tre significati di un termine (“oggetto di percezione”)

ambiguo.

Sensibile per se:

oggetto di percezione proprio: è l’oggetto che appartiene a un solo senso

(il colore per la vista, il suono per l’udito, il sapore per il gusto);

oggetto di percezione comune: è l’oggetto che, afferma A., è comune a

tutti i sensi. Tuttavia, è difficile pensare ad un oggetto percepibile da tutti i

sensi. Inoltre, quando A. commenta uno degli esempi di sensibili comuni

(movimento, riposo, numero, figura, grandezza), e cioè il movimento, dice

che esso è oggetto di percezione sia per il tatto che per la vista. Quindi

dovremo ridurre la portata di quel che dice A. e affermare che i sensibili

comuni sono quelli percepiti da più di un senso. Comunque, anche l’esempio

di movimento come sensibile comune è un po’ discutibile.

Per ciò che riguarda la distinzione tra sensibili per se e sensibili per

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accidente, l’esempio dato da A. è quello di ‘questo bianco figlio di Diare’.

Per rendere l’esempio più chiaro, possiamo cambiarlo e riflettere sul colore

della mia borsa. Secondo Aristotele io vedo la mia borsa solo per accidente,

cioè grazie a qualcosa d’altro che appartiene alla borsa, il suo colore. Il colore

è accidente della borsa, ma è ciò che la vista vede propriamente.

Quindi: quando vedo Diare, la sensazione per se (necessaria) è quella del

colore, non di Diare. Questo significa che Diare non modifica in quanto tale

l’organo sensoriale, ma è percepito solo per accidente.

Le due tesi aristoteliche insomma, sono queste:

i) (tesi implicita): vediamo la borsa (e in generale le cose, cioè le sostanze)

solo grazie al colore;

2) (tesi implicita): vi è una teoria della percezione con i cinque sensi

collegati e subordinati.

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10: L’etica

Come abbiamo visto nella lezione precedente, c’è una scienza

dell’uomo, la psicologia, che si situa tra le scienze teoretiche, le scienze

perseguite solo per se stesse, per il piacere di conoscere. Ma c’è un’altra

scienza dell’uomo, l’etica, che però non è teoretica, bensì pratica. Noi la

studiamo, cioè, allo scopo di divenire buoni.

Terminologia

L’etica di Aristotele ruota attorno a tre termini-chiave, spesso mal

compresi e mal tradotti:

- etica

- areté

- eudaimonia.

Il primo termine viene tradotto con ‘etica’, il secondo con ‘virtù’, il

terzo con ‘felicità’. Si tratta però di traduzioni sbagliate, anche se non

talmente entrate nell’uso corrente che è impossibile cercare di utilizzarne

altre.

Etica: deriva da ethos, che significa ‘carattere’, ‘costume’. L’etica

aristotelica è lo studio dei costumi, e non ha niente a che vedere con diritti,

doveri, e in generale con la relazione con gli altri, salvo che in maniera

accidentale. Infatti, Aristotele mostrerà che, anche se l’uomo mira

all’autorealizzazione, essa non può accadere in un contesto che non è

sociale e politico.

Areté: questo termine è tradotto con ‘virtù’, ma in realtà in greco

significa ‘eccellenza’. Aristotele può così parlare di eccellenza (areté) di

un argomento, di un cavallo, di una medicina. L’areté è ciò che fa di un

essere umano un buon essere umano. Ciò ha un collegamento solo

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indiretto con le virtù in senso moderno, cioè in termini di diritti e doveri.

Eudaimonia: il termine è tradotto con ‘felicità’ ma ciò non è corretto,

nella misura in cui, con eudaimonia, non si intende uno stato mentale di

euforia. ‘Essere eudaimon’ significa realizzarsi, riuscire nella vita. Ancora

una volta, il legame tra eudaimonia e felicità è indiretto, nel senso che per

Aristotele realizzarci ci rende felici.

L’etica aristotelica, sebbene si presenti come una scienza pratica, è

piena di analisi ed argomenti che si basano su ricerche storiche e

scientifiche sulla natura umana. Ma rimane che l’etica ha lo scopo pratico

di divenire buoni, in particolare di divenire dei buoni esseri umani.

‘Divenire un buon essere umano’ significa ‘perfezionarsi’, e in particolare

‘perfezionarmi’. In tal senso, l’etica aristotelica non ha lo scopo di aiutare

gli altri (salvo accidentalmente, nella misura in cui aiutare gli altri mi aiuta

a realizzarmi). Così l’eudaimonia coincide banalmente con l’essere buono

e non con l’essere contento, di buon umore o euforico.

La questione centrale: l’eudaimonia

La questione centrale dell’etica aristotelica è in effetti quella sulla

natura dell’eudaimonia: che cos’è?

Tale questione, cioè, si traduce nella domanda:

‘x è buono se e solo …?’

Perché questa domanda risulta centrale?

Perché Aristotele sostiene che per tutti senza eccezione è evidente che

l’eudaimonia è la miglior cosa per l’uomo, però bisogna più chiaramente

capire che cosa essa sia. Ogni essere umano vuole realizzarsi, o stare bene,

e qualunque nostra azione ha come fine ultimo l’autorealizzazione e lo

stare bene.

La prima domanda che si pone è allora: “come realizzare

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l’eudaimonia?’ O, in altre parole ‘in che cosa consiste

l’autorealizzazione?’

A questa domanda è dedicato il primo libro dell’Etica nicomachea. Qui

l’eudaimonia è definita tramite la funzione dell’uomo, cioè a partire da

ciò che l’uomo individuale fa tipicamente.

L’idea è la seguente: un buon F, se gli F possiedono una funzione, è un

F che funziona bene. Per esempio, un buon coltello, se i coltelli

possiedono la funzione di tagliare, è un coltello che taglia bene. Allo stesso

modo, un uomo buono, se gli uomini possiedono una funzione, è un uomo

che funziona bene.

Ma qual è la funzione tipica dell’uomo? Per rispondere a questa

domanda, Aristotele si collega alle funzioni psicologiche che abbiamo

visto parlando del de anima (capacità di nutrirsi, di percepire, ecc.) e

afferma che, mentre la vita nutritiva e percettiva sono comuni a più esseri

viventi, quella intellettiva è propria dell’essere umano. L’uomo si

comporta in modo razionale, di conseguenza la sua funzione sarà quella

di agire guidato dalla ragione. L’uomo buono sarà quindi colui che si

comporta secondo ragione, e lo fa bene:

x è un uomo buono se e solo se si comporta secondo ragione e lo fa

bene.

Ecco allora la definizione di eudaimonia:

è un’attività dell’anima razionale in accordo con l’areté (= con

l’eccellenza, che permette di ben realizzare la funzione).

In altre parole, l’eudaimonia è l’attività perfetta della ragione.

Da questa definizione derivano due corollari:

1) ‘comportarsi secondo ragione’ s’identifica con due tipi di ragione:

Ragione1 = agire in modo guidato dalla ragione (in tal senso parliamo

di ragion pratica)

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Ragione2= studiare, esercitare la ragione (in questo caso si parlerà di

ragione teoretica).

2) fare qualcosa bene = fare qualcosa secondo la virtù (areté)

appropriata.

L’eudaimonia è quindi un’attività virtuosa, nel senso di ‘virtù’ intesa

come eccellenza. Aristotele parla di virtù, per esempio del coraggio, ma

non le considera per se stesse. Esse vengono considerate perché, per

compiere un atto in modo eccellente bisogna avere la virtù corrispondente.

Per esempio, per compiere bene un atto di guerra bisogna possedere la

virtù del coraggio.

Nel libro decimo dell’Etica nicomachea Aristotele si chiede come

concretamente agire bene, cioè secondo ragione.

Se si agisce secondo la ragione pratica bisognerà per esempio esercitare

l’attività politica. Se invece si agisce secondo la ragione teoretica

bisognerà studiare, cioè coltivare le scienze teoretiche. Per Aristotele

l’attività intellettuale è sicuramente l’attività umana più importante.

Grazie ad essa, l’uomo porta in lui qualcosa di divino, poiché l’intelletto

è divino. In questo caso, le eccellenze umane sembrano essere

propriamente le eccellenze intellettuali, e l’eudaimonia consiste prima di

tutto nell’attività in accordo con queste eccellenze (conoscenza, giudizio,

ragione, sia teoretica che pratica). L’eudaimonia è prima di tutto una

forma di attività intellettuale, e ogni bene naturale (bene del corpo, salute,

amici, ecc.) che permettono di realizzare al meglio la contemplazione

intellettuale devono essere presenti ma subordinati e funzionali ad essa.

Tuttavia, l’attività intellettuale non sembra sufficiente: gli uomini non

sono individui isolati e l’eccellenza umana non può essere esercitata dagli

eremiti.

L’uomo, quindi, deve dunque esercitare anche la politica (che tuttavia

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resta secondaria rispetto alle attività intellettuali).

La virtù

Nel secondo libro dell’Etica nicomachea Aristotele innanzitutto

definisce la virtù come uno stato (abituale) che rende l’uomo buono, cioè

che permette all’uomo di fare le cose bene, di agire bene. Questa è una

definizione generica di virtù, in cui cioè rientrano tutte le virtù umane.

Ora, per ogni azione realizzata dall’uomo buono ci sarà una virtù

appropriata. Aristotele distingue tra virtù del carattere e virtù intellettuali.

Nelle virtù del carattere rientrano quelle che chiamiamo le virtù morali,

ma anche disposizioni di rispetto di se stesso: coraggio, temperanza,

generosità, magnificenza, grandezza d’animo, mitezza, veridicità, arguzia,

amichevolezza, pudicizia, giusto sdegno (cfr. Etica nicomachea II 7,

1107a33-1108b7).

Le virtù intellettuali includono la conoscenza, il buon giudizio, la

saggezza pratica.

Aristotele afferma che si comprenderà meglio in che modo la virtù

rende l’uomo buono se si considererà la sua natura. Questo significa che,

nonostante vi siano molte virtù, cioè molti modi di funzionare bene, è

comunque possibile qualche generalizzazione, fornendo di conseguenza

una sorta di definizione generale della virtù. In questo contesto si inserisce

il passo che analizzeremo, in cui Aristotele tenta una definizione delle

virtù del carattere.

Testo scelto: Etica Nicomachea II 5, 1106a26-1106b4

1106a26 Dunque, in tutto ciò che è divisibile è possibile cogliere il più, il meno,

l’uguale, e questo sia in relazione alla cosa stessa, sia in relazione a noi; d’altra parte

l’uguale è una sorta di intermedio tra eccesso e difetto. Intendo dire che l’intermedio

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in relazione alla cosa 1106a30, intermedio che è uno solo per tutti, è ciò che dista in

modo uguale da ciascuno degli estremi, mentre l’intermedio rispetto a noi è ciò che

non eccede e non difetta; e questo non è uno solo né lo stesso per tutti. Ad esempio, se

dieci sono molti e due sono pochi, come giusto mezzo rispetto alla cosa si prende sei;

infatti supera ed è superato in misura uguale. Questo è il giusto mezzo in base alla

proporzione aritmetica. 1106b Quello relativo a noi, invece, non dev’essere colto in

questo modo; infatti non è vero che se mangiare dieci mine <di cibo> è troppo e due è

poco l’allenatore prescriverà di mangiare sei mine; infatti sicuramente anche ciò, per

chi deve ingerirle, potrebbe risultare o troppo o troppo poco; infatti, per Milone è poco

mentre per chi è un principiante della ginnastica è troppo.

Troviamo qui la celebre definizione di virtù come giusto mezzo.

Aristotele introduce il giusto mezzo partendo da grandezze continue, e

distinguendo in esse il più, il meno e l’uguale. Egli poi presenta anche una

distinzione tra l’uguale matematico e l’uguale per noi, cominciando a

parlare del primo.

Per raffigurarlo prendiamo un segmento AB e dividiamolo in dieci

parti. Consideriamo le prime due parti (il poco) e l’ultima parte, la dieci

(molto). L’uguale (il giusto mezzo) sarà la sesta parte, perché essa è

superata da quattro parti della serie (la seconda, la terza, la quarta e la

quinta) e supera di quattro la decima (con la settima, l’ottava, la nona e

appunto la decima). Sei quindi corrisponde al giusto mezzo matematico,

che compare in tutti e due i membri dell’uguaglianza matematica

seguente:

6-2 = 10-6.

L’uguale per noi: Aristotele afferma però che non possiamo applicare

l’uguale (il giusto mezzo) matematico nelle cose che riguardano noi. Per

esempio, se per un uomo dieci chili di nutrimento al giorno sono molti e

due sono pochi, il dietista non potrà prescrivere a tutti sei chili di

nutrimento; infatti, per Milone (atleta greco celebre perché mangiava

spaventosamente) sei chili saranno pochi, mentre per me, debuttante nello

sport, saranno molti.

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La domanda che si pone è la seguente: come applicare ciò che Aristotele

ha detto alla virtù, che si identifica con il giusto mezzo, alle virtù e ai vizi,

che si identificano con eccesso e difetto?

Intanto dobbiamo capire quali sono le grandezze continue cui si applica

la virtù. Aristotele ne menziona due (1106b16-18) e cioè le passioni e le

azioni.

1) La cosa si comprende per le passioni (e le emozioni), perché esse

possono variare di intensità.

Possiamo fare un esempio (Aristotele ne fornisce una serie più avanti,

nel capitolo 7): consideriamo il sentimento della paura e dell’ardimento,

che trattiamo assieme proprio per capire l’applicazione della virtù come

giusto mezzo (vedi 1107b1-4). Se abbiamo due di coraggio (poco) e dieci

di paura (molto), saremo viziosi, cioè vili; se avremo due di paura (poco)

e dieci di coraggio (molto) saremo viziosi, cioè temerari; se avremo sei di

paura (giusto mezzo) e sei di coraggio (giusto mezzo) saremo coraggiosi.

Come però dice Aristotele, non sarà così per tutti e tutto, ma il giusto

mezzo si calcolerà date le circostanze, il carattere, ecc.

2) Invece, come trovare un esempio di azione? Forse, come osservano

alcuni commentatori (antichi e moderni) considerando le azioni come

cambiamenti che avvengono nel tempo. Consideriamo allora l’azione di

dare ricchezza (vedi 1107b8-10).

Se offro due (poco) sono avaro; se offro dieci (troppo) sono prodigo; se

invece offro sei (giusto mezzo) sono generoso. Anche qui non si potrà

utilizzare il giusto mezzo matematico. Infatti, donare tutto ciò che ho non

è necessariamente generoso. La mia generosità probabilmente è variabile,

e dipende dal patrimonio che ho a disposizione, dalle persone che devo

aiutare, dal livello di gravità delle loro situazioni, ecc.

Altro esempio, che associa emozioni ad azioni. Se vedo un pipistrello

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che può attaccarmi, e l’affronto come un guerriero davanti al nemico e gli

sparo, non sarò coraggioso; lo sarò se l’affronto cercando per esempio di

farlo uscire dalla camera da letto. Se invece inizio a gridare come

un’aquila, non sarò virtuosa neanche in questo caso; per esserlo dovrò ad

esempio essere giustamente prudente (magari coprendomi la testa prima

di affrontarlo), ma senza esagerare.

Quindi, la virtù del carattere (questa è la sua differenza specifica) è una

sorta di media non matematica tra eccesso e difetto, che A. caratterizza

anche come tendenza al giusto mezzo (1106b27-28).

Gli esempi fatti vogliono spiegare un’altra caratteristica che Aristotele

aggiunge alla virtù etica, quella cioè di essere uno stato decisionale (exis

proairetiké), che consiste in una medietà tra due mali (eccesso-difetto)

determinata razionalmente (1107a1).

In questo modo la virtù etica (cioè, del carattere) si configura come uno

stato abituale decisionale, che opera scelte in relazione alle azioni e che

domina le passioni grazie alla ragione. Ricordiamo che essa concerne

l’anima desiderativa, che desidera, prova passioni ed emozioni.

Per Aristotele, quindi, il desiderio (orexis) non deve essere estirpato,

anzi, è un elemento indispensabile dell’anima umana, perché esso produce

la capacità di muovere il corpo, cosa che la ragione non fa, almeno

essenzialmente. Aristotele opera una distinzione tra due tipi di desiderio:

quello che si oppone alla ragione, e quello che obbedisce ad essa. Queste

due forme di desiderio sono moralmente giudicabili. E comunque, la

funzione del desiderio è considerata da Aristotele come un dato

fondamentale della natura umana. Non bisogna sforzarsi di vivere senza

desiderio, passioni, emozioni, bisogna avere desideri ed emozioni di

buona qualità. La persona equilibrata deve giungere ad uno sviluppo

corretto delle sue capacità di provare emozioni e passioni. Tale sviluppo

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consiste nell’acquisire uno stato (cioè una disposizione durevole) a

provare passioni sempre uguali per oggetti simili, in modo tale da giungere

ad agire in modo coerente. Quando l’exis è buona, si identifica con la

capacità ad allontanarsi dagli eccessi e dai difetti, che distruggono il

benessere sia del corpo che dello spirito, e nella capacità di restare in uno

stato medio di emozioni e passioni.

La teoria del giusto mezzo è stata molto criticata da alcuni filosofi per

più motivi. Alcuni hanno trovato sgradevole l’idea della variabilità del

giusto mezzo per noi. Altri hanno trovato sgradevole l’idea che la virtù

non elimini le passioni e le emozioni, ma si limiti a regolarle. Altri ancora

non hanno accettato la virtù come giusto mezzo tra due vizi.

Nel XX secolo però, la teoria etica di Aristotele è stata riscoperta,

soprattutto a causa del legame da lui istituito tra la virtù e la felicità umana,

considerata appunto come vita che funziona e compie la natura e l’opera

umana.

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11: La politica

Lo scopo dell’uomo è quello di realizzare la sua natura particolare, cioè la

propria razionalità. Ma questo non basta: secondo Aristotele, infatti, gli

uomini non sono individui isolati, e l’eccellenza umana non può essere

praticata da un individuo isolato. Perché? Perché per Aristotele l’uomo è per

natura politico. E lo stato (che per Aristotele coincide con la città-stato, cioè

la polis, incarnata da Sparta e Atene) è un’entità naturale. La politica di

Aristotele, dunque, cioè lo studio dello stato, si basa su una definizione di

uomo come naturalmente politico, e di stato come entità naturale.

Svilupperemo ora un poco l’idea di uomo come animale politico per

natura. L’altra idea, quella di stato come entità naturale, è invece sviluppata

nel testo scelto.

L’uomo è per natura animale politico

L’idea di uomo come animale politico viene sviluppata nel libro I della

Politica. La definizione (uomo =df animale politico) è subordinata alla

scienza della zoologia, di modo che la politica sembra ‘cadere’ sotto il genere

‘zoologia’: l’uomo, cioè, risulta essere un animale di una certa specie.

Nella Storia degli animali, 488a2ss., Aristotele presenta una distinzione

secondo cui gli animali si dividono in i) solitari e in ii) gregari.

Questi ultimi (gli animali che vivono assieme), si dividono a loro volta in

iia) non sociali (puramente gregari: per esempio le pecore, che vivono

assieme ma facendo ciascuna i fatti propri) e iib) sociali (che si aiutano a

vicenda, come uomini, api, vespe formiche, gru).

L’uomo poi, a differenza degli altri animali, è politico (cioè, abita la polis

con forme di governo—in questo senso anche le api per Aristotele sono

politiche, perché ad esempio hanno l’ape regina, che è segno di politicità)

perché, come vedremo nel testo scelto, è il solo in grado di percepire bene e

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male, giusto e ingiusto, e il comunicarsi queste cose costituisce la base di

famiglia e stato.

“Essere politico” (caratteristica essenziale dell’uomo) significa allora

abitare una comunità dove c’è qui governa e chi è governato, e questo

secondo leggi, che si deve assicurare siano rispettate. Invece gli animali

puramente sociali collaborano assieme, ma senza governo né regole (=leggi).

In tal senso, “politico” non è una caratteristica essenziale che dipende dalla

definizione di uomo (ugualmente celebre) come “animale razionale”, perché

abbiamo visto che anche le api sono in certo qual modo politiche. La politica

rientra nel quadro della zoologia, e questa osservazione va presa seriamente:

così come le formiche e le gru hanno comportamenti determinati dalla loro

natura, ugualmente l’uomo è per natura (e non per convenzione) politico.

Questo però non significa che per A. tutti gli uomini sono politici. Come

per tutte le leggi naturali, anche la politicità dell’uomo vale “per lo più”, cioè

nella maggioranza dei casi. Le eccezioni sono dunque ammesse. Il fatto che

l’uomo sia per natura politico, e che quindi viva nella polis, non impedisce

che ci siano individui che vivono fuori-polis, quelli che le hanno fondate.

Aristotele vuol dire che per garantire la vita politica l’uomo deve o ha dovuto

fare qualcosa fuori politica. Questo non è una contraddizione: da una parte

noi facciamo qualcosa per natura (cioè abbiamo un comportamento politico);

dall’altra, ogni tanto, bisogna fare qualcosa che metta in moto il

comportamento naturale. Si tratta insomma di una tendenza naturale che ha

bisogno di essere avviata.

Per A. quindi essere politico significa vivere nella polis. Lo stato ideale,

per il nostro filosofo, non deve mai superare i centomila abitanti, perché A.

ha in mente città antiche come Atene e Sparta. Le città-stato in effetti

costituiscono la realtà di base per la teoria politica aristotelica. Il che è in

certo qual modo bizzarro, visto che Aristotele fu l’istitutore di Alessandro il

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Grande, responsabile proprio della distruzione delle città-stato. Nondimeno,

A. non perse la convinzione della correttezza della città-stato come forma

corretta del viver civile.

Il cittadino

Data la tendenza naturale dell’uomo per il comportamento politico, ci si

potranno porre tre questioni:

1) chi deve governare, cioè quale forma di governo è per A. ideale;

2) in relazione a che cosa si deve governare, visto che il governo politico

in teoria non dirige tutta la vita dell’uomo;

3) quali sono le questioni politiche e quali quelle private.

In generale A. non ha trattato le varie questioni in modo chiaro, ma ci sono

indicazioni che portano a pensare che egli fosse totalitarista (cioè, che

pensasse ad uno stato forte e molto interventista nella vita degli individui) e

non molto interessato alla questione delle libertà individuali. E’ però vero

che ciò che resta della Politica di Aristotele è incompleto, e non possiamo

escludere che se ne fosse occupato.

Quanto alla domanda 1), e cioè chi debba governare, la maggior parte della

Politica cerca di rispondere proprio a questo. Egli discute tale questione sotto

la rubrica più generale di “costituzione”, perché per lui essere cittadino

significa avere il diritto, e probabilmente anche il dovere, di partecipare alla

costituzione delle leggi e alle corti di giustizia. Questo costituisce una

differenza tra “cittadini” ed “abitanti della città”. I primi, per essere tali,

devono avere caratteristiche razionali, perché per A., anche se l’uomo è

“animale razionale”, vi sono uomini che non sono capaci di ragionare, che

di fatto sono la maggior parte del genere umano (i barbari, gli schiavi, i

bambini, le donne). La teoria sulle donne ha basi “scientifiche”: Aristotele

dice che le donne sono mutilate, come i castrati (egli osserva gli animali

castrati e nota che hanno comportamenti femminili…).

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Chi deve governare, dunque? I cittadini sotto una determinata forma di

governo, tenendo presente che la forma di governo si applica solo alla classe

selezionata dei cittadini (nel senso che solo essi si occupano di guerra,

governo e culto. Gli altri obbediscono).

Alla domanda “chi deve governare?” ci sono tre possibili risposte:

i) una sola persona tra i cittadini (non necessariamente una monarchia

ereditaria);

ii) un piccolo gruppo

iii) tutti i cittadini.

Secondo queste tre possibilità, Aristotele presenta sei forme di governo

(che chiama costituzioni), di cui tre degradate in relazione alle altre tre (a

seconda che si segua l’interesse comune o quello privato)

forma positiva forma degenerata

- monarchia tirannia (potere assoluto)

- aristocrazia (da aristos =eccellente) oligarchia (potere di pochi)

- democrazia (da demos, popolo) ochlocrazia (ochlos = plebe)

Per ciò che riguarda i nomi, si tratta evidentemente di stipulazioni; ciò che

è importante notare è che ci sono sei tipi di governo che hanno valori

differenti: il meglio per A. sarebbe la monarchia, qualora si sia in presenza

di un uomo particolarmente eccellente; il peggio è la tirannia. Tra le due si

collocano (in ordine di valori) aristocrazia, democrazia, ochlocrazia e

oligarchia.

Di fatto, Aristotele ritiene che un uomo adatto alla monarchia non esiste;

quindi, realisticamente, opta per la democrazia, cioè per un governo di

cittadini di ceto medio.

Da notare che A. riconosce che lo schema delle forme di governo non ha

molto valore perché troppo semplice. In effetti, egli ha riconosciuto che la

domanda non è “quante persone devono governare?”, ma “quali persone

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devono governare?”. Per rispondere a questa domanda, ha individuato più

criteri: ricchezza, nobiltà di famiglia, valore militare, ecc.

In rapporto alla questione “chi deve governare?”, la risposta dipenderà in

ultima istanza dal tipo di governo. Secondo Aristotele ce ne sono diversi tipi,

tra cui esercito, marina, culto religioso: si tratta di tipi di “ministero”, che

hanno compiti diversi e che si occupano di parti diverse del governo della

polis. Per ognuna di queste parti, si risponderà diversamente: per i preti con

un’oligarchia ereditaria, per l’esercito con un’oligarchia non ereditaria, per

giustizia, leggi, ecc., con la democrazia. Le differenti forme di governo

funzioneranno insomma a seconda del “ministero” (termine moderno che

usiamo solo per chiarire ciò che A. aveva in mente), cosicché esse saranno

adatte a seconda della parte di governo in questione. La domanda sarà allora:

quale forma di governo in relazione a un ministero dato?

Rispetto alle domande 2) e 3), la prima cosa da tenere presente è che lo

stato per A. è un’entità naturale, e come tale ha lo scopo di dare l’opportunità

di “vivere bene”. La buona vita è da A. identificata con l’eudaimonia, che è

lo scopo di ogni uomo. Dato il valore etico dello stato, A. prevede un suo

forte intervento nella vita dei cittadini. Questo non tanto nell’economia (che

riguarda innanzitutto le famiglie, mentre lo stato non è possessore dei mezzi

di produzione), anche se lo stato interverrà con leggi che regolano il

comportamento economico dei cittadini. In compenso, l’intervento sarà forte

nelle questioni sociali.

Lo stato per natura

Nel testo scelto, Aristotele vuole dimostrare due cose

1) che la città è per natura

2) che la città è anteriore all’individuo.

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Testo scelto: Politica I 2, 1252a25, 26 + 1253a1-25

1252a25 Se si esaminano le cose a partire dalla loro origine, qui come negli altri casi

si condurrà lo studio nel modo migliore.

1253a1 È evidente che la città (polis) è per natura, e che l’uomo è per natura un animale

politico (politikós): quindi, chi vive fuori dalla città (polis) per natura e non per caso o è

degradato o è sovra umano, proprio1253a5 come quello biasimato da Omero “privo di

fratria, di leggi, di focolare”. Infatti è così di natura e contemporaneamente desideroso di

guerra, giacché è isolato, come una pedina al gioco degli scacchi. Perciò è chiaro che

l’uomo è animale politico più di ogni ape e animale gregario. La natura, infatti, come

diciamo, non fa niente invano; 1253a10 e solo l’uomo, tra gli animali, possiede la parola:

certamente la voce è segno di ciò che è doloroso e gioioso, e per questo ce l’hanno anche

gli altri animali (fin qui giunge la loro natura, di avere la sensazione di quanto è doloroso

e gioioso, e di segnalarselo reciprocamente), mentre la parola è fatta per mostrare il

giovevole e il nocivo 1253a15 cosicché anche il giusto e l’ingiusto; questo infatti è

proprio dell’uomo rispetto agli altri animali, di avere, egli solo, la percezione del bene e

del male, del giusto e dell’ingiusto, e delle altre cose; la comunanza di queste cose

costituisce la famiglia e la città. E per natura la città è anteriore alla famiglia e a ciascuno

di noi. 1253a20 Infatti, il tutto dev’essere necessariamente anteriore alla parte: infatti,

soppresso il tutto, non ci sarà più piede né mano, se non per omonimia, come se si dicesse

una mano di pietra (tale sarà infatti una volta distrutta), ma tutte le cose sono definite dalla

loro funzione e capacità, sicché quando non sono più tali non si deve dire che sono le

stesse se non 1253a25 per omonimia. E’ evidente dunque che lo stato (polis) è per natura

e precede l’individuo.

La città è per natura

La prima frase mostra che A. ha in mente l’origine, l’evoluzione e lo scopo

dello stato. Per poter fare ciò, egli propone una sorta di metodo genetico, cioè

di considerare la storia dell’uomo politico dall’origine alla costituzione dello

stato. Tale analisi è basata sulla credenza, radicata in Aristotele, nel

progresso antropologico. Egli presenta una speculazione antropologica

progressiva e ottimista grazie alla sua tesi della teleologia naturale. Nella

parte non riprodotta del testo (quella che si trova tra la prima fase è il testo

che segue), Aristotele presenta il percorso che porta l’uomo individuale alla

polis, passando per le coppie uomo/donna, padrone/schiavo, padre/figlio, per

arrivare alla costituzione del villaggio e poi alla polis.

Nella successiva parte del testo (“E’ evidente…gioco degli scacchi”)

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Aristotele afferma che la città è per natura, e che l’uomo è per natura animale

politico. Abbiamo già visto la giustificazione della seconda affermazione.

Quanto alla prima, A. pensa che la città faccia parte delle cose naturali come

causa finale e come causa formale. Come causa finale perché, come A. ha

spiegato appena prima del passo, lo scopo della città è l’associazione degli

uomini, e la natura è un fine; come causa formale (cosa che vedremo alla

fine del testo) per ciò che si è già visto a proposito degli organismi naturali.

La città-stato è vista come un organismo le cui parti (i cittadini) esercitano

differenti funzioni che realizzano la loro essenza di uomini. Sulla base della

tendenza naturale all’associazione politica, A. afferma che l’uomo è per

natura animale politico, al punto che gli individui al di fuori dello stato (per

natura e non per caso: cioè essenzialmente non politici) sono o degradati al

livello delle bestie feroci (violenti come una pedina isolata, forse non più

umani), o sovrumani (abbiamo già visto che ci dev’essere qualcuno che

fonda le città, cioè che metta in moto la tendenza naturale politica).

“Per ciò è chiaro che l’uomo…la famiglia e la città”.

L’uomo è animale politico più di ogni ape e animale gregario (per la

classificazione tra animali gregari, sociali e politici, vedi sopra, inizio della

lezione sulla Politica). La vera differenza tra l’uomo e gli altri animali passa

attraverso il linguaggio. Infatti, gli animali hanno la voce per comunicarsi

reciprocamente il doloroso e il piacevole (condizione necessaria ma non

sufficiente per fondare lo stato. Ma solo gli uomini hanno in più il

linguaggio, grazie al quale manifestare il vantaggioso e il nocivo, e in seguito

il giusto e l’ingiusto, e finalmente il bene e il male.

Questi ultimi, rispetto al piacevole e al doloroso, sono valori sociali,

perché non hanno alcun senso al di fuori della vita in comune. Da questo

punto di vista gli uomini hanno uno strumento naturale in più degli altri

animali, il linguaggio, che permette la fondazione della città e della famiglia.

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La città è anteriore all’individuo

“E per natura la città è anteriore…è per natura e precede l’individuo”.

Abbiamo già visto questa tematica in rapporto alla teoria della teleologia

naturale. Secondo A. la città è anteriore alla famiglia e all’individuo così

come il tutto è anteriore alla parte. Nei corpi di natura organica, infatti, le

parti si definiscono secondo la loro funzione e la loro virtù (nel senso di

capacità a svolgere la funzione in modo eccellente), in modo tale che se il

tutto è distrutto, anche la parte lo sarà, e resterà chiamata in modo omonimo.

Esempio esplicativo: una mano si chiama mano e si definisce grazie alla

sua funzione nel corpo umano. Se il corpo umano va distrutto, la mano non

avrà più la sua funzione. Essa continuerà a chiamarsi “mano”, ma senza

avere più la funzione grazie alla quale comprendiamo il termine “mano”

(sarà mano solo per omonimia: manterrà il nome, ma non avrà più la

definizione in comune con la vera mano, quella che svolge la propria

funzione nel corpo umano).

In questo modo A. ritiene di aver dimostrato che la città è per natura, e

anteriore all’individuo.

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12: La poetica

Testi principali: Retorica; Poetica

Torniamo un’ultima volta allo schema delle scienze che si trova all’inizio

di questa dispensa: scienze i) teoretiche (matematiche, filosofia, ecc.), ii)

pratiche (etica e politica) e iii) poietiche o produttive.

Le scienze produttive, di cui fanno parte retorica e poetica (ma anche le

tecniche), sono quelle che permettono di produrre qualcosa di differente

dall’azione stessa.

La Poetica, trattato molto breve, di cui ci è tra l’altro giunta solo una metà,

non parla tanto di emozioni, quanto di linguaggio. La maggior parte di essa

concerne ciò che i commentatori hanno considerato come un trattato di teoria

letteraria. Tuttavia, questo punto di vista non era quello di Aristotele, perché

per lui la Poetica sarebbe piuttosto un contributo alla scienza poietica. Ciò

significa che il suo scopo principale è quello di dirci non come giudicare

un’opera d’arte, ma come produrla. Infatti, “poetica” viene da poiein, che

vuol dire “fare”, “fabbricare”.

Aristotele considera soprattutto la tragedia, e solo in modo subordinato

l’epica (la narrazione, come Iliade e Odissea). Ha sicuramente trattato anche

la commedia, ma la parte ad essa relativa non è giunta fino a noi (sulla sua

scomparsa si è basato il celebre libro di U. Eco Il nome della rosa).

Comunque si può dire che le osservazioni aristoteliche sulla tragedia possono

valere per l’opera d’arte in generale.

Natura e scopo dell’opera d’arte

Secondo Aristotele ciò che il poeta produce è un’imitazione (poiesis). Le

parole per il poeta sono come il legno per falegname. Il falegname non

produce del legno, ma se ne serve per produrre un tavolo; allo stesso modo

il poeta non produce delle frasi ma se ne serve per produrre un’imitazione

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degli eventi umani. L’oggetto della Poetica non è quindi la letteratura

concepita come prodotto delle belle lettere, ma una finzione nel senso di una

imitazione della realtà. Il problema è allora quello di come produrre delle

buone imitazioni.

C’è quindi una differenza di scopo tra la poesia e per esempio la storia:

Tucidide ed Erodoto avevano lo scopo di dire la verità sugli eventi umani

passati, Omero e Sofocle invece avevano lo scopo di produrre delle

imitazioni. Ma di cosa? Come sappiamo, si ha imitazione quando si produce

qualcosa che non esiste, ma che è un po’ come le cose che esistono. Un caso

celebre in Grecia era quello di un pittore che aveva dipinto un quadro che

raffigurava dell’uva. L’imitazione era così perfetta che gli uccelli andavano

a beccarla. Nella stessa maniera, Omero ha prodotto dei guerrieri e dei

personaggi come Ulisse che sono uomini, ma non veri, e delle guerre che

non hanno avuto luogo, almeno così come le racconta Omero. Però Omero

ha prodotto una cosa come la guerra, e dei personaggi come degli uomini, e

questo grazie alle parole. Aristotele non ha concepito l’idea di un’arte non

imitativa (come per esempio la pittura astratta), probabilmente per ragioni

storiche, e cioè che i quadri astratti non esistevano. A. spesso infatti teorizza

a partire dall’esperienza. Come abbiamo visto, la sua teoria politica si basa

sulla politica greca dell’epoca; allo stesso modo la sua poetica si basa sulle

opere poetiche che si producevano alla sua epoca.

Due tipi di poesia

A. distingue due tipi di poesia:

i) quella drammatica: si tratta delle opere teatrali, cioè della tragedia (come

ho detto prima A. ha probabilmente trattato anche la commedia, che però

non possediamo più);

ii) la narrazione: si tratta dei poemi omerici, anche se è vero che le opere

omeriche talvolta diventano un po’ drammatiche, quando per esempio Ulisse

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parla in prima persona.

Comunque, come si è già detto, Aristotele si occupa soprattutto della

tragedia.

La tragedia e la catarsi

Lo scopo della tragedia è la catarsi (katharsis), la purgazione delle

emozioni. Come vedremo nel testo scelto, secondo A., attraverso la pietà e

la paura, la tragedia porta a compimento la purgazione di queste emozioni.

Questa è una teoria celeberrima e molto contestata. Sicuramente A. utilizza

il termine catarsi in modo metaforico, ma ci sono due metafore esplicative

possibili:

a) una è la purificazione religiosa: una volta purificati, si resta con le

proprie emozioni, ma in forma moderata;

b) un’altra è la purgazione medica: si prende un vomitivo, e vomitando ci

si purga sia delle emozioni, sia del vomitivo stesso. In tale contesto, le

emozioni dovrebbero sparire.

L’idea è insomma la seguente: assistiamo alla tragedia, e nella tragedia

vengono mimati degli atti che suscitano paura e pietà. Inseguito, si produce

la catarsi, il che significa che espelliamo queste emozioni, che sono anche le

stesse emozioni che producono l’espulsione (il vomitivo). Alla fine, saremo

purgati di queste emozioni. Nel primo caso, invece, quello della

purificazione religiosa, conserviamo le emozioni, ma in forma moderata.

Non è facile stabilire in quale dei due sensi Aristotele utilizzi il concetto

di catarsi. Altri testi suggeriscono forse la purgazione medica.

Ci sono però alcune perplessità riguardo questa teoria:

1) non sembra che sia ciò che realmente accade quando assistiamo alla

tragedia. Non pare vero che, una volta vista la rappresentazione di Edipo re,

si ritorni a casa con le emozioni più moderate, o anche senza emozioni;

2) di fatto Aristotele non spiega come avvenga questa purificazione.

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Testo scelto: Poetica 6, 49b22-50a10

49b22 Discutiamo ora la tragedia, ricavando da ciò che si è detto quella che risulta la

sua definizione essenziale. Tragedia è dunque (1) imitazione (mimesis) di un’azione

nobile e completa, avente una propria grandezza, (2) con linguaggio elevato 49b25,

separatamente per ciascuna delle specie nelle sue parti, (3) di persone che agiscono e non

tramite una narrazione, (4) la quale, per mezzo di pietà e paura, porta a compimento la

purificazione (katharsis) di siffatte emozioni.

Dico ‘linguaggio elevato’ quello fornito da ritmo e musica; ‘separatamente per le

49b30 specie’ il comporre alcuni solo con versi, altri invece col canto. Poiché è agendo

che si realizza la rappresentazione, anzitutto di necessità una parte della tragedia sarà

spettacolo, un’altra la musica e un altro lo stile. È con questi mezzi che si realizza la

rappresentazione. Intendo per stile la stessa composizione 49b35 dei versi e per canzone

ciò la cui funzione è perfettamente chiara. Poiché è rappresentazione di un’azione, e un

atto è compiuto da attori, che devono avere un certo carattere quanto alle loro disposizioni

e quanto alle loro idee (grazie a questi noi diciamo anche 50a1 che le azioni sono dotate

di una certa qualità, ed è in seguito ad esse che tutti hanno successo o falliscono),

rappresentazione dell’azione è la storia (mythos); per storia intendo 50a5 la composizione

delle cose, per caratteri ciò secondo cui diciamo che chi agisce ha una propria qualità, per

pensiero tutto ciò con cui, parlando, si dimostra qualcosa o si esprime un giudizio. E’

quindi necessario che di ogni tragedia ci siano sei parti grazie a cui la tragedia ha una

propria qualità: storia, caratteri, stile, 50a10 pensiero, spettacolo e musica.

Questo testo è estremamente celebre anche per la storia del teatro. Infatti

la definizione della tragedia qui contenuta è stata presa a modello per la

produzione delle opere teatrali del XV-XVI secolo.

Il primo paragrafo definisce la tragedia. Il secondo paragrafo presenta una

serie di deduzioni a partire dalla definizione che stabiliscono le sei parti

essenziali della tragedia.

Definizione della tragedia

“Discutiamo la tragedia…di siffatte emozioni”.

La prima osservazione da fare è che non si tratta di una definizione

standard (del tipo genere + differenza specifica), ma di un’enumerazione di

quattro elementi essenziali:

(1) si tratta di una rappresentazione perché, come abbiamo visto, la poetica

è mimesis, imitazione di un evento tramite parole;

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- è rappresentazione di un atto completo. È possibile che si tratti di un solo

atto? E in che senso parla di “atto”? Parla davvero di una sola azione, o di un

evento, costituito da più azioni?

Inoltre, che significa “atto completo”? Per esempio, Edipo re ha una

continuazione (Edipo a Colono), e quindi non sarebbe completo, almeno nel

senso di “finito”.

- Aristotele poi parla di atto nobile, nel senso che non è qualcosa di

quotidiano.

- infine parla di atto che ha una sua grandezza, forse nel senso di

“importanza” o “influenza” che questo atto può esercitare sullo spettatore.

Ma perché affermare che tutto ciò è tipico della tragedia? Normalmente si

crede che ciò che è tipico della tragedia è che accade sulla scena qualcosa di

catastrofico, per esempio che muoiono tutti. E’ curioso che, enumerando gli

elementi della tragedia, Aristotele non menzioni questo, che sembra il più

caratteristico.

(2) la rappresentazione dell’atto dev’essere scritta in un linguaggio

elevato, “separatamente per ciascuna delle specie nelle sue parti”. Aristotele

spiega subito dopo che “linguaggio elevato” significa linguaggio fatto di

parti differenti, cioè versi e canzone. Quindi, quello che vuol dire è

semplicemente che la tragedia è un’imitazione prodotta da un linguaggio di

specie differenti, versi e versi in musica.

(3) questa rappresentazione si realizza tramite personaggi che agiscono e

non tramite narrazione. Qui Aristotele vuol semplicemente dire che la

tragedia è drammatica (drama = azione) e non narrativa, cioè che i

personaggi parlano e agiscono in prima persona, non grazie allo scrittore che

racconta lui cosa succede.

(4) questa rappresentazione, tramite pietà e paura, giunge alla catarsi di

tali emozioni. Abbiamo già parlato di questa parte e delle due possibili

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interpretazioni della catarsi.

Deduzioni

“Poiché è agendo…spettacolo e musica”.

Qui Aristotele deduce le sei parti della tragedia:

a) storia (la trama)

b) disposizione

c) stile

d) pensiero (dei personaggi)

e) spettacolo

f) musica.

La teoria di Aristotele è che queste sei parti sono conseguenze dirette degli

elementi della definizione della tragedia data, cosa che non è sempre

evidente.

In particolare, ci sono quattro parti che derivano dal primo elemento, e due

che derivano dal terzo.

(1) rappresentazione di un atto: da esso derivano spettacolo, musica, stile,

storia. D’accordo per la storia e lo stile (che è il mezzo di imitazione

dell’atto), ma perché credere che spettacolo e musica derivino direttamente

ed essenzialmente dalla tragedia come rappresentazione di un atto?

Per lo spettacolo si è proposto di considerare la seguente soluzione: lo

spettacolo è una rappresentazione visuale di un atto, ma anche un

meccanismo che ci tocca e che provoca in noi la catarsi.

Per la musica, invece, che è realizzata da canzoni cantate dagli individui e

dai cori, si è pensato che Aristotele non stia occupandosi della tragedia, ma

dell’opera tragica, quella che oggi chiamiamo opera.

Si noti poi che lo stile riguarda solamente la composizione in versi, ragion

per cui è impossibile per A. avere una tragedia in prosa.

(3) Rappresentazione che si realizza tramite personaggi.

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Da quest’altra caratterizzazione derivano gli altri due elementi essenziali

della tragedia, la disposizione e il pensiero dei personaggi. Aristotele spiega

che sono disposizione e idee che spingono i personaggi ad agire. Aristotele

in particolare spiega che la disposizione è il carattere dei personaggi (per

esempio, la disposizione ad agire male), mentre le idee sono ciò che i

personaggi esprimono attraverso le loro opinioni e ragionamenti.

L’importanza della disposizione e delle idee deriva ovviamente dal fatto che

sono esse che fanno agire i personaggi in vista della realizzazione dell’atto

tragico.