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La Rivoluzione Francese Del1789 E La Rivoluzione Italiana Del1859 Osservazioni Comparative

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Alessandro Manzoni. LA RIVOLUZIONE FRANCESE DEL 1789 E LA RIVOLUZIONE ITALIANA DEL 1859. OSSERVAZIONI COMPARATIVE. Sansoni Editore, Firenze 1993. Copyright 1993 Gruppo Editoriale Fabbri, Bompiani, Sonzogno, Etas S.p.A., Milano . INDICE. Nota di Mario Martelli. LA RIVOLUZIONE FRANCESE... Introduzione. PARTE PRIMA. DELLA RIVOLUZIONE FRANCESE DEL 1789. Gli Stati Generali della Francia (c. 1864-1872). 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. Nota "A" relativa ai Parlamenti. Note al testo. *** NOTA di Mario Martelli. Tutto lascia ritenere che Manzoni si accingesse a questo imponente lavoro storic o fra il 1860 ed il 1861. Gi il Bonghi, che per primo ne pubblic l'autografo in du e stampe (Milano, Rechiedei 1889, e "Opere inedite e rare", vol. fuori serie, ma in realt sesto dell'ed. cit., 1889), affermava che Manzoni avesse cominciato a s criverlo sui 75 o sui 76 anni. Pi importante, la lettera n. 1343, nella quale, in data 1 dicembre 1862, Manzoni chiedeva l'autorizzazione di trattenere presso di s alcuni libri riguardanti la Rivoluzione Francese, che gli erano stati prestati da Cesare Giulini, da poco defunto. Alla luce di queste testimonianze sugli stu di che Manzoni faceva in quel momento, ha ben ragione Cesare Arieti ad identific are il lavoro in cui era tutto tuffato e di cui parla nella lettera n. 1342 a G. B . Giorgini in data 5 ottobre 1862, appunto col libro sulla Rivoluzione Francese. Oltre a questo, nella prima stesura dell'opera, la rivoluzione del '59 detta riv oluzione attuale d'Italia: il che permette di allontanarci assai poco dal '59 ste sso. Il lavoro prese ben presto proporzioni troppo grandiose; sicch Manzoni, temendo d i non poterlo finire, e di arrivare soltanto a trattare la parte riguardante la Rivoluzione Francese, si indusse (il figliastro Stefano Stampa afferma, nel suo libro cit., I, 440, per suo suggerimento) a scrivere un'introduzione, pi volte ri elaborata, che chiarisse l'intento generale dell'opera: una delle stesure di que st'introduzione dice il Bonghi di aver letto nell'ottobre del 1868. L'anno dopo

(come c'informa una lettera del Rossari al Bonghi del luglio 1869), Manzoni trov ava una formula atta a ridimensionare il suo lavoro, e procedeva quindi ad una nuo va sua redazione, nella quale lo troviamo impegnato ancora nel 1872 (conf. "Lett ere", n. 1554, a G. B. Giorgini, del 13 marzo 1872). Il testo quello fissato da Fausto Ghisalberti per l'edizione Mondadori, "Saggi s torici e politici", a cura di Fausto Ghisalberti, vol. 4 di "Tutte le Opere" di A. M., Milano, 1963. LA RIVOLUZIONE FRANCESE DEL 1789 E LA RIVOLUZIONE ITALIANA DEL 1859. OSSERVAZIONI COMPARATIVE. "Dies vero subsequentes Testes sapientissimi". Pind., Olymp. 1 INTRODUZIONE (c. 1869). Il nome di Rivoluzione si applica indifferentemente a due cose diverse, non solo di grado, ma d'essenza, cio, tanto a una grave alterazione nel governo d'uno Sta to, quanto alla distruzione del governo medesimo. A questo secondo genere appart engono del pari i due grandi avvenimenti, sopra alcuni punti de' quali ci propon iamo di fare un compendioso confronto. L'essere, in uno de' due casi, toccata un a tal sorte a un governo solo, e nell'altro a pi d'uno, una differenza accessoria che non muta punto l'essenza della cosa. Ma, tra avvenimenti cos vasti e cos complicati, si devono necessariamente trovare anche delle differenze che tocchino l'essenza. E due principalissime ci par di v ederne in due de' pi gravi effetti della prima di quelle due Rivoluzioni, e de' q uali la seconda pot andare immune. E furono: l'oppressione del paese, sotto il no me di libert; e la somma difficolt di sostituire al governo distrutto un altro gov erno; che avesse, s'intende, le condizioni della durata. A dimostrare una tale diversit d'effetti tra le due Rivoluzioni, e a indagarne la causa, destinato il presente scritto. Per poterne dar qui intanto un saggio in forma di postulato, baster, principiando dagli effetti, accennare ci che in essi c' di pi generalmente noto, e di pi incontr astabile. E per ci che riguarda la Rivoluzione Francese, il primo sufficientemente indicato dal nome di Terrore, dato e rimasto a una fase non breve di essa: nome, che appli cato a un'intera popolazione, presenta da s l'idea dell'oppressione pi forte e pi u niversale che si possa immaginare, cio d'un'oppressione che pesi anche su di quel li che non siano colpiti direttamente, e levi agli animi il coraggio e fino il p ensiero della resistenza. Del resto, la ragione per cui un tal nome fu dato a qu ella sola fase, fu perch in essa la cosa era arrivata al colmo. Ma, come chiaro p er chiunque voglia dare un'occhiata ai fatti, il sopravvento di forze arbitrarie e violente era gi principiato, quasi a un tratto con la Rivoluzione, a rattenere , col mezzo d'attentati sanguinosi e impuniti sulle persone, una quantit di pacif ici cittadini dal manifestare, non che dal sostenere i loro sentimenti, e a impo rre a molti, pi onesti che risoluti membri de' corpi e legislativi e amministrati vi e altri, creati, o lasciati formarsi dalla Rivoluzione medesima, l'assenza o il silenzio, per arrivar poi a imporre, con un successo pi indegno, la parola e i l voto. E parimente, cessato il Terrore propriamente detto, continu quella pressura, in m inor grado e in varie forme, ma per un pi lungo spazio di tempo, a esercitare il suo malefico impero. Il secondo degli effetti indicati pi che abbastanza attestato, nella sua generali t, dal fatto di dieci costituzioni nello spazio di sessantun anno. Per ci poi che riguarda l'Italia, una cosa anche pi manifesta, che la sua Rivoluzi one non port, n l'uno, n l'altro di que' due tristissimi effetti. Qui, infatti, la libert, lungi dall'essere oppressa dalla Rivoluzione, nacque dal

la Rivoluzione medesima: non la libert di nome, fatta consistere da alcuni nell'e sclusione di una forma di governo, cio in un concetto meramente negativo e che, p er conseguenza, si risolve in un incognito; ma la libert davvero, che consiste ne ll'essere il cittadino, per mezzo di giuste leggi e di stabili istituzioni, assi curato, e contro violenze private, e contro ordini tirannici del potere, e nell' essere il potere stesso immune dal predominio di societ oligarchiche, e non sopra ffatto dalla pressura di turbe, sia avventizie, sia arrolate: tirannia e servit d el potere, che furono, a vicenda, e qualche volta insieme, i due modi dell'oppre ssione esercitata in Francia, ne' vari momenti di quella Rivoluzione: uno in mas chera d'autorit legale, l'altro in maschera di volont popolare. Qui ancora, ai governi distrutti pot sottentrare un novo governo, con un'animatis sima e insieme pacifica prevalenza e quasi unanimit di liberi voleri. E un cos gra n cambiamento, non solo apparve, nell'atto stesso, un fatto stabile, ma appar ta le ogni giorno pi, malgrado gl'inciampi frapposti e le difficolt inerenti a ogni g ran cambiamento. Nessuno, credo, vorr dire che le cagioni d'un divario cos importante tra le due Ri voluzioni, non meritino d'esser ricercate: e una, non unica, ma principalissima, e feconda di molte cagioni accessorie, ci par di vederla nell'essere stata viol ata dalla prima, e adempita dalla seconda, una condizione, non meno imposta dall 'equit, che richiesta, per un accordo naturalissimo, dalla prudenza. Ed : che la d istruzione del governo, o de' governi esistenti prima della Rivoluzione, fosse u n mezzo indispensabile per ottenere un bene essenziale e giustamente voluto dall e rispettive societ rette da loro: in altri termini, che que' governi fossero irr eformabilmente opposti al bene e alla volont delle societ medesime. Dietro queste premesse, cercheremo di dimostrare nella prima parte di questo scr itto: che la distruzione del governo di Luigi Sedicesimo non era punto necessari a per ottenere i miglioramenti che la Francia voleva nel suo ordinamento, e avev a espressi nelle istruzioni date ai suoi rappresentanti negli Stati Generali; e che quella distruzione fatta senza una tale necessit, e con una manifesta usurpaz ione di potere, cre invece uno stato di cose, dal quale vennero e dovevano venire , per una conseguenza inevitabile, i due disastrasi effetti indicati da principi o. E qui dobbiamo, prima di tutto, avvertire che, per la distruzione di quel govern o, intendiamo, non il decreto formale con cui fu abolito il nome e l'ultime appa renze della monarchia dalla Convenzione Nazionale; ma un fatto anteriore di pi di tre anni: voglio dire gli atti, con cui nel giugno del 1789, i deputati d'uno d e' tre Ordini che componevano gli Stati Generali adunati a Versailles, col crear si da s Assemblea generale della nazione, e col mantenersi in quel possesso, cont ro il divieto solenne del re, annullarono di fatto il suo governo, a concorrere alla riforma de quale erano stati chiamati da lui, e man dati da' loro elettori. I fatti, sia causali, sia conseguenti, cui ci siamo serviti per provare un tal a ssunto, sono tutti ricavati da atti solenni e definitivamente storici. Non abbia mo per tralasciato di scegliere notizie di circostanze relative a quei fatti, da degli scritti d'uomini di quel tempo, per lo pi attori o testimoni di ci che rifer iscono, e degni di fede, o per nota onest e nobilt di carattere, o per non avere, in quei casi, interesse a travisare la verit. A ogni modo, nel servirci di tali a iuti per render pi vivo e circostanziato il concetto de' fatti medesimi, non abbi amo mai inteso di ricavarne de' mezzi unici di prova. Nei giudizi poi che avremo a esprimere su quei fatti, non abbiamo certamente la pretensione d'aggiunger nulla d'affatto novo all'infinita moltitudine e variet di pareri a cui hanno data occasione. Possiamo bens affermare d'aver cercato, per q uanto lo consentano le nostre forze, di ricavare direttamente tali giudizi dall' esame dei fatti medesimi, indipendentemente da ogni opinione altrui. Nella seconda parte, in cui si tratter della Rivoluzione Italiana, il nostro assu nto sar molto pi facile, come la cosa molto pi semplice, e riguardo ai motivi, e ri guardo agli effetti. Su questi non c' nemmeno materia di discussione; e basta l'a ver gi accennato che non avvennero. E in quanto ai motivi, non s'avr a far altro c he rammentare e descrivere rapidamente delle cose e antiche e recenti, e note qu anto incontrastate; giacch questi motivi sono tutti compresi in una storia perpet ua di strazi e di vergogne, a cui l'Italia era soggetta. E che la causa permanen

te d'una cos iniqua e dolorosa condizione, fosse la divisione di essa in pi Stati, la dimostrazione ne uscir da s dalla storia medesima, per quanto sommaria. E di qui l'evidente e sacrosanto diritto di levar di mezzo quella divisione e, p er conseguenza i vari governi, ne' quali era attuata. Sicch, per giustificare la loro distruzione, non ci sar bisogno, n di rifrugare le loro origini, n d'esanimare il come esercitassero sulle popolazioni il loro assoluto dominio. La giustizia richiederebbe che, in questo particolare, si facessero di gran distinzioni di te mpi, di luoghi, di persone; ma la causa non ne richiede veruna. Erano ugualmente irreformabili, per il loro esser molti. Supponendo che fossero, e stati istitui ti in virt d'un sacro e incontrastabile diritto, e guidati dalle migliori intenzi oni, rimarrebbe sempre da domandare: Quelle sovranit di cui godevano il benefizio , avevano poi la forza necessaria per adempirne uno de' primi e pi stretti doveri , quale quello di mantenere ai governati que' due beni supremi d'ogni societ civi le, la sicurezza e la dignit; per resistere alle ambizioni e alle cupidigie di po tentati stranieri; per poter dire, in verun caso, all'uno o all'altro di que' so verchianti: Chi la pace non vuol la guerra s'abbia (1)? O non era, invece, il poss edere essi, quale un pezzo, quale un altro dell'Italia, ci che dava e occasione e mezzo a quelle ambizioni, a quelle cupidige, e a questa impotenza, a questa abi ezione? E, oltre a ci, ma per la stessa ragione, non erano essi abitualmente part e portati e parte costretti a subordinare e sacrificare gl'interessi de' loro su dditi agl'interessi e alla politica, o de' comuni padroni, o d'uno di essi lasci ato fare dagli altri? Dalla risposta a questi quesiti, cio dalla ricognizione d'u n fatto di prima evidenza, risulta evidente del pari, la giustizia e (per restit uire al diritto una parola usurpata dalla forza in una tristissima epoca recente ) la legittimit della Rivoluzione Italiana. E ne risulter, con uguale evidenza, che questa stessa legittimit fu la cagione, co me era la condizione necessaria, per cui essa sia potuta seguire senza oppressio ne del paese, e abbia potuto raggiungere, di primo tratto il suo scopo, senza st rascinare il paese medesimo, come accadde nell'altra Rivoluzione, in una sequela di cambiamenti, quale in male, quale in bene; ma che, con la sola loro pluralit, vengono tutti insieme a significare un gran male. Fu, infatti, il sentimento del loro diritto, che produsse negl'Italiani quella g enerale concordia, la quale prevenne anche l'occasione e la tentazione d'opprime re. Non dico la necessit, perch questa non pu mai essere altro che un pretesto, o d 'uno o d'alcuni, ai quali sia necessario, per conto loro, d'opprimere una popola zione che non voglia fare ci ch'essi vogliono: necessit tanto allegata dagli autor i de' fatti pi atroci della Rivoluzione Francese e dai loro apologisti; e che era stata cos bene chiamata dal Voltaire: la scusa de' tiranni (2). Fu, dico, quando la cagione perpetua degli strazi e dell'avvilimento d'Italia, v eduta prima, pi o meno chiaramente da alcuni ingegni pi elevati, sparsi qua e l nel le diverse parti di essa, e nel giro di pi secoli, apparve, per un concorso strao rdinario di fatti, evidente anche all'universale degli Italiani; quando al domin io d'una Potenza straniera sopra una parte d'Italia s'aggiunse il suo predominio su tutti, meno uno, gli altri Stati d'Italia, dimanierach questa si trov legata i n una, dir cos unit di servit; fu allora che il riconoscimento concorde della cagion e del male cre la concordia del riconoscere che il vero e unico rimedio era nell' unit nazionale, e nell'accettare il solo mezzo atto ad acquistarla; che dico? nel l'invocarlo, e nel tener rivolti gli occhi e le speranze a quella parte d'Italia e a quella Casa, donde solamente un tal mezzo poteva venire. Quindi la question e del distruggere, e quella del sostituire poterono qui esser poste e sciolte a un colpo, e nel modo pi chiaro e diretto, senza equivochi, senza false apparenze, sfuggendo cos il terribile impegno di far uscire un governo dalla Rivoluzione, e d'andar cercando la meta nella furia della corsa, come accadde nella Rivoluzion e Francese. I fatti di questa, sui quali avremo a stabilire il confronto, cio: 1 la mancanza e d'un giusto motivo per la distruzione del governo di Luigi Sedice simo, e d'un'autorit competente nei deputati del Terzo Stato, che ne furono gli a utori; 2 questa distruzione avvenuta indirettamente, ma effettivamente in conseguenza de ' loro atti gi indicati;

3 il nesso di queste cause con gli effetti ugualmente indicati; non sono, come s' gi accennato, cose tanto semplici, che le prove di essi si possano annunziare ant icipatamente, con poche e concise generalit, come s' potuto per quelle che riguard ano la Rivoluzione Italiana. Ma, se non c'inganna una preoccupazione ben involon taria, le prove s'andranno svolgendo, mano a mano, dalla serie de' fatti. E, se abbiamo a dir tutto, ci pare che, anche dal confronto medesimo, questa prima par te possa ricevere qualche nova luce, in quanto una evidente diversit d'effetti, n on solo induce ragionevolmente, a supporre delle cause diverse, ma pu servir di g uida a riconoscerle. Non dobbiamo dissimulare il pericolo di parzialit che s'incontra naturalmente nel parlar di cose del proprio paese, e che si raddoppia quando si tratti d'un para gone con altri paesi. Ma uno di que' pericoli che si schivano col temerli, e con lo starne continuamente in guardia, come cercheremo di fare. E, del resto, ci s ono, pur troppo nella cosa stessa due gran preservativi contro de vanti immodera ti. L'uno, che, alle inveterate miserie e alle sempre pi manifeste vergogne dell' Italia, si deve, e il suo proposito di volere la liberazione, e la concordia nel l'operarla; l'altro, la parte, e parte essenziale, che c'ebbe un potente e gener oso aiuto straniero. E se anche la nostra nova vita nazionale fosse in tutto dovuta a questo, a che g ioverebbe il negarlo? Ma che dico? l'ipotesi stessa assurda. La vita d'una nazio ne non pu essere un dono d'altri. E' bens vero che una nazione divisa in brani, in erme nella massima parte, e compressa da una preponderante, ordinata e vigilante forza straniera, non potrebbe da s rivendicare il suo diritto d'essere: e questa la sua infelicit, e un ricordo di modestia. Ma vero altres, che non lo potrebbe n emmeno con qualunque pi poderoso aiuto esterno, senza un forte volere e uno sforz o corrispondente dalla sua parte: e questo il paragone della sua virt, e un giust o titolo di gloria, e insieme un motivo di fiducia nell'avvenire, quando lo sfor zo sia coronato dal successo. Con le sole sue forze, infatti, una nazione qualunque, ridotta in tali strette, non che compire la sua liberazione, non potrebbe nemmeno tentarla sul serio, ess endole troncato ogni mezzo di raccogliere, con un comune concerto, queste forze sparse, e non le rimanendo altro che l'infelice espediente delle congiure; le qu ali, e deboli in ciascheduna parte, e sparpagliate nel tutto, vengono facilmente represse, e non servono che a dare all'oppressore materia di supplizi, e novi m ezzi di terrore: anzi, a impedirne lo scoppio, basta per lo pi l'imbelle e turpe milizia delle spie. E, viceversa, qualunque pi poderoso e anche leale aiuto straniero sarebbe insuffi ciente a rendere stabilmente libera e signora di s, una nazione inerte; poich, per mantenersi e per governarsi, le sarebbero necessarie quelle virt appunto, che le sarebbero mancate per concorrere alla sua liberazione. Un braccio vigoroso pu be ns levar dal letto un paralitico, ma non dargli la forza di reggersi e di cammina re. E fu una tanto breve, quanto povera illusione quella d'alcuni Italiani che, sulla fine del secolo scorso, sperarono la libert di questa o di quella parte d'I talia da una forza straniera, senza la cooperazione, anzi malgrado la repugnanza delle diverse popolazioni; le quali, se erano pur troppo lontane dal conoscere qual fosse la cagione primaria de' mali, e come la salute delle parti non potess e venire che con la salute del tutto, avevano per la mente libera da fantasie ret toriche e da false analogie storiche, tanto da vedere in quel finto aiuto ci che c'era in effetto, cio null'altro che una nova e pi strana forma di dominazione str aniera. Era riservato dalla divina Provvidenza ai nostri giorni il raro incontro di que' due ugualmente indispensabili mezzi. Da una parte, un antico, e tanto pi vivido germe di vita italiana in una provinci a, in un re, in un esercito; per mezzo del quale l'Italia pot prendere addirittur a nell'impresa un nobile posto, e dare il suo nome a qualche illustre giornata; e dal rimanente dell'Italia, un'eletta di prodi accorsi a mescersi in quelle fil e, eludendo la custodia dei dominatori; e mille valorosi condotti, come a una fe sta, da un valorosissimo a conquistare a questa patria comune un vasto e magnifi co tratto del suo territorio, da principio con l'armi, a un'immensa disuguaglian za di numero, come a prova dell'ardire, e poi con la sola forza del nome e della

presenza, come a prova della spontaneit dell'assenso; e, principalmente dove pes ava a piombo, o premeva pi da vicino, il dominio straniero, un popolo che, anche inerme, sbrancato, spiato, trovava il modo di manifestar l'animo suo, col teners i segregato dai dominatori, col non ubbidir che alla forza, col sottrarsi alle l oro carezze, con quel contegno, insomma, atto a render pi sensibile e ai cittadin i la loro unanimit, e ai poteri ingiusti quella solitudine, che li mette tra la v iolenza e lo scoraggiamento: due pericoli del pari. Dall'altra parte, un potente sovrano straniero, che, lasciandosi dietro le spall e la politica di coloro che, non avendo ancora finito di ridere de' vecchi reali sti francesi, ai quali era parso un assunto facile e piano quello d'impedire ogn i cambiamento nell'antico regime della Francia, volevano poi, che la Francia de' tempi novi prendesse l'assunto altrettanto agevole, d'opporsi (giacch estranea n on poteva rimanere) alle tendenze de' popoli a comporre in forti e naturali unit le loro parti sparse. Alieno ugualmente e da una tale ardua prepotenza, e dall'a pprensione pusillanime, che la Francia, col suo vasto territorio, con la sua fer rea unit, con la sua bellicosa popolazione, non potesse viver sicura di s medesima , se non col tenere altri nell'impotenza e nell'abiezione, comprese che sarebbe provvedere al bene della Francia stessa, come era suo primo e sacro dovere, il d ar mano a chiudere alle potenze europee questo infelice campo di battaglia, dove la Francia stessa era stata bens spesso vittoriosa, ma da dove, alla fine, era d ovuta uscir quasi sempre, se mi si passa un'espressione famigliare ma calzante, col capo rotto, principiando da Carlo Ottavo, fino, che tutto dire, a Napoleone Primo. L'esercito condotto in Italia dal suo nipote, come fu il primo che c'entr asse con un fine e generoso e sensato, fu anche il primo che ne sia uscito trion fante e benedetto, e lasciandoci una nazione amica, per la natura stessa delle c ose. E l'altre potenze, che, quarantacinque anni prima, s'erano trovate d'accord o nel raffazzonare una divisione dell'Italia, che, nella loro sapienza, doveva e ssere una delle condizioni fondamentali d'uno stabile ordine europeo, ebbero poi ad accorgersi che la distruzione, in questa parte, della loro grand'opera, lung i dal sovvertire un ordine vero, non aveva fatto altro, che levar di mezzo una c ausa di guerre rinascenti, di vantaggi passeggieri e di disinganni costosi per a lcune, e di pensieri molesti per l'altre; e si trovarono, senza saperlo, meno lo ntane da quell'ideale equilibrio messo in campo cos spesso da loro, a diritto e a torto, come la scusa delle loro guerre, e lo scopo de' loro trattati. Il governo e i cittadini degli Stati Uniti d'America non hanno mai creduto di de rogare alla loro dignit nazionale, n di detrarre alla gloria ottenuta nell'acquist o della loro indipendenza, col confessare, anzi col protestare altamente, in ogn i occasione, i loro obblighi verso la Francia e verso il suo sventurato re Luigi Sedicesimo, per il grande aiuto che n'ebbero nella dubbia impresa. E' anzi uno de' bei caratteri di quella virtuosa e sensata, non meno che eroica, Rivoluzione ; e sar bello per la nostra l'aver comune con essa un tal sentimento; come, in me zzo a tante diversit, di circostanze, di modi e di vicende, ebbe comune la giusti zia della causa, e la felicit della riuscita. Insieme poi col pericolo della parzialit in favore della propria nazione, c', in o gni confronto del genere di quello che siamo per intraprendere, il pericolo dell 'ingiustizia verso la nazione straniera. Ma, in questo caso, come in parecchi al tri, l'osservazione de' fatti basta a prevenire que' giudizi frettolosi, con cui s'accusano spesso le nazioni d'eccessi, de' quali furono in effetto le vittime. E' il vecchio e perpetuo "plectuntur Achivi" (3). E, in questo caso principalmen te, i fatti serviranno, crediamo, a dimostrare che quanto ci fu in essa d'ingius to e di detestabile sia da riferirsi, come a prima cagione, alle ambizioni e all e apprensioni, ugualmente cieche d'alcuni, che aprirono, senza intenzione, ma se nza scusa, il campo ai furiosi e agli scellerati: troppi, certamente, e quelli e questi; ma piccola parte, tutti insieme, della nazione. Che se, a que' primi su ccessi cooperarono, in qualche caso, anche le illimitate fiduce e i troppo pront i consensi di moltissimi e, mettiamo pure, della massima parte de' Francesi; bis ognerebbe, o ignorare affatto, o dimenticare gli esempi simili che ne somministr ano, pi o meno in grande, le storie d'altre nazioni, e anche i tempi presenti, pe r cagionarne il carattere speciale di quella. E se si trattasse di questo (che n on il caso), si dovrebbe mettere a riscontro di tali errori, non dico i tratti i

nsigni di virt particolari, che spiccano in quella Rivoluzione, in mezzo ai disor dini e in faccia agli oppressori, cose che non costituiscono un merito della naz ione, pi di quello che le iniquit d'alcuni siano da addebitarsi ad essa; ma altri momenti di quella Rivoluzione, ne' quali pot, e formarsi e manifestarsi, in un mo do pi chiaro e sicuro, un sentimento veramente nazionale. Ne accenneremo di corsa due soli. L'uno, quella passione cos viva, cos prevalente, del ben pubblico, che precedette e accolse la riunione degli Stati Generali; quel desiderio universale d'una libe rt dignitosa e tranquilla, d'una pace fondata sulla giustizia; desiderio espresso come da una gran voce sola, che non lasciava sentire le voci delle passioni ast iose, o avide, o turbolente, che pure covavano, ma certo in un molto minor numer o di quello che apparve quando, dagli atti anarchici d'una parte degli Stati Gen erali medesimi, fu data ad esse l'occasione di manifestarsi e di mettersi insiem e, anzi, nel pi de' casi, anche di nascere. Un altro gran momento fu quel correre all'armi d'una tanta moltitudine di cittad ini, all'annunzio dell'invasione straniera, senza esaminare, n da chi venisse l'i nvito, n da chi la Francia fosse governata, n se fosse governata, e pensando solam ente ch'era la Francia, e in pericolo. Non possiamo non prevedere che, nella parte che riguarda la Rivoluzione Francese , questo scritto, malgrado la sua imparzialit, si trover a fronte d'opinioni contr arie, che, essendo, per lo pi, rinchiuse in formule brevi e assolute, sono tanto pi facili a entrar nelle menti, e pi tenaci a rimanerci. Non pochi, principalmente presso di noi, dove la questione non fu, a un gran pezzo, materia di lunghe e p articolarizzate discussioni, credono di possedere, nella parola Ottantanove, una s intesi tanto sicura, quanto vasta, di fatti complicatissimi, e che svolta in alq uante parole di pi, viene a dire: un gran conflitto tra la libert che voleva stabi lirsi e il dispotismo che voleva mantenersi; conflitto, nel quale la libert rimas e vittoriosa, e furono insieme promulgati i princpi universali della libert de' po poli, e dei diritti dell'umanit; con l'inconveniente, vero, di vari eccessi deplo rabili, ma inevitabili in una cos grande impresa, e provocati da una resistenza o stinata e ancora forte. Per affrontare delle opinioni cos ferme e ben guardate, n essun'arme pi impotente di quella de' fatti, i quali impongono il peso d'un esame non prevenuto e paziente; e tutto ci per sostituire lo stato molesto del dubbio alla cara quiete della certezza. Lucro cessante, e danno emergente. Siamo troppo ammaliziati (sia detto senza superbia), per figurarci che i fatti, soprattutto esposti da noi, possano combattere con vantaggio una tale persuasione; e credere mo di toccare il cielo col dito, se ci riuscir d'attirare un piccol numero di let tori, non gi ad accettare le nostre conclusioni, ma a prenderle in esame. PARTE PRIMA. DELLA RIVOLUZIONE FRANCESE DEL 1789. Gli Stati Generali della Francia (c. 1864-1872). 1. Che la grandissima maggioranza della popolazione francese, verso il 1789, voless e delle riforme nel suo governo, e avesse delle ragioni pi che giuste di volerle, sono due verit che ora, credo, nessuno nega, e che non poterono esser negate, se non per una cieca preoccupazione, o per interessi privati. Quei desideri e i pareri intorno al modo di sodisfarli, erano naturalmente pi o m eno estesi, pi o meno distinti, in ragione delle diverse condizioni; e de' divers i gradi di coltura. Ma ci che, in una cos vasta materia, c'era di pi importante e d i pi consentito, sia dalla nazione intera, sia dalla parte pi colta, nella quale q uasi tutto il rimanente della nazione riponeva la sua fiducia e le sue speranze, si pu ridurre a pochi capi principali. Ed erano: abolizione de' privilegi oneros i o umilianti per la massima parte de' cittadini, e spesso onerosi insieme e umi lianti; scompartimento uguale delle imposte su tutti i cittadini, in proporzione de' loro averi, e senza distinzione di classi, n privilegi; limiti al potere ass oluto del re, potere esercitato di fatto, in grandissima parte dai ministri, e s

egnatamente nell'imprigionare e tenere in prigione indefinitamente qualunque per sona, con semplici ordini di gabinetto (4); una rappresentanza nazionale, o perm anente o periodica, che avesse parte nella formazione delle leggi, il consenso d ella quale fosse necessario allo stabilimento delle imposte, e alla stipulazione degl'imprestiti; la stampa sottratta alla censura arbitraria, e regolata da leg gi. Il re Luigi Sedicesimo, il quale, e per inclinazione naturale al giusto e al l'utile pubblico, e per riguardo alle circostanze, partecipava a quel desiderio d'una riforma, convoc, a quest'effetto, con lettera del 24 gennaio, un'assemblea, sotto l'antico nome di Stati Generali, composta di deputati dei tre Ordini del regno (Clero, Nobilt e Terzo Stato, il quale comprendeva il rimanente della popol azione), da eleggersi separatamente dai rispettivi Ordini: quelli dei due primi da tutti i loro membri; quelli del Terzo, da tutti gli abitanti inscritti al rol o delle imposte, senza distinzione di quota. Gli elettori erano inoltre incarica ti di nominare de' commissari, i quali stendessero le istruzioni, o mandati ("ca hiers", letteralmente "quinterni") contenenti le loro doglianze e le loro richie ste, per servire di norma ai deputati. Quelle istruzioni esprimono concordemente , e si potrebbe quasi dire unanimemente, i desideri, accennati or ora, e ne sono la pi irrefragabile testimonianza. Nella lettera di convocazione, il re indicava l'intento generale di essa, ne' se guenti termini: Abbiamo bisogno del concorso de' nostri fedeli sudditi, per aiuta rci a superare le difficolt in cui ci troviamo riguardo alle nostre finanze, e pe r stabilire, come il nostro desiderio, un ordine costante e invariabile in tutte le parti del governo, che toccano la felicit de' nostri sudditi, e la prosperit d el nostro regno. Questi gran motivi ci hanno determinati a convocare l'Assemblea degli Stati di tutte le province di nostra ubbidienza, tanto per consigliarci e assisterci in tutte le cose che saranno presentate, quanto per farci conoscere i desideri e le doglianze de' nostri popoli; di maniera che, per mezzo d'una mut ua fiducia e d'un amore reciproco, si trovi, il pi presto possibile, un rimedio e fficace ai mali dello Stato, e gli abusi d'ogni genere siano prevenuti con boni e solidi mezzi, che assicurino la felicit pubblica, e rendano a noi in particolar e la calma e la tranquillit, di cui siamo privi da cos lungo tempo. All'apertura solenne degli Stati Generali (5 maggio) il re pronunzi un discorso, in cui, esprimendo la sua fiducia nel concorso di tutti gli Ordini a provvedere al bene dello Stato, allegava, in particolare, come un motivo di quella fiducia, la disposizione dei due primi Ordini, di rinunziare ai loro privilegi pecuniari. Ed era, infatti un passo, con cui veniva levata di mezzo una che poteva parere, se non la maggiore, certo delle maggiori cagioni di contrasto. Il Guarda Sigilli (de Barentin) e il Direttore generale delle finanze (Necker) p ronunziarono, anch'essi, un discorso ciascheduno, in nome del re medesimo. In quello del primo, erano enunciate, con maggiori particolari, le intenzioni li berali del re, e promesse le principali riforme pi generalmente desiderate, e dic hiarata la volont di concorrere a tutte l'altre che potessero riuscire in vantagg io del pubblico, e invitata, anzi eccitata l'Assemblea a proporle. Ecco in prova qualche brano di quel discorso. Sul bel principio l'oratore annunzia che, in quel giorno solenne Sua Maest vuole s tabilire la felicit generale sulla base sacra della pubblica libert. E soggiunse qu este parole che confermano energicamente una tale intenzione: L'ambizione, o piut tosto il tormento de' re oppressori, di regnar senza pastoie, d'oltrepassare i c onfini d'ogni poter legittimo, di sacrificare i contenti d'un governo paterno al le false gioie d'una dominazione illimitata, di convenire in leggi i capricci sf renati del potere arbitrario. Poich l'imposta, dice pi avanti, un debito comune de' cittadini, una specie di compen so e il prezzo de' vantaggi che ricavano dalla societ, giusto che la Nobilt e il C lero ne portino il peso, per la loro parte. Non l'imposta sola, prosegue, occuper le vostre deliberazioni; ma, per non parlare, prima del tempo, degli oggetti di discussione, a cui saranno consacrate le vostr e riunioni, mi baster dirvi che non immaginerete un progetto utile, un'idea tende nte al bene generale, che Sua Maest o non abbia gi concepita, o non ne desideri fe rmamente l'esecuzione. Accenna poi alcune di quelle materie di discussione: i provvedimenti da farsi per

la libert della stampa: parola inaudita fino allora nel linguaggio ministeriale, e da non molto divolgata nel pubblico, cio nella parte pi colta del pubblico; le pr ecauzioni da prendersi per combinare quella libert con la pubblica sicurezza, e t utelare l'onore delle famiglie; i cambiamenti utili che possano esser richiesti dalla legislazione criminale per proporzionar meglio le pene ai delitti. Tocca po i la necessit di semplificare la procedura civile, e di correggerne gli abusi, pe r rendere pi facile, pi pronta, pi sincera l'amministrazione della giustizia. Il molto pi lungo discorso del Necker riguardava nella massima parte le finanze, il dissesto delle quali era stato la prima cagione della convocazione degli Stat i Generali. Ma nel principio e sulla fine parl anch'egli delle attribuzioni di qu el consesso, con espressioni non meno ampie e, secondo il suo genio, pi enfatiche e pompose. Non al solo momento presente, non a una rigenerazione passeggiera, dovete, disse, r estringere i vostri pensieri e la vostra ambizione; un ordine costante, durevole e utile per sempre deve esser l'effetto delle vostre ricerche e de' vostri lavo ri; la vostra opera deve corrispondere alla grandezza della vostra missione... I n ogni parte dove vedrete i mezzi d'accrescere e d'assodare la felicit pubblica, dove vedrete le strade che possono condurre alla prosperit dello Stato, vi ci dov rete trattenere... Sarebbe, o signori, considerare gli Stati Generali in una man iera ben circoscritta, il non vederli che nelle loro relazioni con le finanze... E' dolce il dire, dolce il pensare che questi Stati Generali devono servire a t utto; devono appartenere e al presente e all'avvenire; devono, per dir cos, osser vare e seguire i princpi e le tracce della felicit nazionale in tutti i suoi rami. Che i desideri e anche le speranze di Luigi Sedicesimo corrispondessero alle dic hiarazioni che, in questa circostanza, erano fatte in suo nome, e alla sua prese nza, se n'avrebbe, se ce ne fosse bisogno, un attestato autorevole in ci che tre anni dopo la di lui morte, ne scrisse quello stesso Necker, il quale ebbe princi palmente a trattare con lui intorno alla convocazione degli Stati Generali. Dopo avere accennata l'agitazione generale che la precedette, Il re solo, dice, in mezz o alla fermentazione degli animi, mostr la serenit che accompagna le intenzioni re tte e i sentimenti moderati; e mentre tutti s'occupavano d'acquistare, passava i n rassegna le prerogative alle quali poteva rinunziare senza indebolire l'autori t necessaria al governo, e si preparava, senza rammarico, a farne il sacrifizio. Voleva, amava il bene, con la semplicit pi perfetta; e, conservando una trista mem oria de' contrasti che aveva incontrati, e degli ostacoli che l'imperizia de' su oi ministri aveva opposti spesso ai suoi disegni, si sentiva sollevato dalla ris oluzione che aveva presa di chiamare in aiuto i rappresentanti della nazione, e abbracciando le speranze che potevano nascere dalla riunione degli Stati General i, s'occupava di quell'avvenimento con una dolce fiducia. Per intendere il come una tale preparazione di cose potesse riuscire, e in pochi ssimo tempo, a uno sconquasso, quale attestato dalla storia; e per giudicare a c hi se ne deva dar la cagione, importa osservare quali fossero in Francia, in que l momento, le forze capaci d'esercitare un'attivit potente sull'intero paese. E, al nostro credere, erano due: il re investito ancora del potere supremo, capo de ll'amministrazione, e d'un esercito nel quale non era ancora apparso alcun segno d'insubordinazione; e i deputati del Terzo Stato, che, avendo comune l'origine e gl'interessi con la grandissima parte degli abitanti, ne godevano anche una pa rticolare fiducia. Parr forse ad alcuni un'omissione importante il non aver compreso tra quelle forz e la Nobilt e il Clero; ma chi vorr esaminare i fatti susseguenti trover, crediamo, che l'uno e l'altro furono per la Rivoluzione due piccoli ostacoli e due gran p retesti. Senza invertere l'ordine degli avvenimenti, baster per ci che riguarda la Nobilt, rammentar qui il fatto dell'emigrazione, col quale la parte pi attiva e p i notabile di essa venne, in certo modo, a confessare la sua impotenza, abbandona ndo il campo agli avversari, per accattare aiuti al di fuori. E mentre, col suo scarso numero, non aggiunse alcuna forza da farne conto agli eserciti, alleati p i tardi contro la Francia, dava, col solo trovarsi tra di essi, e con le sue mina cce spavalde, un appiglio alla Rivoluzione per inferocire, con decreti e con sup plizi, contro i nobili rimasti in Francia, e accrescere cos il suo potere con l'a doprarlo.

Il Clero poi, alla guerra che gli fu fatta dal novo potere, non oppose altro che argomenti prima, e quindi proteste; coraggiose, senza dubbio e, in parte, dover ose, in quanto quel potere, non si contentando della sofferenza passiva del Cler o, gl'imponeva un'adesione, anzi una cooperazione contraria alla sua coscienza; ma proteste e nulla pi. Ben presto poi non furono tollerate neppure queste; anzi la sola resistenza muta, meramente negativa, degl'individui sparsi, fu dichiarat a faziosa, rappresentata come una congiura permanente dalla quale lo Stato fosse costretto a difendersi, e punita con leggi che ottennero facilmente il loro eff etto in quasi tutta la Francia: l'effetto materiale, s'intende (5). Non c'essendo state, in quel primo momento, altre forze effettive, da potersi pa ragonare nemmeno a queste, non rimangono da considerarsi, che le due accennate p rima come cagioni possibili d'un rapido e generale sconvolgimento. Poteva darsi, infatti, da una parte, che il re, malgrado le sue prime intenzioni e i recenti impegni solenni, trovandosi al punto di dover rinunziare a una part e del suo potere, si rimutasse d'animo; e, per mantenersi assoluto padrone, vole sse, coi mezzi che aveva, e con un pretesto qualunque, sciogliere gli Stati Gene rali, ovvero eludere, per via di sotterfugi le riforme promesse, e provocare cos la giusta resistenza degli Stati medesimi, e la sollevazione del paese, tradito nelle sue pi care e giuste speranze. Poteva darsi, dico, a rigore di possibilit, n on a ragione di verosimiglianza; sebbene e una cosa e l'altra sia stata creduta da molti, per riscaldamento di fantasia, e diffusa da altri, come un mezzo, non novo certamente, ma quasi sempre efficace, di rivoluzione. Poteva anche darsi che, per un interesse opposto, ma dello stesso genere, cio per passione di dominare, i deputati del Terzo Stato, abusando del vantaggio che da va loro l'essere i rappresentanti della grandissima parte della nazione, e non r ispettando i limiti in cui quella medesima parte aveva circoscritto il loro inca rico, s'attribuissero, con un pretesto qualunque anche loro, un'autorit suprema c he essa non aveva neppur sognato di conferir loro; autorit bastante a levar la fo rza necessaria al governo che esisteva, ma non a farne le veci; e dessero princi pio a quello stato (se stato si pu chiamare) di violenza e d'instabilit, pi o meno durevole, pi o meno disastroso, in cui cade inevitabilmente una nazione priva in effetto, se non di nome, d'un vero e non contrastato governo. Ora, dall'esame attento e spassionato de' fatti, risulta, al parer nostro, che, di quelle due nefaste possibilit, quella che s'avver fu la seconda. Ed ci che cerch eremo di mettere in chiaro, con l'esposizione de' fatti medesimi. Ma, per arrivare a questo fine, per quanto lo consentano le nostre forze, dobbia mo prima, invocando la pazienza del lettore, esporre le circostanze antecedenti, che poterono dare a quei fatti un'occasione e un impulso. 2. Quando Luigi Sedicesimo annunzi, con l'editto dell'otto d'agosto 1788, la convoca zione degli Stati Generali per l'anno seguente, erano scorsi cento settantaquatt ro anni dall'ultima convocazione di essi (tats de Blois, 1614); e quel nome non r appresentava, per l'universale, altro che un concetto astrattissimo e vago, e, p er i dotti della storia patria, un concetto multiforme e confuso. Istituiti, nel 1302, da Filippo il Bello, e radunati pi d'una volta da lui, gli Stati Generali erano poi stati convocati da alcuni de' suoi successori, a pi o meno lunghi inter valli, e con una gran variet di motivi, d'attribuzioni, di numero e di durata, da potersi quasi dire che non si trovi in essi altro d'uniforme, che la distinzion e in tre Ordini, Clero, Nobilt e Terzo Stato; senonch il numero dei deputati di qu esto era stato quasi sempre superiore a quello di ciascheduno degli altri due. P er determinar quindi la forma da darsi ai novi Stati Generali, Luigi Sedicesimo riconvoc un'Assemblea di Notabili, stata adunata nell'anno antecedente, per proporr e de' rimedi al dissesto delle finanze, e composta di prelati, di dignitari, di magistrati e di capi di municpi di diverse citt. E a quell'Assemblea fece proporre vari quesiti relativi, la pi parte, al modo d'eleggere i deputati agli Stati Gen erali e di comporre l'istruzioni per i deputati medesimi. Ma due di questi quesiti avevano una speciale e grande importanza. L'uno riguardava il numero dei deputati da assegnarsi a ciaschedun Ordine.

De' sei ufizi ("bureaux"), ne' quali era scompartita l'Assemblea de' Notabili, c inque opinarono che ogni Ordine dovesse avere un numero uguale di deputati; uno, con la pluralit di tredici voti contro dodici, propose che il Terzo Stato n'aves se un numero doppio di quello di ciascheduno degli altri due. La decisione fu conforme a quest'ultima proposta. Sulla relazione del ministro d elle finanze, Necker, il re, nel suo Consiglio di Stato, decret che i deputati sa rebbero mille almeno, e che il Terzo Stato n'avrebbe un numero uguale a quello d egli altri due presi insieme. Questa risoluzione rimase celebre sotto il nome di Raddoppiamento del Terzo ("Doublement du Tiers"). I motivi principali esposti nella Relazione suddetta, erano, che il Terzo Stato, comprendendo la parte incomparabilmente pi numerosa della nazione, l'equit richie deva che si soddisfacesse il suo desiderio d'avere un numero di deputati pari a quello dell'altra parte tanto minore, e che, con ci, si verrebbe anche a profitta re d'una maggior copia e variet di cognizioni relative alla pubblica prosperit, de lle quali il Terzo Stato, per le sue diverse professioni, era necessariamente pi fornito. Addusse anche l'autore della Relazione le innumerabili petizioni di citt e comuni del regno e il voto pubblico del Terzo Stato; e potrei, disse, aggiungere i l mormoro dell'Europa, che favorisce confusamente le idee d'equit generale. Il secondo de' quesiti accennati riguardava il modo della deliberazione, cio se q uesta dovesse farsi in comune, o in ciaschedun Ordine separatamente. Quattro ufi zi opinarono, in via assoluta, per la separazione, come conseguenza naturale del l'esistenza degli Ordini medesimi, e come praticata nelle convocazioni anteceden ti; gli altri due, ammettendola come massima fondamentale, furono di parere che si riservasse agli Ordini medesimi la facolt di riunirsi in un sol consesso, ogni qual volta convenissero tutti nel desiderarlo, per trattar qualche affare d'int eresse comune. Il governo non decise nulla, aspettando che la decisione avesse a venire da un a ccordo tra i diversi Ordini. Un tale accordo era, per verit, tutt'altro che probabile; tanto pi dopo che il rad doppiamento del Terzo, aveva accresciuta di molto la diversit, anzi l'opposizione degli interessi, o almeno delle tendenze, tra quell'Ordine e gli altri due. Per effetto di quella determinazione, il Terzo Stato era messo tra due differenti ( e quanto differenti!) contingenze. Rimanendo separato, sarebbe stato, in ogni ca so di conflitto, uno contro due; nel deliberare in comune vedeva una gran probab ilit d'acquistare la maggioranza, per l'adesione d'un certo numero di deputati de lla Nobilt, e d'un numero maggiore dei deputati del Clero inferiore, che avevano comune l'origine con esso. Era quindi da prevedersi un desiderio ardente e un ri soluto proposito in quell'Ordine, di far prevalere la deliberazione in comune, c ome il proposito contrario nella maggior parte de' Nobili, e nella parte minore, ma preponderante, del Clero, cio ne' prelati, che, tenendo con la loro autorit in suggezione una gran parte de' curati, creavano in quell'Ordine una maggioranza artificiale. Il pericolo, cos facile a prevedersi, era stato anche espressamente denunziato da quelli che toccava pi da vicino. In quel solo ufizio de' Notabili, dove, come s' detto, la maggioranza opin per il Raddoppiamento del Terzo, la minoranza opponent e aveva addotto, tra gli altri argomenti, che una tale disposizione condurrebbe a lla deliberazione per teste, ne farebbe cercare i mezzi. E chi poteva, aggiungeva no, calcolarne le funeste conseguenze? La prima deliberazione degli Stati sarebbe necessariamente rivolta a questo punto, e produrrebbe la pi tumultuosa fermentaz ione. Noi non crediamo di dover qui differire l'esposizione dei fatti, per esaminare l e ragioni addotte dal Necker nella Relazione suddetta e in due scritti posterior i, in difesa di quella e d'altre disposizioni preparatorie, suggerite da lui. Pi tardi, quando si saranno riferiti alcuni de' primi effetti a cui quelle disposiz ioni dettero occasione, verr pi comodamente in taglio di far qualche osservazione anche intorno ad esse; ma (e questa distinzione spesso trascurata, e in questo e in altri casi simili, ci pare di prima importanza) come di circostanze atte a s piegare i fatti veramente causali della Rivoluzione, non come ragioni atte a giu stificarli, n, in alcun modo, come elementi del giudizio che se ne deva portare. Le sole questioni che possono servir realmente a formar questo giudizio diretto,

e incomparabilmente il pi importante, sono, se non c'inganniamo, quelle che abbi amo indicate fino dal principio, e che crediamo non inutile ripetere qui: Erano tali atti necessari ad ottenere il bene voluto dalla grandissima parte del popolo francese, e conformi, tanto ai poteri conferiti, quanto ai mandati presc ritti da essa ai loro autori, perch avessero a procurare un tal bene? O non furon o, invece determinati da una loro volont arbitraria, e non punto necessari al con seguimento del bene medesimo, anzi cagione di mali direttamente opposti ad esso, quali furono l'oppressione del paese, e la lunga mancanza d'uno stabile governo ? E' ci che passiamo a cercare nel racconto e nell'esame dei fatti, principiando da l conflitto dei deputati del Terzo Stato con gli altri due Ordini, per veder poi come quei deputati siano venuti di l a mettersi in opposizione diretta col gover no del re, e come la loro vittoria abbia portato la distruzione del suo governo, e questa i mali ora di novo accennati. 3. Il contrasto tra gli Ordini doveva nascere, come era stato predetto, prima di qu alunque operazione degli Stati Generali, poich riguardava il modo di costituirli. Alla cerimonia solenne dell'apertura, che fu tutta occupata dal discorso del re e da quello del Guarda Sigilli e del ministro delle finanze, come s' visto, i dep utati dei tre Ordini furono collocati in tre parti distinte della gran sala. Un giorno dopo (6 maggio), un proclama avvert, in nome del re, i deputati, che il lo cale destinato a riceverli sarebbe stato pronto alle nove della mattina. A ciascheduno dei due primi Ordini era stata assegnata una sala particolare; al terzo era stata destinata, o piuttosto lasciata, come vedremo pi tardi, la gran s ala medesima, in cui era stata tenuta, il giorno prima, l'adunanza generale dell 'apertura, e che doveva servire alle altre riunioni generali, che potessero, o v enir convocate, o convocarsi da s, e che il Regolamento non aveva, n prescritte, n escluse, come s' detto. L'Ordine del Clero e quello de' Nobili si radunarono nelle loro rispettive sale. Il Terzo aveva il vantaggio di collocarsi in quella dove si proponeva d'attirar e gli altri a formare stabilmente, con lui, un corpo solo. Il dotto e buon uomo Bailly, uno di que' deputati, e divenuto cos, per sua sventura, uomo di Stato, os serva, nelle sue Memorie, che quella circostanza aiut molto i suoi colleghi a dic hiararsi Assemblea Nazionale. Era quella, dice, la sede degli Stati Generali; i Com uni (6) ci si trovarono; chiamarono gli altri due Ordini; gli assenti ebbero il torto (7). Vedremo pi in particolare, in diverse occasioni, i vantaggi, se si poss ono dir tali, venuti al Terzo Stato da quella singolare circostanza. La verificazione de' poteri era necessariamente la prima operazione da farsi; ma era, insieme, la prima questione lasciata "disputationi eorum". Il Clero e la N obilt, dando per inteso che quella verificazione dovesse esser fatta separatament e da ciaschedun Ordine, s'erano, a questo fine, radunati, come s' detto, nelle ri spettive sale. I deputati del Terzo Stato, radunati nella sala comune, dando, da l canto loro, per inteso che la verificazione dovesse esser fatta in comune, ste ttero aspettando, o facendo le viste d'aspettare che gli altri due Ordini veniss ero a loro. All'annunzio del fatto opposto, si lev un gran rumore; e, di mezzo a una discussione tumultuosa, un deputato, che fu poi tra i celebri, Pier Vittorio Malouet, propose che si mandasse una deputazione ai due "Ordini privilegiati", p er invitarli a riunirsi ai Comuni nel luogo delle adunanze generali. Sull'osserva zione che, prima della verificazione de' poteri, i deputati non avevano facolt di deliberare; e che, da un'altra parte, era bene lasciare agli altri due Ordini i l tempo di riflettere; si rimesse l'affare all'indomani. L'indomani, sulla proposta d'un altro deputato, Gian Giuseppe Mounier, divenuto poi ugualmente celebre, e gi noto per aver propugnata la libert in una Assemblea d i Notabili del Delfinato, i Comuni presero il mezzo termine di permettere a quel li di loro che lo volessero, di presentarsi come particolari, e senza missione e spressa, agli altri due Ordini, per determinarli a riunirsi a loro. Ci andarono in dodici: la Nobilt non era radunata; il Clero rispose che delibererebbe sulla p roposta; e, nello stesso giorno, partecip ai Comuni d'aver deciso di nominare de'

commissari, per conferir sulla questione con altri che fossero eletti a questo fine dalla Nobilt e dai Comuni. Qualche giorno dopo (13 maggio), la Nobilt, col mezzo d'una deputazione, inform i Comuni, che aveva accettata la proposta del Clero; ma insieme partecip loro due a tti antecedenti, col primo de' quali (6 maggio) aveva deciso di verificare separ atamente i poteri; col secondo (11 maggio), s'era dichiarata costituita per quel la parte di deputati, i poteri de' quali erano gi stati verificati senza opposizi one. Due proposte furono allora fatte nei Comuni da due membri rimasti celebri anch'e ssi nella storia della Rivoluzione, e di pi in quella delle sue vittime: Rabaut d e Saint tienne, ministro protestante di Nmes, e Chapelier, avvocato di Rouen. Il p rimo opin che s'accettasse l'invito del Clero; il secondo, che si dichiarasse di non voler riconoscere per rappresentanti legali, se non quelli, i di cui poteri fossero esaminati da dei commissari, da nominarsi nell'Assemblea generale dei tr e Ordini; e che questa dichiarazione si partecipasse ai deputati del Clero e del la Nobilt, per rammentar loro l'obbligo ad essi imposto dalla qualit di rappresenta nti nazionali. Dopo quattro giorni di discussione, quello tra i deputati, che divenne presto, e rimase poi sempre il pi famoso, il conte di Mirabeau, messe in campo un terzo pa rtito. Fece prima notare gl'inconvenienti degli altri due. Chiudere ogni strada a un accordo avrebbe portato un conflitto estremo che, non essendo preparato da altri atti, poteva riuscire a una dissoluzione degli Stati Generali, disastrosa per il paese. Trattare in una maniera uguale con due Ordini che trattavano tanto diversamente, era una cosa poco ragionevole insieme e indecorosa. Quale concili azione sarebbe stata possibile con la Nobilt che dopo essersi costituita, accetta va, quasi per burla, delle trattative, in cui non lasciava ai Comuni altra parte , che w sommissione? Il Clero, invece, aveva sospesa la verificazione de' poteri fino all'esito delle conferenze che aveva proposte. Se quindi, si voleva tentar e ancora la strada degli accordi, la cosa stessa indicava d'entrarci da quella p arte che lasciava aperto un adito, e un adito onorevole. Propose, in conseguenza , di rivolgersi al Clero, affinch, con l'autorit della dottrina e del sacro ministe ro, cercasse di richiamare la Nobilt a de' principi pi equi, a de' sentimenti pi fr aterni, a un sistema meno rischioso, prima che i Comuni, costretti in ultimo ad adempire i loro doveri e i voti de' loro commettenti, non potessero dispensarsi dal dichiarare i principi eterni della giustizia, e i diritti imprescrittibili d ella nazione. Accenn poi diversi vantaggi che sarebbero derivati da un tal passo: acquistar tem po, per ponderare la condotta da tenersi con la Nobilt; dar occasione di dichiara rsi in favore de' Comuni a quella gran parte del Clero, che c'era inclinata; inc oraggiare finalmente la minoranza de' Nobili, che mostrava la stessa inclinazion e. La proposta fu quella volta lasciata andare a terra, e prevalse il partito di no minare de' commissari per le conferenze. Nella prima di quelle riunioni, i commissari del Clero e quelli della Nobilt annu nziarono, in nome de' loro rispettivi Ordini, l'intenzione di rinunziare a ogni privilegio pecuniario: ben ingannati se credettero, con questo, di distogliere l 'altro Ordine dal suo proposito. Era bens vero che il primo motivo della convocaz ione degli Stati Generali era stato il disavanzo delle finanze, e che la riparti zione uguale dell'imposte su tutte le classi, era uno de' mezzi pi pronti e pi eff icaci di rimediarci; ma oramai, per ottenere una giustizia tanto manifesta, il T erzo Stato non aveva pi bisogno del consenso altrui. In fatti, i suoi commissari non si dettero neppure per intesi di quella offerta; e le conferenze, avviate ad dirittura sulla verificazione de' poteri, che ne era l'oggetto, furono quali pot evano essere tra due Parti fisse ugualmente a non cedere, e nessuna delle quali aveva una ragione positiva da opporre all'altra. Ho detto due parti, perch i comm issari del Clero, stando fuori della disputa, non fecero che proporre mezzi di c onciliazione. I commissari de' Comuni allegavano che, essendo i deputati de' tre Ordini mandati ugualmente a stabilire e a difendere i diritti e gl'interessi della nazione, i loro poteri dovevano essere esaminati, riconosciuti e giudicati dai rappresentan

ti della nazione intera. I commissari della Nobilt allegavano la pratica pi frequen te degli Stati Generali antecedenti, e esprimevano il timore che la verificazion e de' poteri in comune tirasse con s la deliberazione in comune. I commissari del Terzo Stato rispondevano al primo argomento, che la pratica, per aver forza di regola, avrebbe dovuto esser costante e uniforme; al secondo, che le ragioni di f ar la verificazione de' poteri in comune erano decisive per s, e indipendentement e dalla forma d'opinare che sarebbe adottata dagli Stati Generali. Ma in realt la vera questione era l: gli uni e gli altri vedevano ugualmente nel m odo di verificare i poteri; non tanto un antecedente, quanto un primo fatto, col quale gli Stati sarebbero venuti a costituirsi nell'una o nell'altra forma. Sen za di ci la cosa sarebbe stata priva d'ogni importanza. Da una parte, non sarebbe potuto venir in mente ai deputati del Terzo Stato di diffidare della verificazi one che gli altri due Ordini facessero de' poteri de' loro deputati; e dall'altr a, cosa sarebbe importato a questi due Ordini che la verificazione fosse fatta i n comune, quando questo non fosse stato un avvo a deliberare in comune? In una seduta susseguente, i commissari della Nobilt, dopo aver dichiarato che in tendevano mantenere la decisione presa da loro, di verificare i poteri separatam ente, si dissero disposti per ad accettare un progetto di conciliazione, col qual e s'obbligherebbero a comunicare ai deputati del Clero e del Terzo Stato i poter i dei loro. I commissari di questo risposero che, avendo dimostrato essere la ve rificazione in comune, richiesta dalla giustizia, non vedevano che ci potesse es ser luogo a transazione. Nondimeno, dalla parte de' Nobili e del Clero, furono m essi in campo vari temperamenti che consistevano, in genere, nel far nominare da ciaschedun Ordine alcuni commissari, i quali esaminassero in comune i poteri, e ne facessero relazione alle rispettive camere. Con questo intendevano di sodisf are all'argomento, addotto dai Comuni, del diritto che aveva ciaschedun Ordine d 'assicurarsi della validit di tutte le elezioni. Ma era rispondere alle parole e non al pensiero. I commissari de' Comuni, stando alla loro prima dichiarazione, dissero che su tali proposte non potevano prendere alcun partito; e cos le confer enze furono sciolte. La camera dei Nobili, sentiti i suoi commissari, decide ("arrte") che, per quella prima sessione degli Stati Generali, i poteri saranno verificati separatamente, rimettendo l'esame de' vantaggi e degl'inconvenienti di questa forma a quando i tre Ordini avranno a stabilire quella da tenersi negli Stati Generali avvenire. Letto questo atto, il giorno susseguente, nell'adunanza de' Comuni, un deputato opin che, prima di venire al mezzo rigoroso, ma necessario, proposto dal Chapelie r, si pregasse il Clero di continuare a far la parte di conciliatore; un altro, che si mandasse piuttosto a invitarlo a riunirsi ai Comuni, e a principiare insi eme i lavori. Il Mirabeau, che, proponendo, come s' veduto, d'invitare il Clero a farsi sosteni tore, presso i Nobili, della causa de' Comuni, aveva gi indicato un mezzo di crea re qualche contrasto tra quei due Ordini, peror, con quella forza che s'andava se mpre pi manifestando nelle sue parole, in favore del novo e pi risoluto mezzo che veniva messo in campo; e, dandogli una forma pi distinta e pi viva, propose di decr etare una deputazione solenne e numerosa, la quale, riepilogando le allegazioni della Nobilt e le risposte de' commissari, scongiurasse (8) i ministri del Dio di pace di mettersi dalla parte della nazione, e di riunirsi ai loro condeputati " nella sala comune". La proposta fu acclamata; e una deputazione, composta de' commissari alle confer enze, e de' membri componenti il seggio, si port alla sala del Clero, a pregarlo, in nome de' Comuni, con lo scongiuro proposto dal Mirabeau di riunirsi nella sa la dell'Assemblea Generale, per cercare insieme i mezzi di stabilire la pace e l a concordia. Il presidente del Clero (cardinale de la Rochefoucauld, arcivescovo di Rouen) ri spose che il suo Ordine s'occuperebbe senza ritardo, d'una proposta cos important e. Ma molti membri dell'adunanza proposero, per acclamazione, che s'andasse imma ntenente a riunirsi ai Comuni. E' da credere che un tale consenso, pi che dalla forza e dall'unzione dello scong iuro, fosse mosso dalla naturale e nota inclinazione della pluralit del Clero per il Terzo Stato; giacch non pare che, a persone sensate, potesse entrar nella men

te, n che l'unirsi a una delle due parti contendenti fosse un mezzo d'ottener la pace; n che fosse proprio l'amor della pace, che movesse degli uomini che non la volevano, se non a patto che si facesse la loro volont, della quale, non mettendo loro conto dire il vero motivo, non ne avevano addotto, nelle conferenze, che u no assai frivolo; n che l'invocazione del nome di Dio, quell'ultimo e disperato g rido di chi non pu ottener giustizia, fosse, in quel caso, dove la giustizia non aveva che fare, altro che un espediente atto a far pi colpo su un'adunanza di sac erdoti. Ma in mezzo a quel movimento, un vescovo avvert che, avendo domandato a due di qu e' deputati, se l'oggetto dell'invito era semplicemente di conferire insieme o d i deliberare, gli era stato risposto che s'intendeva di deliberare, e che i voti sarebbero raccolti per capi. La dichiarazione del prelato, dice il Bailly, moder incontanente l'entusiasmo, e die de agli opponenti il tempo di riaversi dalla sorpresa, e d'insistere perch la pro posta venisse discussa. Prevalse la loro autorit; e, dopo una lunga e sterile disc ussione, si rimesse la decisione all'indomani, e se ne mand avviso ai Comuni ch'e rano rimasti radunati per aspettar l'esito del loro invito. A questi increbbe assai, dice il cronista ora citato, che non si fosse ancora otten uto nulla: sapevamo che molti membri del Clero erano del parere di venire a noi, e avevamo sperato che la nostra proposta, abboccata da loro, avrebbe attirato l 'Ordine intero. S'intende facilmente come ai deputati del Terzo Stato premesse tanto quella rius cita, poich sarebbe stata, secondo ogni probabilit, un gran passo verso il compime nto de' loro desideri, o almeno del pi immediato. Che la Nobilt fosse per seguir s ubito l'esempio del Clero, non era certamente una cosa da presumersi; ma, dall'a ltra parte, era evidente che non avrebbe potuto durar qualche tempo nel proposit o di star da s. E gi nel primo momento, si sarebbe trovata a un bivio strano. Veri ficati che fossero i poteri in comune tra gli altri due Ordini, avrebbe dovuto, per necessit, decidersi, o ad ammettere, o a negare la validit di quell'atto. Ora, l'ammetterla sarebbe stato abiurare col fatto il principio della separazione de gli Ordini, sul quale fondava la sua resistenza; negarla sarebbe stato rendere i mpossibile ogni operazione, anzi l'attuazione medesima degli Stati. S'aggiunga i l trovarsi la Nobilt nell'isolamento in cui aveva voluto confinare il Terzo Stato , e esser riguardata come l'unico e interessato ostacolo alla pace, e all'avviam ento de' lavori tanto desiderati. E, del resto, tra quei deputati, non regnava, di gran lunga, quella concordia ch e, nelle assemblee pu rendere ,ostinate le resistenze, anche nelle circostanze pi svantaggiose. Oltre che c'entrava una minorit scarsa, ma attiva, e che era d'inte sa coi Comuni, la maggioranza stessa era piuttosto strascinata che condotta da p ochi, de' quali portava impazientemente il giogo. L'autorit, lasci scritto uno di qu ella povera maggioranza, si trovava circoscritta in cinque o sei deputati. D'Eprme nil e Cazals trattavano con una superiorit insultante chi non adottava le loro opi nioni, proponevano le pi pazze risoluzioni, e le facevano passare, malgrado tutte le proteste. Ci che rendeva ancor pi odiosa una tale tirannia, che la nobilt di Ca zals e di d'Eprmenil era di poco pi vecchia della convocazione degli Stati Generali. In una tale adunanza, il grande e improvviso avvenimento avrebbe bens potuto sus citare, alla prima, de' novi e pi forti schiamazzi; ma come continuare a ripetere un No impotente, e a prendere delle risoluzioni, che non si aveva il mezzo di f ar eseguire? Aspettavano quindi, con grande ansiet, i Comuni radunati, nel giorno dopo il loro invito (28 maggio), la decisione del Clero. Ma una deputazione di quest'Ordine venne invece ad annunziare che, mentre se ne stava discutendo, era arrivata una lettera, con cui il re significava il desiderio che si riprendessero le conferen ze; che il Clero s'era dato premura d'esprimere a S. M. la risoluzione di second are le sue intenzioni; e che quindi ogni deliberazione era rimasta in tronco. Su bito dopo fu rimessa ai Comuni una lettera simile. In essa il re, dolendosi che l 'Assemblea Nazionale, convocata da lui per occuparsi con lui della rigenerazione del regno, rimanesse inoperosa, a cagione delle difficolt insorte sulla verificaz ione de' poteri, manifestava il desiderio, che le conferenze de' commissari dei tre Ordini riprincipiassero, con la presenza del suo Guarda Sigilli e d'altri co

mmissari deputati da lui. Alcuni scrittori contemporanei riferiscono una voce sparsa allora, che quel pass o fosse stato cagionato da delle suggestioni di varie persone messesi intorno al re, affine d'impedire la minacciata riunione del Clero col Terzo Stato. Il Bail ly ne parla in un modo pi asseverante degli altri, e come d'un fatto. La subitanea e pressante proposta, dice, che avevamo fatto al Clero, le disposizioni d'un gran numero di curati ad accettarla, avevano, senza dubbio inquietati, e quelli del Clero, che ne temevano la riuscita, e la Nobilt, che voleva mantenere la separazi one, e il ministero che temeva l'unione generale... Tutte queste inquietudini pr odussero una lettera del re al Clero, e cagionarono una deputazione di quell'Ord ine per comunicarla ai Comuni. Questa supposizione era affatto immaginaria e, del resto, non produsse alcuna co nseguenza; ma l'abbiamo notata come uno de' primi casi di tal genere, che andaro no poi stranamente crescendo, e di numero e di gravita; tanto da potersi dire ch e, dei fatti, dei detti, dei disegni, degli accordi segreti che, affermati da al cuni e creduti da molti, o da moltissimi, furono cagione di spaventi, di furori, di risoluzioni le pi gravi, o anche orrende, i veri furono incomparabilmente una minima parte. Intanto, per ci che riguarda la lettera in discorso, si ha ora la certezza storic a, che e il pensiero e il suggerimento n'erano venuti dal ministro Necker, ogget to, in quel momento d'un favor pubblico straordinario, e che, ventisei giorni do po, doveva passar tutti i termini, e per un altro equivoco, come vedremo. In uno degli scritti gi accennati, il Necker medesimo, dopo aver deplorate le divisioni cos presto insorte nell'Assemblea, dice: Mi nacque una qualche speranza quando mi riusc di stabilire una conferenza, in presenza de' ministri del re, tra molti co mmissari eletti dai tre Ordini. Il collega e avversario perpetuo e spesso ingiust o, del Necker nel ministero, M.r de Barentin, Cancelliere Guarda Sigilli, raccon ta parimente, nelle sue Memorie, che si tratt nel Consiglio sul da farsi in quell a circostanza, e per impulso del ministro delle finanze, come sempre, si decise ch e il re inviterebbe, per lettera, i deputati del Terzo Stato a riprendere le con ferenze, ma con l'intervento delle persone che s' detto dianzi. E di questo sugge rimento d un gran carico al Necker, come d'un ritrovato meschino che non poteva r iuscire ad altro, che ad accrescer la baldanza e le pretensioni di que' deputati , mentre il re, secondo lui, invece di far da paciere, avrebbe dovuto ordinare c he i poteri s'avessero a verificare da de' commissari delegati da lui. E siccome , n l'uno n l'altro de' due ministri fa menzione dell'invito fatto il giorno avant i al Clero, cos probabile che il partito fosse stato preso prima. Mentre i Comuni si disponevano a deliberare sulla lettera del re, il deputato Ma louet richiese che, attesa la natura e l'importanza dell'oggetto da trattarsi, si deliberasse in segreto, e si facessero ritirare gli estranei (9). "Des trangers!" esclam, secondo il Monitore, il deputato Volney: l'onore che avete ri cevuto da essi, quando v'elessero a deputati, vi farebbe mai dimenticare che son o vostri fratelli, vostri concittadini? Non deve premer loro, in sommo grado, di tenervi gli occhi addosso? V'esce di mente che non siete altro che i loro rappr esentanti, i loro procuratori? E pretendete di sottrarvi ai loro sguardi, mentre dovete conto ad essi di tutti i vostri passi, di tutti i vostri pensieri? (10). Voleva forse dire il Volney, che i deputati del Terzo Stato fossero stati eletti tutti quanti da quei tanti o quanti cittadini che si trovavano presenti a quell a seduta; e non fossero davvero altro che i rappresentanti, i procuratori di que lli? Che! voleva solamente fare una figura di rettorica, quella che consiste nel prendere una parte per il tutto: figura che applicata poi alla parola popolo, fu uno de' pi adoprati e de' pi validi istrumenti della Rivoluzione, servendo, in tan ti casi di prima importanza, a trasportare, con piena riuscita, tutta l'efficaci a di quel gran nome a delle piccole e, spesso alle pi indegne parti del popolo. La proposta del Malouet and a terra, o, per dirla con le sue parole, Quella bella dichiarazione fu coperta d'applausi, e la mia, d'urlate; e gli spettatori rimaser o. In quel momento, pot ancora essere un permesso; ma veniva, e non era lontano un t empo, in cui de' fratelli pi numerosi, e usciti di pupillo, impancati in faccia a delle nove assemblee, scese da quella, e fiancheggiati da compagni al di fuori,

potrebbero, come la cagna della favola, dire a que' legislatori, a cui nascesse la velleit di farli sgomberare: "Si mihi et turbae meae Par esse potueris, cedam loco" (11). E non solo rimanerci; ma imporre leggi e risoluzioni d'ogni genere, ordinariamen te precarie, se non quando fossero decreti di proscrizione, e, all'occorrenza, d i parte de' legislatori medesimi; decreti, che, di loro natura, producevano imme diatamente il loro effetto definitivo. L'inconveniente a cui il Malouet aveva creduto di poter metter riparo (e che all 'assemblea non pareva un inconveniente, ma un aiuto), s'era gi manifestato fino d alle prime sedute di quei deputati; ed era un'altra delle conseguenze dell'aver lasciata ad essi la sala dove erano stati radunati i tre Ordini, il giorno dell' apertura. In quella sala, vasta in proporzione della sua destinazione, erano anc he state disposte delle tribune per le persone invitate ad assistere a quella ce rimonia. Il pubblico se n'era poi impadronito ne' giorni seguenti; e quando, dice il Malouet, ci s'accorse che quella folla di spettatori non faceva altro che ecci tare l'audacia de' parlatori pi veementi, si sentirono tutte le conseguenze di qu ella collocazione. Allora il Necker, "come persona che per forza desta" (12), avveduto e sgomentato dell'errore commesso, corse con la mente a fantasticarne u n rimedio. E merita, per la sua stranezza, d'esser menzionato quello che credett e d'aver trovato, e che il Malouet stesso ha tramandato ai posteri. Si crederebbe egli, dice, che M.r Necker abbia pensato di supporre l'accidente d'una frana sott erranea, d'un avvallamento delle cantine del palazzo, e di far rovinare di notte l'ossatura costrutta nella gran sala, per spostare e collocar separatamente i t re Ordini? L'ha detto a me, ne' primi otto giorni delle nostre riunioni; ed ebbi che fare assai a smontarlo da un tal disegno, col fargliene vedere i pericoli. Un autore pi recente riferisce che, da prima, erano state fissate quattro sale pe r gli Stati Generali: una pi vasta per le sedute reali e per le riunioni generali , e tre per i tre Ordini; ma che, essendo una di queste una cavallerizza, l'ammi nistrazione delle scuderie non la volle cedere, e che questo bast perch l'uso dell a sala grande fosse lasciato ai Comuni (13). Come accomodamento tra il Grande Scudiere e il Gran Maestro delle cerimonie, la cosa s'intenderebbe senza difficolt; ma non si spiega, di certo, ugualmente da s, come l'uomo di Stato che dirigeva tutto, il Necker, l'abbia lasciata correre; ta nto pi, che essendosene trattato tra i ministri, ne era stata predetta l'altra pr obabile conseguenza che abbiamo toccata sopra. Se il Terzo Stato, fu detto allora, come riferisce l'autorevole scrittore citato dianzi, occupa la sala dove si far s olennemente l'apertura degli Stati, si riguarder come il centro delle deliberazio ni comuni, come la porzione essenziale e costitutiva della Rappresentanza nazion ale (14). Ci si permetta di fermarci qui un momento a osservare quale possa essere stata l a cagione, e d'una tale incuria del Necker, e anche di qualche sua pi pensata del iberazione. Fu, se non c'inganniamo, una gran fiducia nell'amore e nel rispetto del Terzo St ato per la persona e per la volont del re; nella moderazione de' suoi desideri, n ella sua lontananza da ogni tentativo d'usurpazione. Non potendo, dice nella Relaz ione gi pi volte citata, l'antica deliberazione per Ordini venir cambiata, se non d al consenso di tutti e tre, e dalla approvazione reale, il numero dei deputati d el Terzo Stato, fino a che ci non avvenga, non altro che un mezzo di riunire le c ognizioni utili al bene dello Stato. Tanto era persuaso che a quei deputati non s arebbe neppur venuto in mente, di tentare, n di volere altro che quanto fosse con cesso dalla stretta legalit! E anche in uno scritto di circa tre anni dopo, cio dopo che i deputati del Terzo Stato ebbero attribuita a se medesimi la suprema autorit, e spodestato di fatto i l governo, il Necker, riferendosi a quel primo tempo persisteva nella sua antica

persuasione. Non c'era, dice, alcun motivo di presumere che il Terzo Stato volesse estendere le innovazioni al di l del cerchio segnato dal re nel decreto del 27 decembre 1788, poich tutto ci che poteva assicurar la libert politica c'era compreso. Furono delle circostanze straordinarie, che spinsero al di l; e ci appare anche pi vero, quando si legge la maggior parte delle istruzioni date ai deputati di quell'Ordine, e pi ancora a chi si rammenti il linguaggio del Terzo Stato, al tempo che fu determ inata la sua rappresentanza agli Stati Generali. Questo linguaggio si pu anche ri conoscere in tutte le lettere de' municpi; ci si troveranno l'espressioni de' sen timenti pi convenevoli, e per l'autorit regia, e per la monarchia, e per la person a del re. Come se ci volessero delle "circostanze straordinarie", perch degli uomini chiama ti a deliberare si servissero di tutti i loro mezzi, e cercassero di crearsene d e' novi, per ottenere un modo di deliberare, col quale avrebbero avuta la prepon deranza! Vennero, senza dubbio, le circostanze straordinarie, ma furono l'effett o, non la causa, delle deliberazioni di que' deputati. L'errore del Necker nasceva dal confondere due cose molto diverse: il Terzo Stat o, e un corpo di deputati del Terzo Stato; dal non riflettere che tra questi, ap punto perch costituiti in un corpo, potrebbe facilmente entrare uno spirito propr io, e relativo a dei fini separati da quelli de' loro mandanti. Che il Terzo Stato, cio la gran massa de' Francesi non nobili, n ecclesiastici, fo sse per contentarsi della libert promessa dal re, era una cosa da potersi presume re ragionevolmente, come era ragionevole il trovarne un indizio nelle istruzioni date ai deputati, e nelle lettere de' municpi. In generale, il maggior numero, abbandonato a s, pensa prima di tutto, e spesso a nche esclusivamente, agli effetti immediati: disposizione che pu, senza dubbio, e sser causa di giudizi corti e imprevidenti; ma che preserva anche da previsioni temerarie e fantastiche, e tanto pi fallaci quanto pi vaste e promettenti; disposi zione, quindi, affatto salutare, quando gli effetti immediati siano boni per s, e capaci d'un progressivo miglioramento. E di pi, il Terzo Stato non era esposto a lle tentazioni che possono esercitare una gran forza sulle assemblee, e che n'eb bero tanta sui suoi deputati. Le ambizioni e le cupidige, che portassero a "este ndere le innovazioni al di l dal cerchio segnato dal re", sparse, com'erano, nel Terzo Stato, non avevano il mezzo di riconoscersi a vicenda, e di concertarsi tr a di loro, se non in crocchi divisi e ristretti e, dir cos, al minuto. Degli eloqu enti, ne doveva certamente il Terzo Stato aver di pi che un'assemblea; ma non c'e ra per quelli l'occasione stimolante di farsi stendere, poco dopo aver parlato, in tutta la Francia nello stesso tempo; non si potevano crear tra di loro de' co nsensi, n promovere delle determinazioni, alle quali si potesse anche dar forma e nome di decreti. E, per lasciare da una parte troppe altre differenze, non avev a il Terzo Stato, n poteva avere, delle tribune d'uditori, dai quali sentire grid a d'applausi e strepito di battimani: quel pericolo che il Necker ebbe ad avvede rsi troppo tardi d'aver trascurato. E' vero che, per giustificar sempre pi quella sua fiducia nella inalterabile doci lit dei futuri deputati del Terzo Stato, aveva il disgraziatamente celebre minist ro, nella Relazione al re, allegati anche de' fatti d'altre deputazioni dell'Ord ine medesimo ad altre assemblee; ma, per verit, sarebbe stato difficile il trovar e esempi meno a proposito. Rimarrebbe sempre ai due primi Ordini, aveva detto, tutt o l'ascendente che nasce dalla superiorit della condizione, e dalle diverse grazi e di cui sono i distributori, sia coi loro propri mezzi, sia per il loro credito alla corte e presso i ministri. Questa osservazione talmente giusta, che, nelle assemblee di Stati (15), dove i tre Ordini deliberano qualche volta in comune, si sa per esperienza, che quando il Terzo Stato si sente intimidito dall'opinion e di quelli che avvezzo a rispettare, chiede di ritirarsi nella sua Camera e, tr ovandosi solo, riprende coraggio e ritrova le sue forze. Cos da pochi ufiziali municipali, eletti da questa o da quella parte circoscritta del paese, quali erano i deputati del Terzo Stato alle Assemblee provinciali, e che in quelle sparse e diverse radunanze inosservate, per lo pi, dal resto della Francia, si trovavano a fronte di dignitari della Chiesa, e di signori feudali a trattare della distribuzione delle imposte, e di qualche interesse locale; da

tali uomini, dico, e da tali Corpi, argomentava quali avessero a riuscire gli uo mini eletti da tutti i Francesi del Terzo Stato, invitati da un governo, che si dichiarava bisognoso de' loro consigli, e come impicciato e vergognoso d'esercit are un potere senza limiti, a deliberare e proporre, sotto gli occhi della Franc ia, riforme, garanzie, leggi generali; gli uomini che avrebbero presentito (alme no alcuni, e bastava) il vantaggio che potrebbero ricavare dal carattere di tuto ri e difensori di quel maggiore e tanto maggior numero di cui facevano parte. Pr endeva, se ci si passa questa similitudine, il leoncino di latte per un gatto do mestico. Insieme poi con tutti quegli argomenti di fiducia, n'aveva un altro, e non il me no valido al creder suo; cio il favor pubblico per il quale si figurava di poter essere il direttore e il moderatore perpetuo de' deputati del Terzo Stato: fiduc ia che, dopo una non lunga vicenda d'alti e bassi, doveva finire in un disingann o amarissimo. Ma riprendiamo il filo degli avvenimenti. I tre Ordini aderirono all'invito del re; e le conferenze furono riprese, il 30 maggio, alla presenza de' suoi delegati. Dopo due giorni di sterili discussioni, il Necker, uno di loro, e il quale, vista la mala riuscita del partito preso di lasciar fare gli Ordini da s, aveva suggerito quel passo, come s' detto, propose, in nome del Consiglio del re, un aggiustamento, in questi termini: I tre Ordini , per un atto di fiducia libera e volontaria, si rimetterebbero gli uni agli alt ri per la verificazione de' poteri che non incontrassero difficolt; ne' casi dove ne insorgessero, una commissione composta di delegati dei tre Ordini, formerebb e un giudizio che sarebbe riferito agli Ordini medesimi; se questi lo approvasse ro unanimemente, tutto sarebbe finito; se no, l'affare sarebbe rimesso al re, ch e ne porterebbe un giudizio definitivo. I commissari dei tre Ordini risposero ch e si farebbero premura di comunicare questo progetto ai loro rispettivi commette nti. Era fondato, come ognuno vede, sulla supposizione che il nodo fosse davvero nell a sola verificazione de' poteri. E and in nulla, come era da aspettarsi; se non c he l'occasione venne da dove la si doveva meno aspettare. L'Ordine del Clero, diviso in due parti, nessuna delle quali aveva sull'altra un vantaggio bastante per tirarsela dietro, e obbligato quindi a un contegno passi vo, fu il solo che accettasse il progetto senza riserva. Ai Comuni un tal progetto non poteva piacere, poich manteneva, almeno per le prim e operazioni, la separazione dei tre Ordini; e, come s' visto, voleva dir molto p er le operazioni seconde. Ma un aperto rifiuto, e senza una ragione sufficiente, giacch la vera non si poteva addurre, serebbe stato, e sconveniente e pericoloso . Quindi, quantunque risoluti, come attesta il Mounier, un altro dei deputati di venuti celebri, e uomo non meno in caso d'esser bene informato, e degno di fede, a rifiutare, in una maniera precisa, se i Nobili avessero accettato, presero inta nto un mezzo termine illusorio. Decisero che non si sarebbe deliberato intorno a l progetto, se non dopo chiuso il processo verbale delle conferenze. Il soprassed ere alla deliberazione era in fatto, come dice lo stesso Bailly, un decidere che n on c'era da deliberare; poich, chiuse le conferenze, cessava ogni mezzo di concil iazione. L'Ordine de' Nobili, a cui il progetto doveva parere pi accettabile, per la ragio ne stessa che lo rendeva odioso ai Comuni, l'accolse infatti, sulle prime, con v ivi applausi; ma sopraffatto poi da' suoi consueti dominatori, l'accetto con una restrizione, che lo riduceva quasi a nulla, e poteva parere un rifiuto coperto; e liber cos, con la sua baldanzosa imperizia, i Comuni medesimi da quel qualunque impiccio, in cui gli avrebbe pur potuti mettere l'accettazione concorde dei due primi Ordini. Dichiar che, persistendo nella deliberazione presa di verificare d a s i poteri dei deputati eletti dai Nobili soli, ammetteva la proposta riguardo alle deputazioni intere; quelle cio, che, in applicazione d'un articolo del Regol amento regio per la convocazione degli Stati Generali, fossero state fatte in co mune dagli elettori dei tre Ordini (16). Erano due o tre, dice il Mounier, nel l uogo citato dianzi. L'Ordine dei Nobili mand subito una deputazione ad annunziare trionfalmente ai Comuni la sua deliberazione. E le conferenze furono chiuse, se nza che si fosse formato nessun accordo.

4. Fin qui abbiamo avuto a osservare le vicende d'un conflitto lungo e ostinato, co me doveva accadere dove erano in campo grandi e opposti interessi, e dove mancav a del pari, e una regola certa che una delle parti potesse allegare in suo favor e, e un arbitro che volesse e potesse imporre una decisione a tutt'e due. La que stione per era per s secondaria; giacch non si trattava che del modo di esercitare una facolt ammessa da ciascheduna nell'altre; dimanierach, nel conflitto medesimo, c'era implicito, anzi continuamente espresso, un reciproco riconoscimento. Siam o ora arrivati a un fatto novo e essenzialmente diverso; cio alla deliberazione, per la quale i deputati del Terzo Stato, con degli argomenti, de' quali avremo a esaminare il valore, attribuirono in fatto, e di loro propria autorit, a s soli l e facolt di cui erano stati investiti gli Stati Generali; con che sostituirono la Rivoluzione alla riforma, prima che a questa si mettesse la mano, e iniziarono la distruzione del governo. Il 10 di giugno, il decano di quell'adunanza annunzio che, il giorno prima, era stato chiuso il protocollo delle conferenze; e ramment che, secondo la risoluzion e presa in una seduta antecedente, si doveva aprire la discussione sulla propost a conciliatoria. Avvertendo per, che il processo verbale dell'ultima conferenza n on era stato ancora presentato ai Comuni, propose che quella discussione fosse d ifferita a un altro giorno. Ma il Mirabeau la prevenne subito, dicendo che i Comuni non potevano, senza espo rsi a gravissimi pericoli, indugiare a prendere un partito decisivo, e che un me mbro della deputazione di Parigi aveva a fare una proposta della massima importa nza. Era questo deputato l'abate Sieys, canonico e gran vicario di Chartres, a cu i alcuni scritti e principalmente l'opuscolo: "Qu'estce que le Tiers tat?" avevan o gi procurata la riputazione di gran pensatore politico: riputazione che quella sua proposta accrebbe poi e dilat grandemente, e che non ancora affatto caduta (1 7). L'abate Sieys principi dal dire che l'Assemblea, dopo avere usati, verso il Clero e la Nobilt tutti i riguardi possibili, e non averne avuto in contraccambio altro che ipocrisia e sotterfugi, non poteva rimaner pi a lungo in quello stato d'iner zia, senza tradire i suoi doveri e gli interessi de' suoi commettenti; che, per uscire d'un tale stato, era necessaria la verificazione de' poteri; e che l'asse mblea aveva provato non poter questa essere sottomessa se non al giudizio de' ra ppresentanti della nazione riuniti. Il fatto sta che i commissari dei Comuni avevano preteso di provar ci, come quell i della Nobilt avevano preteso di provare il contrario; ma che, n una parte, n l'al tra aveva provato, perch mancava il mezzo della prova, non ce ne essendo, n in una legge costitutiva degli Stati Generali, che non esisteva, n in veruna massima ge nerale di diritto, poich si trattava d'una cosa positiva di sua natura, e capace, per s, di forme diverse. Ciascheduna delle parti aveva addotti degli argomenti p robabili; nessuna un argomento provante. Il Sieys pass a dire che, avendo la Nobilt rifiutato il progetto di conciliazione, i Comuni erano dispensati dall'esaminarlo. C'era qui un altro gioco di mano. L'impegno preso dai Comuni, d'esaminare, dopo chiuse le conferenze, la proposta del re, era assoluto, e indipendente dall'acce ttazione che ne sarebbe, o non ne sarebbe fatta dall'uno o dall'altro degli altr i due Ordini. Si dir forse che il rifiuto (chiamiamolo pure cos) della Nobilt rende va inutile quell'esame? Era infatti ci che voleva sottintendere il Sieys; ma la ri sposta a questa arbitraria supposizione, la troviamo in alcune poche e semplici parole, dette dal re, nel rispondere, alcuni giorni dopo, a un indirizzo, con cu i i Comuni l'informarono della determinazione presa, appoggiandola anch'essi a q uell'argomento. La riserva fatta dall'Ordine della Nobilt all'accettazione della m ia proposta, disse, non doveva impedire il Terzo Stato dal darmi un attestato di d eferenza. L'esempio del Clero, se fosse stato imitato dal Terzo, avrebbe, senza dubbio, determinato l'Ordine della Nobilt a desistere dalla sua modificazione. Ma questo argomento aveva il gran difetto di supporre che i Comuni avessero accetta te le conferenze in bona fede.

Comunque sia, dalle premesse che abbiamo viste, il Sieys concluse intrepidamente, che ai Comuni non rimaneva da fare altro, che intimare ai due Ordini privilegia ti, di riunirsi "nella sala degli Stati", a verificare i poteri in comune. E fin almente propose alla accettazione dell'assemblea una formula di dichiarazione in quel senso, e un'altra formula d'un'intimazione da farsi, in conseguenza, al Cl ero e alla Nobilt. La proposta fu vivamente applaudita e, in una seduta serale dello stesso giorno, fu convertita in decreto, con l'aggiunta, che si stendesse un indirizzo al re, per esporgli i motivi della deliberazione presa: era quello che abbiamo accennat o dianzi. Fu anche ammessa, e dall'assemblea e dal Sieys, una correzione suggerit a dal celebre avvocato Target, e che consisteva in uno scambietto di vocaboli, c io nel sostituire invito a intimazione ("sommation"); mentre si manteneva la dichiara zione, che, non si presentando gli altri due Ordini, entro un'ora, si procedereb be ugualmente alla verificazione, e ai non comparsi sarebbe denunziata la contum acia. Pare difficile scoprire una differenza di cosa tra un invito accompagnato da una comminatoria, e un'intimazione. Era, in realt, una parte che si costituiva tribunale, e, affermando d'aver ragione, pronunziava una sentenza esecutiva. Furono poi delegati alla stesura dell'indirizzo al re quelli ch'erano stati comm issari alle conferenze, ai quali fu aggiunto l'abate Sieys; e incaricati dieci me mbri di portare il decreto de' Comuni all'assemblea del Clero, e altrettanti a q uella de' nobili. Nella seduta seguente, che fu il giorno 12 giugno, si mandarono le due deputazio ni a portar l'invito suddetto ai due altri Ordini, e s'ebbe in risposta dall'uno e dall'altro, che ne avrebbero deliberato. Si lesse quindi l'indirizzo al re, s teso da un membro della commissione che n'era stata incaricata. Era quel Barnave che fece poi tanto per spingere avanti la Rivoluzione, e che, pi tardi, sgomenta to dagli effetti che ne vedeva, fece inutilmente quanto poteva per moderarla, e fu una delle sue pi celebri vittime. Nell'indirizzo si adducevano gli orzi incessanti e infruttuosi de' Comuni per arr ivare alla riunione e alla concordia con gli altri due Ordini. Premurosi, diceva, d i rispondere all'invito che Vostra Maest aveva fatto, per mezzo del suo Guarda Si gilli, i deputati dei vostri Comuni si sono riuniti, il giorno indicato, "nella sala degli Stati Generali", per verificare i poteri; e ci hanno aspettati inutil mente i deputati del Clero e della Nobilt. Il giorno seguente, gli hanno invitati a venirci: questo passo rimase inutile. Dove si vede che, per riunione, intendev ano il venire a fare un corpo solo con loro, che era il punto di diritto in ques tione; e, per concordia, l'ubbidire alla loro volont. Aggiungevano poi le protest e (quanto sincere, s' visto) della loro disposizione a esaminare, con spirito di c onfidenza e d'amore, la proposta di conciliazione fatta in nome del re, quando il rifiuto de' Nobili non l'avesse resa inutile; e da tutto ci deducevano la necess it in cui s'erano trovati di prendere la deliberazione che avevano l'onore d