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Antonio Devicienti: AI WEI WEI PARLA Ai Wei Wei . Il libro (pubblicato da Il Saggiatore appena un mese fa) contiene cinque conversazioni tra Hans Ulrich Obrist ed Ai Weiwei svoltesi tra il 2006 e il 2010, anche se il termine usato dallo stesso Obrist è “intervista” per designare gli incontri con l’artista cinese. Non è però un caso se ho subito impiegato la parola “conversazione”, perché s’intuisce una lunga ed affettuosa consuetudine tra il curatore di mostre svizzero ed Ai Weiwei, si percepisce il tentativo di andare oltre le abitudini formalizzate dell’intervista tradizionale, mentre viene offerta al lettore la possibilità di partecipare ad un vero e proprio piacere qual è quello della conversazione. Fotografia digitale, web e blog. La prima delle conversazioni inizia con una domanda sulla macchina fotografica digitale che Ai Weiwei reca sempre con sé e viene toccato immediatamente il tema del blog (chiuso poi dal governo nel 2009), divenuto tra il 2005 e il 2009 una delle attività cardine di Ai Weiwei e che ha conosciuto una media di centomila accessi al giorno. Colpisce non poco l’entusiasmo con cui l’intellettuale cinese parla del proprio blog; egli racconta di aver iniziato da analfabeta informatico in seguito all’invito dell’importante portale web cinese sina.com che gli ha messo a disposizione il computer e impartitogli l’addestramento necessario. Le riflessioni di Ai Weiwei sul tema (e che si ripetono anche nelle altre conversazioni) toccano i punti nevralgici del rapporto tra internet e società, internet e cultura, creazione artistica e le cosiddette nuove tecnologie. “Scultura sociale” definisce Hans Ulrich Obrist il blog nel quale l’artista ha riversato migliaia di foto e pubblicato centinaia d’interventi, spesso critici nei confronti del regime – è questo uno dei passaggi del libro che più mi ha spinto

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Antonio Devicienti: AI WEI WEI PARLA

Ai Wei Wei

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Il libro (pubblicato da Il Saggiatore appena un mese fa) contiene cinque conversazioni tra Hans Ulrich Obrist ed Ai Weiwei svoltesi tra il 2006 e il 2010, anche se il termine usato dallo stesso Obrist è “intervista” per designare gli incontri con l’artista cinese. Non è però un caso se ho subito impiegato la parola “conversazione”, perché s’intuisce una lunga ed affettuosa consuetudine tra il curatore di mostre svizzero ed Ai Weiwei, si percepisce il tentativo di andare oltre le abitudini formalizzate dell’intervista tradizionale, mentre viene offerta al lettore la possibilità di partecipare ad un vero e proprio piacere qual è quello della conversazione.

Fotografia digitale, web e blog.

La prima delle conversazioni inizia con una domanda sulla macchina fotografica digitale che Ai Weiwei reca sempre con sé e viene toccato immediatamente il tema del blog (chiuso poi dal governo nel 2009), divenuto tra il 2005 e il 2009 una delle attività cardine di Ai Weiwei e che ha conosciuto una media di centomila accessi al giorno. Colpisce non poco l’entusiasmo con cui l’intellettuale cinese parla del proprio blog; egli racconta di aver iniziato da analfabeta informatico in seguito all’invito dell’importante portale web cinese sina.com che gli ha messo a disposizione il computer e impartitogli l’addestramento necessario. Le riflessioni di Ai Weiwei sul tema (e che si ripetono anche nelle altre conversazioni) toccano i punti nevralgici del rapporto tra internet e società, internet e cultura, creazione artistica e le cosiddette nuove tecnologie. “Scultura sociale” definisce Hans Ulrich Obrist il blog nel quale l’artista ha riversato migliaia di foto e pubblicato centinaia d’interventi, spesso critici nei confronti del regime – è questo uno dei passaggi del libro che più mi ha spinto

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a proporne qui la lettura, in quanto mi sembra che indichi una strada precisa nel caso si voglia gestire un blog che avverta l’esigenza di confrontarsi con la realtà e con le persone; certo, la situazione del blog di Ai Weiwei, potrebbe obiettare qualcuno, è in un certo senso estrema, ma oserei osservare che anche nel democratico Occidente è ben presente il rischio che alle persone vengano sottratti diritti e spazi di libertà, anche senza che esse se ne accorgano, per cui i blog si profilano come strumenti di vigilanza e di resistenza, di studio e di dibattito (basti pensare, in Italia, al ruolo decisivo della rete affinché divenissero ancora più efficaci le iniziative del movimento “Se non ora, quando?” ed il passaparola circa gli ultimi quesiti referendari). E ancora: mi appassiona l’idea che un blog possa essere concepito anche come un’opera d’arte in fieri che si fa giorno per giorno e, come nel caso in questione, quasi minuto per minuto; Ai Weiwei racconta infatti la passione totalizzante con la quale ha lavorato al proprio blog, il piacere quotidiano nell’arricchirlo di foto e di testi, l’eccitazione al pensiero di essere letto da migliaia di persone anche molto lontane geograficamente e di riceverne in tempo reale le reazioni e le osservazioni. Mi fermo a riflettere: Ai Weiwei si è consapevolmente posto in una situazione per cui l’artista non è più soltanto colui che concepisce ed elabora la propria opera che sarà successivamente offerta all’osservatore o al lettore (ruoli questi ultimi due che qui coincidono – ulteriore elemento stimolante, credo), ma è anche l’artista che dà avvio e crea, quasi senza soluzione di continuità, un’opera d’arte elaborabile, in teoria, all’infinito, un’opera

aperta, scavalcando inoltre tout court la questione circa la valenza civile, sociale e politica dell’opera d’arte stessa: il blog-opera d’arte è profondamente immerso, già col suo esserci e col suo voler dibattere certi temi, nella realtà politica e sociale di un Paese, nello specifico della Cina. L’arte è automaticamente un’azione politica. “Credo che la Cina stia attraversando un momento molto interessante. L’autorità centrale, la sua valenza universale , è scomparsa all’improvviso sotto la spinta di internet, della politica e dell’economia globale. Il web e le sue logiche sono diventati per l’umanità alcuni tra i principali strumenti di liberazione da vecchi valori e sistemi, una cosa che fino a oggi non è mai stata possibile” (pag. 18).

“Se gli artisti non esprimono la coscienza sociale e i principi basilari dell’essere umano, qual è allora la funzione dell’arte?” (pag. 40)

Spero di non banalizzare, ma il blog di Ai Weiwei mi sembra pure una realizzazione concreta all’interno del web delle performances, delle installazioni cui l’arte degli ultimi decenni ci ha abituati; l’artista cinese usa il web e quindi il blog con estrema consapevolezza, ché sa benissimo quale ruolo decisivo anche nella modificazione della percezione spazio-temporale abbiano le nuove tecnologie. Egli afferma anzi senza mezzi termini la necessità che ha l’arte di impossessarsi dei nuovi mezzi multimediali per non rimanere confinata nelle stanze stantie dei musei, lontana quindi dalla realtà e dalle persone. In quanto artista non si sottrae a tale problematica, ma la affronta impossessandosi appunto di tecniche (il blog, la fotografia digitale, il video, il commento ai post) che gli consentono di produrre quella che chiamavo opera d’arte in

fieri e che trova una delle sue ragioni ed uno dei motivi di efficacia proprio in questo essere in continuo, come si dice, aggiornamento.

Il suo blog è anche una sorta di codice leonardesco (ne riparlerò più avanti) che s’arricchisce di contenuti non nel chiuso di uno studio d’artista, ma sotto gli occhi di molti lettori in simultanea ed in tempo reale, accogliendo stimoli continui dall’esterno.

Ai Wei Wei

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Scrittura, parola e poesia.

Nel libro, di agile e piacevole lettura e corredato da pagine che riproducono alcune opere e foto di Ai Weiwei, ricorre poi il tema della scrittura e questo è un altro motivo per me di estremo interesse, specialmente leggendo le parole dell’intellettuale cinese, per un verso forse inaspettate, ma per l’altro rivelatrici: “Ho solo un grande rimpianto, di non sapere scrivere bene. È il talento che ammiro di più. Credo che, se sapessi scrivere, abbandonerei l’arte per la scrittura. Lo trovo il modo più bello ed efficace per esprimere il proprio pensiero” (pag. 59). Tale affermazione tiene naturalmente conto anche del fatto che il blog ha nelle parole una delle sue colonne portanti e che la comunicazione verbale è il canale privilegiato e forse più immediato per un contatto tra gli individui. Ai Weiwei, figlio del grande poeta Ai Qing, racconta della sua infanzia in uno sperduto paese nel Deserto del Gobi dove suo padre fu confinato in quanto sospetto alle autorità comuniste e dove esistevano pochissimi libri, perché il libro poteva esporre le persone al rischio di venire arrestate. Paradossalmente quindi il piccolo e poi l’adolescente figlio del più influente poeta cinese degli anni Cinquanta e Sessanta poté leggere pochissimo ed anzi suo padre evitò ch’egli si impadronisse efficacemente della scrittura: “chiunque avesse un minimo di cultura sarebbe stato punito” (pag. 59), pensava Ai Qing. Malgrado ciò Ai Weiwei può dichiarare: “La poesia, naturalmente, mi ha influenzato più di qualsiasi altra forma di scrittura” (pag. 60) e racconta che riuscì comunque a leggere alcuni poeti russi e francesi, incontrò il ventenne poeta Bei Dao venuto a chiedere un parere sui propri versi ad Ai Qing, che Bei dao ed Ai divennero amici, che Ai Weiwei disegnò la copertina della prima raccolta di poesie autoprodotta del giovane poeta; fu con il trasferimento a New York nel 1981 che conobbe la poesia di Blake tramite il profondo legame amicale che stabilì con Allen Ginsberg, la cui frequentazione fu quasi quotidiana. “Penso che il compito della poesia sia mantenere il nostro intelletto in uno stadio che precede la razionalità. Permette un contatto puro e diretto con le sensazioni, i sentimenti. Allo stesso tempo, possiede chiaramente una forma letteraria molto precisa e potente. Ma la sua caratteristica più importante consiste in questa capacità di portarci a uno stato di innocenza dove l’immaginazione e il linguaggio sono più vulnerabili, e penetranti” (pag. 63). La parola resta dunque cruciale per questa personalità eclettica e polimorfa, stimolante

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esempio, direi, di artista eternamente curioso ed incline ad una pluralità esaltante di esperienze e di sperimentazioni. Concordo con Obrist che rintraccia in Ai Weiwei una mentalità di impronta rinascimentale, nutrita cioè da molteplici interessi e scevra da pregiudizi, sedotta dal vastissimo ventaglio di possibilità e soluzioni che si apre quando si comincia a percorrere una strada senza imporsi limiti decisi a priori. Per questo motivo parlavo del blog di Ai come di un codice leonardesco, un luogo su cui fermare riflessioni e progetti, un processo sempre aperto. Aggiungo che nel libro ci si affaccia su di un orizzonte veramente internazionale ed interculturale, Ai Weiwei si profila come un vero punto di sutura e di successiva apertura tra Oriente ed Occidente e poi dell’uno all’altro; egli si muove anche fisicamente tra questi poli (viaggia tantissimo, anche se in apparente paradosso si reca pochissime volte all’anno in centro a Pechino); rinascimentale è l’attenzione ai materiali e alle esperienze più diverse e questo, faccio notare, in un’epoca in cui un diffuso luogo comune crede nella necessità di frammentare e ultraspecializzare le conoscenze dell’individuo data, si sostiene, l’immensa mole del sapere raggiunto dall’umanità e, soprattutto, le urgenze delle attività produttive che richiedono tecnici specializzati.

Disegno e calligrafia.

L’apprendistato artistico del Nostro comincia col disegno: migliaia di disegni nascono alla stazione ferroviaria di Pechino e allo zoo osservando le persone che si raccolgono in quegli spazi. Ancora oggi il disegno, afferma Ai Weiwei, rimane per lui un mezzo immediato ed efficace di progettazione, quello a mano in primis ed anche quello al computer per le fasi più complesse dei singoli progetti.

“Nel disegno a mano c’è più sentimento, è una specie di classico. Non si può eliminare” (pag. 55).

E: “Il blog è il disegno di oggi” (pag. 56).

Ma anche: “Faccio fotografie tutti i giorni, per me è come disegnare. È un esercizio di osservazione e registrazione della realtà cercando di non utilizzare le mani, ma piuttosto la visione e il pensiero” (pag. 95). E poi: “La calligrafia è la traccia di uno stato mentale, o magari di un’emozione, o di un pensiero. Con il computer si hanno anche le foto, si può ascoltare la radio. Ormai la calligrafia non è più eslusivamente un’arte della mano” (pag. 97). Ricordiamo che stiamo leggendo le riflessioni dell’erede di una cultura millenaria che ha proprio nella calligrafia e nella sua stessa scrittura ideografica (coincidenza quindi di concetto, suono e disegno) due ragioni che la rendono ancora oggi altissima espressione del genio umano. Nel momento in cui Ai Weiwei sostiene, parlando della propria attività artistica: ” è proprio questo il concetto centrale: vecchio o nuovo? Vero o falso?” (pag. 32) egli riflette sul rapporto tra presente e passato, cerca di mantenere il fare artistico nell’alveo delle necessità irrinunciabili per l’essere umano e, nel mentre rivendica il dovere da parte degli artisti di essere ben radicati nel loro tempo (c’è forse un’eco del rimbaudiano “il faut absolument être modernes”?), si pone in rapporto dialettico con la tradizione. Nel libro si parla infatti della collezione di migliaia di vasi neolitici (un vero e proprio “archivio archeologico”) posseduti da Ai Weiwei, i quali però non sono chiusi sottovetro nelle stranianti teche museali, ma possono essere toccati, contemplati e può accadere che vengano immersi in bagni di vernici industriali o venga loro impresso il logo della Coca Cola. Essere artista è “un modo di guardare le cose” (pag. 99), per cui quei vasi neolitici, carichi di tempo e di cultura, si trasformano in un prodotto (falso) dell’industria a noi contemporanea e denunciano la violazione, la ferita irrimarginabile da noi inflitta al nostro passato, o la trasformazione di ogni cosa in merce; questo vale tanto per la Cina, di cui Ai Weiwei denuncia in maniera anche clamorosa la distruzione acritica del passato (pensiamo soltanto alla sequenza di tre foto in cui egli lascia cadere a terra e lascia andare in frantumi un vaso della Dinastia Han, Dropping a Han Dynasty Urn, 1995), quanto per l’Occidente trasformato in un immane, unico mercato votato al profitto.

Ai Wei Wei

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Architettura. Oggetti comuni.

L’architettura “forse per me è una forma di poesia. Si usano le mani, e attraverso i volumi, le dimensioni e i pesi si tenta di esprimere la propria visione dell’arte e della condizione umana” (pag. 64).

“Credo che l’uomo abbia questa capacità, meravigliosa, di poter cambiare la propria condizione. È un gesto essenziale” (ibidem).

Ai Weiwei ha costruito moltissimi edifici ed alla sua attività di architetto sono dedicate numerose pagine del libro. In realtà egli non ha studiato architettura, ma vi è giunto per una via abbastanza inedita e casuale, dopo aver cioè scoperto Frank Lloyd Wright e la sua realizzazione del Guggenheim Museum di New York e dopo aver acquistato negli Stati Uniti un libro dedicato a Wittgenstein e ai progetti elaborati da quest’ultimo per la costruzione della casa della sorella a Vienna. Wittgenstein “si esprimeva in modo così limpido, cercava di arrivare alla verità assoluta. Il tentativo, il gesto ripetuto è ciò che rende tutto il suo lavoro un’unica opera, un unico atto” (pag. 65). La conseguenza per l’artista cinese è stata che egli ha progettato e costruito il proprio studio di Pechino suscitando prestissimo l’interesse di molti, ivi compresi architetti affermati a livello internazionale. “L’architettura ha un ruolo importante per l’epoca in cui si vive, perché fornisce l’esempio tangibile di chi si è, di come ci si vede, di come ci si vuole identificare con il proprio tempo: è di fatto la testimonianza del genere umano in un dato periodo storico” (pag. 105). Ed Ai Weiwei parla di “architettura low cost o sommaria” riferendosi ad un modo di progettare e di costruire che non si disperda in progetti utopici ed irrealizzabili o lontanissimi dalle persone, bensì a misura dei bisogni umani e concretizzabili. Tutto questo discorso si collega anche ad un fare da parte di Ai Weiwei che vuole contrapporsi e criticare le scelte delle autorità cinesi relativamente alla distruzione sistematica da loro perpetrata della città vecchia di Pechino; emblematico in tal senso è il racconto del giorno in cui sua madre, tornata a casa, trovò i muri esterni (già di mattoni come da tradizione) ridipinti e la porta sostituita con una nuova senza averne avuto preventivo avviso; Ai Weiwei smontò allora parte della porta, facendone un’opera d’arte che testimoniasse la ferita inferta al passato (sostituire la porta nuova di zecca con un’altra, spiega l’artista, non avrebbe avuto senso e non sarebbe stato quell’atto di denuncia permanente da lui invece realizzato). Anche il suo studio è costruito con i mattoni rossi della tradizione.

“Una nazione che non indaga in modo critico il proprio passato è una nazione senza vergogna” (pag. 26).

“Mi piace usare gli oggetti più comuni. Anche per creare opere d’arte utilizzo oggetti quotidiani, come scarpe, o tavoli. Questi oggetti sono già portatori di cultura, poiché la gente vi ha già depositato saperi e riflessione. (…..) La forma del mattone, il suo peso, rende molto naturale l’interazione con la mano dell’uomo. Sembra quasi di poter costruire a occhi chiusi; è come utilizzare le parole per scrivere” (pag. 69).

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Ad esempio l’opera Remembering del 2009 è stata realizzata con migliaia di zainetti disposti sulla facciata dello Haus der Kunst di Monaco di Baviera in ricordo dei bambini morti nel terremoto del Sichuan (che causò in totale 80000 morti); ebbene, quest’installazione trova la sua ragion d’essere nella motivata accusa che Ai Weiwei mosse nei confronti di politici e funzionari corrotti che avevano intascato buona parte del danaro destinato alla costruzione di scuole in quella provincia, per cui le fondamenta degli edifici non erano affatto in grado di reggere ad un terremoto, cosa che puntualmente si verificò, uccidendo migliaia di scolari. E parlando ancora di Pechino, città disumana specchio di una società disumana stando alle affermazione del Nostro, si racconta del minuzioso lavoro di raccolta di materiale video che documentasse, a filmati montati e che durano molte ore, il volto della città e delle sue tangenziali, volto ovviamente in perenne mutamento; con gli studenti dell’Accademia d’Arte di Pechino Ai Weiwei ha percorso per giorni con un pullmann che aveva una videocamera montata davanti le strade, i vicoli, le tangenziali della capitale (in Italia Gianni Biondillo e Michele Monina hanno percorso a piedi le tangenziali di Milano per descriverle nel bellissimo libro intitolato TANGENZIALI, Guanda, 2010). Altra realizzazione, ovviamente, lo stadio olimpico The

Bird’s nest (2005-2008) in collaborazione con lo studio Herzog & de Meuron. Anche in questo caso il concetto fondante collide con l’idea che comunemente si ha di uno stadio: Ai Weiwei lo concepisce come un luogo aperto, d’incontro e di festa, in interscambio con l’ambiente circostante e capace di trovare la propria vera ragion d’essere, in apparente paradosso, proprio ad Olimpiade conclusa (direi mutuando in questo e radicalizzando un’idea già di Renzo Piano). Molto stimolanti sono poi i luoghi del libro dedicati alla progettazione e alla realizzazione a Jinhua nella Mongolia Interna di un parco da dedicare alla memoria del padre di Ai Weiwei, il poeta Ai Qing, cui, grazie all’iniziativa e all’invito da parte di Ai Weiwei, hanno partecipato diverse decine di architetti da tutto il mondo con la possibilità di lavorare liberamente, pur all’interno di una previsione di spesa non altissima. Già il primo incontro tra gli architetti è significativo, svolgendosi quest’ultimo sotto forma di festa e di convivio; l’intellettuale cinese racconta anche che sono stati coinvolti artigiani locali per la realizzazione di strutture particolarmnete complesse. Ai vi ha realizzato tra l’altro il Museo della ceramica neolitica nella cui costruzione architettonica in cemento vengono creati degli effetti luminosi che suggeriscono il manifestarsi di una luce sapiente e primordiale.

Ai Wei Wei

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Mappe.

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C’è un racconto di Borges intitolato Del rigore nella scienza contenuto nel libro L’artefice (1960) nel quale si narra di cartografi che costruirono una mappa di tale perfezione e completezza da coincidere esattamente col territorio dell’Impero; le generazioni successive, non comprendendone né il significato, né la funzione, l’abbandonarono alla rovina. Tutto questo mi è tornato alla mente quando ho letto i passaggi delle conversazioni dedicati alle mappe della Cina che Ai Weiwei realizza assemblando o comprimendo o risagomando i legni di antichi templi che vengono demoliti per far posto al “nuovo”. Magnifiche sorti e progressive, vien fatto di pensare, per cui una mappa della Cina contemporanea è materiata, invece, da legni antichi lavorati con tecniche appartenenti alla tradizione; dal momento che si vuole fornire mappe il più possibile esatte, l’artista ha chiamato in causa e studiato i frattali di Mandelbrot (pag. 119), egli sostiene senza averci capito granché, ma è evidente che porsi la questione degli insiemi frattali significa voler cogliere nello stesso tempo la complessità e la bellezza insite nella realtà, volerne rappresentare le leggi matematiche che la sottendono di contro alla crassa ignoranza dei poteri che dominano il mondo. Considero poi interessante il fatto che Ai Weiwei includa in queste sue mappe anche Taiwan e territori che, stanti gli attuali assetti politici, non rientrerebbero all’interno dei confini di oggi, ma le mappature in questione rimandano anche alle vicende storiche e culturali della Cina, per cui esse ambiscono alla pluridimensionalità, allontanandosi radicalmente dalla rappresentazione sui tradizionali piani cartesiani. E mappe sono anche i lunghissimi video dedicati a Pechino cui ho già in precedenza accennato, mappe del mutare, mappe delle ferite inferte alla città, mappe del muoversi dentro la capitale cinese. Mappa era il blog, ambizioso tentativo di documentare momento per momento la realtà nel suo continuo divenire e l’opera d’arte nel suo farsi.

Ai Wei Wei

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Fare arte.

“In un certo senso credo di prendere l’arte molto sul serio, anche se i risultati non sono mai granché seri, la maggior parte della mia produzione è un atto ironico: in ogni caso, è necessario lasciare una traccia, è

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necessario che la gente sia in grado di localizzarci, si ha la responsabilità di dire ciò che si deve dire e di essere dove si deve essere” (pag. 110)

Ricordo che Ai è anche l’artista-polemista che fotografa se stesso con il dito medio alzato contro i simboli del potere, da Piazza Tien An Men alla Tour Eiffel alla Casa Bianca. Contemporaneamente è colui che ha commissionato a più di 100 famiglie residenti nel distretto artigianale della città cinese di Jingdezhenad un numero impressionante di semi di girasole che sono stati fabbricati a mano, uno a uno, in porcellana e sempre a mano dipinti, pesano 150 tonnellate e sono arrivati dalla Cina in sacchi di plastica bianca (gli stessi che potrebbero contenere collant, magliette, scarpe, borse o quant’altro) e poi sparsi a ricoprire completamente il pavimento della Turbine Hall della Galleria Tate Modern a Londra; una volta a terra infatti la distesa di piccoli semi fa massa e copre più di mille metri quadri di superficie calpestabile. Nel libro Ai non affronta la questione, dato che, sostiene, ne ha parlato e se ne è parlato tantissimo altrove, ma l’installazione rimane certamente una delle sue opere più affascinanti e discusse, per cui ammetto senza remore il mio dispiacere per non aver trovato nel libro l’atteso approfondimento circa Sunflowers Seeds.

Fare arte è per Ai Weiwei un atto totalizzante che, come ho cercato di suggerire, investe in maniera consapevole e critica moltissime forme di espressione, diventando essa stessa generatrice di vita:

“Dovremmo non tanto goderci il momento, quanto creare il momento” (pag. 19).

Definendo egli stesso la sua arte come “concettuale”, dimostra di caricare segni, materiali e realizzazioni di un portato intellettuale in rapporto dialettico con il passato e con il presente.

Non a caso nelle conversazioni viene discussa l’importanza determinante di The Black Book (1994), The

White Book (1995) e The Grey Book (1997), ovverossia le tre pubblicazioni concepite e realizzate da Ai Weiwei per documentare la scena artistica cinese degli ultimi decenni nelle quali gli artisti ospitati erano chiamati non a mostrare le proprie opere, ma a spiegare come e perché esse fossero nate, perché ad Ai Weiwei interessa il processo prima ancora del prodotto finito.

Proprio mentre vado concludendo quest’intervento leggo che la Germania si farà rappresentare alla prossima Biennale di Venezia tra gli altri da Ai Weiwei, già protagonista della penultima edizione di Documenta a Kassel (2007). Il libro pubblicato da Il Saggiatore si ferma al 2010 ed intensissimi nel bene e nel male sono stati gli ultimi due anni per Ai Weiwei (tra l’altro detenuto per mesi dalle autorità cinesi con un’accusa assurda e senza poter incontrare nessuno, liberato soltanto in seguito alle forti pressioni internazionali). L’artista cinese avrà così modo di continuare la sua riflessione e l’Italia aprire gli occhi su un modo di fare arte che non si mummifica nello speculare attorno al proprio, insignificante ombelico.

Antonio Devicienti